Il mito delle origini. Religione dell'eroe e della terra nella cultura tedesca

Di Luca Leonello Rimbotti (*)  -  Altri Testi -  14/01/2006

 

Scarica l'articolo in formato PDF


Le tradizioni prendono forma col procedere del tempo e con il progressivo allontanamento dall’Inizio. E’ allora che l’Origine diventa mito dell’origine, dando vita a immagini simboliche che contengono il significato e il suo opposto, la norma e il suo rovescio. E’ così che in terra tedesca si accentrano su Odino-Wotan, ancestrale modello archetipico gravato di occulto, tutte le contraddizioni, rendendolo vaso contenitore di estremi; egli stesso, anzi, manipola e impone gli eccessi. La regalità odinica veicola un topos germanico che non avrà requie se non a seguito del più abissale scatenamento del tragico, vissuto retrospettivamente come colpa collettiva pressoché inespiabile. Odino è figura sovrana, solare, molto simile al Giove olimpico, si presenta con elmo d’oro e corazza e nella mano destra reca l’infallibile Gungnir saettante; è insieme il burrascoso e il bonario, il terribile e il sapiente, è dio dell’amore e della guerra, sa trasformarsi in aquila e atterrire nelle notti di tregenda, quando col suo esercito di spettri rompe l’aria di ululati per recarsi alla caccia selvaggia della Wildfrau; è il padre pietoso di tutti, ma anche colui che impone sacrifici cruenti in suo onore; è mago e poeta, in una parola: è dio del bene e del male.

Wotan è rappresentazione cosmica delle esasperate possibilità della natura e della vita e come tale ha potuto incombere a lungo sulla psiche tedesca. In qualità di Allvater, poi, è stato anche visto come un annunciatore dell’idea monoteistica, benché sovrano di un pantheon popoloso1. Principio regale e principio tellurico convivono in lui, nel momento in cui le sue energie demiurgiche si dispongono ora alla distruzione ora invece a regolare l’ordine delle cose; eroe solare o mago lunare, la sua è la funzione sovrana dell’onnipotenza. Secondo Carl Gustav Jung, l’archetipo «Wotan» è un fattore psichico in grado di produrre «effetti collettivi» manifesti o riposti, che sposandosi al kàiros, il tempo propizio, può esplodere fragorosamente o implodere occultamente, come fosse una «epilessia latente»2.

Siamo dunque oltre la mitologia, al cospetto di un mito vivente. Il mito eroico si accompagna pertanto alla concretezza del reale, non è affabulazione onirica ma precipitato di significati vivi, a contatto diretto con la storia. E a contatto pure col vissuto materiale, con la terra percepita nel suo ruolo di madre, ventre sempre fecondo da cui scaturisce la vita. Mythos e logos, secondo Walther Friedrich Otto, sono già in Omero parole univoche ed entrambe si intrecciano al terreno accadere: «Mythos è la “storia” nel senso dell’accaduto o di ciò che sta accadendo» e come tale non va tradotto ma accettato, rendendolo creativo attraverso l’agire, ad esempio «grazie alla mano» che erge la colonna e dà forma al sacro3. In questo senso, il mito germanico presenta la stessa struttura di quello greco, veicola una paideia-Bildung, impone un destino e si inscrive nella volontà d’azione. L’eroe omerico conosce la sua più elevata stilizzazione nell’eseguire con onore il codice di casta che esige il compimento dell’opera fino al sacrificio di sé. Prende vita così una concezione esistenziale fondata sul grandioso e sul tragico, per il quale vi è vittoria solo nella fedeltà al destino. «Lotta e vittoria […] rappresentano non solo il trionfo fisico sull’avversario, ma la conferma dell’areté strappata alla natura con dura disciplina»4.

Questo ergersi dell’eroe a protagonista che non subisce ma pretende il destino, in qualunque sua forma, giunge alla fine di una struttura psicologica che è quasi una cerca del suicidio, alimentandosi a un tempo di hybris semidivina e di ardente megalopsychos, aristocratico orgoglio di ascendere all’onore perpetuo. In nulla diverso è l’eroe germanico: egli lotta con le potenze infauste – esemplificate dalla corruzione apportata dall’oro, quello nibelungico, quello dei Volsunghi -, primeggia in valore, reclama la lotta, non rifugge quando occorra dall’inganno (vi ricorre lo stesso Sigurd) e tantomeno dalla rovina: Hagen uccide Sigfrido per tener fede al patto, non per malvagità, ma per compiere la volontà del destino. Forze oscure e luminose, telluriche e celesti confluiscono su eventi e personaggi tanto nell’epica greca quanto nella saga nordica. Esse costituiscono i contorni di una memoria che è ricordo dell’origine, del momento iniziale in cui l’uomo arcaico sperimentò per la prima volta gli abissi della vita e della mente. E in seguito ne fece monito (che equivale a monstrum) a saper fronteggiare l’eccesso e l’estremo limite con la volontà e il giuramento di fedeltà a se stesso. Il modello più esorbitante di tale attitudine è proprio Odino, il dio che sacrifica se stesso a se stesso, il dio dei suicidi5.

La convivenza di valori eroici e ctonii, di cui è così a fondo intriso l’archetipo botanico, non è prerogativa germanica, la si ritrova in tutto l’ambito indoeuropeo, a svolgere la trama di una Tradizione in fondo unitaria. Basti pensare all’eroe-antenato, cui si attribuiva un culto che in area ellenica abbìna la solarità del personaggio alle relative pratiche cultuali, tipicamente ìnfere, comprensive di sacrifici notturni, olocausti di nere vittime, devozione magica al tumulo da cui si diparte un’aura fausta per l’intera comunità di appartenenza.

Sappiamo che l’eroe divinizzato era l’ampliarsi su sfera religiosa di precise personalità storiche, date per realmente vissute, il cui retaggio costituiva patrimonio primario del gruppo, con tutti i suoi valori, spirituali come materiali, olimpici come tellurici. E’ sufficiente l’esempio dell’argonauta Anfiarao, uno dei Sette contro Tebe, che col suo carro solare sprofondò tra le viscere della terra e che venne divinizzato in qualità di nume divinatore. Procedimento non dissimile, nel suo significato di fondo, ha avuto nella cultura tedesca il passaggio di personaggi archetipici da reali a mitici, da concreti a teofanici: ne fa fede l’Imperatore dormiente nel santuario turingio del Kyffhäuser, luogo di culto dei valori comunitari, in cui ciò che si mitizza è tanto il Barbarossa storico quanto l’impersonale sovrano che segna una maestà senza tempo.

Una così evidente riattualizzazione dell’evento storico associato al cominciamento atavico ebbe nell’Ottocento tedesco un risveglio improvviso, associabile anche alla crisi politica in atto dal 1948. E, accanto a una schiera di storici e poligrafi minori, fu Wagner a recitare la parte dell’ispirato suscitatore di virtù primordiali, chiamate a rivelarsi di nuovo. In un suo scritto giovanile, anticipatore della tetralogia nibelungica, dedicato ai Wibelungen, Wagner operò un’identificazione tra il dio solare Sigfrido e il Barbarossa, che di quello doveva essere stato la reincarnazione e il proseguimento principiale, così come l’oro del Reno poteva essersi tramutato nel Santo Graal attraverso un principio di traslazione compiuto dall’inconscio collettivo tedesco. I Wibelungen – termine immaginoso che stava per «Ghibellini» e «Nibelunghi» allo stesso tempo – assurgono a garanti di una sacralità che trasferisce sugli Hohenstaufen – e quindi sugli Hohenzollern, quando sapranno rivelarsi i restauratori dell’antica dignità germanica – il ruolo di stirpe eletta votata al dominio, secondo la tradizione. Il biografo R.W.Gutman così tratteggia il mitologema wagneriano:

Wagner sostiene che tale tradizione si è preservata tra il Popolo anche durante i periodi di degenerazione. Grazie alla loro discendenza dal dio-eroe Siegfried, i grandi imperatori germanici gli erano subentrati nel diritto di lottare simbolicamente per l’oro nibelungico e per il suo potere di dare il dominio sul mondo. Questi eredi del tesoro dovettero compiere grandi imprese, poiché la vittoria sul drago da parte del dio-eroe andava ripetuta sempre di nuovo; la conquista, il possesso e la conservazione dell’autorità divennero un rituale per questi regali eredi di Siegfried, votati alla simbolica riconquista del pegno6.


