Piero Mioli

ANALISI DI «ORFEO»

con riferimenti a «Orphée»

Nella veste musicale «Orfeo ed Euridice» di Gluck conserva numerosi elementi del tipico melodramma italiano - primo fra tutti la scelta del contralto maschile per il protagonista - , accanto ai quali, comunque, pone molte novità, anche senza ingenerare stridore alcuno. Sono queste, essenzialmente, la varietà strutturale e ritmica dell'aria e del cantabile in genere, la frequenza dell'arioso, la qualità del recitativo, lo stile disadorno del canto, l'onnipresenza del coro, l'assiduità della danza, l'impegno dello strumentale.
L'aria, signora incontrastata del melodramma, capace di un dominio sempre più assoluto nel corso del tempo dalle origini secentesche all'apogeo medio-settecentesco si era massimamente sviluppata nella forma A B A' detta «con da capo», bitematica e tripartita con variazioni libere ed estemporanee degli esecutori nella terza sede che era omessa nella partitura (le ripetizioni ulteriori della melodia A attorno alla contrastante melodia B si precisavano poi nello schema pentapartito A A B A A). Ma la tirannia è scossa nelle fondamenta da Gluck, che la svaria dalla struttura al ritmo e spesso la inserisce in contesti ampi e diversi.
Quanto ai contesti ecco il triplice incrocio col recitativo in apertura, il triplice incrocio col coro nel primo quadro del secondo atto, la comunione corale dell'aria di Euridice nel secondo atto, l'aria di Euridice nel iterzo atto che ingloba un breve duetto. Quanto agli svari ritmici nelle arie come negli altri pezzi chiusi anche solo strofici, si noti l'assenza del tempo ordinario (affermato solo nell'arioso «Che puro ciel! che chiaro sol! che nuova» e nel primo duetto dlel terzo atto), sostituito da numerosi tempi tagliati, 3|4 (in particolare per i cori e le danze), 3|8, qualche 2|4 e un 6|8: in tempo tagliato sono le tre arie del contralto nella scena con le Furie e la centrale «Che farò senza Euridice», in 3|4 la prima pantomima, in 3|8 la tristrofica aria di Orfeo nel primo atto, in 2|4 il secondo duetto, in 6|8 l'aria di Euridice nel secondo atto.
Quanto alla forma, la cauta aria di Amore è regolarmente con da capo, «Gli sguardi trattieni» in «lento grazioso» e 3|4, «Sai pur che talora» in «meno lento» e 3|8, ancora «Gli sguardi trattieni» in «lento» passibile di interpolazioni. Le prime tre dolorose arie di Orfeo, che il testo stesso viene a considerare canzoni su tema di lamento (i tre capiversi cominciano con «Chiamo» «Cerco» «Piango» e finiscono sempre con «il mio ben così»), sono perfettamente strofiche, in un chiarissimo Fa.
La grande, celeberrima aria del contralto nel terzo atto è un rondò, A B C A, sui versi :«:Che farò senza Euridice» in «andante con moto», «Io son pure il tuo fedel!» in «adagio», «Che farò senza Euridice» in primo tempo, «[...] Ah! non m'avanza» in «adagio» (dopo l'invocazione «Euridice! Euridice!» in «moderato»), «Che farò senza Euridice» in primo tempo; e rondò appare anche, nel complesso, la grande scena che volge l'opera al terzettino finale, A per Orfeo, A per il coro, B per Amore, A per il coro, C per Euridice, A per il coro.
Semplicemente monopartite, ma diverse, sono poi le due brevissime arie che Orfeo canta alle Furie e agli Spettri. A volte infine lo stesso da capo è tale soltanto nel testo: la prima benevola aria di Amore, aggiunta per Parigi, replica il testo ma cambia totalmente la musica, così come l'ansiosa seconda aria di Euridice, dopo l'inaspettato duettino («Avvezza al contento» per il soprano «O strazio novel!» per il contralto), la quale replica ii testo ma cambia la musica anche nell'indicazione agogica, da «allegretto» ad «andante».
