HOME
 

I GRANDI DIRETTORI

E

«DIE FLEDERMAUS»

 

 

Elvio GIUDICI

L'opera in CD e video. Guida all'ascolto.

[Milano, Il Saggiatore, 1995, pp. 789-796, passim.]

 

 

INTRODUZIONE

 

Dirigere il Fledermaus oggi - in una «fin de siècle» che con la precedente ha poco o nulla in comune - non è facile. Da un lato sta il mito della Mitteleuropa col proprio corteo di rimpianti alimentato dalle periodiche riletture di Canetti, di Schnitzler, di Roth, del «Mondo di ieri» insomma: quel coacervo appunto mitico in cui Zweig scorgeva il simbolo della «SeKuritat» mentre altri, come Benjamin, lo identificavano invece nella sentina di tutto quanto v'era di decomposto e corrotto, «casa che aspetta tremante l'assassino, come una vecchia libidinosa attende l'amante». Dall'altro lato sta il mito mai estinto della Belle époque, diversa ma complementare nelle due capitali culturali del secondo Ottocento: all'appassionato di musica, Vienna appare molto differente da Parigi per quel suo strano miscuglio di sensualità decadente da chambre séparée e di allegria cinica ma raffinatissima, il tutto immerso in un'atmosfera valzerosa, spensierata ma in cui si percepiscono le polveri da sparo che l'impossibile coacervo etnico bloccato in equilibrio instabile dall'Impero accumulava sotto tale scintillante superficie, sempre pronte a esplodere.
I direttori che in qualche modo hanno conosciuto da vicino un'atmosfera tanto particolare e sono stati i primi eredi diretti del suo disfacimento, hanno testimoniato il loro legame col mondo di ien tramite uno dei suoi più perfetti simboli culturali: appunto il valzer di Strauss, di cui il «Fledermaus» è una sorta di summa. Così che, oggi, affrontare questa summa è anche più difficile di ieri. O ci si blocca in un ripetitivo e stanco cliché che perpetua la nostalgia sempre uguale a se stessa, celebrata nella Vienna della Volksoper; oppure la si tratta come musica pura, evitandone le sovrastrutture mitiche esattamente come si fa con una «Quinta» di Beethoven per la quale il Destino-che-bussa-alla-porta è ormai passato (e senza troppi rimpianti): e magari si giunge agli estremi di Harnoncourt proponendone addirittura una versione critica. Infine, si può affrontare tale summa nel migliore dei modi musicali, ovvero con grandi cantanti e un'orchestra come la Filarmonica di Vienna, depositaria naturale di tutte le tradizioni musicali - alte e basse, buone e cattive - che si sono colà stratificate: gli uni e l'altra lasciati liberi d'esprimersi, ma organizzando il tutto con fantasia e genuina voglia di divertirsi.
 

FERENC FRICAY

DG 1949

 

La direzione di Fricsay colpisce per l'accentuata nitidozza dei contorni ritmici e per la marcata propensione a un'agogica strettissima, che tende a scolorire la tavolozza cromatica in un bianco e nero dai contrasti quasi espressionistici: una Vienna vista attraverso l'ottica dei famosi cabaret fioriti nella Berlino tra le due guerre e dove la sorniona, sorridente ironia viennese assume una piega più amara e febbrile il valzer come biacca che imbelletti un viso dai tratti tirati e stravolti. Un po' forzata, come concezione - per un ungherese, poi! -, ma senza dubbio interessante e, soprattutto, provvista d'un'energia teatrale spiccatissima: cui concorrono in misura decisiva i dialoghi, che benché abbreviati sprigionano una corrosiva vitalità.
 

