IN MEMORIAM VINCENZO TERENZIO
GIUSEPPE MARTUCCI

[LA MUSICA ITALIANA NELL'OTTOCENTO VOL. 2]

Doti di maggiore spontaneità e una più decisa personalità artistica, nei confronti di Sgambati, ebbe Giuseppe Martucci. Nacque a Capua il 6 gennaio 1856 ed ebbe i primi insegnamenti musicali dal padre, un professore di tromba assai popolare a Capua, dove era chiamato familiarmente «Don Gaetano». A Otto anni, nel 1864, diede i suoi primi saggi di pianista prodigio a Napoli e in altri paesi della provincia; due anni dopo presentò in pubblico la sua prima composizione, una Polka variata. Beniamino Cesi gli consigliò di seguire studi regolari e fu quindi suo maestro di pianoforte nel conservatorio di Napoli. Qui Martucci non doveva completare il suo corso di studi [Nel Conservatorio di Napoli ebbe a maestri, oltre al Cesi, Carlo Costa (armonia), Paolo Serrao e Lauro Rossi (contrappunto e composizione)]; per volere del padre, nel 1871, egli intraprese la carriera concertistica, affermandosi rapidamente, sia in Italia sia all'estero, e ottenendo l'elogio di Liszt e di Rubinstein. Il suo repertorio, dapprima condizionato dal gusto del pubblico di allora [In un concerto tenuto nel 1871 al Teatro Filarmonico di Napoli eseguì la Fantasia di Thalberg sulla Norma, la Tarantella di Rossini-Liszt, e una sua Fantasia su motivi della Forza del destino], venne gradualmente informandosi a una più seria concezione della produzione strumentale [A questa metamorfosi contribuì indubbiamente la pratica che Martucci ebbe con la casa del principe di Ardore dove, come scrive il Pannain, «in piccola adunanza, si leggevano musiche strumentali di stile e venivano scambiate idee circa gli orizzonti dell'arte. Così, nel cenacolo della Società del Quartetto, Giuseppe Martucci concentra in sé l'attenzione generale. Bach, Haydn, Mozart, Beethoven, Schubert, Schumann risorgono in una spirituale rievocazione » (G. PANNAIN, Ottocento musicale italiano, Milano, 1952, pag. 160)] concezione che, naturalmente, doveva influenzare il suo lavoro di compositore. Nel 1878 Martucci scrisse un Quintetto per archi e pianoforte che fu premiato in due concorsi: a Milano e a Pietroburgo. Nel 1880 ebbe la cattedra di pianoforte nel Conservatorio di Napoli, e da questo momento la sua attività artistica si svolse su un ritmo più tranquillo, ma non meno intenso di prima. Nel gennaio 1881 presentò al pubblico la Società orchestrale napoletana, di recente formazione, dirigendo la Sinfonia in sol min. di Mozart, Leonora n. 3 di Beethoven e quattro brani delle musiche per Il sogno di una notte di mezza estate di Mendelssohn. Ebbe così inizio un ciclo di concerti, nel corso dei quali egli eseguì opere del repertorio classico e romantico, facendo conoscere al pubblico napoletano Schumann, Berlioz, Wagner, Brahms. [Di Brahms eseguì, nel 1882, la seconda Sinfonia, la quale ebbe tiepida accoglienza, da parte di un pubblico ancora sprovveduto di fronte a un'arte squisitamente elaborata e penetrata di sottili suggestioni spirituali. Il critico Federigo Polidori scriveva sulla «Gazzetta musicale di Milano» che «la Sinfonia di Brahms è l'opera di un ingegno potente, ma poco originale»] Nel 1883 tenne un concerto di musiche wagneriane, per commemorare il maestro, spentosi a Venezia il 13 febbraio di quell'anno. Nel 1884 l'orchestra napoletana, guidata da Martucci, si recò a Torino,[All'Esposizione di Torino del 1884 si ebbe una rassegna delle orchestre italiane; oltre all'orchestra napoletana, erano presenti quelle di Torino, Milano, Bologna, Roma e Parma] e le sue esecuzioni suscitarono uno schietto entusiasmo, rivelando nel suo direttore uno dei maggiori interpreti di Beethoven del quale furono riprodotte la quinta e la sesta Sinfonia. In questi anni Martucci diede mano ad alcuni lavori di particolare interesse: citiamo tra questi la Sonata per violoncello e pianoforte, i due Trii e il Concerto in si bem. min. per pianoforte e orchestra, che egli stesso eseguì come solista la prima volta a Napoli, il 31 gennaio 1886, sotto la direzione di Paolo Serrao.
Nel 1886 Martucci fu chiamato a dirigere il Liceo Musicale di Bologna, dove rimase fino al 1902, continuando a svolgere la sua feconda attività culturale. Nel 1888 concertò e diresse al Comunale di Bologna il Tristano di Wagner che allora si rappresentava per la prima volta in Italia; sempre a Bologna diresse la Nona di Beethoven e il Faust di Schumann. A Roma diresse nel 1889 un concerto di musiche wagneriane e nel 1908 inaugurò il glorioso Augusteo, dirigendo la sinfonia dell'Assedio di Corinto di Rossini, l'Eroica di Beethoven, pagine di Mozart e di Wagner. Nel 1902 era stato nominato direttore del Conservatorio di Napoli, dove nel 1905 istituì la Società dei concerti. Ma la sua salute, minata da un male incurabile, andava lentamente in declino. Le fatiche da lui sostenute per concertare e dirigere al San Carlo il Tristano (1907) e Il crepuscolo degli dèi (1908) diedero poi un grave colpo alla sua fibra. Martucci morì a Napoli alla mezzanotte del 31 maggio 1909. I suoi manoscritti furono acquistati dalla regina Margherita di Savoia e poi donati al Conservatorio di Napoli ove sono tuttora custoditi.
Negli anni del suo noviziato artistico, Martucci si attenne al gusto allora prevalente di un pianismo brillante e lezioso, spesso impegnato in sfarzose parafrasi di motivi operistici. La suggestione di forme galanti e salottiere si fa sentire anche in composizioni che non hanno propriamente carattere danzabile, come nel Capriccio op. 2, il cui esordio

