CAST

 

RECENSIONE DI ELVIO GIUDICI

 

Elvio Giudici, L'opera in CD e video. Guida all'ascolto, Milano, Il Saggiatore, 1995, pp. 169-170.
Gavazzeni, parlando della preparazione di un'opera lirica, come ideale di lavoro cita sempre questa «Bolena». All'ascolto, si capisce perché: a poco a poco si avverte la complessa opera di rielaborazione, di adattamento, di messa a fuoco del materiale musicale secondo un'ottica che ne esalta innanzitutto la teatralità, i cui valori espressivi vengono per così dire ricreati e adattati a una sensibilità diversa da quella per cui nacquero.
Operazione nella quale fu determinante l'apporto di Visconti, che portò al risultato di far «parlare» al pubblico un'opera del tutto sconosciuta, dandole lo stesso impatto espressivo dei pilastri del repertorio: a tal punto da far passare in secondo piano parecchie falle vocali. Lemeni, ad esempio, non ha più che l'ombra dell'ombra della sua bella voce, diminutio evidenziata anche dalla durezza e legnosità dell'emissione: però è Enrico VIII, la torva maestosità dell'accento materializzando, nonostante la linea vocale periclitante, lo stesso sensazionale carisma che sprigionava la sua figura scenica. Raimondi aveva allora una voce assai bella di tenore lirico, ma certo non avrebbe potuto reggere in extensu una parte pensata per le capacità abnormi e per il fenomenale falsettone di Rubini; il lavoro di forbici e pialla di Gavazzoni ha investito quindi soprattutto il personaggio di Percy: taglio netto del tremendo «Vivi tu, te ne scongiuro» con relativa cabaletta, scorciamento della ripresa con acclusa cadenza di «Da quel dì che lei perduta» e, insomma, rimodellamento della parte sulle doti peraltro cospicue della voce e del temperamento di Raimondi.
Per questa come per analoghe operazioni si guadagnò la nomea di «tagliator cortese», ma rispetto a esecuzioni imposteci dalla contemporanea filologia anche in presenza di esecutori inidonei, le orecchie commosse ringraziano. Seymour è una figura musicalmente sommaria ma il timbro pieno e intenso della Simionato, piegato a un fraseggio fantasioso, le conferisce il masslmo spessore posslblle.
E infine, la Callas. Se è possibile trovare qualche nota brutta e parecchie non belle, è però impossibile trovarne anche una sola attraverso la quale il personaggio di Anna non riveli una piega della propria personalità. Lo schianto doloroso con cui interrompe la canzone di Smeton e che trapassa, rendendola struggente, nella melanconia interiorizzata del «Come, innocente giovine»; il turbamento e lo strazio del ricordo di un'età felice nel magnifico quintetto «Io sentìa sulla mia mano»; il tenerissimo duetto con Percy, ondeggiante nei sentimenti contrastanti di abbandono, timore e infine di dolorosa risoluzione: il versante malinconico del carattere di Anna è dalla Callas espresso con colori sfumature e accenti d'una linea vocale in cui qualche crepa s'intravede, ma sulla quale il controllo è eccellente.
Non parliamo poi del versante altero del personaggio: la cui cifra segreta resta sì la pateticità, ma che risalta in modo ben più incisivo se il fraseggio sa scolpire gli sporadici scatti di rivolta col necessario carisma. Qui la Callas è nel pieno del suo elemento, e frasi come «Giudici... ad Anna!» con successivo, bruciante attacco della stretta finale, sono momenti memorabili pur senza l'inimitabile presenza scenica che li completava. Stupendo anche il duetto con Giovanna. La dolente tenerezza del «Non mi obliasti tu?», l'orgoglio sprezzante del «Viltade alla Regina sua», l'alterezza che pervade l'avvio del duetto vero e proprio: tutto mantiene questa difficile pagina nel giusto clima di primo Ottocento, clima in cui le situazioni più drammatiche, gli scontri più accesi si sublimano proprio perché si ampliano in larghe frasi dove costante e sotterranea scorre una vena di aulicità, senza la quale questo clima inevitabilmente si corrompe, diventa un ibrido di epoche diverse, e Anna d'Inghilterra va per il vino a Francofonte.
La Callas possedeva innata nella sua voce e amplificata al massimo dallo studio, il senso aulico del melodramma romantico: in questa pagina la Simionato non le è da meno, ed ecco tutta la gamma della sorpresa, dello strazio, della rabbia e del perdono trascorrere con naturalezza mentre Anna ripete ossessivamente «Mia rivale» e Giovanna si raccoglie in piccole ma intensissime frasi come «amo Enrico e n'ho rossore».
Infine, tutto sfocia nel finale. Arrivata al «Piangete voi?» la Callas getta un ponte a ritroso sulI'intera opera, recupera tutte le indicazioni espressive sul carattere di Anna che aveva sparso fin qui, le amplia e letteralmente le sublima. Lamina di suono eterea, davvero lancinante nell'«Al dolce guidami», si spezza come di schianto in un «Smeton!» che è esempio calzante di recitazione vocale: la didascalia reca «si ritrae sbigottita», e in quelle due note c'è davvero uno sbigottimento infinito. Poi vaneggia con dolcezza trasognata nella stupenda frase «ché l'arpa tua non tempri?», s'intride progressivamente di lacume al «gemer tronco d'un cor che more» e il «Cielo, ai miei lunghi spasimi» è pura poesia vocale. Ed è anche, per conto mio, uno dei capolavori maggiori della Callas.