Il mito autentico, insomma, nasconde la capacità di reincarnarsi nelle epoche. Come in Grecia, è la storia pensata nel senso del sublime, sia idillico che tragico7.

A fianco e al di sotto della potente ricreazione dell’opera wagneriana, si agitava nella Germania imperiale – come fosse una energia incubatrice di future sintesi politiche – tutta una cultura incentrata sul recupero storico del mito e del risveglio delle origini. Dalla riproposta di un nuovo germanesimo, arcaico e insieme moderno, effettuata ad esempio da un Felix Dahn, storico e narratore che scriveva saghe eroiche alla maniera degli antichi scaldi8, fino agli anni venti del secolo XX ed oltre, fu una così intensa riemersione di tematiche neogotiche e mitiche, primordiali e völkisch, che ricorrere solo a qualche spunto potrebbe non bastare per rendere la valenza di cultura popolare diffusa, penetrata a fondo nel conglomerato ereditario tedesco in epoca moderna. Ma facciamo ugualmente alcuni esempi. Un caso paradigmatico fu certamente quello di Guido von List, l’erudito esoterista che fece scuola nel suo sforzo di recuperare cimeli linguistici antico-germanici e nella sua teoria che l’arcaico wotanismo era scorso incorrotto per secoli al di sotto dello strato esteriore imposto dalla religione cristiana ufficiale; così che nella scultura, nella pittura, nella grafica, nei resti archeologici, un po’ ovunque si celerebbero i segni certi della presenza pagano-germanica. Glifi, simboli, nomi, geometrie araldiche, una volta letti alla luce di una precisa volontà di sapere, non mancherebbero di rivelare la perdurante potenza e presenza della religiosità odinica, le cui rune magiche si erano dovute ritirare nel mondo segreto della conoscenza esoterica9. Ma questo mistico ricercatore – il cui approccio antiscientifico è stato da G.L. Mosse definito «metodo storico intuitivo» - diceva di più. Così come nel corso dei tempi il vero sapere germanico era divenuto patrimonio forzato di cerchie esclusive – il «tribunale nascosto» della Santa Vehme, i Minnesänger, le varie gilde medievali – ad altri cenacoli doveva nel tempo presente riservarsi il compito storico di custodire l’avìta religione per poi, in virtù di qualche augurabile e fatale accadimento, rivelarla a tutto il popolo, finalmente riconsacrato.

Era, questa di List, l’idea dell’Armanenschaft, sodalizio sacerdotale di devoti a Wotan: idea non rara in un’epoca ricca di tendenze settarie di ispirazione teosofica, ma assai rivelatrice in quanto riproposta, sotto rinnovate spoglie, di memorie antichissime, riferite al concetto di scuola filosofica e, ancor più, a quello di associazione culturale e operativa legata alla religione degli eroi: affiliazioni di questo tipo in Grecia vigevano di norma. Sotteso a un programma simile, oltre al tentativo di sviluppare in chiave moderna il retaggio tradizionale delle fratrìe – che, nel germanesimo primevo, corrispondono ai Berserkir, i gruppi di guerrieri-ossessi a sfondo iniziatico – innestandolo in quello tipicamente tedesco dei Männerbunde, c’era anche e forse soprattutto il disegno di inserire queste tematiche culturali nel vivo tessuto dell’attualità politico-sociale, col fine di influire sui fatti, nel senso di promuovere la restaurazione di una comunità popolare tornata agli obliati valori delle origini.

Questo è il momento in cui la Kultur diventa politica e l’ideale pazientemente coltivato per intere epoche da pochi veggenti si apre all’azione, diviene di nuovo, come un tempo, storia in atto. Come è stato esattamente sottolineato a proposito del pensiero rivoluzionario-conservatore di Hofmannsthal, l’ordine antico può essere visto come utopia mitica che si realizza nella Kultur «oggettivata», cioè appunto nella Politica10.

La valorizzazione del ruolo svolto dalle società segrete virili rituali – a suo tempo studiate dal Dumézil e dagli studiosi accettate come tipiche ma non esclusive del mondo germanico – finì poi per consegnare al Nazionalsocialismo un coltissimo strumentario antropologico-culturale, sul quale non fu difficile innestare il filone ideologico più interno di quel movimento politico, recante anch’esso l’omaggio all’elezione di cerchie privilegiate, nel senso di un sistema a gerarchia aperta, destinata alla produzione delle sempre rinnovate aristocrazie di popolo: dapprima le “populiste” SA, in seguito le più esclusive SS. Ma, le une e le altre, ideologicamente in stretto contatto con la memoria delle antiche società occulte germaniche. Gli studi svolti negli anni trenta del Novecento da eruditi quali Otto Höfler e Lily Weiser sulle associazioni iniziatiche maschili, furono il risvolto ideologico e politicizzato di un’eredità ancestrale mantenuta vitale dalla cultura tedesca, incentrata sulla coppia rappresentata dall’Eroe e dalla Madre Terra, poli solo esteriormente in opposizione tra di loro, in realtà l’uno necessario e funzionale all’altro. Alfred Baeumler considerò il Männerbund una forma «inscindibile della manifestazione di vita di tipo eroico» che al tempo stesso scaturiva dalle intimità del mondo contadino11.

Quando viene evocata la saldatura rivoluzionaria fra la Germania mitica e quella reale del Reich a venire, ciò che si compie è il prodigio speciale dell’utopia tradizionalista, il raccordo, cioè, spontaneo e per nulla inibito da circostanze anche le più avverse, tra origine e momento attuale. L’eroe è un simbolo regale e potrebbe apparire a qualcuno in netta contrapposizione con immagini di dionisismo sacerdotale; eppure nell’eroe frenetico, nel Berserkir rapito da furor guerriero, i due elementi si accoppiano e l’inveterato dualismo che grava sulla Tradizione (giorno-notte, sole-luna, maschio-femmina, fermezza-deliquio ecc.) in realtà stempera l’antitesi, in nome di una necessaria complementarietà. Nell’uomo-orso, oppure nell’uomo-lupo della schiera di Odino, scatenati nell’eccitazione animalesca, noi leggiamo una facoltà psicologica che è propriamente medianica ed estatica, il che riporta alle considerazioni dedicate da Schelling alla malattia sacra di Eracle, «vale a dire l’epilessia, giacché quest’espressione è estesa a tutti i mali connessi con una perdita di sé, con la catalessi, con stati estatici. La malattia di cui soffre colui che è dato originariamente per la salvezza dell’umanità era certamente una ierà nòmos, una malattia religiosa, un morbus sacer, perché proveniva da uno stato estatico della coscienza»12. Eracle, l’eroe per eccellenza, è eminente in tutti i dominî, anche in quello ctonio, da lui conosciuto per aver lungamente combattuto con Thanatos, la morte. Eracle, eroe solare, è nondimeno archetipo misterico e magico. Eracle è un Berserkir.

