Eugenio Montale

14 aprile 1957
«Anna Bolena» di Donizetti

 

«Anna Bolena» di Donizetti tornata ieri alla Scala dopo ottant'anni dall'ultima apparizione è la trentacinquesima opera del grande compositore bergamasco. Fu composta in un mese, nel 1830, e interpretata da artisti sommi come la Pasta, il Rubini e, più tardi, il Lablache conobbe una fortuna che tramontò poi quando Donizetti provvide involontariamente, con le opere successive, fra le quali si contano i suoi capolavori, a farla dimenticare.
L'oblio dell'opera si spiega appunto con la diffusa tendenza a ridurre ogni artista fecondo a quel minimo (o quel massimo) che nessun mutamento di gusto può farci rifiutare; si spiega, insomma, con la fretta della storia, la quale non avrà mai il tempo non dico per rappresentare, ma neppur per leggere le più che sessanta opere donizettiane.
Ma spiegabile, e persino lodevole, è anche lo scrupolo di chi non si accontenta di pochi consacrati clichés, e propone perciò verifiche, ritorni, resurrezioni. Nelle arti figurative il cosiddetto gusto «del particolare», gusto tutto moderno, ci ha permesso di rivalutare, almeno parzialmente, opere che dal punto di vista unitario dovremmo giudicare orrende. Quale terremoto porterebbe, nel campo musicale, una ricerca del genere, che si applicasse alla nostra operistica ottocentesca! Se il gusto del frammento (s'intende del frammento considerato come opera conclusa e autosufficiente) entrasse nel regno della musica non si vede che cosa potrebbe mancare alla pépinière donizettiana per avere il posto che merita, tra le grandi «riserve» di autentiche invenzioni musicali del nostro romanticismo.
Per non divagar troppo dal nostro compito, che è di render conto di uno spettacolo e di un melodramma che nessuno conosceva (se non i pochi che ne ascoltarono a Bergamo, l'anno scorso, una modesta esecuzione) diremo subito che la riesumazione di «Anna Bolena» ci è apparsa ieri giustificata tanto per le sparse bellezze della partitura quanto per il pregio dell'interpretazione complessiva; mentre ci è apparso anche comprensibile il lungo oblio toccato alI'opera, date le difficoltà ch'essa presenta.
Una «Lucia di Lammermoor» può affrontare anche la prova di un Carro di Tespi che disponga di un sopranino dotato di voce estesa e di un felice istinto rappresentativo. La «Lucia» è come un quadro famoso che si difende bene anche riprodotto in mediocri oleografie. «Anna Bolena» non ha quel carattere romantico-idilliaco apertamente spiegato: come dramma tende alla bellezza classica, all'architettura della tragedia del grand- siècle francese.
Anche in questo, e non solo nello schema differisce da quella stupenda ma incolta boscaglia che è l'«Enrico VIII», parzialmente attribuito a Shakespeare. S'intende che rotti gli schemi, fatta saltare l'impalcatura, di shakespeariana potenza restano molte scene ed episodi, perché anche quest'opera insolitamente composita conferma che il nostro Ottocento operistico non ha altro riscontro, nella storia dell'arte europea, che nella grande stagione elisabettiana.
Dal suo librettista, il Romani, Donizetti è stato assai mediocremente servito. Fin dall'inizio Anna Boleyn, che la storia riconosce come adultera e incestuosa, ci si mostra come un'anima pura e altera, ma alquanto incline a prestar ascolto alle assiduità di un Lord Percy e del paggio Smeton. Con tali premesse re Enrico - che qui è visto nella luce più tirannica (a differenza di Shakespeare) - durerà poca fatica a farle tagliar la testa, in compagnia del fratello Rochefort (o Ruthford) che nell'opera donizettiana sembra, stranamente, tener bordone al Percy. Quanto alla Jane Seymour che re Enrico impalmerà, essa sembra sospesa fra l'ipocrisia, il desiderio di sedere sul trono e la pietà per la regina spodestata.
Incerti, talora burattineschi i caratteri, tutto l'interesse si accentra sulla figura di Anna alla quale Donizetti ha prestato accenti musicali di ineguagliabile potenza e grandiosità. L'opera vive quando Anna è presente, si indugia in ripieghi melodrammatici allorché le esigenze della trama riportano il musicista alle incongruità di molte situazioni. Ma non si creda che «Anna Bolena» sia opera vitale solo nelle scene in cui l'accordo della critica può essere unanime, perché dovunque sono pieghe, incisi, frasi che ancora una volta mostrano in Donizetti una potenza melica che regge a qualunque confronto.
Quando poi, come nel terzo atto, una melodia degna del maggior Haendel (la famosa « Al dolce portami... ») si innesta in un'architettura sonora non inferiore al finale della «Norma», allora ogni obiezione cade ed ogni ragione di diffidenza viene vittoriosamente smentita dai fatti.
Anna Bolena ha trovato ieri in Gianandrea Gavazzeni un concertatore che con opportuni tagli e alleggerimenti ha liberato e messo in luce le parti più vitali dell'opera. Questa tragedia in bianco e nero, dura, senza diversivi, senza abbellimenti, ha trovato in lui un restauratore e un interprete poderoso.
Come Anna la signora Meneghini Callas si è riportata di colpo alle grandi sue creazioni di Medea e della prima sua Norma. Voce vibrante, portamento scenico, arte di canto e stupenda stilizzazione, tutto fa di lei una Anna che oggi non può aver rivali.
Nella parte di Jane Seymour Giulietta Simionato le ha tenuto testa in modo meraviglioso dimostrando una potenza e una «classe» che finora non le avevamo del tutto riconosciuto. Le due grandi artiste hanno ieri trionfato senza possibili riserve. Il Rossi Lemeni, in una parte ingrata, ha fatto meglio che difendersi ed è stato, qua e là, efficace, mentre il tenore Raimondi, rinunziando a impossibili fioriture, ha contribuito all'esito dell'insieme e con lui la Carturan nella parte del paggio Smeton.
La messa in scena di Nicola Benois, architettonica e monocroma, dispiega una serie di eccellenti stampe dell'epoca, forse rotta, talvolta, dallo stridore coloristico di qualche costume; e la regia di Luchino Visconti è sembrata di gran lunga la migliore che questo artista ha dato alla Scala: di una austerità degna della tragedia. Il coro, che ha parte impegnativa, si è mostrato degno del suo valentissimo istruttore, il maestro Norberto Mola.
Successo caldissimo, che ha toccato, dopo la scena finale, le vette dell'entusiasmo. Se fosse possibile, in avvenire, rappresentare «Anna Bolena» con un insieme di artisti di egual valore, la resurrezione di quest'opera non dovrebbe rimanere un fatto isolato, una semplice curiosità culturale.
Eugenio Montale, «Recensione ad 'Anna Bolena'», in «Il Corriere d'Informazione, 15 aprile 1957.