FRANCESCO CARAMIELLO

LA MUSICA PER PIANOFORTE VOL. IV


La vita musicale di Roma incomincia assai felicemente in questo inverno. Io spero che non avremo i soliti interminabili concerti dei soliti ferocissimi cembolanti giovinetti. Giovanni Sgambati darà, con la Società del Quintetto romano, quelle meravigliose feste della grande Arte, che quanti sono maestri ed intenditori in Roma rammentano con infinito desiderio.
Così si apre la recensione firmata da Gabriele D’Annunzio Il Duca Minimo (egli ci racconta anche ne “Il Piacere” di un concerto di Sgambati) dell’ 8 gennaio 1888 per “La Tribuna” del quale era critico musicale. Giovanni Sgambati (Roma 1841-1914), è in Italia e in particolare a Roma il promotore della diffusione della musica strumentale, attraverso il suo “Quintetto” definito con decreto del 1893 “Quintetto di Corte di Sua Maestà la Regina”, con i numerosi concerti sinfonici che spaziavano da una quanto mai tardiva prima esecuzione dell’Eroica di Beethoven, alle prime assolute della Dante-Symphonie e del Christus affidategli dal suo maestro Liszt, e con la fondazione del Liceo Musicale di Santa Cecilia.
Il suo appartamento in Piazza di Spagna diveniva un insostituibile centro musicale, tappa obbligatoria di tutti i musicisti che visitavano Roma, primo fra tutti Liszt, che lo volle come allievo tenendolo in somma considerazione. Il maestro ungherese fece questo commento: “Vi è in Sgambati nello stesso tempo del Bronsart e del Tausig. Quale singolare combinazione per un italiano puro sangue (sic!), che per di più ha gli occhi belli come il re di Baviera”. E a chi nutriva qualche perplessità sul fatto di affidare a un giovane musicista prime esecuzioni di opere così complesse rispondeva: “Sgambati comincia da dove molti non finiscono!”. Ospite di Sgambati era spesso anche Wagner, il quale, già nel pieno della sua fama compositiva, nel 1876, anno peraltro di fine costruzione del suo teatro a Bayreuth, scrisse all’editore Schott una lettera invitandolo a pubblicare i due Quintetti del Nostro autore (“compositore ed esimio pianista nel senso più elevato, vero, grande ed originale talento che desidererei presentare al grande mondo musicale […] da Vienna a tutta la Germania per eseguirvi le sue composizioni dalle quali mi aspetto un eccellente successo dopo le noie della nuova musica da camera tedesca, non escluso il Brahms”). E persino il giovane Debussy vincitore del Grand Prix de Rome, gli fece visita nel 1884 venendo così a conoscenza, grazie a Sgambati, delle opere del tardo Liszt. Innumerevoli gli attestati di stima di Rubinstein, Cajkovsky, Brahms e Busoni, e quest’ultimo lo omaggiava come “veneratissimo Maestro”. La sua fama era così grande che In Russia gli fu offerto il posto rimasto vacante di Anton Rubinstein, posto che non accettò.
Il suo temperamento sereno e il suo humor devono qualcosa alla sua educazione datagli dalla madre inglese e ci vengono così ricordati dall’allieva Bettina Walker nel suo My musical experiences (Londra, 1890): “Un po’ paffuto, (sembrava come se fosse cresciuto tra foglie e fiori nel pieno bel tempo di ore felici e con l’amorevole sorriso degli dei), Sgambati appariva in armonia con il mondo intero. Colpiva il suo essere sia fisicamente che mentalmente in perfetto equilibrio” e da Arnaldo Bonaventura nel suo Ricordi e ritratti fra quelli che ho conosciuto (Siena, 1950): “A giudicare dall’aspetto esteriore, dalla compostezza dei modi e dei gesti, dal parlare lento e flemmatico, Giovanni Sgambati poteva sembrare un inglese: e in realtà, qualche cosa egli aveva preso dalla madre sua (… ). Ma bastava che lo Sgambati si mettesse al pianoforte per riconoscere in lui l’italiano (…). Possedeva, oltre a una tecnica impeccabile per sicurezza e chiarezza anche nei passi più complicati e difficili, un tocco veramente unico per la squisita dolcezza, un’arte sovrana nell’impiego dei pedali e un eletto buon gusto interpretativo”.
