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Elvio Giudici

«L'Amore dei tre re»

[Da: «L'opera in CD e video» , edizioni Il Saggiatore]

 

Sarebbe bello se, ai musicisti austrotedeschi che affollano gli anni Venti con partìture della più grande varietà, originalità e altezza di composizione se non sempre d'ispirazione, se ne potessero contrapporre d'italiani, con una fisionomia riconoscibile che sviluppi in modo originale una diversa tradizione. Ma non è possibile. Più il tempo passa, facendo emergere da un ingiusto oblio figure come Schreker, Korngold, Krenek, Hindemith (e Strauss è sempre là, a giganteggìare in disparte), e più s'evidenzia il deserto italiano attorno alla torre solitaria di Puccini, unico compositore dal respiro veramente europeo.
Montemezzi, ad esempio, nella sua opera più famosa sceglie trama e ambientazione molto simili a quelle assai in voga nella Mitteleuropa, affidandosi - come farà undici anni dopo Giordano con La cena delle beffe - ai versi di Benelli, un po' tagliati con l'accetta ma non privi d'una loro efficacia. Un'ambientazione alla Conan il barbaro, dove il re Archibaldo, nonostante sia vecchio e cieco, s'aggíra come un tremendo menagramo sugli spalti del castello, luogo d'appuntamento della nuora con un amante sempre in fuga ma sempre "visto" dalle orecchie del cieco; dove il figlio combatte una guerra al di là dell'orizzonte, ma ogni momento torna indietro ora per una visita ora per un presentimento; e dove infine la bella Fiora viene strangolata da Archibaldo, senza però rivelare il nome dell'amato.
Per cui l'astuto vecchio le spalma sulle labbra un veleno mortale: dopo che l'amante è emerso dall'ombra a baciarla per l'ultima volta, mentre costui agonizza anche il marito segue, consapevolmente, il suo gesto.
Il problema è che una trama del genere - a volerla prendere sul serio - avrebbe dovuto essere immersa in un'atmosfera di decadente languore, dai colori lussureggianti evocatorí d'una sensualità torbida e malsana: e abbiamo invece un declamato continuo, piuttosto greve e grigiastro, attorno a linee melodiche prive di chiaroscuri ma ricche d'involi generosissimi che subito raggiungono l'acuto e lì si fermano, per poi ripartire monotonamente identiche a se stesse. Sulla scena, quattro interpreti di grande personalità qualcosa possono trarne - e difatti, specie al Metropolitan, l'opera è restata in repertorio abbastanza a lungo - ma al solo ascolto la musica vola irrimediabilmente bassa.