La connaturata giustapposizione di motivi discendenti e ascendenti non ci pare debba riferirsi al discusso passaggio dalla condizione matriarcale a quella patriarcale: il potere rimane nelle mani dell’elemento virile, ma è il potere visibile, essoterico; l’altro potere, quello riposto della possessione e dell’incontro con l’ignoto, rimane anch’esso sovrano sulla parte, pericolosa ma ineludibile, che è rivolta all’enigma e al misterioso. I contrari si completano a vicenda e sfuggono ad antitesi intellettualizzate se portati sul terreno della vita autentica, a contatto dell’uomo, che è fatto di spirito come di materia. I contrari convivono se fecondati da un mito vero e non artefatto, da un mito che è sangue e storia e non ipotesi di lavoro o materiale di ricerca. Questo lo sapeva assai bene un ricercatore del rango di Bachofen, «l’unico studioso che identifica mito e storia, se escludiamo alcuni suoi molto cauti precursori ottocenteschi»13 e che conosceva tutte le pieghe dell’umana compiutezza, da lui una volta richiamata anche con l’esempio del duplice amore di Psiche, quello lascivo afroditico e quello gioioso consumato con Eros. Ma, precisava Bachofen, nonostante che qui si compia un passaggio dal carattere tellurico a quello uranico, «Psiche viene elevata dalla terra ctonia a quella celeste»14, senza che si verifichino particolari ascensioni nel puro trascendente. E’ viva e rimane esempio di vita.

Forse per questo Bachofen fu riscoperto proprio dai Cosmici monacansi, i «filosofi della vita». Di questi, Klages fu forse l’ingegno maggiore. Egli introiettò la convinzione bachofeniana che il culto arcaico dei morti, giunto a noi nelle sovrabbondanti simbologie funerarie dei sarcofagi, delle lapidi, dei sepolcreti, lungi dall’essere la manifestazione di una paura psicotica della morte, era al contrario celebrazione dello svolgersi della vita al di là della temporalità materiale, era un canto al superamento di ogni barriera e alla possibilità umana di esperire una dimensione di eternità. Klages affermò che la trascuratezza per le anime dei trapassati, invalsa nella Modernità quale sincope della Tradizione e rinnegamento del legame psichico che crea la catena degli avi e degli eredi, era la causa prima della caduta dell’uomo privo di centro nel perenne stato di angoscia, afflitto da quel senso di vuoto esistenziale che pervade chiunque non sappia vivere una dimensione ulteriore rispetto a quella logico-positiva dell’effimero.

I morti allora diventano vampiri:


Le anime dei morti che l’egoistica freddezza dei vivi ormai non nutre più divengono vampiri assetati di

sangue, ed è vano cercare di placarle con ecatombi di animali e di uomini. Nervo cardiaco del presente

di tutti coloro che sono caduti nella pazzia della fede nel futuro è l’angoscia: angoscia di fronte alla

morte, angoscia di fronte al domani, angoscia in generale, e angoscia per il prossimo minuto, angoscia

per il delittuoso lasciarsi sfuggire la vita15.


Il culto dei morti, altrimenti esprimibile come rispetto per la Tradizione, fedeltà al passato che garantisce il futuro, è dunque in realtà un culto della vita, è un culto eroico, è anzi il culto eroico per antonomasia, se solo si pensa a quel particolare rituale arcaico che era l’incubazione, in cui le spoglie dell’eroe venivano deposte a diretto contatto con la madre terra, con le potenze racchiuse nelle sue viscere, celebrando così un matrimonio mistico fra il cielo e la terra, le cui energie riunite erano viatico sacrale e augurale.

Alle spalle di tutto ciò vigeva il senso dell’Essere che domina sul Divenire, il Sein che sovrasta il Werden, da cui scaturisce quel sentimento di Ehrfurcht, la deferenza per i valori tradizionali della stirpe, di cui ad esempio ha parlato G.Cambiano a proposito del patrimonio collettivo dorico considerato da K.O. Müller un vertice insuperabile delle potenzialità culturali e politiche umane16. Un patrimonio che tutti gli ingegni anti-moderni, tedeschi e non, considerarono che ormai poteva dirsi appartenente al passato, a causa dello sfrenamento vorticoso dell’ultima arma in mano al nichilismo logico-razionale, cioè la tecnica, o meglio il tecnicismo: inerte materia non guidata da alcun valore d’ordine superiore. Una macchina che Klages giudicò costruita dalla voracità di ciò che egli chiamava Geist, lo Spirito, la ragione calcolante, brutale annientatore dell’Anima che invece, per millenni, aveva fatto pulsare l’Eroe all’unisono con la Magna Mater. Un nemico vittorioso, le cui insidie maggiori egli diceva provenire proprio dalla sua abilità nel farsi riflessivo e “ragionevole” e quindi credibile. Ciò che Heidegger, col medesimo significato, definiva come «ragione nemica del pensiero»17.

Il «cosmo divenuto uomo» nel senso di Klages – e di Stefan George, e di tutti i portatori del pensiero mitico, Nietzsche compreso – volge all’ascendenza e alla coincidenza tra umano e sovrumano, così da riannodare i dispersi legami di un sentimento daimonico della vita, alla cui frantumazione lavorò fra i primi il Cristianesimo, questa «religione nemica della vita». Pagano per noi non significa una parte di storia, ma la fede nella «realtà extrapersonale dell’attimo fiammeggiante», scrisse Klages18. Il concetto di «realtà extrapersonale» è in stretta relazione con quello di Mutter Erde, è la terra avvolgente bacino di potenze arcane acquisibili in stati di particolare ricettività psichica. Ma non si tratta di qualcosa di assolutamente impersonale, se lo stesso Klages ebbe a scrivere: «Dobbiamo quindi distinguere con precisione il contenuto dell’ebbrezza e le condizioni del suo presentarsi. Anche se queste possono essere nell’unione di una folla, sia per una festa, sia per gli usi di un culto, l’ebbrezza può nondimeno appartenere alla specie di quelle proprie del singolo», così da ingenerare quell’intenso moto dell’anima che è l’Eros che si compie19.

Il momento estatico della trance pulsionale è una vittoria dell’Io che si compie col concorso del Cosmo: antica certezza, questa, presente in terra tedesca già nel valore interiore dell’esperienza mistica quale atto conoscitivo personale, secondo il pensiero “ereticale” di Meister Eckhart: «Perché chi vuole penetrare nel fondo di Dio, in ciò che esso ha di più intimo, deve prima penetrare nel suo fondo proprio, in ciò che esso ha di più intimo. In effetti, nessuno può conoscere Dio se non conosce prima se stesso»20. La fede non solo come atto misterico, ma come atto eroico. E’ stato detto che Paul Natorp – il filosofo che seppe cogliere meglio di altri il rapporto moderno tra l’individuo e la funzione sociale – scorse in Meister Eckhart «il fondamento della individualità che, basata sulla interiorità, non nega la comunità, ma, anzi, dando luogo alla vera “università”, rende possibile un più profondo rapporto con chi ci circonda»21.

L’eroismo della fede si confonde con quello della comunità, l’uno, che «è il cielo, il creativo», si sposa col due, che «è la terra, il femminile e il ricettivo»22, testimoniando in questo modo con quale profondità la cultura tedesca tradizionale seppe assumere in sé il duplice mito degli eccessi, dall’ordine aristocratico-regale a quello magico-orgiastico, dalla devozione alla luce a quella per l’occulto. Questi temi, radicalizzati e portati alle estreme conseguenze negli anni delle ideologie rivoluzionarie, li ritroviamo integrati e inseriti nel mito politico comunitario del Nazionalsocialismo, dalla cui ideologia più interna fu compiuta l’ardita saldatura tra la modernità faustiana e i primordiali mitologemi, tanto gli eroici quanto i tellurici.

