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1. Claudio MAGRIS - Francesco Giuseppe

2. Franz WERFEL - Francesco Giuseppe

3. Ritratto di Francesco Giuseppe

 

 

Claudio Magris

FRANCESCO GIUSEPPE

 

In ogni - città dell'impero asburgico, ricorda Hermann Broch, anche nel più remoto capoluogo di provincia, c'era un teatro, costruito secondo quel gusto lindo ed eclettico che fondeva in una severa e solida malinconia qualche timido ricordo pomposo del barocco, i tratti di una sobria maestà: neoclassica, il dimesso decoro Biedermeier e perfino, talvolta, dei sinuosi accenni liberty. In ognuno di questi teatri v'era un palco d'onore riservato all'imperatore, nell'eventualità di una sua improbabile ma pur sempre prevedibile visita: un palco che era il cuore del teatro e che era quasi sempre, anzi sempre vuoto, giacché neppure sessantott'anni di regno bastavano a garantire la frequente presenza o meglio l'ubiquità del sovrano.
Il simbolico centro intorno al quale ruotava la sacrale unità e la rilassata socievolezza dell'impero era dunque un palco deserto, un vuoto, uno spazio disponibile e cedevole, un'assenza. Francesco Giuseppe, i cui lineamenti senili s'identificano col volto garbato e venerando dell'universo danubiano, è l'unica figura di autocrate moderno che abbia scelto, come tecnica nell'esercizio della potenza, la ritrosia e la reticenza, l'appartato ritiro, la dissimulazione. In realtà non fu né autocrate né moderno: era il monarca costituzionale di un paese governato secondo le regole del sistema liberale e tutelato da una scrupolosa giustizia che non si peritava di dar torto, se così voleva la legge, allo stesso sovrano, come nel famoso processo nel quale un giudice emise una sentenza favorevole a un cittadino che aveva intentato causa contro l'imperatore e ricevette perciò da quest'ultimo un'alta onorificenza quale riconoscimento per la sua difesa del diritto; era un regnante che portava una corona sovranazionale legata al retaggio del sacro romano impero e che fu costretto a vivere, con burocratica fermezza, il trapasso dalla tradizione alla selvaggia e liberatrice rivolta moderna delle individualità storiche e sociali.
Il suo cauto riserbo non ha nulla in comune con la tattica di dominio dei capi politici del Novecento, che si traggono in disparte e sembrano scegliere il silenzio per disorientare l'avversario e per ricomparire d'improvviso con maggiore efficacia, cogliendo di sorpresa una folla resa ancor più disponibile alla seduzione ed alla frenesia. L'impersonalità di Francesco Giuseppe è invece simile a quella dell'effige dei sovrani impressa sulle monete, che non suggerisce l'immagine di una particolare persona privata eppure garantisce, col suo insostituibile profilo, il valore e la legittimità di quelle monete.
L'aureola di potenza che circonda il volto di Francesco Giuseppe, con i suoi occhi azzurro porcellana, le folte sopracciglia e la barba a scopettoni, deriva dalla sua capacità di trasformarsi in puro simbolo, inconfondibile ma riproducibile a piacere, dello stato e della sua ecumene plurinazionale. Francesco Giuseppe è il potente che riassume in sé il composito mosaico d'un impero il cui inno veniva cantato in tredici lingue, che stende il suo scettro su un atlante multicolore di popoli e genti, di opache pianure e di impervie montagne, di città moderne ed arcaici villaggi dai Balcani ai Carpazi, da Cemovitz a Salisburgo, da Trieste a Leopoli: la duplice monarchia porta fin nel Novecento un'eco degli imperi antichi, costruiti con le pietre, le civiltà e le popolazioni più diverse.