Il recupero dei valori della tradizione strumentale era sentito da Sgambati come una missione da assolvere in tutti i suoi aspetti e senza alcuna deroga: infatti non scrisse mai opere nonostante Wagner lo esortasse a musicare il Nerone di Cossa. Se infatti il merito di aver portato un contributo decisivo in Italia alla riaffermazione dei valori della musica pura, mediante un ritorno alle forme del ‘600 e ‘700, prendendo le distanze dal gusto dominante tutto incentrato sull’opera, va attribuito alla cosiddetta “generazione dell’ottanta” di Casella, Pizzetti e Malipiero, non bisogna però tralasciare gli sforzi compiuti dalla precedente generazione nella seconda metà dell’Ottocento, utili a determinare il reale punto di partenza del processo di rinnovamento della musica strumentale. Sgambati, primo tra tutti, seguito da Giuseppe Martucci, e Marco Enrico Bossi, fu il promotore di questa tendenza rinnovatrice di fine secolo, anche se i modelli da loro perseguiti vanno ricercati per lo più tra i sinfonisti tedeschi. Ciò ha spesso causato forti polemiche, ma la ragione di ciò va attribuita alla mancanza di continuità della tradizione strumentale italiana. Oltretutto, al di là dei valori musicali, nessun critico ha mai sollevato obiezioni al fatto che i grandi compositori tedeschi, da Mozart sino al primo Wagner, abbiano dato forma alle loro opere sulla base della solida tradizione operistica italiana. Senza considerare poi che le opere di Sgambati e Martucci possiedono una loro precisa originalità in quanto in queste forme mutuate dalla tradizione tedesca innestavano un elemento melodico tipicamente italiano.
In riferimento ai suoi rapporti con la “generazione dell’ottanta” Luciano Berio in un intervento in Musica italiana del Primo Novecento (Firenze, 1981), ne prende le distanze definendo i suoi rapporti con essa “molto deboli e imprecisi” e sembrandogli comunque certo che le sue “radici non sono là”. Più o meno la stessa cosa accadde a Casella, a Pizzetti e a Malipiero che non hanno riconosciuto le proprie origini in Sgambati e Martucci. Difatti ogni generazione di musicisti italiani ha compiuto enormi sforzi per stare al passo con la cultura europea dominante, ed essendoci riuscita solo in parte, le generazioni successive non vi si sono riconosciute operando quindi una sorta di revisionismo e creando ogni volta una frattura. Questo non è certo stato di grande aiuto né alla diffusione di questa musica né agli storici per valutare serenamente il valore di questi compositori. Proprio il primo tra tutti, Sgambati ha più degli altri sofferto delle etichette affibbiategli di epigono romantico. Sulla sua produzione gravano infatti ancora pregiudizi che risalgono ai primi decenni del Novecento. Ulteriori interventi critici hanno purtroppo ricalcato tali giudizi, viziati in parte dalla convinzione che la vera arte musicale italiana fosse esclusivamente operistica, e in parte da una conoscenza nel migliore dei casi non approfondita delle sue opere. L’opera di Sgambati andrebbe invece considerata in una più attenta prospettiva in quanto i concetti di storicismo e di progresso sono stati riesaminati per tutte le discipline, compresa la musica.
