FRANCESCO DEGRADA

«Danze di eroi» e «saltarelli di burattini»:
vicende dell'«Orfeo» di Gluck

 

Saggio tratto da F. Degrada, «Il palazzo incantato. Studi sulla tradizione del melodramma dal Barocco al Romanticismo», Discanto Edizioni, Fiesole, 1979, vol. I, pp. 115-131.
1. La tradizione dell'azione teatrale (festa teatrale)

2. Le idee drammaturgiche di Calzabigi

3. Le idee drammaturgiche di Gluck

4. Il lieto fine

5. Tono serenamente contemplativo, non tragico

6. Esecuziini e prassi esecutiva nel Settecento

7. La versione parigina

8. La versione di Berlioz

9. L'approccio stilistico in Italia

 

N.B. I titoli sono stati introdotti dal curatore del sito per facilitare la lettura dell'articolo.
La tradizione dell'azione teatrale (festa teatrale)
«È noto Orfeo, e celebre il suo lungo dolore nell'immatura morte della sua sposa Euridice. Morì ella nella Tracia; io per comodo dell'unità del luogo la suppongo morta nella Campagna felice presso al lago d'Averno, in vicinanza del quale finsero i Poeti trovarsi una spelonca, che apriva il cammino all'Inferno. L'infelice amante mosse a pietà gli Dei, che gli concessero di penetrar negli Elisi per ripigliarsi la sua diletta, col patto però di non guardarla finché non fosse tornato sulla Terra. Non seppe il tenero sposo frenar tanto gli affetti, ed avendo contravvenuto al divieto, perdé per sempre Euridice. Per adattar la favola alle nostre scene ho dovuto cambiar la catastrofe. Leggasi Virgilio al libro IV delle Georgiche, al VI dell'Eneide».
Cosi recita l'Argomento dell'«Orfeo» nel libretto stampato per la prima esecuzione tenutasi nel «Theater bey der Hofburg» di Vienna, in occasione delle feste per il giorno onomastico dell'Imperatore Francesco Stefano I di Absburgo Lorena e per l'anniversario della sua incoronazione. Le parole del Calzabigi sono informate a una esibita «Empfindsamkeit» di stampo roussoviano e diderotiano, nell'enfasi posta sull'aspetto patetico e universalmente «umano» del mito di Orfeo («il suo lungo dolore nell'immatura morte della sua sposa Euridice...; l'infelice amante mosse a pietà gli Dei...; non seppe il tenero sposo frenar tanto gli affetti...»). Disposizione che nel libretto sarà evidente soprattutto nella delineazione del personaggio di Euridice nella quale il Calzabigi vide - per usare le parole di Alfred Einstein - «realisticamente una creatura violenta, piena di passione ed accecata dalla gelosia», una donna «splendida e imperiosa», che «ha l'attitudine e il gesto di una Giunone irata»; e proprio a questo desiderio di «realismo» psicologico, di umanizzazione e di attualizzazione del mito, è da imputarsi la protratta scena dell'incontro patetico e contrastato tra i due protagonisti nel regno dei morti, che occupa due terzi buoni dell'ultimo atto dell'opera.
D'altra parte si avverte anche nella prosa del Calzabigi un'insistita preoccupazione di ordine rettorico che lo spinge a giustificare «per comodo dell'unità di luogo» lo spostamento dell'azione «nella Campagna felice presso al lago d'Averno» e il cambiamento della «catastrofe» dettata dalla necessità di «adattar la favola alle nostre scene». Non sfugga inoltre l'esplicita scelta della poesia virgiliana - in più luoghi recuperata attraverso amorose parafrasi - come ideale punto di riferimento stilistico ed espressivo del libretto, senza rinunciare tuttavia alla mediazione di toni e modi di una melica arcadica, talora di schietta ascendenza metastasiana:

Cerco il mio ben così
in queste ove morì
funeste sponde.
Ma solo al mio dolor
perché conobbe amor
l'eco risponde.