Ma su questa molteplicità s'imprime, simile a un marchio erariale, uno stampo comune come il giallonero delle insegne o l'aquila bicipite: fin negli angoli più lontani dello stato gli uffici pubblici, i caffè, i camerieri attempati, la correttezza dei funzionari, il decoro delle buone maniere e una scettica gioia di vivere avida dell'oggi e sprezzante del domani creano un'intimità domestica e rionale su scala cosmopolita. Il lontano e il consueto, il nuovo e il noto, l'esotico e il quotidiano coesistono, si scambiano e si sovrappongono in quella sorta di multiforme focolare o di sterminata periferia che è costituita dall'impero.
Francesco Giuseppe non è una persona, è un impero. Il potere, che come individuo possiede in misura limitata e che esercita con accorta moderazione, gli spetta come istituzione. Gli statisti dell'Ottocento e del Novecento sono personalità, modeste o eccezionali, protese alla conquista e al dominio; Francesco Giuseppe è uno stato, è un impero volto a resistere e a continuare: in lui la potenza assume i modi dell'istinto di conservazione, anziché dell'aggressività o dell'espansione. È un potere che mira a sopravvivere, piuttosto che a vincere.
Nato nel 1830, salito al trono nel 1848, morto nel 1916, Francesco Giuseppe impersona fisicamente questo pathos difensivo della sopravvivenza: è un contemporaneo di Metternich e di Trotzkij, di Manzoni e di Joyce; la durata del suo regno è, ancor oggi, ben maggiore di quanto non lo sia finora quella del regime sovietico. Ma questa esistenza miticamente lunga si rivela una fatale entropia, una progressiva riduzione della vita e dei suoi beni. Politicamente, nonostante la solidità della classe dirigente austroungarica, i sessantott'anni di regno di Francesco Giuseppe sono un susseguirsi di guerre perdute, di crisi sociali e governative, di spinte centrifughe sempre più agitate, di sconvolgimenti istituzionali.
Sul piano personale, le sventure colpiscono Francesco Giuseppe come un personaggio da tragedia greca: la lontananza e infine l'uccisione della moglie Elisabetta, l'avventura messicana e la fucilazione del fratello Massimiliano, la misteriosa fine del figlio Rodolfo a Mayerling, la scomparsa di altri membri della famiglia quali l'arciduca Giovanni Orth, sino alla morte di Francesco Ferdinando a Sarajevo, con quei colpi di pistola dei nazionalisti serbi che chiudono definitivamente una millenaria stagione storica, l'èra che aveva visto la vecchia Europa al centro del mondo.
Francesco Giuseppe porta questa longevità come un peso, non come l'acre gloria di sopravvivere agli altri smascherata dall'implacabile sguardo di Elias Canetti. La celebre frase con la quale accoglie ed archivia ogni sciagura pubblica o privata, «proprio nulla mi è risparmiato», diviene un ritornello che scandisce lo scorrere degli anni con un laconico pudore burocratico, che cerca di arginare la violenza del dolore incanalandola in una sofferta regolarità.
Dinanzi al minaccioso attacco del nuovo, lo stile di Francesco Giuseppe porta sino ai limiti del banale la strategia difensiva dell'elusione e della ripetizione, mimetizzandosi nel rituale dell'istituzione. Le immagini, familiari a tutti i suoi sudditi, mostrano Francesco Giuseppe grave e deferente nella processione del Corpus Domini, rigido nei ritratti ufficiali, devotamente immerso in preghiera, bonario nell'abito verde da cacciatore in vacanza o nella severa uniforme militare, paterno nel colloquio quasi dialettale con chi gli chiede udienza: sempre sovrapersonale e volutamente mediocre, votato al potere come ad una mansione e ad un ufficio.