La produzione pianistica di Sgambati contiene un numero esiguo di lavori dichiaratamente virtuosistici, i due Studi da Concerto, la Toccata op. 18 n. 4 (inclusa nel terzo volume), l’inedita Toccata in sol magg. (inclusa nel quinto volume), e due studi posti a conclusione di due raccolte: l’Etude melodique e l’Etude Triomphale (inclusi nel secondo volume). Esistono poi una rielaborazione di uno studio di Prudent a scopo didattico e due piccoli pezzi scritti per un concorso pianistico. Infatti Sgambati, come Giuseppe Martucci (1854-1909) - ma diversamente da Stefano Golinelli (1818-1891) - preferiva indagare le sonorità pianisitiche nelle piccole pagine crepuscolari anziché ripercorrere la grande tradizione del virtuosismo romantico.
Composti nel 1880 per il metodo Labert & Stark, uno dei maggiori successi didattici della fine dell’Ottocento (al quale contribuirono Liszt, Rubinstein, Kullak, Moscheles, Saint-Saëns, Heller, Henselt, Kirchner, Bendel, Bargiel e tra gli italiani pure Martucci, Golinelli, Bassani, Palumbo e Sangalli) i “Due studi da concerto” op. 10, pur sfruttando in modo esemplare le sonorità del pianoforte, sono di esecuzione molto difficile, non essendoci sempre un perfetto equilibrio tra risultato e difficoltà esecutive. Il primo, in re bemolle maggiore, è uno studio su morbide sonorità in una complicata scrittura di accordi ribattuti e doppio meccanismo scritto nella classica forma ABA. Il secondo, in fa diesis minore, alterna un agitato moto perpetuo ad un mistico corale che porta grandiosamente alla conclusione in un profluvio di arpeggi ed accordi.
Brano di media difficoltà invece, è l’Introduction et Etude brillante (Reveil des Fées) di Emile Prudent (1817-1863) che non è un libero arrangiamento o una vera e propria trascrizione bensì una revisione a scopo didattico così come poteva essere intesa nel tardo Ottocento. Lo studio Biedermaier dall’evocativo titolo, affascinante ma un po’ vuoto, doveva risultare attraente per gli allievi nonché didatticamente utile. Spiega Sgambati nelle note a piè di pagina: “Avendo suonato questo studio nell’infanzia, ne ho conservato un piacevole ricordo così che ho voluto segnalarlo all’attenzione del professori come un’occasione per un discreto lavoro brillante alla portata dei giovani allievi ai quali è utile dare l’occasione di riscuotere dei piccoli successi di pubblico per merito di composizioni graziose che siano, allo stesso tempo, come in questo caso, di utile studio tecnico.”
Rimasti inediti, i due piccoli pezzi intitolati Musica per concorso di pianoforte, sono un evidente saggio volto a testare la preparazione pianistica del candidato, l’abilità di diteggiare per ottenere un legato cantabile, di fraseggiare correttamente, di pedalizzare discretamente. Banco di prova quindi della musicalità e della preparazione pianistica del candidato, sono, nonostante le piccole difficoltà di cui sono disseminati, assai accattivanti, a dimostrazione delle grandi qualità didattiche di Sgambati.
Gli altri lavori pedagogici di Sgambati, tutti pubblicati postumi, sono il Formulario del pianista; scelta di esercizi fondamentali per lo studio tecnico del pianoforte con le norme per diteggiare regolarmente e per sviluppare le articolazioni delle dita e dei polsi (Ricordi, 1919), una raccolta di studi dal Gradus ad Parnassum di Clementi (Ricordi 1916) e Appunti ed esempi per l’uso del pedali del pianoforte scritto in collaborazione con Felice Boghen (Milano, 1915). In quest’ultimo, nonostante l’accuratezza del trattato, alcune affermazioni tradiscono posizioni conservatrici in quanto vi si legge che ”in alcuni pianoforti americani (e riteniamo esclusivamente in essi) si è applicato un terzo pedale. Non esitiamo a dichiarare che esso ci sembra più imbarazzante che utile. Quel pedale ha lo scopo di tener sollevati solamente alcuni smorzatori invece che tutti: l’effetto che si può trarre da questo pedale ci è sembrato, dopo ripetute prove, quasi insignificante; mentre è facile incorrere per inavvertenza nello sbaglio di servirsi di esso invece che degli altri”. Cosa avrebbero scritto Boghen e Sgambati sul quarto pedale che si applica oggi ad alcuni modelli gran coda e che già negli Stati Uniti si sperimentava intorno al 1930?