[...]

Piango il mio ben così
se il sole indora il dì, se va nell'onde.
Pietoso al pianto mio
va mormorando il rio,
e mi risponde.

«Adattar la favola alle nostre scene»: l'espressione ha un significato preciso sul piano drammaturgico, che merita di essere approfondito non foss'altro che per puntualizzare quanta acuta coscienza delle convenzioni linguistiche e dei loro presupposti ideologici fosse implicita a questo spettacolo, incautamente assunto a simbolo di una radicale eversione delle tanto vituperate «convenienze teatrali» settecentesche; a giusto scorno - altresì - degli affatto mitici precorrimenti romantici per non dire wagneriani (!), che nutrite schiere di critici gli attribuirono.
Occorrerà dunque anzitutto precisare che «Orfeo ed Euridice» non nacque come dramma per musica: il lavoro si situava entro un filone relativamente indipendente dal melodramma, del quale aboliva molte delle convenzioni per la buona ragione che muoveva da tutt'altra tradizione: quella dell'azione teatrale. Questo sottogenere drammatico ebbe ampia diffusione a Vienna e in altri centri europei (Dresda, Stoccarda, Parma e Napoli, per esempio) nei quali un'attiva vita musicale si univa a un'altrettanto solerte attività teatrale nell'ambito delle corti: ravvisandosi nella sua più agile e nello stesso tempo fantasiosa e sfarzosa struttura il veicolo ideale per uno spettacolo di circostanza, legato per tramiti più o meno diretti con l'occasione celebrativa entro la quale veniva accolto.
«Orfeo ed Euridice» è dunque propriamente un'azione o anche, come si diceva con efficace espressione, una festa teatrale: quale topoi del genere accoglie il soggetto mitico le spettacolari scene infernali, l'ampio impiego della danza, gli elaborati passaggi corali e la raffinata e complessa orchestrazione; anche il meno rigido schema formale dei pezzi chiusi, così come l'eliminazione dei ritornelli iniziali delle arie ha - sempre in questo ambito - precedenti frequenti e illustri. Parimenti l'interpenetrazione di aria e recitativo accompagnato, l'abolizione del recitativo secco si segnalano per la radicalità delle soluzioni adottate, non per il principio, anch'esso accolto - sia pure in misura più limitata - nella tradizione precedente.
Così la tanto conclamata «riforma» dello stile vocale mediante l'adozione di un canto sillabico alieno da colorature e virtuosismi, non può essere scissa dalla conservazione del carattere astratto, intimamente antirealistico dei tipi vocali, secondo ascendenze squisitamente italiane: il primo interprete del ruolo di Orfeo fu, com'è noto, il castrato Gaetano Guadagni. Fermo restando, s'intende, che squisitamente gluckiana - prescindendo dall'inconfondibile misura stilistica che su elementi vecchi e nuovi distende un personale colore espressivo - è la sistematica declinazione drammatica e l'interdipendenza di tutti questi elementi, secondo quella concezione organica del teatro musicale che Gluck andrà in seguito, da «Alceste» in poi, indagando e approfondendo.
Quanto precede permette di sottolineare quanto fossero carenti, proprio sul piano formalistico, le ragioni di una critica che esclusivamente su queste basi giudicava la rilevanza storica dell'«Orfeo» gluckiano. Il quale, a nostro avviso, presenta ben altri motivi di interesse, che tanto più chiaramente possono essere compresi quanto più si mette in relazione questo spettacolo sia con la tradizione drammatico-musicale precedente, sia con i successivi sviluppi ed esiti dell'esperienza del musicista; spezzando necessariamente - come si diceva - l'occulta e inconfessata teleologia della storia del melodramma, che vede nella tradizione del teatro italiano settecentesco un lungo e stravagante errore rispetto alla meta designata del dramma musicale romantico.