I numerosi aneddoti, edificanti o ironici, sottolineano la sua prevedibile saggezza e la sua normale mediocrità, e lo presentano come il più scrupoloso burocrate dell'apparato imperiale, come il servitore dello stato che dorme sul lettino di ferro, come il sovrano sovranazionale che detesta i nazionalisti germanofili e antisemiti e si sente più vicino al caldarrostaio ambulante della Bucovina che all'intellettuale austrotedesco in cattedra a Vienna, e perfino durante la guerra mondiale crede talora, distrattamente, che i nemici siano ancor sempre i prussiani. Il suo amore per le divise, le parate e la geometria dell'ordine militare s'accompagna all'avversione per le guerre, perché egli sa che le guerre, come scriveva Joseph Roth, «si perdono»; vertice della piramide imperiale, cerca di poggiarsi su una base corale e popolare, e dinanzi alla vacua arroganza degli alti ufficiali dello stato maggiore si consola pensando alla saggezza dei marescialli furieri.
La sua mediocrità, ostile ad ogni culto romantico delle passioni esagitate, è stata derisa dalla pettegola ammirazione moderna per le personalità eccezionali ed irregolari: Francesco Giuseppe è rimasto per molti il marito compassato e noioso dell'irrequieta Elisabetta, il fratello freddo e prosaico dell'avventuroso ed appassionato Massimiliano; la relazione con Katharina Schratt lo mostra volentieri nei panni di un rassegnato signore che beve il caffè, in serena confidenza, presso un'amica discreta. Soltanto il Novecento, dopo la farsesca frana del mito delle anime belle e superiori, ha scoperto la nascosta poesia del suo amore per la simmetria e la tranquillità, del suo sforzo di procrastinare la fine e di differire ogni azione pur sempre rovinosa, del suo tentativo di cancellare la propria soggettività nell'asciutto edificio dello stato. In un mondo che, dal romanticismo in poi, ha calpestato l'idea della norma e della media, Francesco Giuseppe è un simbolo estremo dei valori medi ed ha moltiplicato se stesso nei volti dei camerieri e dei guardaportoni che ripetevano ovunque, nei caffè, negli uffici e nelle strade, la sua fisionomia di «familiare inavvicinabilità», come diceva Werfel.
Certo, in questa battaglia perduta contro il tempo, tale volto mediocre s'è irrigidito in una maschera immobile e quasi mortuaria. La letteratura ha spesso beffeggiato, non a torto, Francesco Giuseppe quale marionetta e mummia del potere, quale emblema di una vita fossilizzata. Ma quello stemma sclerotizzato era pur sempre il sigillo apposto quale tutela di un mondo molteplice e gaio, non ancora divorato dalla massificazione: il mondo dell'operetta e dell'eclettico Kitsch viennese, ma anche dei grandi spazi disposti intorno alla Hofburg e a Schönbrunn come una riserva in cui poter muoversi e respirare; il mondo del valzer e delle più grandi scuole rivoluzionarie del Novecento, dalla letteratura alla musica alla filosofia. All'ombra di Francesco Giuseppe vivono a scrivono, fra gli altri, Musil, Kafka, Rilke. La Vienna francogiuseppina, cinica e savia, è uno degli ultimi cuori d'Europa, nel quale si tende, non ancora reciso, il cordone ombelicale fra l'intelligenza e l'intimità, l'avventura del pensiero e le serate in birreria, l'odissea della ragione e il tenace affetto per la caducità quotidiana.
Dinanzi a questo mondo ch'egli comprime e insieme difende con la profusione di nomi, titoli e gerarchie e che egli non riesce veramente a capire, Francesco Giuseppe assume un tono di benevola indifferenza e di urbanità indiscriminata. A teatro, dopo ogni spettacolo, egli pronuncia la famosa frase «è stato molto bello, mi ha fatto molto piacere», perché ad un imperatore non si addice esprimere un'opinione individuale e perché, se si comincia a dire che l'autore è stato bravo, il regista scadente e gli attori malaccorti, non si sa dove si va a finire. Il potere mostra un gesto di noncuranza, di rispetto, di fissazione lievemente paranoica ed anche, o forse soprattutto, di disimpegnata ma autentica tolleranza.
Claudio MAGRIS, «Francesco Giuseppe», in «Dietro le parole», Milano, Garzanti, 1978, pp. 155-160.
 