Regno dell'informale resta l'arioso, dilatabile a piacere: può esso spuntare come emergenza sentimentale da un recitativo, come succede per Orfeo prima di «Cerco il mio ben così», quando il recitativo di sei versi alla metà del quarto prorompe in «lento» dicendo «[...] e sparge ai venti | Con le lagrime sue | Invano i suoi lamenti!», o atteggiarsi a maturissimo recitativo accompagnato, ,prima dell'aria «Che fiero momento», per dipingere più vivamente lo sgomento di Euridice; ma può anche conquistare un intero discorso, come nell'ineffabile inizio della terza scena del secondo atto, composta di ben 15 versi da «Che puro ciel! che chiaro sol! che nuova». «IL contrasto tra l'Inferno e l'Eliso non poteva strider forte, poiché, [...] le Furie s'eran placate.
Ma quanto sensibile e intima è tuttavia l'antitesi, grazie alla poesia di Gluck! Con quanta squisitezza intuì ed espresse la divensa atmosfera! Poiché proprio l'atmosfera, o l'ambiente che dir si voglia, o più precisamente la Stimmung, è qui da ammirare. Non imitazione della natura, nel senso settecentesco, cioè rappresentazione obbiettiva delle cose espressa dall'arte e dalla tecnica, più che dalla soggettività commossa dell'uomo-artista, ma stato d'animo d'Orfeo e di Gluck, immesso nella vita e nella contemplazione della natura, e influenzato da essa. Questa natura è sentita e rappresentata ancora in modo analitico, si intende, non sinfonico e amalgamato, non è ottocentesca. Ma la somma degli elementi è una fusione nella quale i particolari sono assorbiti.
«E gli elementi sono: il moto costante delle sestine degli archi, le quali poggiano sulla tonica, sulla dominante, e nella ripetizione del tono e del disegno danno l'immagine del tempo che fluisce eterno, e il timbro degli strumenti che fan melodia (e qui ritornano le sestine e il motivo dell'aria di Massimo nell'«Ezio» «Se il povero ruscello», e dell'aria di Demetrio «Già che morir degg'io» nell'«Antigono»), il flauto, l'oboe, con brevi tocchi i secondi violini, il fagotto, i violoncelli, che evocano la natura, zeffiri, uccelli, ruscelli. È lo stupore di Orfeo, la sua soave sensazione, di poeta e musico alla nuova vista del sovrumano. Alfine egli parla, ammirato della purezza celeste, della chiarità solare, dell'armonia delle sfere. Parla intonando, e non si sa dire se il suono della sua voce derivi dall'armonia o se crei l'armonia. Le sestine fluiscono percepibili e impercettibili, come accade al nostro udito per un ritmico continuo moto sonoro. E su quell'infinito andare emergono sempre più agili e frequenti, con gruppetti acefali, con arpeggi infranti, biscrome e semibiscrome, pigolii, fruscii di venticelli, mormorio di limpide acque. La voce umana non sovrasta, è al centro della naturale sinfonia. A un punto gli strumenti tacciono, si direbbero soltanto affievoliti da un alito di vento che ne smorzi il suono, o sembra anche suonino ancora come accade al nostro udito assuefatto se un continuo moto sonoro cessa un istante e ne resta l'eco illusoria. Nella breve pausa la voce recita, senza alcun accompagnamento e l'attimo è bellissimo.È un recitativo ad libitum, ma misurato, che vuol essere dinamicamente scandito nello stesso movimento diel pezzo, in modo da non interrompere la soave immagine del tempo fluente. Infatti le sestine degli archi non tardano e su esse sospira tenero l'oboe. Parimenti ritmate, le altre parole recitate su radi accordi preludono alla ripresa delle sestine negli archi e della cantilena spianata nell'oboe. Così continua, con la variante d'un'ansia lieve (l'attesa di Orfeo) la musica soave, e si placa allorché alla trepida domanda …Euridice dov'è?» il coro oon gran gentilezza risponde: 'Giunge... Euridice.'» [Della Corte].
Per il resto il recitativo, cadenzato dall'orchestra e non dal solo cembalo, non è mai piattamente secco, bensì rilevato da insistite sfumature verso il recitativo accompagnato e l'arioso, e poi sempre molto cromatico, miniera inesauribile di soluzioni espressive in linea con le proposte del testo letterario.