CLEMENS KRAUSS

DECCA 1950

 

Viennese fin nell'ultima fibra (e, particolare non trascurabile, ex Sängerknabe), a contatto con una musica come quella del Pipistrello - e alla guida della Filarmonica di Vienna - Krauss offre né più né meno che un paradigma di come questa musica debba venir intesa, prima ancora che suonata. Vero è che, purtroppo, c'è la grave amputazione costituita dalla mancanza del dialogo. Ma in termini di elasticità ritmica, di delicatezza nei chiaroscuri, di sovrano equilibrio tra sensualità, ironia e struggimento - tutti governati da una musicalità rigorosissima nella propria apparente spontaneità improvvisatoria - la direzione di Krauss ha uno charme impagabile. Una sorta di «tocco magico» alla Lubitsch, con le cui immagini di stilizzatissimo e, per così dire, coloratissimo bianco e nero si potrebbe istituire un paragone perfetto - forse, anzi, l'unico possibile - in termini di leggerezza e di eleganza con cui trattare la comolessa serietà della vita e dei sentimenti: la raffinata arte dell'«innuendo» di Lubitsch come sublime equivalente dell'inimitabile «rubato» di Krauss.
[...] Completa il secondo CD una scelta di valzer straussiani in stile «Concerto di Capodanno» e l'unico paragone possibile, in termini di brio lieve e frizzante unito a veri e propri prodigi di mutevolezza ritmica, è quello con Carlos Kfeiber: la sola differenza essendo che per forza di cose questi «rivisita», mentre Krauss «vive» un mondo ancora suo di cui rappresenta probabilmente l'ultima e suprema memoria storica.
 

HERBERT VON KARAJAN

EMI 1955

 

È del massimo interesse ascoltare quest'edizione in parallelo con quella di Krauss: di rado la differenza tra vita e finzione è esplicitata con maggiore chiarezza. Tutto è finzione, beninteso, nello spettacolo. Solo che Krauss riassume un'intera tradizione in cui la finzione della vita era giunta a una tale perfezione stilizzante, da realizzare la strana magia per cui la finzione «diventa» più reale della vita stessa: al modo in cui la Parigi falsissima di Puccini esercita un tale potere evocativo che tutti, a passeggio sul Lungosenna, ne ricercano il tratto «bohémien» al pari della Vienna di Krauss, che probabilmente non esiste ma è tutto quello spirito sorridente, cinico e melanconico, che l'immaginario collettivo ama associare all'immagine della città. Tutto questo, Karajan e il produttore esecutivo Walter Legge lo ricreano in studio come rivisitazione culturale, con una cura maniacale del dettaglio e uno studio minuzioso dell'inflessione anche infinitesimale, estesi dalla musica al dialogo, ripristinato e anzi passato sotto un microscopio dal potere di dettaglio persino maggiore: il risultato è che l'operetta viene elevata al rango di opera, è eseguita in modo musicalmente perfetto, ma resta un prodotto di laboratorio.

Splendido prodotto, che narrativamente «funziona» alla perfezione: ma espressivamente è come paragonare il «magic touch» di Lubitsch alla consumata furbizia di Nell Simon, a livello epidermico magari non meno irresistibile, ma nondimeno ben diversa. La direzione di Karajan è dunque splendida, e splendidamente è suonata da quel prodigioso organismo che era la Philharmonia: forse mai i mille colori della tavolozza di Strauss hanno scintillato con pari luminosità, tirati a lucido come un restauro riuscito alla perfezione, ogni particolare messo in evidenza da un'illuminazione sapiente, ogni ritmo sciolto uno nell'altro in una continuità danzante e sofisticatissima dove l'impronta aristocratica è sottolineata con quell'insistenza giusto un filo eccessiva, propria di chi aristocratico non è per nascita ma vuole diventarlo per indinazione.

 

DECCA 1960

 

Dopo Mahler, a Vienna Karajan fu il primo a riportare il «Fledermaus» alla Staatsoper la notte di San Silvestro, facendone così l'unica operetta a non essere appannaggio esclusivo della Volksoper. Come tutte le novità - per principio viste non troppo di buon occhio a Vienna - l'iniziativa fece discutere a non finire, e si tradusse in una delle tipiche dicotomie viennesi: la critica fece pollice verso, sostenendo che Karajan aveva prussianizzato uno dei simboli musicali della città (colpa capitale, lassù), mentre il pubblico - che, si suppone, era composto da viennesi e non da prussiani - fu di ben diverso avviso, decretando uno dei trionfi più memorabili arrisi alla breve stagione in cui Karajan resse le sorti della Staatsoper.