Se pensiamo infatti al doppio binario su cui corse quella ideologia – eroico e, ad un tempo, materno – noi vediamo che il cerchio si chiude dalle origini al moderno, costituendo un percorso parabolico. Nell’ideologia nazionalsocialista, lo scatenamento prometeico dell’Eroe, oggettivato nell’Io collettivo della razza come nella figura del Führer visto quale provvidenziale salvatore, si salda in modo pieno e complementare con l’affidarsi alla matrice misteriosa del Blut e del Boden, in qualità di scrigni di tutte le virtù più segrete e preziose del Volk.

Meister Eckhart piacque ad Alfred Rosenberg, che ne parlò estesamente ne Il mito del XX secolo; gli piacquero la sua coscienza aristocratica, il suo orgoglio eroico, quasi superomistico, la sua concezione della morte come semplice episodio della vita:


Da questa massima consapevolezza filosofica risulta per uno spirito libero come Eckhart anche la

necessaria conseguenza antiecclesiastica, che la morte non è il soldo del peccato, come ci vogliono

dare ad intendere gli scribi prendenti le mosse da una dimostrazione di tremebonda paura, bensì un

evento naturale e in fondo poco importante che non tocca ciò che vi è in noi di eterno, che era

prima e dopo continuerà ad essere. Con magnifico gesto Eckhart grida al mondo: «Io sono la causa prima di me stesso»23.


Ma anche altrove, noi riconosciamo simili attitudini. In Hölderlin, ad esempio. Sua è la celebrazione di un tempo primevo segnato dalla pànica assonanza di valori umani e divini, sullo sfondo di una natura che farà da scenario alla rappresentazione del mito tragico24; sua è anche la volontà di dotare l’anima di una sempre crescente scorta di potere, fino a padroneggiare la coscienza al di là del bene e del male: «E’ una grande risorsa dell’anima che lavora in segreto il fatto che essa, giunta al più alto grado di coscienza, eviti la coscienza e, prima ancora che il dio presente effettivamente la afferri, lo fronteggi con un linguaggio temerario, spesso addirittura blasfemo e conservi così la sacra vivente possibilità dello spirito»25.

Sono parole chiare e gravi, da poeta che conosce il linguaggio degli dèi e lo rivolge al suo popolo. Hölderlin definiva le saghe «la voce del popolo», l’attimo creativo in cui «un popolo è memore della sua appartenenza all’ente nel suo insieme» - secondo quanto scrisse Heidegger – guidato sulla via della memoria e del destino dalla figura pontificale del poeta26. Se per Hölderlin origine, natura e sacro coincidono, dobbiamo però sottolineare che non si tratta per lui di disegnare un quadretto di maniera: l’Ellade cui il poeta pensò come all’originario alveo dell’Essere, e di cui la Germania era lo specchio, è un luogo di passioni veritiere, il tragico non è cupa ossessione di rovina ma il risvolto problematico della chiarità mediterranea, sulla quale indugiarono un po’ i rètori e gli esteti alla Winckelmann, innamorati come neoclassicisti di una Grecia a volte da stampa d’epoca, trascurando la vera Grecia, che fu sì apollinea, ma anche dionisiaca.

Hölderlin è un parametro essenziale per distinguere il filo rosso che unisce l’ancestrale wotanismo ai miti ideologizzati del Novecento. Le sue esclamazioni titanistiche - «ho vissuto una volta come gli dèi: e di più non occorre», scrisse nella poesia Alle parche – sono la voce di un poeta fattosi eroe della parola e traduttore dell’indicibile nella lingua del popolo. La natura sacra, prima e dopo Hölderlin, rappresenta a un tempo il barbaro e il virginale, la sfrenatezza e la purezza, e alla natura insieme solare e lunare si rivolgono spesso tanto gli spiriti mistici, quanto i raziocinanti.

Non erano state soltanto individualità particolari come Paracelso o come Jakob Böhme a proclamare che «l’uomo come anima è analogo alla natura»; anche in Goethe il mito dell’identificazione primaria uomo-natura è fondamentale, e stabilito in una eguale capacità di creare27, cosicché soggetto biologico e soggetto ontologico sono indistinguibili nella loro perenne integrazione. A questo si aggiunga che la stilizzazione di forme culturali eroicizzanti, quali Prometeo, Egmont e Goetz von Berlichingen, operata da Goethe, completa il quadro del discorso nel senso da noi proposto, unificando l’universo naturistico della Madre con quello volontaristico dell’Eroe28. E c’è chi ha visto in Goethe, e anche in Beethoven, al di là del loro sbrigliato titanismo, due cultori della fedeltà al patto fatale che lega l’uomo al suo destino29. La cultura tedesca è attraversata in lungo e in largo dal sentimento panteistico della natura, ciò che sotto forma di Sehnsucht lascia scaturire un eterno anelito di smarrimento e insieme di compenetrazione col Tutto cosmico: sensibilità pagana, frutto di quella «introversione obiettiva» che Hermann Keyserling disse connaturata all’indole nordica.

Dal momento che il trauma moderno è consistito nel distacco dalla natura, che ha prodotto la scissione morale generatrice di angoscia diffusa30, ciò che è accaduto nel frattempo è stato l’abbandono dei referenti magici in ossequio al contro-mito sradicante divulgato dalla civilizzazione. Mago Merlino – uno dei simboli, tra l’altro caro a F.Schlegel, della fusione simbiotica col ciclo mutevole ma eterno della natura – è stato per così dire abbandonato nella foresta sacra, il tempio vivente dei Germani. Il contatto primordiale si è interrotto nella coscienza e nella mente. E’ ciò che intese rilevare Wagner nel tratteggiare la figura di Erda, la tenebrosa Grande Madre Terra dalle nere chiome che compare nell’Anello dei Nibelunghi. E’ il grembo che chiama, è l’origine. Finché non diventò la voce del sangue, una voce cui non è dato sottrarsi senza rinunciare alla personalità e all’identità.

La discendenza della religione della Madre dallo spirito della terra – anche intesa, questa, in senso geologico – è troppo nota perché vi si indugi. Ciò che importa accennare è che il mito arcaico ebbe un rapporto fisiologico e viscerale con gli accadimenti tellurici dell’epoca preistorica e ne riportò impressa la memoria, leggibile nei reperti terminologici e mitografici giunti fino a noi. Il contatto col grandioso prodursi di enormi fenomeni sismici fu con tutta probabilità all’origine del mito dei Giganti, che in area tedesca spesso troviamo in competizione con Wotan, e i cui nomi tradiscono la provenienza da un’immaginazione fortemente traumatizzata: Ymir è il tonante, Logi cela un ètimo che significa fiamma, Beli è il boante, ecc. Giganti, Titani, Centomani, Ciclopi, sono i protagonisti di una teogonia cui lo stesso Esiodo prestò i contorni di evento caotico fondatore dell’ordine31. In base a un sincretismo simbolico assai esplicito, Helios, dio del sole, è generato dal Titano Iperione e dalla Titanessa Tea, identificata con la Luna, il che ne fa un frutto delle nozze tra la terra e il cielo, ma invertiti di ruolo rispetto alla tipologia maschio-femmina abituale: qui la Luna è celeste e il Titano è tellurico, sindrome traspositiva che ritroviamo nel genere femminile del vocabolo tedesco Sonne, che torna maschile solo nel suo aspetto funzionale, der Sonnengott. Questi intrecci semantici ci interessano per sottolineare in che modo l’antica polarità degli opposti non costituisse affatto un dualismo irrisolvibile, nonostante la loro conflittualità che, come sempre, anche qui, è parte integrante dell’ordine. Non c’era una virilità buona e positiva che inibisce e osteggia una femminilità perversa e negativa – secondo un refrain tardo-antico su cui hanno insistito a lungo vari studiosi, come ad esempio Neumann o Evola – ma al contrario c’era il fruttuoso interagire, paritetico in dignità religiosa e simbolica, di due elementi, lo spirituale e il corporeo, egualmente necessari per dare completezza alla visione delle cose del mondo.

