«Eravamo tutti illuminati
dalla sua olimpica vecchiezza»

[pubblicato su
Giornale del Popolo
del 27 gennaio 2001]

Alle 2.50 del 27 gennaio 1901, Giuseppe Verdi si spegneva in una camera dell'Hôtel Milan a Milano. Aveva 88 anni. Alle 4 e 30 del 30 gennaio, la salma venne trasportata alla Chiesa di San Francesco di Paola, poi in una tomba provvisoria, accanto a Giuseppina, al Cimitero Monumentale. «Il primo trasporto funebre si svolse in una brumosa mattina» - ricorda un testimone oculare - «con il carro funebre di terza classe tirato con un modestissimo cavalluccio. Il corteo riusciva a stento a procedere per la fittissima folla che faceva ala, per Via Manzoni dove io all'altezza della casa recante il n. 44 mi trovavo a vederlo passare. Non un canto, non un benché minimo rumore: regnava un silenzio impressionante. Tutti si scoprivano al passaggio dell'umilissimo corteo e i commenti sul contrasto tra la gloria della esistenza e la bassezza di quella traslazione si facevano più con gli occhi che con le parole.»
Furono quindi rispettate le ultime volontà del Maestro: «Ordino che i miei funerali sieno modestissimi... senza canti e suoni... Esprimo il vivo desiderio di essere sepolto in Milano con mia moglie nella Casa di Riposo dei Musicisti da me fondata...»: l'opera sua più bella, come amava definirla. Un mese dopo, quando avvenne la traslazione, ci fu una cerimonia di Stato, con rappresentanti ufficiali e una folla enorme.
Arrigo Boito, che fu collaboratore acutissimo e generoso del Maestro nella sua ultima, stupefacente fase creativa, qualche mese dopo scrisse al futuro biografo verdiano Camille Bellaigue: «È la prima volta che oso parlare di Lui in una lettera.
Verdi è morto; ha recato con sé un'immensa quantità di luce e di calore vitale, eravamo tutti irradiati da questa sua olimpica vecchiaia. È morto magnificamente, come un lottatore formidabile e muto. [...] Mio caro amico, nella mia vita ho perduto persone idolatrate, il dolore ha sopravvissuto alla rassegnazione, ma non ho mai sorpreso in me stesso un sentimento d'odio contro la morte e di sprezzo per questa misteriosa potenza, cieca, stupida, trionfante e laida. Doveva essere la morte di questo nonagenario a risvegliarmi questi sentimenti. Anch'egli l'odiava, essendo egli la piú potente espressione di vita che si possa immaginare; l'odiava come odiava la pigrizia, l'enigma e il dubbio. Ora è tutto finito. Dorme come un Re di Spagna nel suo Escurial sotto una lastra di bronzo che lo ricopre completamente.»
«Anch'egli l'odiava...»: come non pensare alla Messa da Requiem, «in cui protagonista è l'uomo vivo, non il defunto, e il luogo dell'azione è questa terra, non l'aldilà. Tutto il tumulto delle passioni e dei negozi umani vi ribolle ancora, esagitato e sconvolto dalla certezza della fine. [...] La morte è sentita come totale negatività: è la fine di quel valore positivo che è la vita, e lo strazio del distacco vi brucia disperatamente.» (M. Mila)
«Il 'Verdi' di Bellaigue fu pubblicato nel 1913, l'anno del centenario della nascita, in francese ed in italiano; include alcuni estratti da queste lettere ed e dedicato a Boìto: 'En souvenir du maître que nous avons aimé.' Non scrissero nulla assieme, poiché il 'cruel travail' di Boito non doveva mai finire. Dopo la morte di Verdi, figura infinitamente commovente e umana, egli avanzò nel secolo nuovo sotto il peso d'Atlante di quell'opera non finita e non finibile. J'ai forge de mes propres mains l'instrument de ma torture', diceva. Il resto della sua vita trascorse in lotte senza successo per completare il 'Nerone', nonostante la malinconia, la neurastenia, e la grafofobia che per lunghi periodi gli rendevano impossibile leggere e scrivere anche soltanto una lettera. Il ricordo del suo lavoro con Verdi, della sua intimità con quel titano creativo, che era l'incarnazione di tutto ciò che egli non era, diventò quasi l'unica sua consolazione. 'Je sens le besoin de vous dire Merci d'avoir voulu trouver une place pour mon nom, a cote du sien', scriveva a Bellaigue. 'Rien ne me touche aussi profondément que de m'entendre nommer quand on parle de lui'.
Vi sono molti echi del genere nelle sue ultime lettere. «La servitù volontaria ch'io consacrai a quell'uomo giusto, nobilissimo e veramente grande è l'atto, della mia vita di cui più mi compiaccio.' E ancora: 'Caro, caro, amico! Quell'uomo era un artista prodigioso! Un genio! Un genio, della musica e del teatro! Fra un mese e mezzo, saranno passati dieci anni che l'ho visto morire!....' 'Esser servo fedele di Lui e di quell'Altro che è nato sull'Avon, non bramo di più.' Durante la sua ultima malattia, nel 1918, pianse nel sentire il nome di Toscanini, già scelto per dirigere la prima rappresentazione della sua opera. 'Nessuno puó aiutarmi', disse. Ma aveva già compiuto. il suo destino facendo risuonare due volte il 'colosso di bronzo', com'egli chiamava Verdi. E vive ancora oggi, come compositore, ma ancor più come persona in sé, come influente uomo di lettere, e come incomparabile librettista di Verdi. [FRANK WALKER]