Probabilmente sull'onda di quel successo, la Decca mise in cantiere una registrazione che per Karajan era dunque la seconda, esponendolo a un inevitabile confronto con se stesso, dal quale esce a mio avviso vincitore. Non solo perché si conferma grandissimo giocoliere di ritmi e colori calibrati fino all'inverosimile, ma anche perché stavolta sa immergerli in una rara continuità narrativa. La quale da un lato s'alimenta della vitalità che è sempre stata una delle qualità più immediatamente riconoscibile nelle sue direzioni, e dall'altro si traduce in una comunicativa non dirò spontanea - qualità, al contrario, in lui non riconoscibile - ma quanto meno più fluida più immediata. Merito, probabilmente, anche del cast, nonostante esso sia in massima parte differente da quello che tanto successo aveva riportato in teatro.

 

OTTO ACKERMANN

EMI 1959

 

Non ho idea se sia vero e, nel caso, sia stato voluto oppure no: ma questa sembra un'edizione nata col preciso intento di costituire l'esatta antitesi di Karajan, quasi a titolo d'indennizzo. Indennizzo per una viennesità perduta, in un certo senso: raramente, difatti, si sono dati convegno così tanti viennesi come in quest'edizione che il maestro rumeno - morto l'anno dopo appena cinquantunenne - dirige come una sorta di nostalgico commosso, struggente percorso della memoria. Rubati alla Krauss ma impercettibilmente accentuati, come una citazione virgolettata; una flessibflità di canto che l'orchestra riverbera sui solisti e che si fa abbandono di volta in volta carezzevole, sensuale, elegiaco, sentimentale come solo può riuscire a un grande musicista di cultura e tradizioni austro-ungariche alle prese con un'operetta: e per giunta con un'operetta-simbolo come questa. Non soltanto una direzione stupenda, quindi, ma una dolcissima elegia su un mondo trascorso.

 

WILLI BOSKOVSKY

EMI 1971

 

Molto musicale, molto garbata [...] la direzione di Boskovsky è un modello d'eleganza: però è «carina» come può esserlo una bella recita alla Volksoper col relativo ragguardevole bagaglio di tradizione, che tuttavia basta una sola battuta d'un Carlos Kleiber per rendere obsoleta.

 

CARLOS KLEIBER

DG 1975

 

A imporsi immediatamente all'attenzione è la precisione musicale. Nessun ondeggiamento ritmico, nessuna ricerca dell'effetto - ivi compresi quelli di snobistica finezza - entrambi sostituiti da rubati che ricordano il modo con cui Krauss carezzava le melodie con tocchi d'impareggiabile finezza alternati a scoppi d'orgiastica vitalità, che per un attimo sembrano porre sotto la cruda luce della verità le molte ambiguità - sentimentali e non - d'una vicenda in cui nessuno è quel che sembra ma tutti sembrano più veri nella finzione che non nella realtà. Su questa pulsante, iridescente irrequietezza ritmica, gli interpreti cantano e recitano con una naturalezza d'irresistibile comunicativa, anche se non tutto funziona, sul piano vocale, nel migliore dei modi.

 

DG 1986

 

Undici anni dopo, nel corso di una ripresa al Nationaltheater di Monaco, Kleiber accettò che lo spettacolo fosse trasmesso dalla televisione e riversato su laserdisc. [...] ancor più elettrizzante è la direzione, vitalissima in ritmi e colori infinitamente mutevoli e cangianti, in grado insomma di trasformare un'orchestra soltanto buona in una compagine che a tratti sembra lasciarsi dietro addirittura la Filarmonica di Vienna.

 

ANDRÉ PREVIN

PHILIPS 1990

 

una direzione spumeggiante senza per questo scomodare Freud e scoprire nell'allegria incubi e ammonizioni febbricitanti; ironica senza graffiare troppo; rilassata senza troppi illanguidimenti; eccellente accompagnamento a un canto dignitosissimo, ma privo dell'aura vocale ben percettibile in chi ha sentito cantare quelle musiche dalla balia. Il risultato è un sano divertimento musicale, senza sovrastrutture o problemi, ma anche senza particolare carisma: molto godibile in un ipotetico teatro, laddove in disco, con tutti i paragoni e le conseguenti altemative posslbili...
HOME