Tra gli inediti di Sgambati conservati presso la Biblioteca del Conservatorio di Santa Cecilia, appaiono i Trois Impromptus pour le Piano op. 29, numerati come primo (in mi bem. magg.), quarto (in si bem. magg.) e quinto (in mi bem.magg.) e dedicati alla Principessa Nadia Wolkonsky, grande nome della nobiltà Russa trapiantata a Roma e imparentata a Rachmaninov. I due improvvisi espunti, secondo in la maggiore e terzo in fa diesis minore, recanti la data e il luogo della composizione, Bagni di Lucca, 7 e 6 ottobre 1892, sono invece conservati presso la Biblioteca Casanatense, più un altro in mi maggiore numerato come primo. Risultano così due serie di tre improvvisi ciascuna. Queste due raccolte rappresentano un piccolo omaggio a Schubert, autore fra i più amati da Sgambati, con il loro sereno eloquio e la loro scrittura pianistica dalle sonorità aperte e brillanti talvolta venate da ombre di raccolta mestizia. Ma, appartenenti alla piena maturità del loro Autore, esse mostrano un esempio di raffinata scrittura strumentale di notevole intensità creativa, affiancandosi così più a quelle pagine pianistiche che Brahms andava creando nello stesso periodo, con le sue serie di Klavierstucke. Tra questi Improvvisi, per lo più dal tono raccolto e meditativo, si distingue quello in fa diesis minore, ultimo della seconda serie, una tra le pagine più ispirate di Sgambati, ricca di pathos, con la sua accesa tensione espressiva che raggiunge punte di intensa passione, nel susseguirsi di frammenti ansimanti che conducono ad una melodia dall’espressione rasserenata. Anche se è interamente composto, è conservato solo in una prima stesura, completa ma confusa. Gli altri cinque sono invece in bella copia, anche se il primo (in mi bem. magg.) contiene una correzione del finale non del tutto chiara.
Tra i manoscritti dell’Archivio Sgambati vi è un frammento iniziale di un Allegro vivace in ritmo di valzer preceduto da una sognante introduzione (Sostenuto), un inizio incerto in seguito abbandonato.
Invece la Rapsodia in la bemolle maggiore non è stata lasciata incompleta ma purtroppo ne sono state conservate solo le prime due pagine in una stesura non definitiva mancante in molti casi di alterazioni. E’ questo un interessantissimo brano di forte tensione virtuosistica di impronta lisztiana. Destino analogo subisce un altro notevole brano, sorta di annotazione di una improvvisazione intitolata appunto Improvvisando, di cui ci sono solo le pagine iniziali, che come la Rapsodia, non ho ritenuto opportuno completare.
Segue una trascrizione per pianoforte a quattro mani di Francesco Libetta e mia di Noël per violino, archi ed arpa eseguito per il battesimo di S. A. R. il Principe di Piemonte il 4 dicembre 1904, uno dei vari brani di occasione che Sgambati andava scrivendo per la casa Reale, che si distingue per il delicatissimo tono intimistico.
Vero gesto di cortesia di gentiluomo dell’Ottocento, è la trascrizione di una romanza, L’Emir de Bengador, composta da una nobildonna, la principessa Lise Troubetzkoï, altro nome della nobiltà russa, evidentemente tanto cara a Sgambati: tanto piacevole e divertente la versione pianistica quanto doveva essere in fondo un po’ insulsa la piccola romanza, non ritrovata.

© Francesco Caramiello