Le idee drammaturgiche di Calzabigi
Converrà dunque lasciarci guidare dai protagonisti di questo avvenimento che - sottratto ben presto al suo contesto storico - fu caricato di significati che ne occultarono le caratteristiche più intime e peculiari.
Con queste parole il Calzabigi - giunto alla fine della propria parabola artistica ed esistenziale - rievocava nel I784, in una lettera pubblicata sul «Mercure de France», gli esordi della propria collaborazione con Gluck:
Ho pensato, venticinque anni orsono, che la sola musica conveniente alla poesia drammatica, in particolare per i dialoghi e per le arie che chiamiamo d'azione, fosse quella che più s'avvicina alla declamazione naturale animata, energica, ho pensato che la stessa declamazione non fosse che una musica imperfetta; che noi potremmo notarla così com'è se trovassimo segni a sufficienza per indicare tanti toni, tante inflessioni, tanti elevamenti della voce e successivi addolcimenti, tante svariate sfumature, che produce la voce declamando. La musica che accompagna qualsiasi verso non essendo dunque, a mio parere, che una più elaborata declamazione, più studiata e arricchita dall'armonia degli accompagnamenti, pensavo che stesse qui tutto il segreto per comporre eccellente musica per un dramma; che più la poesia era stringata, energica, appassionata, toccante, armoniosa, e più la musica cercasse di esprimerla convenientemente, secondo la sua vera declamazione, sarebbe la vera musica di questa poesia, la musica per eccellenza... Giunsi a Vienna nel 1761 tutto preso da queste idee. Un anno più tardi, S. E. il conte Durazzo, allora direttore degli spettacoli alla Corte Imperiale, e oggi ambasciatore a Venezia, al quale avevo recitato il mio «Orfeo», mi incaricò di metterlo in scena per il teatro. Acconsentii a patto che la musica fosse composta come io volevo. Mi mandò allora da Gluck, che, mi disse, si presterebbe a tutto. Gluck non era considerato - allora - e senza dubbio a torto - tra i più famosi compositori come Hasse, Buranello, Jommelli... Nessuno conosceva la musica di declamazione, come io la chiamo, e per Gluck che non pronunciava bene la nostra lingua, sarebbe stato impossibile declamare qualche verso uno dietro all'altro. Gli lessi il mio «Orfeo», declamandogliene parecchi brani, indicandogli le sfumature che io poneva nella declamazione, le sospensioni, la lentezza e la velocità, i toni della voce a volte sforzati a volte alleggeriti, di cui intendevo che egli si valesse nella composizione. Lo pregai inoltre di abolire i passaggi, le cadenze, i ritornelli, e tutto ciò che si è introdotto di gotico di barbaro, di stravagante nella nostra musica. Gluck adottò le mie idee... Cercai i segni per indicare almeno i tratti più salienti inventai alcuni segni e li misi tra una riga e l'altra nel testo dell'«Orfeo». Su questo manoscritto, in cui dove i segni non erano bastati avevo scritto le note, Gluck compose la sua musica...
La nota saliente di questo testo non è tanto di ordine astrattamente estetico o teorico: l'idea che la musica sia la liberazione del potenziale fonico-espressivo implicito alla declamazione, era già un concetto tipico dell'estetica di segno classicistico sottesa alla poetica del melodramma italiano, e che gli Enciclopedisti francesi avevano rifondato su nuove basi. La novità è piuttosto nel vigore con cui si pone l'accento sull'esigenza di un più profondo impegno espressivo e di una più sofferta serietà morale della poesia, che si vuole - appunto - «stringata, energica, appassionata, toccante, armoniosa», come della musica, che si esige lontana dalla gratuità dell'arbitrio e della maniera. La «musica di declamazione», come la chiama il Calzabigi, è il perfetto corrispettivo del «balletto pantomimo» di Noverre e di Angiolini, che non a caso ha così ampio ruolo nell'«Orfeo ed Euridice»: se la prima libera le virtualità sonore della parola senza offuscarne le potenzialità significative, il secondo opera una stilizzazione del gesto che ne valorizza, anziché disperderne, la carica simbolica ad esso connessa. Nell'uno e nell'altro caso il riferimento ultimo non è ad una tradizione formale o retorica, ma ad un dato empirico, all'esperienza fondata sulla natura.