Franz Werfel

FRANCESCO GIUSEPPE

 

È una delle vite [quella di Francesco Giuseppe] e uno dei regni più lunghi che la storia conosca. Tutto il vespro dell'Impero absburgico è occupato dalla figura di quest'uomo. Quando nel terzo dicembre della guerra mondiale egli morì, era giunta la notte, benché esistesse ancora un giovane e infelice successore, che doveva assistere al doloroso sfacelo dell'Impero.
Francesco Giuseppe raggiunse ottantasei anni e ne regnò circa settanta. La sua vita durò quasi tre generazioni, il suo governo più di due. Egli salì al trono durante la rivoluzione del 1848, diciottenne. Il suo regno s'iniziò in una giornata di dicembre, terminò in una giornata di dicembre. La stagione, l'intonazione politica, la caratteristica umana di questo regno fu crepuscolo invernale, gelo invernale e vicinanza di morte. Quando Francesco Giuseppe nacque, vivevano ancora molti uomini dell'ancien régime, che spiritualmente stavano al di là del grande spartiacque della Rivoluzione francese e in Napoleone soprattutto vedevano uno sfacciato parvenu. Quando giacque sul letto di morte nel castello di Schönbrunn, era in piena fioritura l'età trionfante dei gas velenosi, delle bombe incendiarie e delle masse martirizzate e martirizzanti. La vita di Francesco Giuseppe unisce come un ponte di straordinaria portata due epoche storiche, lontane l'una dall'altra dieci volte più del secolo reale che le separa. Non poteva essere una natura fiacca quella che, stando per settant'anni sulla vetta di un mondo, resse a una simile portata senza crollare.
La natura di Francesco Giuseppe si difese a suo modo contro l'immane destino. Non rintuzzò le armi avverse, ma si ritrasse, si chiuse in una solitudine veramente cesarea. Si corazzò con l'ininterrotta dedizione al concetto del «servizio». (La penna vorrebbe scrivere «fanatica» dedizione. Ma nulla sarebbe meno vero della parola «fanatico» riferita a Francesco Giuseppe.) La prammatica del servizio - così sonava la vera espressione austriaca - regolò l'attività, i diritti e i doveri dell'Imperatore fin nelle minime sfumature. Dove essa cessava - ma in realtà non cessava mai - trovava la sua continuazione in una scrupolosissima esigenza di tatto, che vietava per esempio al sovrano di pronunciare, in occasione di un'esposizione d'arte o di una serata a teatro, un giudizio di carattere personale. Così nacque la frase spesso schernita nei giornali umoristici: «È stato molto bello. Mi ha fatto molto piacere».
Ma non era da Cesare essere personale. Egli stava al di sopra di ogni personalismo, che giudica secondo il proprio gusto. In un'epoca in cui la personalità fu idolatrata con snobismo, in cui la contingenza e il disordine travestiti da libertà erano tutto, la natura originariamente impaziente e capricciosa di Francesco Giuseppe si superò costringendosi all'impersonalità, all'ordine e alla regola.
Questo fu possibile solo perché anche in lui, l'Ultimo, continuava ad agire l'antica forza della sacra idea imperiale. Ciò che vi era di universalmente umano in questa idea estorse all'anima dell'Imperatore una virtù, per la quale la parola obiettività è troppo debole. Egli, tedesco di sangue e di tradizione, cercò con estrema sincerità di soddisfare alle esigenze di tutti i popoli della monarchia. Egli, che proveniva da un'età feudale e dispotica, egli, che nel miglior dei casi aveva qualche scarso rapporto solo coi capi dell'alta nobiltà, negli ultimi anni del suo dominio, in tenace conflitto col proprio seguito, coi ministeri e col parlamento, riuscì a far trionfare la richiesta socialista del suffragio universale, uguale e diretto. E avvenne così l'inconcepibile. Un Absburgo, che era diventato grande ancora sotto Metternich, che all'inizio della sua carriera aveva rimesso in vigore le forze reazionarie vacillanti, lo stesso Absburgo alla fine della sua carriera patteggiò con le masse odiate e temute, coi lavoratori, col proletariato rivoluzionario. [...]