Lo stile del canto, che discende piano dalla sobrietà della poetica espressa dagli artefici dell'opera, in «Orfeo ed Euridice» realizza una equa sillabicità, mai rigida e anzi disposta a favorire lo svelto impatto melodico dei pezzi: a parte i frequenti casi in cui a una sillaba del testo non corrisponde una sola nota ma un paio di note (comunque ospitati in contesti sillabici), le uniche evidenti, senz'altro ricercate occasioni si trovano nel secondo e nel terzo atto per Orfeo: alla fine di «Deh! placatevi con me» il verso «Il mio barbaro dolor», detto tre volte, profonde un ricco melisma sull'aggettivo e un altro, più ridotto, sul sostantivo; nel momento della grande aria in forma di rondò la selva delle ripetizioni verbali e il costante andamento emisillabico, dove una nota viene a cadere su mezza sillaba, ingenerano poi un che di melodioso, cantilenante, vocalistico sebbene non edonistico, mirabilmente consono a quella che è la situazione centrale, essenziale, simbolica di tutta l'opera.
«L'aria famosa, infatti, vive proprio della sua incongruenza drammatica: il fatto che, nel momento supremo della seconda morte dell'eroina, Orfeo effonda i suoi politi lamenti in quella seducente melodia incardinata entro la forma ciassica del rondò, rende con plastica evidenza la natura allegorica del personaggio, simbolo della bellezza del canto inattaccabile nella proporzione delle sue forme» [Gallarati]; quanto alla presunta contraddizione fra stato d'aspro dolore e liquida melodiosità vocale, provvedono due versi di Torquato Tasso (1780-1790) di Goethe a risolverla poeticamente, «E quando, uomo, ammutolisco per la disperazione, | Un Dio interviene per dire quanto io soffro» [Einstein].
Massiccia è la presenza corale in «Orfeo ed Euridice», ma non tanto nel senso della quantità minuta, bensì in quello di una presenza assidua, complessiva, caratterizzante, che può fungere da lontano spettatore quasi ammutolito del lutto di Orfeo e diafano sodale della beatitudine di Euridice, ma anche agire da diretto antagonista del semidio e poi da suo compiaciuto intermediario, infine da vicino, tangibile, solerte compartecipe della sua gioia ultima; sempre accettando la linea melodica squadrata, memorizzabile, spoglia ed efficace del canto monodico (dunque è accordale, omofono e più spesso anche omoritmico questo coro che solo occasionalmente fa ricorso a movenze polifoniche, per esempio nel corpo di «Vieni ai regni del riposo» e di «Torna, o bella, al tuo consorte»).
Come nell'opera italiana il coro tendeva a essere eliminato dall'invadenza del solismo, così nell'opera francese la danza, pur frequente, tendeva a isolarsi dal processo drammatico; ma in «Orfeo ed Euridice» anche la danza fa parte integrante dell'azione, con il massimo raggiungimento nel ballo delle Furie e degli Spettri che, dotato di una sua «esplicita evidenza», «in una forma di stupefatta fissità, raggiunta attraverso l'ossessiva iterazione rimica, apre e chiude la scena infernale» [Gallarati]. «Le Furie e gli Spettri impediscono a Orfeo il passo. Come prima, due orchestre; la maggiore consta degli archi, di due oboi, due corni e un fagotto; l'altra, sul palcoscenico, di archi con l'arpa. La prima accompagna la danza degli spiriti del male. Il carattere della musica non è furioso; minaccioso e grave. «Maestoso». Unisoni accordi ripercossi. Cupezza e terrore. Musica che deriva dalla mimica e concorre alla mimica. Alternanza di forte e di piano, di corni e di oboi.
L'esperienza gluckiana del balletto da i suoi frutti. Angiolini è il maestro dei passi e dei gesti eloquenti. Gluck dà il ritmo e il suono addicevoli. Appena Orfeo imbraccia la lira, l'orchestra interna risuona delicata nell'arpa e nel pizzicato degli archi. Tre battute in «andante». La danza cessa. Interviene il coro. Ritmo dispari, marcato. La prima orchestra sostiene le voci miste con l'armonia tremola dei violini e delle viole e col canto al grave, e il canto è unisono con le voci in tre ottave. Magnifico canto, con le frasi di due battute, solenne, implacabile. I danzatori tornano e minacciano Orfeo, un «presto» balza dagli archi, a scatti, a urti, violento, urlante. Ripresa del coro. Lo stesso motivo, poi una progressione incalzante nei bassi duri intervalli, «gli urli di Cerbero». Orfeo ne è atterrito. L'orchestra interna accompagna arpeggiando le sue implorazioni.
