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Elias Canetti

ALBAN BERG

[IL GIOCO DEGLI OCCHI]

 

Oggi mi sono riguardato con commozione alcune immagini di Alban Berg. Non oso ancora adesso parlare dei miei rapporti con lui. Voglio soltanto accennare ad alcuni incontri, e lo farò, per così dire, solo dall'esterno.
L'ultima volta l'ho visto al Café Museum poche settimane prima della sua morte, e fu un breve incontro notturno, dopo un concerto. Io lo ringraziai di una sua bellissima lettera, lui mi domandò se qualcuno aveva già recensito il mio libro. Gli dissi che era ancora troppo presto, ma lui non sembrava d'accordo ed era pieno di sollecitudine verso di me. Senza dirlo espressamente, voleva avvertirmi di un pericolo a cui dovevo prepararmi. Era in pericolo lui stesso, e tuttavia voleva proteggermi. Sentivo il calore che aveva per me fin dal nostro primo incontro. «Ma che cosa può succedere di tanto grave,» gli dissi a quando si è ricevuta una lettera come la sua?». Si schermì, sebbene fosse contento di quel che dicevo. «A sentire lei, sembrerebbe che la lettera gliel'abbia scritta Schönberg,» disse «ma è soltanto una lettera mia».
Non che mancasse di amor proprio. Sapeva benissimo chi era. Ma c'era un uomo che con fede incrollabile metteva sopra di sé: Arnold Schönberg. Io gli volevo bene per quella generosa ammirazione di cui era capace. Ma avevo motivo di volergli bene per molte cose.
Allora non sapevo che Berg soffriva da mesi di foruncolosi, non sapevo che gli restavano solo poche settimane di vita. A Natale, improvvisamente, ebbi da Anna la notizia che era morto il giorno prima. Il 28 dicembre 1935 andai al cimitero di Hietzing per assistere alla sepoltura. Non vi trovai tutto il movimento che mi ero aspettato, non c'erano persone che camminassero in una determinata direzione. A un piccolo becchino deforme domandai dove si teneva la cerimonia per Alban Berg. «La salma Berg è lassù a sinistra!» strillò a gran voce. Mi spaventai, ma seguii la direzione indicata e trovai un gruppo di forse trenta persone. C'era Ernst Krenek, c'erano Egon Wellesz e Willi Reich. Dei diversi discorsi ricordo soltanto che Reich si rivolse al defunto come al suo maestro, con la dimestichezza di un allievo. In verità non fu un gran discorso, ma era pieno ancora di umiltà davanti al maestro scomparso, e furono le sole parole che in quel momento non mi diedero fastidio. Gli altri, quelli che parlarono in maniera più intelligente e composta, non li ascoltai, non volevo ascoltarli perché non mi sentivo di ammettere che eravamo lì a seppellire Alban Berg.
Lo vedevo davanti a me, lo vedevo ondeggiare lievemente dopo un concerto in cui lo avevano commosso alcuni poèmes di Debussy. Alto com'era, camminava piegato in avanti, e quando poi cominciò quell'ondeggiare pareva che il vento gli soffiasse intorno, così che lui somigliava a un lungo stelo. Disse «meraviglioso», ma la parola gli rimase a metà in gola, sembrava quasi ubriaco. Era un balbettio che racchiudeva in sé un elogio, una confessione ondeggiante.
Quando andai a trovarlo la prima volta a casa sua - gli ero stato raccomandato da H. - mi colpì l'allegria con la quale mi accolse. Famoso nel mondo, lebbroso a Vienna - mi ero immaginato un uomo di spettrale ritrosia. Me lo figuravo lontano dal suo ambiente di Hietzing e non mi domandavo perché abitasse lì. Non lo collegavo con Vienna, se non sotto un aspetto: lui, grande compositore, era lì per esprimere il disprezzo della città musicale per eccellenza. Pensavo che Berg doveva essere così, che le opere meritevoli di attenzione potevano nascere solamente in una simile atmosfera di ostilità; e non facevo differenza tra compositori e scrittori, negli uni e negli altri c'era la stessa capacità di resistenza, una qualità fondamentale nella loro natura. Mi sembrava che quella resistenza scaturisse da un'unica fonte, che quella forza si alimentasse: alla sorgente di Karl Kraus.
Non ignoravo l'importanza che Karl Kraus aveva per Schönberg e per i suoi allievi. All'inizio, forse, dipendeva da questo la buona opinione che avevo di loro. Ma nel caso di Alban Berg si aggiungeva il fatto che aveva scelto il «Wozzeck» come soggetto della sua opera. Ero andato da lui con le più grandi speranze, immaginando però una persona ben diversa: quando mai si riesce a immaginare esattamente un uomo eccezionale? Ma Alban Berg è l'unico che, dopo avermi ispirato tante speranze, non mi abbia deluso.
Rimasi sbalordito dalla sua naturalezza. Non pronunciava grandi frasi. Era curioso perché di me non sapeva niente. Domandò che cosa avevo fatto fino allora, se era possibile leggere qualcosa di mio. Dissi che non avevo pubblicato neanche un libro, soltanto l'edizione di «Nozze* per il teatro. In quel momento cominciò a volermi bene, anche se in realtà me ne sono reso conto solo più tardi. Ciò che provai allora fu un calore improvviso, quando mi disse: «Dunque non c'è nessuno che si sia fidato. Potrei leggere il dramma?». Nella domanda non c'era un'enfasi particolare, e tuttavia non si poteva dubitare che dicesse sul serio, perché subito aggiunse per farmi coraggio: «A me è successo esattamente lo stesso. Vuol dire che c'è qualcosa che vale».