La guerra fra capitale e lavoro, comunque andasse a finire, non toccava nella sua intima essenza l'idea imperiale. La sua fronte di combattimento era su di un altro piano. Con forza estrema l'idea cercava alleati contro il grande nemico. E questa volta li trovò nella massa dei poveri e dei poverissimi. Il nemico comune era l'appassionato antagonista, ab antiquo, dell'idea austriaca di universalità: l'odio demoniaco, la vana presunzione delle parti sul tutto, la sfrontata idolatria del proprio Io, in una parola il fanatismo nazionale, sostenuto dal piccolo borghesismo arrabbiato di tutti quanti i popoli. Esso è rimasto vincitore.
[...] Francesco Giuseppe [...] era l'Ultimo dei Cesari, Augustus senex, la stanca personificazione dell'idea imperiale universalmente umana e mondiale. La sua vita, il suo volto, la sua gracile, elegante figura di vecchio erano diventati da un pezzo mitici. [...] Su quei lineamenti non si notava una spiccata maestà, non uno sguardo da dominatore, neppure bontà, a mala pena una certa cordialità; tutt'altra era l'espressione che vi si leggeva: sembrava che quella testa di vegliardo, lievemente china da un lato, ascoltasse intenta un lamento quasi impercettibile. Forse, nella sua solitudine, l'orecchio coglieva il grido sordo dei popoli furenti, l'urlo soffocato delle masse? No! Francesco Giuseppe, la stanca testa reclinata, ascoltava la profezia della fine. La familiare inavvicinabilità dell'effigie dell'Imperatore penetrò le anime delle generazioni, impregnandole fin dentro ai sogni. L'effigie diventò un modello. Le strade erano popolate di numerosi Franceschi Giuseppi. Dappertutto negli uffici si vedevano volti familiari e inavvicinabili, con la barba bianca spartita. [...]
Gli avversari di Francesco Giuseppe hanno odiato in lui non l'uomo, ma l'idea. Come uomo «non c'era nulla da ridire sul conto suo». Questa frase fatta ha qui un significato profondo. Il sacro compito di Cesare consisteva nel superare tutto ciò ch'era personale, nel trasformarsi, mediante un incessante dominio su se stesso, in principio, in legge per un Impero di popoli, che a loro volta si trasformavano e si sublimavano. Non essere personale, non essere umano era il dovere personale di Cesare. Egli lo ha adempiuto, tendendo inflessibilmente a trasformare la propria natura terrena in una specie di recipiente dell'idea imperiale. Francesco Giuseppe non fu un ingegno singolare e meno che meno filosofico. La sua condotta non risultò da una coscienza, da un riconoscimento dell'idea, bensì dalla logica dei fatti e da un'intima e fine sensibilità per la realtà malaticcia del suo regno.
Non c'era nulla da ridire sul conto suo. È vero. Nei settant'anni del suo governo egli firmò meno sentenze di morte che non gli uomini oggi al potere in un mese. E tuttavia nessuno che l'abbia conosciuto a fondo gli attribuisce il merito di una singolare bontà. Egli conservava la distanza senza riguardi, anche di fronte a coloro che gli erano vicinissimi e lo servivano da parecchie decine d'anni. Si dice che solo in casi di estrema rarità egli abbia porto la mano a uno dei suoi sudditi (e i cinquantadue milioni d'abitanti della monarchia gli erano tutti sudditi). Eppure nei suoi occhi azzurri, sotto le folte sopracciglia bianche, non si leggevano certo freddezza e durezza.
