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ALBAN BERG

LA VOCE NELL'OPERA

 

È ovvio che, quando una forma artistica si serve della voce umana, non si lasci sfuggire alcuna delle sue numerose possibilità. Perciò, anche nell'opera la parola parlata (sia senza accompagnamento musicale sia in forma di melologo) è altrettanto legittima quanto quella cantata, dal recitativo al «parlando», dalla cantilena alla coloratura. Con questo si ammette anche la possibilità di sfoggiare il «bel canto» e se ne giustifica l'esigenza pure nella musica operistica di oggi. Infatti non si capisce perché melodie moderne che constano di frasi cantabili come questa (ne scelgo una a caso tra le centinaia che si possono trovare in «Erwartung» di Schönberg):



se devono avere il giusto risalto, non possano essere «ben cantate», anzi non debbano esserlo, proprio come la famosa aria «La donna è mobile»:



In questo caso e quasi sempre nelle forme ariose della musica italiana, ci si accontenta di un moto unico e neppure veramente mobile - diversamente dalle donne - anche se ripetuto molte volte: questa è certamente una garanzia che tutti possano ripetere subito quell'idea melodica. Tuttavia, ciò non autorizza a supporre che soltanto il cosiddetto canto «declamatorio» sia adatto a quello stile, diffuso soprattutto nella musica tedesca e caratterizzato (sia esso tonale o «atonale») da ricchezza melodica, armonica e ritmica e dall'ampio impiego della variazione.
Al contrario, ogni compositore che abbia una tale concezione della melodia, vuole che anche il cantante la senta e la riproduca così (e comunque è questo il compito dei cantanti!). Posso dire per esperienza personale quanto mi abbia meravigliato leggere recentemente, in una critica a «Wozzeck», che si rimproverava a una interprete di «avere troppa ambizione di sfoggiare la voce, di imporsi come 'cantante'». Può darsi che nella mia opera non appaiano utilizzate equamente tutte le possibilità della voce (constato che, effettivamente, vi è soltanto una dozzina di battute in recitativo), ma non si rinuncia affatto alla possibilità di sfoggiare il bel canto.
Invece, credo di avere largamente compensato quell'altra mancanza avendo usato la cosiddetta «declamazione ritmica», introdotta da Schönberg, quasi vent'anni fa, nei cori parlati della «Gückliche Hand» e nel «Pierrot Lunaire», alla quale ho attribuito così ampio rilievo: in campo operistico sono stato il primo e, a lungo, sono rimasto l'unico. Questo modo di trattare la voce (nota bene: salvaguardando tutte le possibilità formali della musica assoluta che, ad esempio, nel «recitativo» vengono a mancare) si è dimostrato uno dei mezzi migliori per la comprensibilità (anche nell'opera il linguaggio deve mantenere questa funzione). Inoltre, dalla parola sussurrata senza un'altezza fino al vero «bel parlare» delle melodie parlate di ampio respiro, tale modo di trattare la voce ha arricchito la musica operistica di una risorsa artistica di grande valore, attinta alle più pure sorgenti della musica.
In unione con la parola cantata, della quale costituisce una felice integrazione e un affascinante contrasto anche dal punto di vista sonoro, questo modo di parlare fissato melodicamente, ritmicamente e dinamicamente può naturalmente essere applicato a tutte le forme della musica drammatica: intendo dire tanto agli «a solo», quanto ai duetti, ai terzetti, ai piccoli e grandi insiemi vocali, al coro maschile, femminile e misto, al canto a cappella e al canto accompagnato. Tutte queste possibilità mostrano che l'opera è predestinata soprattutto a servire la voce umana, come nessun'altra forma musicale, e ad aiutarla a far valere i suoi diritti che erano quasi andati perduti nella produzione drammatico musicale degli ultimi decenni. Infatti, per citare una frase di Schönberg, la musica operistica spesso si riduceva soltanto a «una sinfonia per grande orchestra con accompagnamento di una voce cantante».