Qui Gluck rese più vivace il testo di Calzabigi aggiunse cioè tanti «No» a ciascuna invocazione, appoggiando il monosillabo forte, con l'unisono della prima orchestra. E questa rugge quanto i «No» son più spietati. Il cantore adopra tutta la sua magia, ma più del soprannaturale è la commozione sua umana che muove la voce a melodia toccante. Infatti nella seconda strofa corale la minaccia comincia a scemare nel compatimento, e ancora alterna unisoni potenti, dall'acuto al grave, e armonie che non han più veemenza. Piú insiste Orfeo nel lamento delle sue pene e più semplice come la parola, è il suo canto. La terza strofa corale esprime maggior dolcezza. Gli accordi ripercossi dagli archi pare palpitino pietosi, e le stesse voci son come stupite dall'inattesa bontà. Orfeo rincalza misura ad arte la tenerezza della melodia, sente che la sua conquista è prossima. L'ultima strofa corale è più dell'altra dolce e palpitante. E qui si poneva a Gluck il quesito melodrammaturgico: dovevano le Furie e gli Spettri dichiararsi vinti dal canto e mutar del tutto carattere? No. I demoni obbediscono all'istante magico e non perdono la loro durezza. Giustamente Gluck lasciò al coro il suo grave accento, ma ne accelerò la dinamica, «allegro», e seguendo la didascalia di Calzabigi, attenuò un poco alla volta la sonorità afftevolì a una a una le voci, le confuse in un indistinto mormorio. Sulle ultime note delle ultime parole le Furie e gli Spettri, lentamente ritrattisi, dileguano. L'Inferno è scomparso. E così associò l'espressione verbale e musicale a quella mimica» [Della Corte].
La partitura francese di «Orfeo ed Euridice» prevede e assortisce variamente flauti, clarinetto, due oboi, fagotto, corno inglese, due corni, tromba, timpani, arpa, violini primi e secondi, viole, violoncelli, bassi con basso continuo. Notevoli la compatta ourerture in Do, monopartita come «allegro molto», che all'energia dell'insieme rinuncia solo in qualche caso per aprire fugaci parentesi di maggior trasparenza; l'accorata pantomima in «andante», un trio in Mi bom. che è «qualcosa di più che un exeunt per un coro, e non ha puramente una funzione musicale» perché «è una consolazione ed una trasfigurazione», «un celeste intervento quale talvolta può arrecare un raggio di luce nella più cupa disperazione e, dal punto di vista della storia della musica, il primo e nello stesso il più maturo frutto del connubio fra il dramma mimato di Noverre [nelI'edizione parigina] e l'opera» (Einstein), la diversità di strumentazione che accompagna le tre strofe iniziali del contralto, dove l'Echo consta di archi e chalumeau o zampogna, la prima parte di archi e flauto, la seconda di archi e arpa, la terza di archi e due corni inglesi; ovviamente la presenza doll'oboe sotto l'arioso di Orfeo che ammira l'«asilo di placide calme».