All'uomo Francesco Giuseppe era toccata una sorte terrena ben poco felice. A diciott'anni perdette la sua giovinezza per la dignità imperiale. Sposò giovane una donna che amò davvero fino all'ultimo respiro di lei. Ma Elisabetta si rivelò ben presto creatura eccentrica ed esaltata, incapace di amare, o che per lo meno non ricambiò l'amore di suo marito. L'Imperatore, che si era imposto come legge il superamento di ogni caratteristica personale, ebbe in moglie una spiccatissima «personalità», una «donna interessante e distinta», come veniva ufficialmente indicata con una definizione che ispirava rispetto ai letterati, ma doveva riuscire penosissima al monarca.
Francesco Giuseppe, natura semplice, anelava a una idilliaca vita familiare. Elisabetta gliela negò. Ella si tenne lontana da lui, col corpo e con l'anima. Era sempre in viaggio. Passò anni e anni sul suo yacht, nel suo castello di Corfù, in metropoli e luoghi di cura. L'Imperatore tollerò questa compromettente irrequietudine di vita. Non esiste una sola testimonianza della sua disapprovazione, una sola prova della più lieve lagnanza o accusa. Ci sono invece innumerevoli lettere e telegrammi alla consorte lontana, che esprimono senza rimprovero la più tenera sollecitudine, fino al giorno dell'assassinio di Ginevra.
Francesco Giuseppe perdette di morte innaturale le tre persone che gli stavano più vicine. La prima fu Massimiliano del Messico, carattere non meno ambizioso che fantastico, il quale in parte per follia romantica, in parte per la sua tragica posizione di fratello minore, si assunse una missione impossibile, di cui egli meno di ogni altro poteva essere all'altezza. Morì a Queretaro sotto le palle del plotone d'esecuzione messicano, dinanzi ai cui fucili l'aveva mandato Juarez, il dittatore nazionale. Tre decenni dopo cadeva l'Imperatrice, questa donna eternamente lontana, assuerica e pure amata, vittima, a Ginevra, dell'assurdo attentato di uno sciocco anarchico, Luccheni.
Ma il colpo più grave del destino fu l'oscura fine di Rodolfo, principe ereditario e unico figlio. Fino ad oggi non è ancora stato chiarito in modo convincente se la coppia di Mayerling abbia chiuso la sua vita con un suicidio comune, o se sia avvenuto allora un misterioso assassinio, in cui s'intrecciarono propagandisticamente amore e politica. Fu l'Imperatore stesso a cancellare per sempre le tracce della verità. In questo caso egli si mostrò molto duro e diede un ordine, che avrebbe fatto onore a Filippo II di Spagna. Volle che il cadavere di Maria Vetzera, l'amante di Rodolfo, fosse vestito, posto in una vettura di piazza e, sorretto a destra e a sinistra da due cavalieri, fatto passare di gran galoppo in mezzo a una spalliera di curiosi. Nessuno doveva mettere questa infelice fanciulla in relazione con la morte del principe ereditario, vittima di un incidente di caccia, come la leggenda dell'Altissimo voleva che si credesse.
Tre morti cruente e al tempo stesso tre «sensazioni» europee di prim'ordine. La morte di Rodolfo, truce scandalo, benvenuto bottino della stampa mondiale. La morte di Massimiliano, esecuzione di un Absburgo, di un principe imperiale, fallimento di un inetto, quindi episodio profondamente compromettente per il fratello regnante. La morte di Elisabetta per il pugnale di un miserabile pazzo, fine simbolica di una «donna incompresa», eternamente in fuga dal marito troppo frigido, quale oggetto di compassionevole considerazione, d'importuna partecipazione, di strizzatine d'occhio da gente che la sa lunga, per i cronisti d'appendice! Cesare, il superatore di ogni elemento personale, il cui Io umano si era già quasi completamente risolto nel Noi maestoso, Cesare doveva diventare oggetto di «sensazioni» cruente nell'ambiente suo più privato. Pareva che il destino avesse congiurato di mettere continuamente alla prova la portata della sua imperiale impersonalità.