Le idee drammaturgiche di Gluck
Un'importante lettera di Gluck, pubblicata anch'essa sul «Mercure de France», nel I775, permette di confermare non solo la sostanziale verità del ruolo che il Calzabigi si attribuiva, ma l'identità degli intenti espressivi che guidarono librettista e compositore nella comune ricerca di una umanità autentica, rifondata sui liberatori principi della «natura» illuministica.
Mi dovrei ancor più rimproverare se acconsentissi nel lasciarmi attribuire l'invenzione del nuovo genere d'opera italiana, il cui successo giustifica l'averla tentata; è al Sig. Calzabigi che va il merito principale, e se la mia musica ha avuto un qualche successo, credo di dover riconoscere che è a lui che devo riconoscenza, perché è lui che mi ha messo nelle condizioni di sviluppare le risorse della mia arte. Questo autore pieno di genio e di talento, ha seguito una strada poco conosciuta dagli italiani, nei poemi di «Orfeo», di «Alceste» e di «Paride». Queste opere sono piene di quelle felici situazioni, di quei tratti terribili e patetici che permettono al compositore di esprimere grandi passioni e di creare una musica energica e toccante. Per quanto talento abbia un compositore, non scriverà che musica mediocre, se il poeta non stimola in lui questo entusiasmo, senza di cui tutte le produzioni artistiche sono deboli e languono; l'imitazione della natura è il fine riconosciuto che tutti debbono proporsi. Ed è anche quello a cui cerco di tendere: la mia musica, sempre semplice e naturale nella misura del possibile, mira a realizzare la più grande espressione e a rìnforzare la declamazione poetica...
Nella tensione tra questo nuovo ideale umano, prima che artistico (sia pure espresso, a livello teorico, con strumenti tradizionali), nel quale si rispecchiava la carica rivoluzionaria della disposizione ideale illuministica, e le leggi strutturali implicite al genere della festa teatrale e alle sue proiezioni socali ed ideologiche, risiede il senso più intimo dell'«Orfeo ed Euridice» gluckiano: splendido compromesso tra le ragioni di un pensiero progressivo - e progressivo non solo sul piano musicale - e un gusto ancora largamente legato ai modelli dell'ufficialità d'apparato viennese e absburgica.
Il lieto fine e l'ideologia dell'Assolutismo illuminato
Da questo punto di vista è necessario riconoscere che il momento più discusso dell'«Orfeo», il suo lieto fine, costituisce una soluzione perfettamente coerente e solidale con la sua struttura. Come ha osservato lucidamente Ludwig Finscher,
«l'idea decisiva della riforma di Calzabigi, era di porre, al luogo delle abituali allegorie, o delle razionalisticamente problematiche dimostrazioni di virtú, passioni elementari ed umane: proprio questo genere di riforma, tuttavia, lasciava inalterata, in linea di principio, l'impalcatura tradizionale dell'azione teatrale. Con ciò, per altro, rimaneva intatta anche la struttura fondamentale della materia, il tipico rapporto gerarchico fra mondo degli dèi e mondo degli uomini. Il lieto fine, che faceva parte di questa struttura, non vi divenne tuttavia semplicemente ripreso come era, ma motivato mediante una svolta, che nella tradizione della leggenda di Orfeo non si era vista fino ad allora: l'apparizione di Amore già all'inizio dell'azione e l'ingiunzione di Amore ad Orfeo, non solo di non guardare Euridice