IN MEMORIAM CARLO PARMENTOLA
GIUSEPPE MARTUCCI

[DEUMM]

Giuseppe Martucci, compositore, pianista e direttore d'orchestra nacque a Capua il 6 gennaio 1856 e morì a Napoli il 1º giugno 1909). Dal padre Gaetano, suonatore di tromba e direttore di banda, apprese i primi elementi di musica. Presentatosi in pubblico come pianista nel 1864, entrò come alunno esterno nel Conservatorio di Napoli nel 1867, e l'anno seguente vinse un posto di allievo interno; vi rimase fino al 1871, studiando pianoforte con B. Cesi, armonia con C. Costa, contrappunto e composizione con P. Serrao e L. Rossi. Si dedicò quindi all'insegnamento e al concertismo, ottenendo elogi da Rubinstein e da Liszt. Dal 1875 all'80 suonò con grande successo a Milano, Londra, Dublino e compì tournées in vari paesi d'Europa esibendosi anche in duo con il violoncellista A. Piatti. Nominato professore di pianoforte nel Conservatorio di Napoli nel 1880, diresse la Società del Quartetto napoletano e l'orchestra della Società Sinfonica fondata da F. Milano principe d'Ardore, continuando a dedicarsi attivamente alla composizione. Dal 1886 al 1902 fu direttore del Liceo Musicale di Bologna e maestro di cappella in S. Petronio, attività che non gli impedì di prodigarsi nel divulgare musiche sinfoniche e teatrali di compositori tedeschi: fu infatti il primo a dirigere e presentare in Italia il Tristano e Isotta di Wagner (Bologna, 1888). Nel 1902 fu nominato direttore del Conservatorio di Napoli e diresse l'orchestra della Società dei concerti, ricostituita da C. Clausetti l'anno stesso.

Il nome di Martucci viene solitamente legato alla «rinascita strumentale italiana» verificatasi alla fine del secolo XIX. Talora certa critica è anche tentata a valutare il suo nome e la sua opera per negazione, svalutando cioè l'opera degli operisti a lui contemporanei e facendo risaltare Martucci non tanto per una sua intrinseca validità, quanto perché opponeva la cultura (magari modesta e di riporto, ma cultura) all'incultura, la nobiltà (magari un po' vecchiotta e sorpassata) alla volgarità. Questo modo di presentare Martucci non solo è inesatto, ma in definitiva è anche limitativo. È vero, infatti, che Martucci coltivò la musica strumentale in epoca in cui dominava il melodramma, ma in ciò non fu solo né primo, come dimostrano studi recenti sulla musica strumentale italiana dell'Ottocento, ma è il solo ad essere ricordato anche nei programmi ordinari di concerto, e non solo in concerti rievocativi o musicologici. È anche vero che Martucci si batté per costituire organizzazioni stabili miranti alla divulgazione del repertorio sinfonico e cameristico, ma anche qui basterebbe la tirata di Verdi contro le varie nascenti «Società del Quartetto» (cui avrebbe voluto contrapporre altrettante società palestriniane) per dimostrare che anche in questo campo Martucci fu tutt'altro che un fenomeno isolato, e fu anzi il rappresentante più illustre e più valido di una tendenza che andava storicamente configurandosi.
Martucci appartiene, dunque, a pieno titolo, alla storia della musica italiana e non come precursore o vox clamantis in deserto, ma come voce di colui che, al di sopra di altre concordi alla sua, ebbe l'autorevolezza necessaria per farsi ascoltare. Il fatto che le sue composizione di dimensioni maggiori (le 2 sinfonie e i 2 concerti per pianoforte e orchestra, e anche le composizione cameristiche giovanili), riprendano pari pari le strutture tramandate dal sinfonismo tedesco è reale. Esso va, tuttavia, addebitato alla mancanza di continuità della tradizione italiana: nessuno mena scandalo per il fatto che Mozart e Haydn abbiano modellato le loro opere sulla solida tradizione dell'opera italiana. Nei pezzi di minor mole, però, Martucci seppe fin dalla giovinezza innestare sui suoi studi formali, ovviamente di origine tedesca ancorché appresi a Napoli), un tipo d'invenzione che invece fa capo a D. Scarlatti, cosa che fu rilevata dallo stesso Liszt, che di Martucci fu ammiratore e consigliere. Questa firma personale Martucci non la perse mai, tant'è vero che nessuno che non sia prevenuto dalla lettura d'una storia della musica è capace di trovare una matrice tedesca nel Notturno, o nella Novelletta, due felicissimi pezzi sinfonici trascritti dal pianoforte che erano in repertorio ancora pochi anni or sono, e non si comprende bene la ragione della loro scomparsa.
Numerose sue composizione pianistiche sono tuttora eseguite in concerto e oggetto di studio nei conservatori. Tra i suoi lavori dimenticati merita menzione Pensieri sull'opera «Un ballo in maschera» per pianoforte a 4 mani, perché mostra un legame, solitamente negato, con la tradizione melodrammatica: la sua preparazione e la sua sensibilità lo portavano ad altro, tutto qui, nessun senso di aristocratico distacco e nessun atteggiamento messianico.
Atteggiamento che sarebbe stato in parte giustificato, e non tanto per la sua produzione più nota quanto per una sua parte che solitamente si trascura: la liederistica. In tale campo va considerato il fatto che La canzone dei ricordi fu trascritta per voce e orchestra proprio nel periodo in cui Mahler conduceva un'operazione del genere con Des Knaben Wunderhorn, molto probabilmente all'insaputa di questo fatto, e certamente senza altri precedenti italiani che non fossero l'«aria da concerto», che è tutt'altra cosa.