Con questo accostamento non sminuiva se stesso, ma con una frase simile mi riempiva di speranza, mi faceva il dono più grande. Non era la speranza che H. dispensava con la sua abilità organizzativa, la speranza che ti lasciava freddo o ti deprimeva, la speranza che H. si affrettava a trasformare in strumento di potere: era qualcosa di personale, di semplice, senza nessuna apparente pretesa, anche se presupponeva una richiesta. Gli promisi il testo del dramma e non ebbi alcun dubbio sulla sincerità del suo interessamento.
Gli raccontai in quale stato d'animo mi ero imbattuto nel «Wozzeck* a ventisei anni e quante volte avessi letto e riletto quel frammento durante una sola notte. Venne fuori che Berg aveva ventinove anni quando aveva vissuto l'esperienza della prima rappresentazione del «Wozzeck* a Vienna. L'aveva visto molte volte e aveva subito deciso di farne un'opera. Io gli dissi anche come il «Wozzeck* avesse preparato la strada a «Nozze*: non c'era una connessione diretta, ma io solo sapevo quanto il mio dramma fosse legato a quello di Büchner.
Poi, nel corso della conversazione, mi permisi alcune temerarie osservazioni su Wagner, e lui le rintuzzò deciso, ma senza asprezza. Del «Tristano* aveva un concetto che sembrava immutabile. «Lei non è un musicista,» disse «altrimenti non parlerebbe così». Mi vergognai della mia impertinenza, ma come si vergognerebbe uno scolaro che ha dato una risposta sbagliata, e non ebbi la sensazione che il mio passo falso avesse intiepidito l'interesse che Berg mi aveva dimostrato. Subito dopo, infatti, per togliermi dall'imbarazzo, mi pregò di nuovo di fargli avere il testo di «Nozze*.
Non fu quella la sola occasione in cui Berg intuì ciò che stava accadendo in me. A differenza di molti musicisti non era sordo alle parole. Le accoglieva in sé quasi come la musica, capiva il linguaggio degli uomini non meno di quello degli strumenti. Già dopo il primo incontro sapevo che Berg apparteneva a quel piccolo gruppo di musicisti che vedono gli uomini nello stesso modo degli scrittori. Quando ero andato a trovarlo ero per lui un perfetto sconosciuto, e questa circostanza mi rivelò il suo amore per gli esseri umani, un amore così forte che Berg poteva difendersene soltanto con la sua inclinazione alla satira. Nel viso aveva sempre un tratto di ironia, intorno alla bocca e agli occhi, e gli sarebbe bastato poco per alzare una barriera di asprezza davanti alla propria cordialità. Preferiva invece servirsi dei grandi satirici, ai quali rimase fedele per tutta la vita.
Vorrei parlare di ogni mio singolo incontro con Alban Berg, e non furono tanto rari nel corso dei pochi anni della nostra conoscenza. Ma su tutti si è allungata l'ombra della sua morte precoce: morì, come Gustav Mahler, prima di arrivare al cinquantunesimo anno. Così tutti i colloqui di cui conservo il ricordo hanno perduto colore, e io temo di alterare la serenità di Berg con la tristezza che continuo a provare per lui. Penso a una frase contenuta in una lettera a un suo allievo, della quale venni a sapere solo molti anni dopo: «Uno, due mesi ho ancora da vivere - ma poi? - Non penso ad altro e non mi arrovello che su questo - sono dunque profondamente depresso ». Questa frase non si riferiva alla malattia, ma all'urgenza della minaccia che incombeva. Negli stessi giorni Berg mi scriveva la meravigliosa lettera sul mio romanzo, che aveva letto in quella condizione di spirito. Soffriva atrocemente e temeva per la vita stessa, ma non buttò via il libro, se ne lasciò opprimere, era risoluto a rendere giustizia all'autore e gli rese giustizia; perciò la sua lettera, la prima che io abbia ricevuto su quel libro, mi è rimasta la più cara di tutte.
Sua moglie Helene gli è sopravvissuta per più di quarant'anni. C'è gente che trova da ridire su questo e in particolare contesta il fatto che Helene possa essere rimasta in comunicazione col marito per tutti quegli anni. Anche se lei era prigioniera di un'illusione, anche se lui le parlava solo dentro di lei e non dall'esterno, questa è pur sempre una forma di sopravvivenza per la quale io provo rispetto e ammirazione. Io stesso vidi Helene trent'anni dopo la morte di Berg, al termine di una conferenza di Adorno a Vienna. Usciva dalla sala, piccola e rattrappita, una donna decrepita, così assente che dovetti farmi coraggio per rivolgerle la parola. Non mi riconobbe, ma quando le dissi il mio nome rispose: «Ah, signor C.! È passato tanto tempo. Alban parla sempre di lei».
Ero imbarazzato e talmente commosso che mi congedai subito. Rinunciai a farle una visita, sebbene mi sarebbe veramente piaciuto ritornare nella casa di Hietzing in cui lei abitava tuttora. Non volevo disturbare l'intimità del dialogo in cui era sempre assorta, tutto quello che era avvenuto tra loro due continuava ad avvenire come se fosse oggi. Quando si trattava delle opere del marito, lei gli chiedeva consiglio e lui le dava la risposta che lei si immaginava. Qualcuno crede forse che altri conoscessero meglio i desideri di Berg? Ci vuole moltissimo amore per dare vita a un morto in modo che non scompaia mai più, in modo da udirne la voce, da parlare con lui e conoscere i desideri che egli avrà sempre, poiché gli si è data la vita.
Elias Canetti, Il gioco degli occhi, Milano, Adelphi, 1985,pp. 270-275