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Elvio Giudici

L'opera in CD e in Video

Milano, il Saggiatore, 1999, L.120.000

 

Elvio Giudici è uno dei più noti critici musicali italiani. Per Ricordi, nel 1994, ha pubblicato una monografia su Verdi e una su Puccini.
La nuova edizione dell’Opera in cd e video si distingue, come la precedente, per la praticità e la facilità di consultazione. I compositori si succedono in ordine alfabetico e, nell’ambito di ogni autore, le opere sono disposte in ordine cronologico. Di ogni opera sono enunciati il titolo in italiano, seguito da eventuale titolo originale in lingua straniera, il librettista, il luogo e la data della prima esecuzione, i personaggi. Di ogni incisione, elencata seguendo l’ordine cronologico per anno d’esecuzione, vengono riportati data di registrazione, cantanti, coro, orchestra, direttore, regista per i video, casa discografica, numero dei cd e giudizio sintetico espresso in stelle. Ogni giudizio è poi motivato da un’attenta recensione critica, nella quale Giudici esamina sial’esecuzione in sé sia gli aspetti tecnici della registrazione. Completa il volume un accurato indice dei nomi e delle opere.
 

LA DAMA DI PICCHE

 

Capolavoro grande, grandissimo la «Dama di picche». E tuttavia relativamente poco frequentato causa le difficoltà esecutive: tali e tante da aver pochi paragoni possibili nel repertorio teatrale ottocentesco Si capisce pertettamente co me Herman sia denominato l'«Otello russo» ove si consideri quanto richieda in termini d'estensione (sono proprio tanti i si naturali, e quasi nessuno comodo), forza declamatoria nel registro centrale, ma pure di lirismo, dolcezza estrema, espressività: e quindi capacità di sfumare anche ad alta quota. Quanto a Lisa, canta su strumentali spesso molto densi e alle prese con una scrittura frastagliatissima: ma al pari di Herman, se ci si ferma solo al problema delle note e della tessitura si tenderà ad affidarla a voci di robusta caratura drammatica, relegando in secondo piano i requisiti di espressività, dolcezza e giovanile femminilità che solo un soprano lirico è in grado d'assicurare e che il personaggio imperativamente esige.
In più, a tutti gli interpreti anche i minori sono richieste doti più che notevoli di musicalità, così come eccezionale musicista deve essere il direttore: la scrittura sia orchestrale che vocale, difatti, in ogni pagina - persino in quelle di semplice raccordo - cela un autentico campo minato di tali e tanti diabolici trabocchetti che andar fuori squadra, per non dire stonare proprio, è cosa facilissima. Partitura eminentemente sinfonica, insomma: di quelle che un compositore scrive quasi per se stesso, poco o punto curandosi dei problemi che avranno gli esecutori.
Opere siffatte, naturalmente, tendono ad andare fuori repertorio nei paesi di estranea tradizione musicale - in questo caso l'Occidente - e, ove le si affronti, le quasi sempre scadenti esecuzioni ne deformano gravemente il profilo sia musicale che, soprattutto, drammatico. Problemi spinosi quindi, puntualmente riflessi dalla discografia: risicatissima fino agli inizi degli anni Novanta, e solo di recente arricchitasi di nuove edizioni.
 

LE 5 STELLE DI ELVIO GIUDICI

 