lungo il viaggio al regno dei morti, ma neanche dichiararne a lei il motivo. Questo sopraggiunto divieto, era anzitutto una magnifica trovata dal punto di vista scenico, che acuiva il conflitto e forniva inoltre la possibilità di liberare Euridice dalla passività del suo ruolo, rendendola una persona che attivamente sentiva e agiva, per quanto reso possibile dall'argomento. Inoltre l'introduzione della prima scena di Amore aveva conseguenze fondamentali: il Dio, in questo caso, conduceva lui stesso visibilmente l'azione dal principio alla fine, complicandola e sciogliendola; con ciò le figure umane dell'azione vivevano le loro umane passioni soltanto nell'ambito di una libertà ristretta. Ma allora Amore - sia nella disposizione scenica che nel senso più profondo dell'azione - non era più soltanto una costruzione allegorica di comodo, un Deus ex machina, che interveniva nell'azione alla conclusione senza motivazione alcuna, ma era addirittura la personificazione del numinoso che presiede al mondo del dramma e determina la storia degli uomini. La conclusione dell'«Orfeo» è con ciò soltanto un momento parziale ma necessario di una struttura mitologica dell'azione, che resta pienamente fedele alla concezione fondamentale della Tragédie lyrigue, dell'Opéra-ballet e dell'azione teatrale, ma la rinnova dall'interno, colmandola dell'umanità propria al nuovo classicismo viennese, trasformando l'allegoria mitologica in un mitologico dramma umano. Ed è proprio l'idea umanitaria in un mondo mitologico che rende la conclusione conciliatrice, il lieto fine più necessario di prima: la prova che Amore impone agli amanti, senza questo lieto fine non sarebbe se non atroce e insensata; la supposta conclusione di cui si preoccupa sempre la prassi teatrale, non tragica, ma assurda. Il lieto fine è da prendersi dunque proprio sul serio, nel nuovo senso conferito da Calzabigi alla tradizione dell'azione teatrale».
D'altra parte, questo tipo di scioglimento drammatico, è a sua volta collegato con l'ideologia dell'Assolutismo illuminato e più precisamente con la sua variante viennese ed absburgica.
« All'incirca come il monarca illuminato - ha osservato Kurt Klinger - ripensò e rinnovò la forma dello stato conservandone il sistema, Gluck riformò lo schema dell'opera seria senza rinunciarvi. L'opera d'arte rifletté (forse consapevolmente?) la finalità del sistema di adeguarsi al nuovo giusto concetto di umanità, e ciò fece con l'aiuto della nuova ideologia - in gergo teatrale si direbbe con l'ausilio di una nuova drammaturgia. Le decise tendenze di Gluck per lo sviluppo drammatico chiaramente definito, la passione e la schietta sincerità a cui mancava, per divenire un «programma classico», soltanto il predominio categorico dell'etica - ma siamo già in questa direzione con il contatto con Klopstock - e tutte quelle azioni eroiche umanizzate da lui predilette, non superano in realtà i limiti di un ordine mondano ben disposto, misurato, armonico, degno di fiducia; e i rappresentanti di quell'ordine, le altezze, gli dèi, si comportano come se avessero fatto proprio il programma educativo degli Absburgo: amore verso l'umanità... compassione, consapevolezza che la signoria è solo un compito ricevuto in eredità... chi umilia gli uomini umilia se stesso. Quell'Olimpo civilizzato e imborghesito, reca i tratti della Hofburg, e i suoi dèi abitano in estate a Schönbrunn... Nel regno dei personaggi umani viene messa in luce una qualità che spinge ad azioni e già quasi a rivolte, appelli che premono con interrogativi e commuovono con i loro dolori, a cui sarebbe sconveniente e pericoloso non porgere ascolto. La decisione di Orfeo di penetrare nell'Ade, e infrangere così l'ordine naturale, potrebbe sembrare una ribellione se non fosse collegata a un comando divino. Con ciò diviene possibile che Orfeo ed Euridice reggano alla prova pur soggiacendovi. Il loro amore che tutto vince, si svela nella incapacità di non guardarsi in volto - e questo apre lo spazio ad un atto di grazia. Il Dio riforma, per così dire, il suo verdetto, secondo cui Euridice all'incrociarsi degli sguardi doveva essere per sempre perduta, prendendo l'atteggiamento di un amico, del buon vicino che allevia il dolore, asciuga le lagrime e merita riconoscenza con il suo rinnovato dono della vita».