Ma se «la felice scelta dei legni e degli ottoni come timbri espressivi» (Della Corte) è un fattore generale, irripetibile momento di genialità strumentale resta l'uso del flauto nel secondo ballo «lento» degli Elisi, che «una volta udito non si scorda più» (Einstein). Il flauto possiede «un'espressione sua particolare e un'attitudine a rendere certi sentimenti, doti nelle quali nessun altro strumento potrebbe contendergli il primato. Allorché si tratta, a mo' d'esempio, di conferire a un canto triste un accento desolato, ma nello stesso tempo umile e rassegnato, i deboli suoni mediani del flauto non mancheranno certo di produrre la tinta necessaria principalmente nelle tonalità di Do minore e Re minore. Gluck è a mio avviso il solo maestro che abbia saputo trarre un grande utile da questo pallido colorito. Si ascolti lo strumentale della pantomima in Re minore nella scena dei Campi Elisi in «Orfeo», e si vedrà immediatamente che al solo flauto poteva oonvenire quel canto. Un oboe sarebbe stato troppo infantile e la sua voce non sarebbe parsa abbastanza casta; il corno inglese è troppo severo... né il violino, né la viola, né il violoncello, trattati a solo o in assieme, convenivano all'espressione di codesto «sublimissimo» gemito d'un'ombra sofferente cui è tolta ogni speranza: occorreva precisamente lo strumento che l'autore ha scelto. Ed è concepita in tal modo la melodia di Gluck che il flauto si presta a tutti gli inquieti movimenti di questo dolore eterno, ancora improntato all'accento delle passioni agitanti la vita terrena. All'inizio non è che una voce appena percettibile, quasi timorosa di farsi udire; in seguito essa geme sommessa, si alza all'accento del rimprovero, a quello del dolore profondo, al grido di un cuore dilaniato da ferite insanabili, per ricadere finalmente, a poco a poco, nel lamento, nel gemito e nel rammarico d'un'anima rassegnata... Quale poeta!» [Berlioz].
Con tante sensazionali eppur concordanti eccezioni, «Orfeo ed Euridice» rimane sempre un'azione teatrale, del genere cortigiano della festa, che caratterizzano compiutamente la mitologia della tematica, la spettacolarità delle situazioni infernali, l'elaborata frequenza dei cori e delle danze, la complessità dell'orchestrazione, la libertà formale dei pezzi, l'assenza dei ritornelli iniziali delle arie.
Lo stesso lieto fine, inglobato nell'omogeneità della favola, si giustifica anche come omaggio all'occasione onomastica dell'imperatore. «All'incirca come il monarca illuminato ripensò e rinnovò la forma dello stato conservandone il sistema, Gluck riformò lo schema dell'opera seria senza rinunciarvi. L'opera d'arte rifletté (forse consapevolmente?) la finalità del sistema di adeguarsi al nuovo giusto concetto di umanità, e ciò fece con l'aiuto della nuova ideologia - in gergo teatrale si direbbe con l'ausilio di una nuova drammaturgia. Le decise tendenze di Gluck per lo sviluppo drammatico chiaramente definito, la passione e la schietta sincerità a cui mancava, per divenire un «programma classico», soltanto il predominio categorico delI'etica - ma siamo già in questa direzione con il contatto con Klopstock - e tutte quelle azioni eroiche umanizzate da lui predilette, non superano in realtà i limiti di un ordine mondano ben disposto, misurato, armonico, degno di fiducia; e i rappresentanti di quell'ordine, le altezze, gli dei, si comportano come se avessero fatto proprio il programma educativo degli Asburgo: amore verso l'umanità... compassione, consapevolezza che la signoria è solo un compito ricevuto in eredità... chi umilia gli uomini umilia se stesso.
Quell'Olimpo civilizzato e imborghesito, reca i tratti della Hofburg, e i suoi dei abitano in estate a Schönbrunn... Nel regno dei personaggi umani viene messa in luce una qualità che spinge ad azioni e già a rivolte, appelli che premono con interrogativi e commuovono con i loro dolori, a cui sarebbe sconveniente e pericoloso non porgere ascolto.
La decisione di Orfeo di penetrare nell'Ade, e infrangere così l'ordine naturale, potrebbe sembrare una ribellione se non fosse collegata a un comando divino. Con ciò diviene possibile che «Orfeo ed Euridice» reggano la prova pur soggiacendovi. Il loro amore che tutto vince, si svela nella incapacità di non guardarsi in volto - e questo apre lo spazio ad un atto di grazia. Il dio riforma, per così dire, il suo verdetto, secondo cui Euridice all'incrociarsi degli sguardi doveva esscre per sempre perduta, prendendo l'atteggiamento di un amico, del buon vicino che allevia il dolore, asciuga le lagrime e merita riconoscenza con il suo rinnovato dono della vita» [Klinger].