Francesco Giuseppe superò la prova. Non abbiamo nessun documento del suo dolore e della sua vergogna, nulla che sia uscito dalla sua mano o dalla sua bocca. Le uniche parole che si tramandano, stranamente lapidarie, sono quelle ch'egli avrebbe pronunciate dopo ricevuto il terribile telegramma di Ginevra: «Proprio nulla mi è risparmiato». Questo sobrio gemito fu tutto ciò che i popoli dell'Austria poterono udire del suo sentimento più profondo. Ma allora Francesco Giuseppe non sapeva ancora che questo suo sobrio gemito di uomo doveva ben presto valere anche per Francesco Giuseppe imperatore.
Per tutto il tempo interminabile del suo governo, egli aveva conservato l'Impero, aveva prolungato fino all'estremo limite il crepuscolo del suo mondo. Aveva superato un colpo via l'altro con calma tenacia: la perdita di Milano e di Venezia, la sconfitta di Sadova inflittagli dai Prussiani, l'infausto scindersi dell'Impero dovuto all'impulso di predominio dei Magiari, gli attacchi sferrati dal fanatismo nazionale delle altre unità demoniache. A questa dinamica sferzata dall'odio egli contrappose una statica saggia e grandiosa, che si manifestò in una magistrale abilità di procrastinare le soluzioni, di scansare e lasciar sbriciolare i conflitti.
Questa statica nell'irriverente vocabolario dell'Austriaco fu caratterizzata col concetto classico del «fortwursteln» [caratteristica espressione austriaca, che significa «tirar avanti in qualche modo, tirare a campare»] Francesco Giuseppe sapeva che bastava un passo a condurre nell'abisso. Ma egli, ottantenne, poteva sperare di non dover compiere questo passo. Quando sarebbe venuta finalmente la morte liberatrice, per sciogliere l'anima di Cesare da sette decenni di spaventosa responsabilità? Se la sbrigasse poi il suo successore, quell'uomo avido di potere, iracondo, già, con narici tremanti, in agguato della tarda eredità.
Allora avvenne la catastrofe di Sarajevo. La coppia dei principi ereditari morì colpita dalle rivoltellate di un fanatico nazionale serbo. Dopo un momento di costernazione, un'ondata d'isterica frenesia, di forza e di tracotanza pervase ben presto certi strati della monarchia. «Basta» si diceva «non possiamo aspettare oltre, dobbiamo dimostrare al mondo, prima che sia troppo tardi, che siamo una grande potenza.» Geniali generali di manovre videro giunto il loro «adesso o mai». Ministri reazionari, stanchi dell'abile procrastinare, si compiacquero di fare gli uomini forti alla maniera prussiana. Aizzatori reazionari d'ogni genere videro il miraggio di rosei risultati. Ma in fondo ardeva la speranza delle preminenti nazioni tedesca e magiara di sopraffare completamente mediante una guerra vittoriosa le altre tazze dell'Impero.
È impressionante pensare che fra tutti quegli uomini politici e quei generali follemente illusi, in quella caldaia da streghe dell'opinione pubblica eccitata si trovasse un uomo solo, che vedeva, prevedeva tutto, un uomo che presentiva fino in fondo tutta l'amara verità. E quest'uomo aveva ottantaquattro anni. L'antichissima idea imperiale, l'idea dell'unificazione e del compito educativo, non viveva ormai più che in un vecchio cuore, nel cuore di Cesare. Questi sentiva chiaramente che l'idea non esigeva che per amore del principe ucciso si mettesse in gioco l'esistenza della monarchia. Anche l'eccitazione nazionalistica di un piccolo popolo non costituiva motivo di arrischiare la vita, poiché tutti i popoli, dentro e fuori dei confini, erano in preda a eccitazione nazionalistica. La sacra idea dell'Impero aveva superato in pace tutte le malattie della storia. Perché no anche questa? Ecco ciò che doveva sentire l'Imperatore. Ma egli sapeva che ogni passo, anche il più piccolo, era un passo nell'abisso.
Franz WERFEL, Nel Crepuscolo di un Mondo, Milano, Mondadori, 1980. pp. 32-40.
 

 

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