ha un movimento che ci riporta a un voluttuoso motivo di valzer. Pure in qualche momento, come nello Studio da concerto op. 9, appare il segno di un lavoro più disteso e raffinato, un nitore di stile nascente dal vagheggiamento di forme di una nobile tradizione artistica che il musicista, sollecitato da un gusto estetico, ama rigenerare con nuova sensibilità:

Si tratta di un atteggiamento spesso ricorrente anche nell'arte più matura di Martucci: lo stimolo a scriver musica gli veniva frequentemente dal vagheggiamento di una cultura che egli a volte trasfigurava in un clima di nobile e anche nostalgico desiderio. Nell'ambito di questa esercitazione culturale, in certo modo «distaccata» ma non frigida e vacua, faremo rientrare una buona parte della produzione cameristica e orchestrale di Martucci, dalla giovanile Sonata op. 22 per violino e pianoforte, a quella per violoncello e piano op. 52, al Quintetto op. 45, ai due Trii op. 59 e op. 62, alle due Sinfonie e al Concerto op. 66 per pianoforte e orchestra. [Guido Pannain osserva acutamente che «la più organica opera strumentale di Giuseppe Martucci è il Concerto per pianoforte e orchestra. Alla forma del Concerto egli si attacca da romantico, alla forma specializzata del Concerto ricostruita con spiriti romantici sul fondo dello schematismo classico... Il Concerto romantico diventò una fantasia di barocchi festoni sonori, per esposizione di bravure. Martucci si lascia impressionare da tale forma ma, con vigorosi balzi d'inventiva, riesce a saltare il fosso della retorica. Non mancano, è vero, apparati di virtuosismo, ma riescono anche ad articolarsi con vigore intrinseco. Questa è la vera prima sinfonia di Martucci. Il pulsare di un ritmo instancabile, febbrile, armonizza contrasti e timbri. La rotazione tematica gravita al centro di un ideale equilibrio. L'orchestra è al primo piano; il colore strumentale individua i singoli gruppi in una rapidità di corsa che unifica le immagini e compone la linea d'insieme. Sono guizzi di luce, ampiezze penetranti, suoni caldi. Dall'orchestra si sciolgono forme dense e avvolgenti, senza le complicazioni che si riscontrano, a tratti, nelle Sinfonie» (G. PANNAIN, op. Cit., pag. 166)] Quest'ultima composizione esprime pienamente la maniera matura di Martucci nelle sue possibilità d'impegno creativo e di meditazione. Il linguaggio infatti oscilla tra un tono lievemente intellettualistico, un po' diluito, e un tono lirico più personalizzato. Non è raggiunta una rigorosa unità nell'accostamento delle varie parti; ma proprio dal duplice livello espressivo, dal rapporto chiaroscurale di «pieni» e «vuoti» realizzato quasi in forma rapsodica (con evidenti appigli alla maniera di Liszt e di Brahms), deriva all'opera un fascino particolare. Ciò che vitalizza l'insieme è una ricerca di pura musica che chiarisce nelle sue sfumature estetizzanti un tentativo di evasione dal reale nel mondo dell'arte, nella sensibile adesione del compositore al gusto e alle esperienze dei grandi romantici. Nelle Sinfonie questo abile gioco di forme appare troppo dilavato o svigorito; gli impasti sfumati e opachi, le mezze tinte, tendono a prendere troppo spazio e creano squilibri nella tessitura sonora. Forse la meno impacciata e disuguale è la seconda; vi si nota un fare più disteso e la disposizione a più pacate finezze espressive. Ma in fondo la parziale riuscita di queste due Sinfonie chiarisce come la presenza del pianoforte, nelle musiche d'insieme di Martucci, sia essenziale, non solo a stabilire una sorta di tessuto connettivo nel corpo della composizione, ma anche e soprattutto a introdurre nella trama sonora una nota intima e suggestiva. Ecco qui due passi, tolti dal primo e dall'ultimo tempo del Trio op. 59; nel primo