La loro è una lotta tra eguali, né questa lotta ha esiti che stabiliscano priorità morali. Ha scritto K.Kerény che «la battaglia tra natura e spirito ha avuto inizio e continuerà a essere combattuta finché esisterà l’uomo europeo, erede dello spirito greco»32. Gli studi di Franz Altheim, tra gli altri, hanno dimostrato la decisiva importanza della presenza del siriaco Sol Invictus (per altro di provenienza caldaico-iranica) nel tardo pantheon romano, accolto come identificazione del prisco e autoctono Sol Indiges e portatore di una solarità multiforme, dove il lato femminile e quello virile giungevano a tale compenetrazione da farsi talora indistinguibili. Ad esempio, Altheim riporta il caso delle pratiche di guerra in uso presso la dinastia mediorientale di Emesa, devota ai culti solari, durante le quali le donne – come accadeva in talune tribù germaniche - con le loro grida erano solite spronare i guerrieri sul campo di battaglia, così da far loro raggiungere lo stato di «entusiasmo estatico» necessario a conseguire la vittoria33. Il germanesimo non ebbe bisogno di attendere influssi orientali per far salire al livello del conscio il dato acquisito che la divinità eroica era in simmetria e non in opposizione con quella materna. Questa ne era anzi il presupposto, in qualità di ventre fecondo e, al tempo stesso, ne era la destinazione: la tomba. La Mutter Erde germanica, l’Alma Dei Mater dei Latini, la nostra sopravvissuta Madre Natura, anche quando messa in ombra dall’invasivo e più tardo Padre Onnipotente di matrice biblica, è sempre stata una presenza costante, se pure riposta e, alla fine, circonfusa di una greve aura di “peccato”. Ma non si tratta tanto della primitiva Grande Madre pre-indoeuropea, la genitrice animalesca, sanguinaria, protagonista delle ère paleolitiche presso quei sostrati umani ancora oscurati dall’incultura. La Madre tradizionale è invece quella figura femminile che entra nei pantheon delle civiltà greca, latina, germanica con i tratti ingentiliti ma naturali dell’istinto atavico, del ricordo memoriale della stirpe, del prezioso forziere genetico in cui viene preservata la fecondità del ceppo. Albrecht Dieterich, lo storico delle religioni che ebbe non poco influsso sull’antropologia culturale tedesca del Novecento, scrisse:


Sarebbe strano che l’antica fede in una divina Madre Terra, che dall’antichità aveva sempre agitato l’intimo dell’umanità, venisse distrutta completamente nel momento in cui la religione vittoriosa instaurava la preghiera al Padre Nostro. Ma non è stato così: il più profondo credo religioso nella Madre Terra, sulle orme di Demetra e di Iside, non è affatto morto. Esso continua a vivere, a vibrare e a tessere nel profondo, per assicurarsi di nuovo vita e forma34.


L’esatta coscienza che l’Eroe non è veramente tale se non posto alla prova con la sua origine prima, che colloca la genesi di tutto nella femmina e nel complesso di enigmi che essa sottende in maniera irrisolvibile, la sensazione cioè che non vi è compiutezza se non nel confronto con l’ignoto interiore, ha nel tempo generato incantamenti di poeti, misteriosofie, estasi malinconiche di ogni sorta dinanzi all’insondabile: nulla di tutto ciò ha però tolto energia al decisionismo prometeico che il genio – sia individuale che collettivo - percepisce ora come anelito all’essere e al sapere, ora come più quieto adattamento all’ordine delle cose, ora invece come scatenamento di energie conquistatrici. L’alta cultura come la cultura popolare tedesche vivono sia la volontà titanica che il segreto della femmina, che si esprime anche come operosità, armonia col creato. La vicinanza col «dio oscuro», col «dio ignoto» - sensazione già greca - è in Hölderlin, in Nietzsche35, come in Gottfried Benn, ma la ritroviamo anche nella devozione irriflessa del contadino, attento alle stagioni, ai cicli, agli influssi astrali, e come tale cultore naturale di divinità locali, prossime, domestiche, legate alla terra su cui vive e da cui trae alimento.

Col confluire di tutti questi apporti dapprima nel pensiero rivoluzionario-conservatore e quindi nell’ideologia nazionalsocialista, avviene un fenomeno di sintesi che potremmo definire come la versione politica di un procedimento alchemico. Il fine dell’alchimista è quello di liberare la materia per liberare lo spirito. Jung parlò di «ripetizione dell’abbraccio cosmico di nous e physis», l’evento che permette di assicurare all’eroe, di cui esiste il mito alchemico, la forza d’animo che occorre per affrontare il viaggio nel «fuoco occulto» infero e di lì tornare col pegno, che è la vittoria sulla morte. Il fine più interno del Nazionalsocialismo, il suo fine metapolitico, fu per l’appunto di provocare la nascita di un nuovo mito, risorto dalla coniunctio oppositorum fra la volontà eroica e aristocratica dell’Io, espressa col simbolo della ruota solare sovrana, e il mondo primordiale del Noi comunitario, la fertilità biologica, la razza, di cui era simbolica rappresentazione la triplice runa della memoria, in uso presso le SS. E su tutto si agitava, anche qui, il mito dell’immortalità, del dominio sulla morte. Nella gloria eterna dell’Eroe, e nel suo ingresso nel pantheon memoriale del popolo, si ha un classico tipo di vittoria sulla morte e sulla caducità della vita. E, ugualmente, nella ciclica eternità della stirpe legata alla terra e alla figura generatrice della Madre, si ha il trionfo sull’effimero e la morte stessa torna ad essere nulla più che un episodio della vita. Nella mistica nazionalsocialista del sangue, dunque, noi vediamo ricongiungersi la coppia composta da Held e Mutter, in qualità di cardini del patrimonio immaginale comunitario. L’interpretazione del nuovo mito come «valenza libera» posta a basamento di una religiosità risorta dagli albori, è il risvolto ideologico della «funzionalità sociale dei valori di legame – di una “fratellanza” colorata anche misticamente»36. L’eroe non è mai solo, non lo è mai stato. L’eroe è popolo, appartiene a una stirpe, ha una Heimat; prima o poi, come Odisseo, come Odino il viandante, torna a casa.

