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Jean Mistler

CARI AGLI DÈI

Vite brevi di musicisti illustri

[Editoriale Nuova 1982, pp. 125-141]

 

 

Alban Berg

 

Negli anni tra il 1921 e il 1925 passavo a Vienna quasi tutti i miei fine settimana, scappando da Budapest, dov'ero di servizio, il venerdì sera in treno, per far ritorno la domenica col battello del Danubio. Dividevo il mio tempo fra la musica e gli Archivi, in cui spulciavo gli incartamenti di polizia relativi a Madame de Staël. Grazie al cambio, una camera in uno dei grandi alberghi del Ring costava solo dieci franchi: la carestia era scomparsa da quando la Società delle Nazioni aveva mandato un alto commissario a occuparsi dei rifornimenti dell'antica capitale della pasticceria [...].
Imperava la musica. L'Opera era il miglior teatro del mondo, con direttori come Richard Strauss e Franz Schalk, sempre in lotta naturalmente, cantanti come la Jeritza e la Lehmann, bassi come Richard Mayr e Duhan, tenori come Schubert per Wagner, Slezak per Verdi e l'americano Piccaver, una specie di Douglas Fairbanks, per i ruoli pucciniani.
Quanto ai concerti, c'era la Filarmonica, che pur troppo si riteneva in obbligo di eseguire troppo spesso le sinfonie di Mahler, il suo ex direttore. Quanto alla musica da camera, da trentacinque anni imperava il quartetto Rosé che suonava Mozart come non lo si suonerà mai più.
All'Opera, il repertorio era tradizionale come a Parigi, salvo il fatto che si davano in media quarantacinque, cinquanta opere all'anno, invece della quindicina che si dava da noi. Mozart, Wagner, Verdi, Strauss e l'inevitabile Puccini formavano il novanta per cento dei programmi, mentre il resto era rappresentato da opere tedesche dell'inizio del secolo, come la «Terra bassa» di Eugène d'Albert, o un po' più vecchie, come «L'evangelista» di Kienzl, dal romanzo di Alphonse Daudet. [...]
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Infine, per completezza d'informazione, c'era l'operetta viennese, con i suoi fornitori patentati, Lehar e Kalman in testa, che producevano ciascuno un'operetta all'anno, come una vigna dà i suoi frutti. Naturalmente, c'erano annate buone e annate cattive...
A quell'epoca, il pubblico non si occupava affatto di quella che oggi viene chiamata la Scuola viennese. Tuttavia, dal novembre 1918 esisteva un'associazione chiamata «Società viennese di esecuzioni musicali private», creata da Schönberg e dai suoi allievi. Berg ne aveva redatto il prospetto, autentica professione di fede, in cui si dichiarava che scopo dell'associazione era di «dare agli artisti e agli appassionati illuminati un'idea più esatta della musica moderna. Il pubblico» aggiungeva il documento, «ne trae solo un'impressione di ermetismo [...] La ragion d'essere e le intenzioni di numerose opere contemporanee, come pure la loro essenza e il loro valore intrinseco rimangono del tutto oscuri al pubblico, e le esecuzioni spesso confuse non servono certo a chiarire la situazione».
La Società si proponeva i seguenti fini:

«1. Preparazione accurata e fedeltà assoluta delle esecuzioni.
2. Audizione ripetuta delle stesse opere.
3. Sottrazione dei concerti all'influenza corruttrice della vita musicale ufficiale, rifiuto della competizione commerciale, indifferenza verso qualsiasi forma di successo o insuccesso.»
«Mentre la pratica musicale abituale», continuava Berg, «porta a interpretazioni che risentono di un numero di prove insufficiente, l'esecuzione di un'opera inscritta al programma della Società non avrà luogo finché non siano soddisfatte le condizioni minime per una interpretazione corretta». Durante le audizioni che avevano luogo tutte le settimane, la domenica mattina dalle dieci a mezzogiorno, nella saletta del Musikverein, poteva capitare che una stessa opera fosse eseguita più volte. Inoltre, il programma non veniva mai comunicato in anticipo. Una terza regola, era il carattere strettamente privato delle esecuzioni: a parte gli stranieri, non si ammetteva nessun ospite esterno. Fu così che una volta potei assistere a un concerto grazie alla raccomandazione di Béla Bartok. Ho dimenticato il programma. Ricordo che intravidi Schönberg [...].