l'andamento un poco piatto e discorsivo del violino e del violoncello è come trasvalorato dalle morbide volute di arpeggi eseguiti dal pianoforte; nel secondo


il pianoforte sostiene il canto del violino con una stretta rispondenza di patti, creando una calda e quasi voluttuosa atmosfera armonica. Espressione peculiare della sensibilità pianistica di Martucci è la Fantasia op. 51, dove reminiscenze culturali (Beethoven, Chopin, Schumann, Liszt) si alternano con spunti originali, ora amalgamandosi in sapienti effetti luministici, ora richiamandosi con libere corrispondenze tematiche. La scrittura pianistica si aggruma a volte in densi impasti armonici



senza che l'infittirsi degli elementi verticali diventi retorico.
Ma nella breve pagina, nel corto giro dello Scherzo, della Novelletta e del Notturno, che Martucci realizza sempre con un gusto tutto suo della limpidità formale, l'ascoltatore si trova attratto da maggior suggestione, da una musica che gli evoca in toni raffinati e talora delicatamente sfumati le allegrezze, le inquietudini e gli affanni della propria esistenza. È evidente spesso la presenza di motivi patetici e intimistici su un piano di espressione dimessa e smorzata, un modo di adesione alle piccole e comuni cose che ha giustificato il richiamo al crepuscolarismo.
[Vedi S. MARTINOTTI, Ottocento strumentale italiano, Bologna, 1972, pag. 453, a proposito del Valzer op. 60, che è definito «già intriso d'intmismo crepuscolare che lo accosta a certa poetica di un Fogazzaro»; a pag. 458 il ciclo vocale La canzone dei ricordi è definito «delizioso poemetto crepuscolare»] Ecco qui l'inizio del celebre Notturno op. 70 n. 1

che nella lentezza delle cadenze sincopate, nel morbido abbandono della linea melodica sembra evocare non so che stanchezza sensuale, un decadentistico vagheggiamento della solitudine appoggiato a una musica raffinata e sottolineato qua e là con una certa pienezza di colori autunnali.
Queste forme di estenuata voluttà, questa disponibilità di toni intimistici o rarefatti denunciano una situazione chiaramente decadentistica, comune a numerosi compositori del tempo che hanno rivolto la loro attività prevalentemente al pianoforte. La fortuna di questo strumento ebbe il suo punto culminante proprio negli ultimi decenni del secolo; il pianoforte fu il mezzo più comune di divulgazione e di riproduzione musicale, sia della musica pura sia di quella operistica e orchestrale. Aveva un suo fascino, nell'atmosfera raccolta e riposante dei salotti, ove spesso dilettanti abili o maldestri suonavano per una cerchia confidenziale di ascoltatori, suscitando negli animi di costoro impressioni sconosciute, desideri e sogni indefiniti, che sembravano legati alle peculiarità timbriche della tastiera. Era entrato ormai nell'arte figurativa e nella letteratura; e Salvatore Di Giacomo ha creato una delle sue liriche più belle, evocando il lontano accordo di un pianoforte che risuona improvviso nel buio di un vicolo deserto:

Nu pianefforte 'e notte
sona luntanamente,
e 'a museca se sente
pe ll'aria suspirà.