1991 RCA Vladimir Atlantov, Mirella Freni; Dmitri Hvorostovski, Maureen Forrester, Katherine Ciesinski; Serghei Leiferkus; direttore Seiji Ozawa (dal vivo, Tanglemood).
A rlprova che, per quanto attiene al repertorio musicale, non sempre la totale idiomaticità assicura i risultati migliori, l'edizione finora di gran lunga più riuscita - anche a voler riandare alle edizioni in LP - è quella con la minor componente slava.
Dopo il rodaggio delle recite scaligere, nel vivo del Festival di Tanglowood e dunque col vantaggio di poter disporre dei "suoi" impareggiabili Bostonians, Ozawa realizza un'interpretazione maiuscola. Coniuga intenso lirismo a rovente, romanticissima tragicità, ma senza che la condotta orchestrale perda mai la morbidezza, la stupefacente ricchezza sia timbrica che dinamica, l'assoluta precisione per le quali la Boston SympLony è cosl giustamente famosa. L'eccezionale limpidezza con cui principia la scena nei giardini (col bizetiano coro dei ragazzi reso in modo ammirevole: molto meglio, anzi, di quanto a Ozawa sia riuscito nella stessa Carmen!) trapassa in quella più cupa e accidentata della tempesta e dell'assolo di Herman senza nulla perdere in termini di trasparenza e sofficità del tessuto orchestrale: l'intensa drammaticità della scena deriva, anzi, proprio dall'estrema nitidezza con cui il nervoso rabbrividire degli archi e gli inquieti trasalimenti dei legni incidono il loro sempre più accentuato vortice di contrasti dinamici. L'introduzione aHa scena nella camera della Contessa ha, nei colori sontuosi e nella timbrica straordinariamente ricca dell'orchestra, un qualcosa di morboso, di perverso disfacimento che si sovrappone con effetto formidabile alla cupa atmosfera notturna.
Splendida la scena che apre il terz'atto, la cui stravolta sovreccitazione ingigantisce proprio grazie alla tersa brillantezza del colorito strumentale, moltiplicato però in una ricchezza di piani sonori addirittura virtuosistica. E sensazionale la scena sulla Neva, introdotta da un'orchestra che sembra dilatarsi a ogni giro di vite della sempre crescente intensità, e sviluppare pathos sempre maggiore grazie al sapientissimo dosaggio della dinamica e alla compattezza d'un suono di veemente incisività: senza che mai, neppure per un attimo, gli strumenti smettano di "cantare" con pienezza e abbandono non meno che trascinanti.
Quanto poi alla mozartiana parentesi dell'Intermezzo pastorale, lodarne la suprema eleganza, lo squisito senso delle proporzioni e la raffinatezza timbrica sarebbe portare vasi a Samo.
Atlantov, a sedici anni dalla precedente incisione poco o nulla sembra aver perso - e siamo dai vivo - in termini di robustezza e facilità nel sostenere i bruschi scarti con cui s'esprime la nevrotica instabilità emotiva di Herman. Molto ha guadagnato in compenso sul versante interpretativo, assai più sfumato e ricco, in grado soprattutto, stavolta, di delineare un'evoluzione drammatica di notevole efficacia. Bravissimo nella concitata chiusa del prim'atto, intenso e vario nella scena con la Contessa, un poco carente di fantasia nel convulso fraseggio di quella della caserma, appena a disagio nelle durissime strofe della canzone nell'ultima scena, che tuttavia conclude, nell'estrema invocazione a Lisa, con accentibellissimi d'accorata semplicità, sostenuti da una mezzavoce ricca di vibrazioni e d'intensità, tanto più notevoli al termine d'una parte tanto lunga e gravosa.
È dubbio si possa trovare in tempi brevi una Lisa anche solo paragonabile a questa della Freni. La parte è solo in apparenza meno impervia di Herman: simile in questo a Butterfly, anche Lisa non ha una sola frase che, nella melanconia come nell'angoscia, nella trepidazione o nello slancio più passionale, espressivamente non sia tesa fino allo spasimo, e non aggiunga il peso di un'intensità psicologica fortissima alla scabrosità d'una scrittura concepita, si direbbe, per ostacolare più che per favorire l'esecuzione. Persino una scena narrativamente di raccordo come quella in cui consegna a Herman la chiave della propria stanza, all'ascolto sembra semplice ma, osservata più da vicino - con la linea vocale che non va insieme a quella strumentale ma l'una e l'altra avanzano però con ritmo veloce e irregolare - si rivela d'una difficoltà musicale estrema.
Tutti problemi che trovano qui mirabile soluzione. Una linea più che mai ferma, compatta, in cui bellezza di colore ed esattezza musicale vanno di pari passo; e in cui il fraseggio apre uno straordinario ventaglio espressivo, dalla tenerissima, struggente melanconia della prima aria notturna all'intenso afflato tragico di quella sulla Neva. Attraverso un canto cosl appassionato e comunicativo, la profonda umanità di cui è fatta l'anima di Lisa s'afferma quale veramente deve essere: la stessa, solo con accenti diversi, con cui s'esprime Tatiana, l'una e l'altra capolavori assoluti della miracolosa carriera artistica della Freni.
La Contessa è uno di quei personaggi che la tradizione impone d'affidare a personalità del teatro, cariche di gloriosa storia passata: e di rado ciò è stato altrettanto vero come in questo caso. Maureen Forrester, canadese di Montréal, classe 1930 s'è impressa indelebilmente nella memoria iell'appassionato di musica fin dalla seconda metà degli anni Cinquanta, allorché la sua voce fonda, ampia, ricca di vibrazioni inconfondibili e personalissime, s'inseriva con autorità nelle interpretazioni mahleriane di Bruno Walter o di Jaro Prohaska. Una carriera in seguito prevalentemente concertistica, marcata però da incursioni sul palcoscenico, ognuna delle quali tramutate in avvenimento (Orfeo, Cordelia del Giulio Cesare, Quickly, Fricka Ulrica, Madame de la Haltière nella Cendrillon di Massenet, la Strega di Humperdinck): cosa possibile solo a chi accomuna nella propria voce grande musicalità e acuto senso della parola. Due qualità che rendono appunto indimenticabile - anche se il solo ascolto ci priva della sua impressionante presenza scenica - questa Contessa.
È rabbrividente il suo arrotare le erre della canzone francese del second'atto - di madrelingua, sa sfruttare come nessun'altra la capacità d'articolare la frase - immettendovi non solo inquietanti risvolti da nenia funebre, ma sollevandola a una dimensione di aulica grandezza, veramente evocativa della corte francese dove si recitava Corneille e Racine; e la gelida, rabbrividente melopea nell'apparizione del terz'atto si imprime nella memoria altrettanto indelebilmente di quanto accadde più di trent'anni fa col suo sublime Urlickt accompagnato dall'orchestra di Walter.
Hvorostovski ha gioco più facile, dato che la grande aria di Yeletsky, che riassume per intero il personaggio, s'esaurisce nel canto: e siccome è molto ben cantata, il risultato è ottimo.
Straordinario, invece, il Tomsky di Leiferkus: magnifica la calda, intensa e omogenea brunitura del timbro, vivificato da un fraseggio eccezionalmente ricco di chiaroscuri. Molto brava anche la Pauline della Ciesinski, e ottime tutte le parti di fianco, al pari dell'impegnatissimo coro.