In «Orfeo ed Euridice» la nuova drammaturgia gluckiana ha un'applicazione completa e organica, nel senso che tutti i suoi elementi caratteristici vi sono rilevabili - più o meno compiutamente - ai vari livelli dello spettacolo: da quello librettistico a quello musicale a quello della realizzazione mimica e scenica. Nello stesso tempo, tuttavia, la sua efficacia è indebolita dalla mancanza di un vero nucleo tragico. Le più grandi opere di Gluck, da «Alceste» alle due «Ifigenie», stringono i protagonisti nella morsa di situazioni senza uscita, dalle quali affiora e si definisce, in una messa a fuoco progressiva e incalzante, il loro profilo umano nel drammatico confronto con i rispettivi destini.
Lo scioglimento, al quale presiede il provvidenziale intervento divino, assume davvero una funzione liberatrice e catartica in quanto recupera da una prospettiva più alta i valori che il cieco sviluppo dei casi aveva negato o infranto. L'intera opera può diventare così emblema della razionalità e dell'eticità che si fanno strada, vittoriosamente, nell'opaca, predeterminata necessità delle vicende. Il suo svolgimento mima la drammatica tensione della vita morale che un principio superiore - di ordine divino - garantisce. Qui Euridice deve comunque tornare a vivere, perché è evidente che la sua morte proietta sulla creazione un'ombra tale da offuscarne la luminosa armonia. Significativamente, ella si salva, in sostanza, non attraverso, ma nonostante la prova imposta ad Orfeo, perché possa rifulgere, in tutta la sua provvidenziale misericordia, il divino atto di grazia. La perfezione del piano sovrannaturale finisce per porre fuori gioco l'attiva partecipazione etica dei protagonisti.
Tono contempletivo, non tragico
Gluck surroga alla mancanza di una vera tensione tragica della vicenda, mantenendosi fedele al carattere più specifico del testo teatrale: alla sua vocazione fastosamente spettacolare e celebrativa. Il tono di «Orfeo ed Euridice» non è tragico quanto piuttosto serenamente contemplativo; il suo centro focale sono gli Elisi, non l'Ade. È giusto dunque che in nessun momento la passione tocchi l'acme dell'intensità tragica: il celebre rondò di Orfeo, «Che farò senza Euridice», poté sembrare ambiguo sotto il profilo espressivo a chi leggeva il mito da una prospettiva romantica, consapevole dei suoi risvolti dionisiaci. In effetti esso fornisce la corretta cifra sentimentale di un lavoro nel quale non a torto è stato identificato il primo manifesto del neoclassicismo musicale. Anche laddove campeggia, come nella mirabile scena d'apertura, il sentimento della morte, esso viene offerto - nella grande trenodia corale sulla quale si inserisce il canto d'Orfeo - in una tonalità soave e dolcissima, che sembra richiamare gli arcaici attributi selenici di Euridice.
Da una pallida chiarità lunare è agevole immaginare illuminata la prima scena dell'opera, l'« ameno ma solitario boschetto di allori e di cipressi, che ad arte diradato racchiude in un piccolo piano il sepolcro di Euridice». E quale trionfo di un'iconografia squisitamente tardo rococò viennese (si immagini il compiacimento delle Imperial Regie Maestà Loro) nel ballo che vi si svolge: «intorno all'urna d'Euridice piangono de' Genij che rappresentano degli Amorini, et uno in figura d'Imeneo spenge la sua face simbolo dell'unione coniugale separata dalla morte».