E ll'una: dorme 'o vico
ncopp'a sta nonna nonna
'e nu mutivo antico
'e tanto tiempo fa.

L'immagine di questo pianoforte notturno, la cui eco sospira nostalgicamente nell'ombra del vicolo addormentato e poi si perde nel silenzio, la molle cadenza del verso sembrano evocare qualcosa che era nel gusto corrente del tempo, la predilezione di melodie cullanti, nostalgiche, ispirate da un senso emotivo e accorato del vivere. Naturalmente l'amore aveva un posto preminente e a volte esclusivo, nella sfera di questa sensibilità: un delicato profumo femminile pareva aleggiare in tanti piccoli pezzi pianistici - romanze, serenate, barcarole - ai quali titoli in lingua francese volevano aggiungere un'ulteriore sfumatura tenera e voluttuosa. [pp. 557-565]

Il gusto di una scrittura raffinata, modellata su forme di derivazione francese o tedesca, non ha tolto tuttavia alle romanze da camera di Giuseppe Martucci il carattere di una schietta cantablità, quell'ampiezza o evidenza melodica che denota nel compositore napoletano una sempre viva disponibilità di risorse espressive. Le quali, pur non escludendo a volte qualche concessione a un agevole gusto salottiero, hanno fruttato pagine animate da un senso fresco e gaio delle cose, oppure dolcemente ombrate, pervase da una vena di intima malinconia, da un languore quasi crepuscolare. Esemplare, a questo riguardo, La canzone dei ricordi: un breve ciclo di sette canti elaborati sopra un poemetto lirico di Rocco Pagliara
[Rocco Pagliara (Castellammare di Stabia, 1857 - Napoli, 1914), poeta e librettista, fu per molti anni bibliotecario del Conservatorio di Napoli; in questa carica era succeduto a Francesco Florimo, al cui fianco aveva pure lavorato per qualche tempo. Critico musicale del «Mattino», fu uno dei più convinti e fervidi ammiratori di Wagner. Molte sue liriche furono musicate dai romanzisti più famosi del tempo, da Denza, Rotoli, Tirindelli, Tosti e altri]. Il testo letterario ha carattere di diario poetico, e si svolge nell'atmosfera di un idillio borghese, con una malinconia estenuata che a volte incrina il classicismo del lessico:

No... svaniti non sono i sogni, e cedo,
e m'abbandono alle carezze loro:
chiudo gli occhi pensosi, e ti rivedo
come in un nimbo di faville d'oro!
Tu mi sorridi amabilmente, e chiedo
de' lunghi affanni miei gentil ristoro!
A le dolci lusinghe ancora io credo
al ricantar de le speranze in coro!

Ecco... io tendo le mani! ecco al rapito
pensier già tutto esulta, e un vivo foco
di sospir, di desio corre le vene!
Ma tu passi ne l'aere, al par di lene
nuvola dileguante a poco a poco
per lontano orizzonte indefinito!

Martucci riesce a trasvalorare il generico sentimentalismo del testo mediante un discorso strumentale ben articolato, con accostamenti e gradazioni armoniche d'un delicato ma denso sapore che accentuano un senso di rimpianto e di silenziosa solitudine:



Il languore si trasforma in soave malinconia, attraverso le note accorate e sommesse, il morbido cadenzare del canto. Tutto è ben misurato; ogni dettaglio è al posto giusto. Nel secondo brano una notazione realistica suggerita dal verso:

Cantava il ruscello la gaia canzone...

sollecita un lieve disegno in sestine di semicrome

che tuttavia non crea un'intrusione o dispersione pittoresca, ma serve a intensificare la nostalgia di una primavera lontana, un'aria di stupore raccolto e dolente. [pp. 675-678]