Vivere la linea femminile-materna nel senso della terra nativa, del paesaggio che plasma il carattere e del focolare che è il nido del ceppo familiare e quindi la cellula della stirpe, vuol dire riconsacrare la terra, riscattare il mito tellurico dal gravame demonico impostogli dalle falsificanti trascendenze sopravvenute nella storia, considerarlo parte della vita che è in noi e, anche quando dà spazio al misterico, farne in ogni caso un motivo di riaffermata saldezza interiore, che tanto più solidifica l’Io, quanto più questo viene esposto al pericolo dell’illimite. Questo certo non significa abbandonarsi ai deliqui disintegratori dell’intimo centro immobile necessario a ogni matura rappresentazione coscienziale. L’oscuro, il male, il brutto sono altrove, sono nelle energie negative – che possono essere tanto spirituali quanto materiali – che aggrediscono la personalità, sia quella individuale che quella collettiva, privandola del dono di un’identità certa e relegandola nel dis-ordine innaturale. Questi argomenti erano presenti nella cultura e nella pubblicistica nazionalsocialiste. Possiamo menzionare un caso particolare, ma non isolato: quello del filosofo Ernst Bergmann. Titolare della cattedra di filosofia a Lipsia fin dal 1916, la mantenne anche durante il Terzo Reich, di cui divenne uno degli intellettuali più noti. Egli poté sviluppare addirittura una teoria sul primato del sesso femminile, che solo la lotta per la vita avrebbe ridotto ad un rango di subalternità sociale. Sebbene osteggiato da altri studiosi, in Germania e fuori – e tra di loro vi furono Rosenberg e Evola – Bergmann affermava che nel campo dei valori ultimi la donna conserverebbe un ruolo di preminenza fin dai tempi più lontani («il dio della bestia umana è, parlando concretamente, la donna»), assicurandosi una maestà spirituale anche nell’ambito della religione ufficiale del medioevo germanico, «dove la divinità gotica era una madre, personificante il vivo grembo materno del mondo nella figura dell’Alma Dei mater»37.

Il mito della potenza della razza aria non era dunque il bozzetto superomistico della propaganda storiografica post-bellica, ma qualcosa di più complesso che, svincolando l’ideologia dalla retorica, ogni volta comprendeva il fatto che un inno alla sanità della vita – quale, nietzscheanamente, intendeva essere il Nazionalsocialismo – è per forza un inno a tutta quanta la vita, in tutti suoi aspetti, dai luminosi agli oscuri, dai gioiosi ai tragici, dagli eroici ai materni. E proprio lo stato di grazia, l’illuminante percezione intuitiva del divino, era dal Bergmann ricondotto alla tensione verso il divino, la «volontà di indïamento», che opera la trasfigurazione: «L’uomo è veramente e veracemente Dio. Rendi questo divino in te ardente, deifica te stesso…»38. Il femminino, nell’universo immaginale prevalso in Occidente a seguito delle degradazioni prima confessionali e poi borghesi, è sceso al rango di mero strumento di seduzione, quando non di sabba stregonesco, e ciò è avvenuto a partire da talune violente forzature psicologiche attuate nella lotta per il potere in cui si è cimentata per secoli soprattutto la religione cristiana. Ma si è trattato di una trasposizione demonizzante puramente strumentale. In realtà, il regno del magico legato alla terra è sempre stato un appannaggio delle caste superiori, regali o sacerdotali, e nelle epoche pagane ha sempre avuto dignità sacrale.

I segnacoli di sopravvivenza che riemersero nella cultura esoterica e anche in quella esprimente il culto del suolo, che il Nazionalsocialismo veicolò, non furono altro che il tentativo politico di ripensare l’origine, compiendo un atto di riqualificazione tradizionale in epoca moderna: «Ricominciamo a sognare i nostri sogni originari», sono parole di Rosenberg. Come è stato correttamente osservato, «il problema tedesco è fondamentalmente un problema di identità», il che conduce la volontà di natura verso la «volontà di differenziazione, di distinzione, di individuazione»; vita dello spirito e vita della materia si equilibrano, poiché «il rapporto “mistico” col mito è qualcosa che ha a che fare con l’esperienza vissuta»39.

La presenza di un nucleo magico-misterico – diretta filiazione del rinnovato rispetto per i valori legati alla terra – all’interno di un’ideologia della potenza e dell’eroismo non è affatto una novità storica, poiché la ritroviamo in molte civiltà tradizionali del passato. La «sublime chiarezza» del mondo omerico era, secondo Rilke, un paesaggio confacente alla «bufera dionisiaca»: ecco qui riuniti i due valori fondanti della nostra civiltà indoeuropea, l’apollineo e il dionisiaco, una volta di più accomunati in armonia di proporzioni esistenziali coincidenti. Il “sublime” e la “bufera” sono i due aspetti di un unico essere primordiale connaturato al mondo dorico, che impresse sulla civiltà d’Europa un sigillo plurimillenario. Rilke vide la lotta protostorica come un annuncio di quell’ordine in cui la luce e l’ombra avrebbero convissuto al medesimo ritmo: «Dopo il crepuscolo di lotta con cui ebbe fine la notte titanica, bellicosa, giunse il mattino di Omero, che diede alle cose confini divini. E il suo sole recò in fronte alle cose sublime chiarezza. Ma tutto questo ordinamento parve creato soltanto come un bel paesaggio per la venuta della bufera dionisiaca»40.

In base a svariate testimonianze, noi veniamo a sapere che Hitler considerava il Nazionalsocialismo qualcosa di più di una religione, la «volontà di creare il Superuomo» e sappiamo che egli mise in campo allo scopo la vasta organizzazione degli Ordensburgen, in cui si forgiavano gli uomini nuovi padroni della dottrina segreta del Movimento, al fine di creare un Ordine scelto, in linea con la tradizione delle società iniziatiche germaniche sopra ricordate. Secondo Hermann Rauschning – una fonte controversa, ma su questo punto convergente con molte altre – l’indirizzo educativo voluto da Hitler andava nel senso di attivare nell’Io delle giovani generazioni una disciplina dell’ascesi: «La sola scienza che io esigerò da quei giovani – affermava Hitler – sarà il dominio di se stessi. Essi impareranno a domare la paura. Ecco il primo grado del mio ordine, il grado della gioventù eroica. Di qui sorgerà il secondo grado, quello dell’uomo libero, dell’uomo che è la misura e il centro del mondo, dell’uomo creatore, dell’Uomo-Dio»41. Ma, nonostante questo spirito eroicizzante al massimo grado, Hitler era una sorta di mago, lui stesso segnato con lo stigma del morbus sacer, avendo per di più sempre avuto al suo fianco cerchie di esoteristi, o isolati ricercatori più o meno bizzarri che si occupavano di scienze occulte. Nella figura di Hitler sono dunque presenti tanto l’accezione eroica del Capo predestinato quanto quella sciamanica del posseduto da energie telluriche di tipo magico, esprimentesi attraverso la via intuitiva e istintuale, che così spesso governava le decisioni politiche del Führer.

Ma il demiurgo faustiano che esplora l’ignoto non rimane da solo, divulga al popolo certi gradi del sapere: nacquero così le liturgie di massa, il cerimoniale di una nuova sacralizzazione civile, il teatro cultuale e le sacre rappresentazioni religioso-popolari. Il drammaturgo Hanns Johst, ad esempio, uno dei maggiori intellettuali del regime, parlava del dramma come di cosa estranea all’interpretazione borghese, essendo esso piuttosto «il luogo cultuale del sentimento eroico»42, qualcosa da diffondere come espressione dei due poli opposti ma interagenti del Führer, cui si innalza il culto mistico dovuto all’Eroe43, e della Terra che dona la vita alla «nuova nobiltà di sangue e suolo»44. Poiché, così si pensava, vivere sulla terra e per la terra era metafora di innalzamento, di redenzione-rinascita (Erlösung era una delle parole-chiave del lessico nazionalsocialista) e ciò non nascondeva alcun attentato all’integrità personale dell’uomo, ma anzi ne presupponeva il potenziamento. In una poesia di Joseph Weinheber, poeta völkisch divenuto nazionalsocialista e suicidatosi nel 1945, così si esprimeva questa virtù redentoria della terra: «La terra che un giorno ci partorì / di nuovo ci accolse per purificarsi / E come ci inginocchiamo, al tuo servizio / la sua polvere ci donerà ali per divenire uomini»45.

