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UNA DAMA DIABOLICA TRIONFA

ALL'OPERNHAUS DI ZURIGO

 

A Firenze, in soli 44 giorni dell'inverno 1890, Tchaikovsky compose «La Dama di Picche», opera tratta dall'omonima novella di Puskin.
Protagonista della tragica vicenda è l'anti-eroe German che vuole a ogni costo carpire il segreto per vincere alle carte a una vecchia Contessa, soprannominata «la dama di picche», poiché è stata per molti anni un'accanita giocatrice. Egli vuole disporre del denaro necessario per sposare Lisa, la nipote della Contessa. Una notte decide di passare all'azione: entra nella camera da letto della vecchia, che però, terrorizzata dalle minacce del giovane, cade quasi subito morta. Qualche tempo dopo appare al giovane il suo spirito che gli rivela il segreto: «3, 7, asso» (non a caso i numeri dell'opera: un preludio, 3 atti e 7 quadri). Ossessionato dall'idea del gioco, German è fuori di sé e Lisa, in preda alla disperazione poiché si sente abbandonata, si uccide gettandosi nella Neva. L'ultima scena si svolge in una casa da gioco. Nella partita finale German punta sulle carte fatali: le prime due vincono, ma la terza non è l'agognato asso, bensì... la dama di picche; nel contempo, gli appare anche lo spettro della Contessa. Il giovane, ormai completamente impazzito, si uccide. In agonia chiede perdono a Lisa, mentre i giocatori intonano un coro funebre.
Le lettere e i diarii di quel periodo documentano il coinvolgimento esistenziale estremo di Tchaikovsky: «Sto vivendo una fase molto misteriosa nel mio cammino verso la tomba. Qualcosa succede nel mio profondo, qualcosa che è incomprensibile anche a me stesso: una certa stanchezza di vivere, un certo disincanto; a volte una malinconia pazza che non nasconde un nuovo impeto d'amore per la vita, bensì qualcosa che è privo di speranza, che è finale e persino, come è caratteristica dei finali, banale. Ma allo stesso tempo ciò si unisce a un desiderio appassionato di comporre. Dio solo sa cos'è: da una parte è come se sentissi che la mia canzone è finita, dall'altra c'è un desiderio travolgente di intonare o la stessa canzone o una nuova ancora migliore. Però, ripeto, io stesso non so che cosa mi succeda.»
Il compositore era quasi sopraffatto dalle implicazioni autobiografiche del testo, dall'emozione, persino dal terrore per ciò che stava creando, una musica di una potenza espressiva a tratti inaudita: «C'è qualcosa in quest'opera che spaventa e a volte io stesso ne ho paura. Una volta ho temuto che apparisse il fantasma della Dama. [...] Quando sono arrivato alla morte di German e al coro finale ho provato un tale dolore per lui che mi sono messo a piangere disperatamente. Un pianto che è durato a lungo e si è trasformato in una sorta di dolce attacco isterico: era così piacevole piangere. Soltanto uno specialista può comprendere quale impresa inverosimile io abbia compiuto. Mi toglie il respiro...»
Tre anni dopo, il compositore morì in circostanze misteriose: suicidio impostogli per le sue tendenze omosessuali? Suicidio per libera e disperata scelta? Colera?
«Avverto una sorta di stanchezza di vivere...»
«Il mio più appassionato desiderio è che la mia musica sia ampiamente conosciuta e che aumenti il numero di coloro che la amano e trovano conforto e sostegno in essa.»
Il maestro Vladimir Fedoseyev vivifica la complessa e composita partitura (eminentemente sinfonica ma non mancano i momenti cameristici e le nostalgie settecentesche) con l'autorevolezza e la sapienza dello specialista, assecondato da un'orchestra attenta e precisa in ogni suo settore, in particolare in quello degli archi, semplicemente meravigliosi. Restituiti in tutto il loro splendore i colori tchaikovskiani; sempre nitidi i contrasti grazie a uno scrupoloso rispetto delle indicazioni dinamiche ed espressive; ben evidenziati i piani sonori: un'interpretazione che coniuga superbamente lirismo e tragedia; esteriorità mondana e ripiegamenti interiori; eleganza settecentesca e pathos romantico. Costante la tensione narrativa connessa all'isteria del protagonista, all'inquietante ieraticità e inflessibilità della Contessa, alla disperazione di Lisa.
La splendida direzione di Fedoseyev è valorizzata dalla sapiente regia di Jens-Daniel Herzog, concentrata in particolar modo sulla morbosa cupezza esistenziale di German e sulla freddezza, sulle esasperate nostalgie, sulla postuma, diabolica vendetta della Contessa. Memorabile la scena in cui il cadavere della vecchia, ricoperta dal lugubre mantello nero del giovane, giace ai piedi di una gigantesca torre, elemento scenografico fisso, sinistramente illuminata da luci al neon nei momenti cruciali della vicenda. Una torre che incombe talmente che sembra schiacciare il corpo esanime e che, nella sua singolarità, evoca anche il doppio e nel contempo l'antitesi della Contessa-«dama di picche»: l'asso, la carta che non uscirà e che scatenerà il gesto estremo di German.
Formidabili i tre protagonisti: Viktor Lutsiuk (German); Joanna Kozlowska (Lisa) e Stefania Kaluza (la Contessa). Eccellente il resto del cast e di buon livello la prestazione del coro. Pubblico entusiasta. Qualche dissenso rivolto al team di regia, soprattutto per la scenografia, l'unico punto debole dello spettacolo. Si replica fino al 4 luglio.