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Poco tempo dopo, incontrai a un concerto nella sala dell'Accademia, dove si dava una sinfonia di Bruckner, due altri membri del gruppo: Alban Berg, che a trentasette o trentotto anni aveva ancora l'aria di uno studente, e un omettino un po' più anziano, che pareva un impiegato d'ufficio nella sua giacca striminzita. Quest'ultimo mi diede il suo biglietto da visita:

MATHIAS HAUER

Direttore scolastico

Unico autentico inventore
della musica seriale

Ignoravo il significato di musica seriale e persi il biglietto da visita: molto più tardi, leggendo il volume di Werfel su Verdi, vi ritrovai Hauer nel personaggio di Fischboeck, molto romanzato, come del resto Verdi.
Hauer non si vantava,aveva effettivamente formulato, molti anni prima di Schönberg, i principi della dodecafonia, ma i suoi scritti teorici erano praticamente ignoti, e delle sue opere conosco solo i titoli, strani talvolta, come la «Fantasia apocalittica» per piano e armonium. Quanto a Schönberg, talora suonavano la sua musica da camera e una volta, nel 1923 o 1924, sentii perfino i «Gurre-Lieder», il suo grande oratorio che Parigi scoprì solo trent'anni dopo. [...]
I maestri della scuola seriale composero secondo le regole di questo sistema, più o meno rigorosamente applicate, a partire dal 1921 o 1922. La dodecafonia fu accanitamente avversata dai sostenitori della vecchia scuola e appassionatamente difesa dagli innovatori [...].
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Tra i compositori principali della nuova scuola viennese, di cui Schönberg fu l'iniziatore, si ritiene in generale che chi ha prodotto le opere più valide sia Alban Berg. Nel descrivere la fisionomia di questo maestro, vorrei dimostrare che queste teorie, per quanto astratte e arbitrarie, non impedirono a una personalità originale e potente di esprimersi appieno.
Alban Berg nacque a Vienna il 7 febbraio 1885. Suo padre era un commerciante agiato, ma morì giovane, lasciando la famiglia in una situazione finanziaria difficile. Berg apprese da solo i rudimenti della musica e, a quindici anni, componeva già brevi pezzi musicali. Sui vent'anni diventò allievo e poi amico di Schönberg e, dal 1907 o 1908, si dedicò completamente alla musica. Le sue prime opere, come del resto quelle di Schönberg, più vecchio di lui di undici anni, erano scritte nello stile cromatico del «Tristano», ma furono piuttosto mal accolte. Ad esempio, quando vennero eseguite le sue «Dodici variazioni e finale su un tema originale», un critico commentò con spirito: «Abbiamo ascoltato Tema e dodici variazioni. Devo dire che c'erano effettivamente dodici variazioni, ma nessun tema!».
Berg passa l'estate tra i laghi e le foreste della verde Carinzia, mentre in inverno e in primavera abita in una villa di Hietzing, il sobborgo di Vienna, che con le sue case e i giardini circonda il castello di Schönbrunn; qui, Berg vive nell'oscurità completa, porte e finestre chiuse, tende tirate, non mangia quasi niente e beve venticinque-trenta tazze di tè al giorno. Quando l'Opera di Graz darà - prima di Vienna - la «Salome» di Richard Strauss, Berg farà un viaggio apposta per sentirla, e quando l'insieme del Piccolo Teatro di Breslavia porterà a Vienna l'opera di Strauss, egli assisterà a sei rappresentazioni di fila. Questo particolare ha la sua importanza, perché si dipingono troppo spesso i seguaci della dodecafonia come degli iconoclasti [...] mentre in realtà essi non hanno mai nascosto la loro ammirazione per i predecessori immediati, e Richard Strauss, da parte sua, aiutò decisamente Schönberg agli esordi.
Data l'abitudine di lavorare lentamente e di rielaborare senza posa tutto ciò che scrive, dal 1909 al 1914 Berg darà al pubblico solo sei opere, e il suo capolavoro, il «Wozzeck», composto dal 1917 al 1922, porta soltanto il numero di catalogo 7! Eccone la genesi:
Nel 1914, in un teatrino di Vienna, Alban Berg assiste alle rappresentazioni di un dramma di Georg Büchner, intitolato «Woyzeck». È un lavoro che risale al 1835 o 1836, ma il suo autore, morto nel 1837 a ventitré anni, l'ha lasciato incompiuto ed esso viene pubblicato solo nel 1875. È una delle opere più forti della letteratura universale; l'opera che Berg ne trarrà riveste la stessa importanza dal punto di vista musicale. Fra il testo di Büchner e la partitura di Berg c'è una corrispondenza così stretta, una simbiosi così intima che in futuro sarà sicuramente impossibile separare in uno studio il drammaturgo dal compositore. [...]
Per la sua epoca, il «Woyzeck» è un'opera prodigiosa. Formato da ventisette dialoghetti che durano da uno a quattro minuti e si susseguono senza passaggi intermedi, questo dramma, con le sue violenze e il suo gusto per i soggetti e i personaggi sordidi, anticipa l'espressionismo dei primi anni del '900.
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Anticipa anche il cinema. Le sue scene, in cui l'azione si sposta continuamente e, come in un film, stringe intorno al soldato «Woyzeck», senza alcuna logica apparente, la rete implacabile della necessità, hanno lo stesso rigore allucinante dei romanzi di Kafka. E questo mondo, «questo mondo che è morto», come dice il povero soldato prima di pugnalare Maria, è già il mondo senz'anima di oggi, profeticamente intravisto.
Büchner si era ispirato a un fatto di cronaca di cui aveva seguito attentamente i dettagli. Il 21 giugno 1821, alle nove e trenta di sera, a Lipsia, un parrucchiere, Johann-Christian Woyzeck aveva ucciso con sette pugnalate la quarantaseienne vedova del chirurgo Woost. A Lipsia, dove l'ultima esecuzione capitale era stata quella di un certo Jonas, nel 1790, l'impressione fu enorme. Il difensore di Woyzeck parlò di follia ciclica. Il 29 febbraio 1822, l'assassino fu condannato alla decapitazione; il suo ricorso in cassazione e la sua domanda di grazia furono respinti. Tuttavia, l'avvocato non si diede per vinto e, su richiesta dell'elemosiniere del carcere, riuscì a far aprire una nuova inchiesta: pare che Woyzeck avesse udito delle voci che gli dicevano d'ammazzare la vedova Woost. Di rinvio in rinvio, d'interrogatorio in interrogatorio, il processo si trascinò fino al 1823, ma alla fine il parrucchiere venne giustiziato.
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Di questo fatto di cronaca, Büchner conservò solo gli antecedenti immediati del delitto sostituendo l'esecuzione di Woyzeck con il suo suicidio. Modificò diversi particolari, trasformando il parrucchiere in un soldato e la vedova quarantaseienne del chirurgo in una trentenne di facili costumi, Maria. Ciò che sbalordisce in questa successione di scene, sono i dialoghi, in cui il capitano e il medico si esprimono in un tedesco corretto e pedante, mentre la gente del popolo parla un dialetto trascritto alla lettera. Nel trattare il soggetto, Berg condensò il testo di Büchner, riducendolo da ventisette a quindici scene, concentrando quindi l'azione e rendendola più drammatica; inoltre, cambiò il nome del protagonista che, per motivi che ci sfuggono, si chiama Wozzeck, con due z, invece di Woyzeck.
Nel 1914 scoppia la Prima guerra mondiale. Alban Berg è mobilitato in un reggimento di fanteria ma, debole di salute, non resisterà alle fatiche della campagna. Trasferito nel 1917 ai servizi ausiliari e assegnato al ministero della Guerra a Vienna, ha di nuovo la possibilità di far musica. Così inizia a lavorare sul soggetto del «Wozzeck» e, come si è detto, comincia col ridurre il libretto, raggruppando in tre atti di cinque quadri ciascuno i dialoghi di Büchner, eliminando qualche scena accessoria, come quella del baraccone da fiera o quella dell'acquisto del coltello, e