L’avvento del Nazionalsocialismo come religione civile di massa provocò l’assunzione di soggetti arcaici, quali appunto l’Eroe e la Terra, all’interno del patrimonio valoriale del popolo, infrangendo il diaframma che ancora agli inizi del Novecento esisteva tra sodalizi esoterici e formazioni politiche della comunità allargata. Si venne a formare la ricreazione di una mitopoietica tradizionale al cui centro era posta, in un protagonismo assoluto, l’individualità collettiva del popolo. La letteratura del periodo nazionalsocialista – ma, già in precedenza, nel periodo del primo dopoguerra - è illuminante in proposito. Essa ci mostra che gli archetipi dell’Eroe e della Terra vennero assunti a pari titolo sul vertice della piramide ideologica, sotto le forme del romanzo di guerra e del romanzo contadino. Questi furono i generi di gran lunga più diffusi nella narrativa dell’epoca, ebbero vastissima popolarità, con tirature massicce: e in essi riappare una volta di più, in versione socializzata, modernamente tradizionale, il duplice tema di cui ci stiamo occupando, sotto forma del valoroso combattente e del suolo patrio. Spesso, poi, questi due referenti venivano unificati nel soggetto del soldato-guerriero che torna a casa e vi ritrova l’ordine immutabile di sempre, nel quale si reimmerge come in un caldo nido accogliente. Ma anche quest’ultimo topos, il romanzo del ritorno, era ben conosciuto dalla cultura tedesca precedente. Basta pensare alla poesia Arrivo a casa di Hölderlin, che Heidegger lesse come un mitico incontro col destino della patria46.

La capacità ideologica del Nazionalsocialismo di risalire al mito facendone il retroterra di un titanismo tecnologico è stata variamente interpretata47 e la presente rievocazione non è il luogo per ripercorrere un itinerario composito, non ancora scandagliato con la profondità e la competenza scientifica che meriterebbe. Ciò che vogliamo segnalare è il fenomeno di una reale continuità mitica, corrente dalla Tradizione primigenia fino all’ideologia di un moderno movimento di massa, alla fine sfociata nella simbologia insieme mobilitatoria e quietistica dell’Übermensch e del Blut und Boden. Si è trattato dunque di un organico sistema di «identificazione simbolica» che ha eretto con il Nazionalsocialismo «la forma più compiuta di esibizione dei caratteri fondamentali di questo processo di identificazione»48.

L’idea di fondo, dopotutto, era quella di fronteggiare lo straniamento e l’oblio, la perdita di identità provocata dalla civilizzazione illuminista, con un atto di volontà traboccante che sapesse ricondurre alla sorgente dei valori. Scrisse Nietzsche che col mito tragico «è lecito sperare tutto e dimenticare il dolore più angoscioso», provocato dalla diffusione in Germania di un pensiero estraneo e incongruente: «Ma per tutti noi il dolore più angoscioso è la lunga abiezione in cui il genio tedesco, straniato dal focolare e dalla patria, visse in servitù dei nani maligni»49. Alla luce di queste parole di Nietzsche, possiamo dunque interpretare il disegno nazionalsocialista di riguadagnare gli arcaismi simbolici e sacrali delle epoche tradizionali, appunto come il tentativo di imporre nell’epoca moderna la rivoluzionaria volontà politica di porre fine all’abiezione.


Luca Leonello Rimbotti

1 Cfr. V. Löwenthal, Mitologia tedesca, Paravia, Torino 1926, pag. 55.

2 C.G. Jung, Wotan (1936), in Opere, X, t.I, Bollati Boringhieri, Torino 1985, pagg. 286-287.

3 Cfr. W.F. Otto, Il mito e la parola (1952), in Il mito, il melangolo, Genova 1993, pagg. 31, 32, 40.

4 W. Jaeger, Paideia (1933), La Nuova Italia, Firenze 1991, I, pag. 36.

5 Si veda in proposito la strofa di Hàvamal in cui Odino acquisisce la sapienza runica attraverso il sacrificio di sé a sé: «Per nove notti al vento, mi sovviene / Stetti appeso ad un albero, trafitto / Di lancia, offerto a me medesimo, Odino». J.G. Frazer ne fece un parallelo col dio frigio Attis, sacerdote di Cibale ed orgiastica effige della natura, della morte e della rinascita, anch’esso dio suicida. Cfr. Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione (1890), Bollati Boringhieri, Torino 1973, I, pagg. 555-557.

6 R.W. Gutman, Wagner (1968), Longanesi, Milano 1983, pag. 593. Si veda anche M. Gregor-Dellin, Wagner (1980), Rizzoli, Milano 1983, pagg. 210-211, in cui l’autore commenta il lavoro wagneriano giudicandolo «una mescolanza di mito e di storia». Altrove è stato scritto: «In Barbarossa Wagner vede l’ultimo grande wibelungo, che tentò di riunificate l’aspetto religioso della sovranità indoeuropea e di restituire così al mito germanico tutto il suo significato»: G. Locchi, Wagner, Nietzsche e il mito sovrumanista, Akropolis-LEDE, Roma 1982, pagg. 92 e segg.

7 Sul mito come evento storico e non immaginoso cfr. ad es. V. Benetti Brunelli, L’educazione nella Grecia eroica, Sansoni, Firenze 1939, pag. 64, e F. Graf, Il mito in Grecia, Laterza, Bari 1987, pagg. 92 e segg.

8 Cfr. F. Dahn, Sind Götter? Die Halfred Sigskaldsaga. Eine nordische Erzählung aus dem zehnten Jahrhundert, Druck und Verlag von Breitkopf und Härtel, Leipzig 1878, ad esempio pagg. 20-21.

9 Cfr. G. (von) List, Die Bilderschrift der Ario-Germanen. Ario-Germanische Hieroglyphik, Guido von List-Gesellschaft, Berlin 1910, ad esempio pagg. 26-27, dove si parla della triplice funzione di Wuotan, dio della Forza, della Volontà e del Sapere, ciò che ne fa l’Allvater, l’Assoluto. Dello stesso List si veda Il segreto delle rune (1910), Barbarossa, Milano 1994, ad esempio pag. 53: «In conseguenza del fatto che furono perseguitati e disprezzati, gli scaldi si riunirono segretamente e raccolsero la fede e la legge germanica in un ordine segreto».

10 Cfr. M. Cacciari, Intransitabili utopie, saggio in calce a H. von Hofmannsthal, La torre (1927), Adelphi, Milano 1987, pagg. 174-175.

11 Cit. da G. Moretti-R. Ronchi, L’ermeneutica del mito negli anni trenta. Un dialogo, in “Nuovi Argomenti”, 21, 1987, pag. 82. Cfr. inoltre C. Ginzburg, Mitologia germanica e nazismo (1984), in Id., Miti, emblemi, spie, Laterza, Torino 1986, pagg. 210 e segg.. Sui Berserkir cfr. G. Dumézil, Ventura e sventura del guerriero (1969), Rosenberg & Sellier, Torino 1974, pagg. 139 e segg., e inoltre M. Polia, «Furor», guerra e profezia, Il Cerchio, Padova 1983, pagg. 17 e seguenti.