Nel civilissimo aldilà in cui si avventura Orfeo, anche le Furie e i Mostri sono stati toccati dalla luce dell'umano, non hanno perso la capacità di compatire chi è stato provato dal dolore. Ma l'intensità straordinaria della loro apparizione - che lasciò a ragione sbigottiti i pubblici settecenteschi - non travalica l'ambito dello stupendo tableau, chiuso in se stesso nei modi di un intermedio protobarocco. L'ultima sua eco, giusta la didascalia del libretto, «si dilegua per entro le scene».
Non così la musica degli Elisi, sulla quale si snoda il recitativo di Orfeo, «Che puro ciel». Posto al centro esatto dell'opera (proprio come l'aria «Possente spirto», nella quale Monteverdi aveva riassunto il senso della divina potenza fascinatrice della musica), ne è insieme l'epitome e la sigla espressiva: la sua luce si irradia per l'intera azione teatrale, a simboleggiare solennemente la deliberata scelta della serena variante apollinea del mito.
Che puro ciel!
Che chiaro sol!
Che nuova serena luce è questa mai
Che dolce lusinghiera armonia
formano insieme
il cantar degli augelli,
il correr de' ruscelli,
dell'aure il sussurrar!
Questo è il soggiorno
de' fortunati eroi.
Qui tutto spira un tranquillo contento...
Nato da un lungo travaglio - esso compare in versioni vistosamente più banali in due opere precedenti di Gluck, l'«Ezio» e l'«Antigono» -, il grande recitativo che costituisce il cuore della scena degli Elisi eleva solennemente la musica, emancipata da ogni sottimissione alla parola e liberata in tutto il suo autonomo potenziale espressivo, a specchio di un nuovo sentimento della natura e dell'uomo, presagio di motivi destinati a trovare precisi e fecondi echi nel classlclsmo viennese, dallo Haydn della «Creazione» e delle «tagioni» al Beethoven della «Sesta sinfonia».
Ancora una volta «Orfeo ed Euridice» svela la sua doppia natura di prologo a una nuova drammaturgia e di emblema di un'utopica concordanza tra uomo, natura, società, fondata sui nuovi valori teorizzati dal razionalismo illuministico e garantiti dal potere assoluto e illuminato.
Esecuzioni e prassi esecutiva nel Settecento
Un numero relativamente ristretto di opere fu dato alle stampe nel Settecento; la pratica dell'edizione, riservata sin dalla comparsa del genere operistico a spettacoli in qualche modo eccezionali, tali da garantire una più lunga permanenza in repertorio di quanto non fosse concesso alla normale produzione (destinata, in senso letterale al «consumo» della vivacissima vita teatrale del tempo), conobbe una più vasta diffusione a Parigi e a Londra: qui con una più marcata tendenza alla pubblicazione di brani scelti dagli spettacoli di maggior successo in riduzione per canto e pianoforte. In questo numero rientrano ambedue le versioni dell'Orfeo di Gluck, che furono quasi subito pubblicate in partitura a Parigi, appunto, la prima nel I764, la seconda nel I774.
Si tratta, nell'un caso e nell'altro, di buoni testimoni - ove li si rapporti alla media delle consuetudini editoriali dell'epoca - della forma originale dei rispettivi spettacoli e del pensiero compositivo di Gluck: in ogni caso essi appaiono come fonti incomparibilmente più «autorizzate» e fededegne delle normali copie manoscritte che servivano di tramite per la diffusione del repertorio operistico coevo, aperte alle più arbitrarie modificazioni e interpolazioni legate alle contingenze di questa o quell'esecuzione.
Non per questo l'«Orfeo» gluckiano ebbe, sin dalla seconda metà del Settecento, una tradizione esecutiva più aderente alle sue matrici originali di quanto non avvenisse per la media delle altre opere; avvenne, semmai, nonostante il sussidio delle stampe che fornivano un buon testo in un numero relativamente alto di esemplari omogenei, il contrario.