cancellando qualche espressione troppo cruda: così, dà all'azione una forza nuova, facendone un dramma schiacciante della fatalità. Non foss'altro che per il soggetto, il «Wozzeck» si sottrae alla tradizione romantica di cui sono ancora impregnati il «Pelléas» e la «Salome», ma sul piano musicale, la rottura è ancor più totale: fin dalle prime scene, il pubblico si trova in un ambiente sonoro sconosciuto, lontano sia dal bel canto italiano sia dalla declamazione lirica wagneriana, e gli intervalli imposti alle voci appaiono spesso disumani, eppure, nonostante i mezzi di una semplicità incredibile, la scena della morte di Maria raggiunge vette di epica grandezza.
Berg si è spiegato molto chiaramente: «Mentre componevo il Wozzeck», scriveva nel 1928, «non mi è mai venuto in mente, nemmeno per sogno, di riformare l'opera». Nelle quindici scene e i dodici interludi della sua opera, impiega le forme classiche della musica da camera, ma, aggiunge: «nessuno del pubblico può notare qualcosa di particolare in queste varie fughe, invenzioni, variazioni o passacaglie, nessuno penserà ad altro che all'idea di quest'opera che va decisamente oltre il destino particolare di Wozzeck. In questo, credo, sono riuscito nel mio intento».
Alban Berg lavorerà per cinque anni a quest'opera, appena più lunga di un atto della «Tetralogia». Tutte le domeniche prende un tram elettrico e poi un vecchio tranvai a vapore per recarsi da Schönberg che abita a Modling (un altro sobborgo di Vienna), al pianterreno di una grande villa fiancheggiata da una torre quadrata. Là, si suonano i quartetti di Beethoven e di Schubert, si leggono gli spartiti moderni; e un giorno, per provare un brano orchestrale di Schönberg con due pianoforti, Webern, Berg e lo stesso Schönberg, ridendo trasportano come facchini il piano verticale di Gertrude Schönberg vicino al pianoforte a coda paterno, nella sala da musica.
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Nel 1922, l'opera è terminata, ma sarà presentata solo il 24 dicembre 1925 a Berlino, sotto la direzione di [Erich] Kleiber. Io assistetti non alla prima, ma alla quarta o quinta replica. Allo scandalo violento, alle zuffe della prima, era subentrata l'incomprensione, ma cinque o sei anni dopo il «Wozzeck» cominciava il suo giro di Germania, interrotto dal nazismo nel 1933, e trasformato nel dopoguerra in trionfale giro del mondo.
Il lavoro principale a cui si dedicò Berg a partire dal 1930, fu la sua seconda opera, intitolata «Lulu» e tratta da due drammi di Frank Wedekind, [«Lo spirito della terra» e «Il vaso di Pandora», scritto il primo nel 1895 e il secondo nel 1902]. Il personaggio di Wedekind non è meno strano di quello di Büchner. Nato nel 1864 e morto nel 1918, Wedekind era figlio di un medico tedesco e di un'attrice ungherese. Costretto all'esilio per le sue idee d'estrema sinistra, suo padre si rifugiò in Svizzera, e Frank Wedekind, dopo aver terminato le scuole secondarie a Losanna, andò a Monaco per studiarvi legge, ma s'occupò soprattutto di giornalismo. Tornato in Svizzera, s'impiegò all'ufficio pubblicità della Società dei dadi Maggi, ma dopo la morte del padre si interessò solo di teatro e di letteratura.
Dopo aver lavorato sei mesi in un circo, Wedekind affronta il teatro con «Il risveglio della primavera», dramma dedicato al problema della pubertà, che solleva un enorme scandalo. Diventato direttore nel 1896 del giornale satirico «Simplicissimus» a Monaco, viene condannato a un anno di prigione per lesa maestà, ma è già famoso e con i suoi drammi, sempre vivacemente discussi, riscuote grande successo sia come attore sia come drammaturgo. Dai due drammi, «Lo spirito della terra» e «Il vaso di Pandora», in cui Wedekind aveva raccolto varie esperienze della sua vita errante in Germania e in Inghilterra, Berg trasse sei quadri in cui mostrava i mali provocati da «Lulu», donna fatale e mangiatrice d'uomini, facendoci assistere alla sua graduale decadenza, fino alla coltellata che le sarà inferta a Londra, in una notte di nebbia, nella sua sordida soffitta di prostituta, da Jack lo Squartatore.