12 F.W.J. Schelling, Filosofia della mitologia (1842-46), Mursia, Milano 1990, pag. 157.

13 U. Wesel, Il mito del matriarcato (1980), Il Saggiatore, Milano 1985, pag. 75.

14 J.J. Bachofen, Il simbolismo funerario degli antichi (1861), Guida, Napoli 1989, pag. 212.

15 L. Klages, Dell’Eros cosmogonico (1922), Multhipla, Milano 1978, pagg. 141-142.

16 Cfr. G. Cambiano, L’Atene dorica di Karl Ottfried Müller, in “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa”, XIV, 3, 1984, pagg. 1048-50.

17 In proposito cfr. G. Moretti, Hestia. Interpretazione del Romanticismo tedesco, Ianua, Roma 1988, pagg. 227-231.

18 Cit. da G. Moretti, Ludwig Klages fra paganesimo e cristianesimo, in Aa.Vv., Mitologie della ragione. Letterature e miti dal Romanticismo al Moderno, Studio Tesi, Pordenone 1989, pag. 322.

19 L. Klages, Dell’Eros cosmogonico, op.cit., pag. 65.

20 Cit. da M. Vannini, Meister Eckhart e il “fondo dell’anima”, Città Nuova, Roma 1991, pag. 70.

21 M. Vannini, introduzione a Meister Eckhart, Opere tedesche, La Nuova Italia, Firenze 1982, pag. XLIX.

22 M.L. von Franz, Psiche e materia (1988), Bollati Boringhieri, Torino 1992, pag. 207. L’allieva di Jung ne parla a proposito della sapienza orientale contenuta ne I Ching, che si dilungano sul dualismo tra il cielo, padre freddo e metallico, e la nera terra, associata alla caldaia, alla simmetria, alla quantità, al ceppo familiare.

23 A. Rosenberg, Il mito del XX secolo. Una lotta per i valori (1930), Il Basilisco-Alkaest, Genova1981, pag. 160.

24 Cfr. F. Hölderlin, Iperione (1797-99), Feltrinelli, Milano 1987, pag. 132: «L’uomo non può negare di essere stato, un giorno, felice come i cervi della foresta e, dopo innumerevoli anni, arde ancora in noi, sia pure come sotto la cenere, una nostalgia per i giorni dell’età prima del mondo, quando ognuno percorreva la terra come un dio, prima che non so che cosa addomesticasse l’uomo».

25 F. Hölderlin, Sul tragico (1804), Feltrinelli, Milano 1989, pag. 104.

26 M. Heidegger, Hölderlin e l’essenza della poesia (1936), in Id., La poesia di Hölderlin, Adelphi, Milano 1988, pagg.55-57.

27 «Da tale identità di origine scaturisce il perfetto parallelismo che Goethe pone fra la vita della natura e la vita dell’io. La vita della natura consiste nel creare; la vita dell’io consiste nel creare»: M. Pensa, Il pensiero tedesco. Saggio di psicologia della filosofia tedesca, Zanichelli, Bologna 1938, pag. 225.

28 Cfr. L. Magnani, Goethe, Beethoven e il demonico, Einaudi, Torino 1976, pag. 9: «E’ il tempo in cui nasce la parola Übermensch, nell’accezione che essa avrà in Nietzsche e di cui Beethoven si fa precursore quando afferma: “Kraft ist die Moral der Menschen, die sich von anderen auszeichnen, und ist auch die meinige” (“La forza è la morale degli uomini che eccellono sugli altri, ed è anche la mia”)».

29 Cfr. ibid., pag. 10: «Come il loro Egmont, essi [Goethe e Beethoven] sanno che la fatalità demonica si allea alla libera volontà, alla forza e alla decisione individuale, che predestinazione e libero arbitrio sono conciliati da un patto arcano».

30 In proposito si veda G. Lami, La psiche germanica. Osservazioni sulla psicogenesi del totalitarismo, Morcelliana, Brescia 1948, pag. 21, dove si riferisce la convinzione di Klages che la moderna inquietudine spirituale sia dipesa dal distacco dal mondo istintuale e amorale della natura animale.

31 Cfr. G. De Lorenzo, Terra Madre, Fratelli Bocca, Torino 1907, pag. 125: «Tali miti non sono per me […] che magnifiche figurazioni plastiche dello svolgersi di forze telluriche, specialmente eruttive (vulcaniche) e sismiche, in contrasto con le forze atmosferiche». Si veda anche pag. 133.

32 K. Kerény, La Dea Natura (1947), in Aa.Vv., La Terra Madre e Dea, Red, Como 1989, pag. 68.

33 Cfr F. Altheim, Il dio invitto (1957), Feltrinelli, Milano 1960, pag. 42. Sull’interazione tra culti solari maschili e femminili cfr. a titolo d’esempio R. Del Ponte, prefazione a F. Cumont, Le religioni orientali nel paganesimo romano (1906), Libreria Romana, Roma 1990, pag. V.

34 A. Dieterich, Mutter Erde. Ein Versuch über Volksreligion, Druck und Verlag von B.G. Teubner, Leipzig-Berlin 1905, pag. 116.

35 Cfr. F. Jesi, Germania segreta, Silva Editrice, Milano 1967, pag. 163.

36 F. Cuniberto, Mitologia della ragione o supplemento d’anima. Sugli sviluppi recenti della “Mythos-Debatte”, in “aut-aut”, 243-244, maggio-agosto 1991, pag. 82.

37 Cit. da M. Bendiscioli, Germania religiosa del Terzo Reich (1937), Morcelliana, Brescia 1977, pag. 83.

38 Cit. da G. Cogni, Il razzismo, Fratelli Bocca, Milano 1937, pag. 142.

39 P. Lacoue Labarthe – J.L. Nancy, Il mito nazi (1991), il melangolo, Genova 1992, pagg. 33, 50, 51.

40 Manoscritto rilkiano noto come Le postille di Rilke a «Die Geburt der Tragödie» di Nietzsche, rip. in F. Jesi, Esoterismo e linguaggio mitologico. Studi su Rainer Maria Rilke, D’Anna, Firenze 1976, pag. 188.

41 In H. Rauschning, Hitler mi ha detto, Edizioni delle Catacombe, Roma 1944, pag. 234.

42 In K. Vondung, Magie und Manipulation. Ideologischer Kult und politischer Religion des Nationalsozialismus, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1971, pagg. 24-25. Sulla parola sacrale e sulle tecniche di consacrazione, cfr. pagg. 140 e segg.

43 Cfr. I. Kershaw, Der Hitler-Mythos. Volksmeinung und Propaganda im Dritten Reich, Deutsche Verlags-Anstalt, Stuttgart 1980, pag. 65.

44 Cfr. W. Darré, La nuova nobiltà di sangue e suolo (1939), Edizioni di Ar, Padova 1978, ad esempio pagg. 125 e segg., dove si ricorda che il concetto di nobiltà tedesca era esteso per patto atavico a tutta la comunità popolare, costituendo aristocrazia e contaminato un unico nucleo razziale.

45 J. Weinheber, Widmung (1922), in Adel und Untergang, Hoffmann und Campe, Hamburg 1978, pag. 113.

46 In un discorso tenuto all’Università di Friburgo nel 1943, in occasione del centenario della morte di Hölderlin. Ora in M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, cit., pagg. 16 e segg.

47 Cfr. ad esempio G. Galli, Nazionalismo ed esoterismo, in Aa.Vv., L’estetica della politica. Europa e America negli anni trenta, a cura di M. Vaudagna, Laterza, Roma-Bari 1989, specialmente pag. 209, dove si riferisce sul «recupero di una cultura che risale ai miti di Atlantide e del Graal».

48 P. Lacou Labarthe – J.L. Nancy, Il mito nazi, cit., pag. 19.

49 F. Nietzsche, La nascita della tragedia (1872), Laterza, Bari 1969, pag. 196.