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ALBAN BERG

IL PROBLEMA DELL'OPERA

 


Pro mundo

Dinanzi a una domanda simile, postami recentemente in occasione della prima rappresentazione di un'opera moderna, ho scritto in un programma di sala quanto segue più avanti. Con questo, credo di aver preso posizione anche riguardo al «problema dell'opera» in generale.
«Cosa pensa dello sviluppo attuale dell'opera?». La stessa cosa che penso riguardo a qualunque sviluppo in campo artistico, e cioè che un giorno sarà scritto un capolavoro così ricco di indicazioni per il futuro che, in base alla sua esistenza, potremo parlare di uno «sviluppo dell'opera». L'impiego di mezzi attuali (come cinema, rivista, altoparlanti, musica jazz) assicura soltanto che una tale opera sia attuale, ma questo non si può chiamarlo un vero progresso; a questo punto siamo già arrivati e non possiamo procedere soltanto in virtù di questi mezzi.
Per poter dire davvero che la forma artistica dell'opera si è evoluta (come è avvenuto, per esempio, con Monteverdi, Lully, Gluck, Wagner e ultimamente con le opere teatrali di Schönberg) necessitano ben altri mezzi che non il semplice ricorso agli ultimi ritrovati e a tutto ciò che si è appena diffuso.
Tuttavia, bisogna davvero «evolvere» sempre? Non basta fare bella musica per un buon teatro o, per meglio dire, scrivere musica così bella che, ciononostante, ne risulti del buon teatro? E così sono giunto anche alla mia posizione personale rispetto al «problema dell'opera», della quale sento il bisogno di parlare per correggere un errore emerso intorno a questa mia posizione sin dal primo apparire della mia opera ««Wozzeck»» e che, da allora, ha trovato una diffusione generale. Mi si perdoni dunque questo

Pro domo

Non mi sono mai sognato di voler riformare la forma artistica dell'opera, componendo «Wozzeck». Come non avevo questa intenzione quando cominciai a comporlo, cosi non ho mai ritenuto che quanto poi ne risultò dovesse essere un modello per ulteriori composizioni operistiche (mie o di altri musicisti) e non ho neppure presunto, né mi sono mai aspettato, che «Wozzeck» potesse «fare scuola» in questo senso.
A prescindere dal desiderio di comporre buona musica, di realizzare anche musicalmente il contenuto spirituale del dramma immortale di Büchner e di trasporre il suo linguaggio poetico nel linguaggio musicale, nel momento in cui decisi di scrivere un'opera non avevo altra intenzione (anche dal punto di vista tecnico compositivo) che dare al teatro quello che appartiene al teatro, il che significa configurare la musica in modo tale che sia cosciente, in ogni istante, del suo dovere di servire il dramma; anzi ancor più, cioè cosi che essa attinga soltanto da se stessa tutto ciò di cui il dramma ha bisogno per tradursi nella realtà del palcoscenico, imponendo in tal modo al compositore tutti i compiti essenziali di un regista ideale. E tutto questo senza pregiudicare la ragion d'essere assoluta (puramente musicale) di tale musica, senza pregiudicare la sua vita autonoma, senza ostacolarla con elementi extramusicali.
Venne da sé che tutto questo fu realizzato ricorrendo a forme musicali più o meno antiche (un aspetto ritenuto principale tra le mie presunte riforme dell'opera).
Già la necessità di compiere una scelta, per il libretto della mia opera, tra le 26 scene staccate 2 e in parte frammentarie di Büchner, evitando ripetizioni che musicalmente non fossero adatte a variazioni, e la necessità di condensare e riordinare queste scene, raggruppandole in atti, mi pose (volente o nolente) dinanzi a un compito più musicale che letterario, dunque un compito che si poteva assolvere soltanto con le leggi dell'architettura musicale e non con quelle della drammaturgia.
Ora, le quindici scene rimaste in base a tale selezione e condensazione esigevano una configurazione molto varia, la sola che può garantire l'univocità e l'incisività musicali, e questo vietava la prassi consueta del «musicare da cima a fondo» [durchkomponieren], seguendo semplicemente il contenuto letterario. Una musica assoluta, per quanto ricca nella sua struttura, per quanto appropriata nell'illustrare la vicenda drammatica, non avrebbe potuto impedire che, dopo qualche scena musicata in questa maniera, si avvertisse un senso di monotonia musicale, un senso di sgradevolezza; la serie di una dozzina di interludi - formalmente destinati soltanto a realizzare le conseguenze di una tale scrittura musicalmente illustrativa - non avrebbe fatto altro che acuirlo, portandolo fino alla noia. E la noia è l'ultima cosa da ammettere in teatro!
Ubbidendo all'imperativo di dare, anche musicalmente, a ognuna di queste scene e a ognuno dei relativi brani per il cambiamento di scena (fossero essi in forma di preludio, postludio, transizione 0 interludio) tanto una fisionomia propria e inconfondibile, quanto una disposizione compiuta e coerente, venne spontaneo ricorrere a tutto ciò che garantisce una simile caratterizzazione da un lato e l'organicità dall'altro: il tanto discusso ricorso a forme musicali antiche e nuove, e precisamente anche a forme di solito usate soltanto nella musica assoluta.
Per molti versi la loro introduzione in campo operistico su così ampia scala può essere stata insolita, anzi nuova; ma non fu un merito, conformemente a quanto ho esposto qui! Dunque, posso e debbo respingere decisamente l'affermazione che con simili innovazioni avrei riformato la forma artistica dell'opera.
Tuttavia, con questa spiegazione non voglio sminuire la mia opera (cosa di cui possono occuparsi molto meglio altri che non la conoscono altrettanto bene) e desidero svelare quello che considero il mio unico merito.
Per quanto si sappia sulle forme musicali presenti in quest'opera, sulla logica e il rigore dell'elaborazione complessiva, sull'abilità tecnica nascosta in ogni particolare... dal momento in cui si apre il sipario fino a quando si chiude per l'ultima volta, nessuno nel pubblico dovrebbe badare ad alcuna di queste varie fughe e invenzioni, suites e movimenti di sonata, variazioni e passacaglie; nessuno dovrebbe essere preso da altro che dall'idea di quest'opera, che trascende il destino individuale di «Wozzeck». E questo, credo, mi è riuscito!