Pertanto ancora una volta «Orfeo ed Euridice» svela la sua doppia natura di prologo a una nuova drammaturgia e di emblema di una utopica concordanza tra uomo, natura, società, fondata sui nuovi valori teorizzati dal razionalismo illuminista e garantiti dall'illuminato potere assoluto.
Opera modernissima sebbene per nulla immemore dell'antico, «Orfeo ed Euridice» in un solo caso si compiace di incrinare questo suo tono positivo e felice: il personaggio che nel recitativo prima del rondò esce dai limiti della ragione addirittura dicendo «Piú frenarmi non posso. A poco a poco | La ragion m'abbandona: oblio la legge, | Euridice, e me stesso; e ...» e dopo si sentirà frenare da Amore sulle parole «Calma il furor, insano», vive il suo attimo di irrazionalismo nella beatitudine degli Elisi.
«Un soffio panteistico attraversa il canto; la natura da oggetto di descrizione si ía improvvisamente soggetto animato: il gusto del miniaturismo onomatopeico che aveva regnato durante il Settecento lascia il posto ad una vera e propria Stimmung che avvolge il tutto in un abbraccio trasfigurante. [...] Gluck si fa qui artista d'atmosfera (ma sono, non dimentichiamolo, quattro minuti e mezzo in tutta l'opera...) e si inserisce in quella linea 'romantica' della rappresentazione della natura che la musica tedesca stava silenziosamente percorrendo sin dai tempi di Bach e di Händel [...]. La luce della ragione che illumina i personaggi gluckiani anche alle massime temperature emotive (ed è ciò che li accomuna al grande teatro tragico di Corneille e Racine) pare qui per un momento offuscarsi, ed in quel sottile, embrionale abbandono, che denuncia una fugace rilassatezza della volontà, Orfeo acquista le movenze dello schweben romantico, librato a mezz'aria nella degustazione del 'non so che'» [Gallarati].
Come azione o festa teatrale «Orfeo ed Euridice» languì, dopo la prima viennese, a Francoforte nel '64 nell'ambito dei festeggiamenti per l'incoronazione dell'arciduca Giuseppe, a Parma nel '69 come parte condensata delle «Feste d'Apollo». Infatti le numerose esecuzioni non sceniche, a Breslau (1771), a Firenze (1773), ad Amburgo (17751776), a Siena (1795) e così via, denunciavano un certo imbarazzo nei confronti del sottogenere tanto stilizzato e celebrativo, che alcuni teatri risolsero di trasformarlo in melodramma regolare, l'Haymarket di Londra negli anni 1770, 1771, 1773, il Teatro di via del Cocomero a Firenze ancora nel 1771 e successivamente molti altri.
Nel 1774 un rifatto e allargato «Orfeo ed Euridice» visitò Napoli con otto personaggi, sette scene, tre nuovi balli estranei alla vicenda (intitolati «Adele di Pointieu», «La felice metamorfosi o siano i Petit maîstres burlati», «Coro di seguaci d'Amore»). Proprio in quell'anno Gluck esibiva la sua seconda versione sulle scene di Parigi, in parte adeguando la lineare partitura viennese alle istanze francesi: la tromba fu estesa dalla sinfonia al corpo dell'opera, il protagonista non fu più l'inverosimile contralto maschile ma il realistico tenore, Amore ebbe la nuova aria «Se il dolce suon de la tua lira» il secondo atto s'arricchì dell'«Air des Furies» tolto dal balletto «Don Juan» e dell'aria di Euridice «Ce Color t asile aimable et tranquille». Questa versione, approntata consapevolmente dall'autore, dovette alla sua normatività - almeno francese - l'agio della resistenza nel repertorio e della fortuna: a Parigi ebbe 297 esecuzioni dalla prima al 1848, fu messa in scena il 19 novembre del 1859 all'Opéra da Berlioz che lo stesso anno ne pubblicò lo spartito per canto e pianoforte presso Escudier e nel 1864 la partitura presso Heinze di Lipsia. In Italia, invece, la fortuna di «Orfeo ed Euridice» rinacque nel 1889, due anni dopo il centenario dalla morte di Gluck, a Milano e a Roma; a queste rappresentazioni si conforma la corrente edizione Ricordi dello spartito.