Alban Berg portò a termine solo i primi cinque quadri di «Lulu». Non possiamo sapere che cosa avrebbe scritto per il sesto. Così come viene rappresentato adesso, questo quadro è una pantomima in cui si riprende sostanzialmente l'adagio della suite orchestrale intitolata «Lulu», che veniva già suonata quand'era ancora in vita l'autore.
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A parte qualche battuta, questa parte è interamente sinfonica, e raggiunge una potenza espressiva e un accento tragico che supera di gran lunga le altre scene, ma è difficile credere che Berg si sarebbe attenuto a questa formula se avesse avuto il tempo di dare un ultimo ritocco all'opera.
«Lulu» fu rappresentata per la prima volta solo nel 1937, a Zurigo. Ma non c'era più l'autore ad assistervi. È un'opera che non ha mai fatto presa sul pubblico come il «Wozzeck», tuttavia ciò è dovuto in larga misura alla mediocrità del libretto.
Mentre lavorava alla «Lulu», Alban Berg fu incaricato di comporre un concerto per violino. Esitava a incominciare, quando venne a sapere della morte, a diciott'anni, di Manon Gropius, nata dal secondo matrimonio della sua amica Alma Mahler, vedova del musicista. Invece di un banale concerto per virtuosi, scrisse allora un requiem senza parole, il «Concerto in memoria di un angelo», la sua ultima opera.
Nel settembre del 1935, Berg era delegato dell'Austria al festival musicale di Praga, ma dovette scusarsi di non potervi partecipare: soffriva di un ascesso alla schiena dovuto, credeva lui, alla puntura di un ragno. Subì un piccolo intervento e parve guarito. Tuttavia, il 12 novembre il musicista si sente febbricitante. Si mette a letto e si cura, come d'abitudine, con dell'aspirina. Scoppia una foruncolosi. Il 16 dicembre, però, i dolori dorsali cessano di colpo, e il medico si chiede se non si tratti di un ascesso profondo che si è aperto; fa trasportare Berg all'ospedale, dove gli diagnosticano una setticemia. A quell'epoca gli antibiotici non esistevano ancora: si tentò una nuova operazione, ma senza trovare l'ascesso e, il 19, si procedette a una trasfusione di sangue, secondo la tecnica rudimentale di allora, con il braccio del donatore collegato direttamente a quello del paziente con due aghi e una cannula. Il donatore era un giovane viennese, gentile, semplice e ingenuo. Terminata la trasfusione, Berg volle ringraziare il donatore, poi, chinandosi verso l'amico Reich che stava al suo capezzale, gli disse con aria serissima, facendo allusione a «Wiener Blut», titolo di una celebre operetta: «Adesso che ho sangue viennese, diventerò senz'altro un compositore come gli altri!».
Il 23, le sue condizioni sono disperate. Come Mozart, che morendo ricordava le arie del «Flauto magico», anche Berg rammenta i temi della sua «Lulu», che non avrà il tempo di terminare.
Il 24 dicembre 1935, all'una del mattino, rende l'ultimo respiro e il suo viso prende nella morte una maestà straordinaria. Ho visto la sua maschera funeraria, d'una calma e d'una bellezza prodigiose: non porta nessuna traccia delle sofferenze subite, l'involucro mortale è divenuto statua.
[...] C'è da meravigliarsi che un uomo che aveva fatto quattro anni di guerra e poi tre anni di carestia a Vienna, abbia seguito la sua inclinazione naturale ispirandosi ad argomenti sordidi e crudeli? Wedekind morto era più attuale nel 1920 del Wedekind vivo nel 1900, e la cinematografia tedesca, con «La strada senza gioia», non fece altro che realizzare per le masse ciò che il teatro d'avanguardia di Monaco aveva tentato venticinque anni prima per un'élite.