Il fatto in sé non deve destare - come non destò allora - sorpresa o scandalo, perché era profondamente connessa alla pratica teatrale settecentesca l'idea dell'opera come progetto largamente aperto all'intervento in un modo o nell'altro integrativo, quando non addirittura co-creativo degli interpreti. Singolare era piuttosto la non congruenza di questi interventi estemporanei su una struttura musicale e drammaturgica per più versi (anche se certo non totalmente) estranea alle correnti convenzionali teatrali.
Non solo e non tanto - sia ckiaro - per gli intenti «riformatori» della pièce di Gluck e Calzabigi, quanto perché l'«Orfeo» era - come si è visto - uno spettacolo teatrale congegnato su uno schema diverso da quello del dramma per musica: era, propriamente, un'azione teatrale e di questo genere drammatico, destinato alla festa di corte e dotato di una propria specifica tradizione stilistico-strutturale, rispecchiava fedelmente, pur nella nuova prospettiva «riformata», le caratteristiche più tipiche: il soggetto mitico, le spettacolari scene infernali, l'ampio impiego della danza, gli elaborati passaggi corali e la raffinata e complessa orchestrazione, per non parlare dei due elementi più vistosamente determinati sul piano pratico, la durata relativamente modesta e la presenza in scena di tre soli personaggi.
Finché l'«Orfeo» rimase nell'ambito di questa o quella corte adempiendo a funzioni sostanzialmente analoghe a quelle assegnategli originariamente nella Vienna absburgica, esso fu rappresentato in una dimensione sostanzialmente fedele all'originale: basti pensare all'esecuzione del I764, a Francoforte, nel quadro delle celebrazioni per l'incoronazione dell'Arciduca Giuseppe, alla ripresa del 1769 (nell'ambito dello spettacolo dal titolo «Le feste d'Apollo» dello stesso Gluck) presso la corte parmense, o a quella del I774 presso quella napoletana: anche se il protagonista, negli ultimi due casi citati, fu un soprano, anziché, come nell'originale, un contralto.
Il caso di Napoli è particolarmente illuminante perché permette di toccare con mano la trasformaziono cui l'opera fu sottoposta nello stesso anno, allorché il luogo di esecuzione si spostò dal Teatro di corte al Teatro San Carlo: qui la redazione originale dell'«Orfeo» fu giudicata semplicemente improponibile, non tanto sulla base delle soluzioni stilistiche avanzate che la partitura proponeva (e che furono in larghissima misura conservate), ma in considerazione della non congruenza del genere con il luogo di rappresentazione. Che la peculiare dimensione teatrale dell'«Orfeo» ponesse problemi non facilmente risolubili in relazione alle normali consuetudini del tempo, è provato anche dalla frequenza delle esecuzioni in forma di concerto (una prassi anch'essa decisamente abnorme): da Breslau (1771) a Firenze (1773) ad Amburgo (1775/76), a Siena (1795), etc. Pertanto al San Carlo, sull'esempio di quanto era già avvenuto al Teatro Reale di Haymarket a Londra nel 1770, nel 177I e nel 1773, e al Teatro di Via del Cocomero a Firenze nello stesso 1771 e di quanto sarebbe avvenuto successivamente in molti altri teatri italiani e no, l'«Orfeo» fu trasformato da azione teatrale in dramma per musica.
Ciò comportò una serie consistente di modìficazioni legate all'espansione della vicenda dall'originale statica giustapposizione di tableaux al dinamico dipanarsi di un'azione portata avanti da otto personaggi (corrispondenti a sette ruoli vocali), ambientata in sette scene (anziché in cinque, come nell'originale) e intervallata da tre grandi balli, tutti indipendenti, secondo la consuetudine - salvo vagamente l'ultimo -, dall'azione: come è agevole dedurre sin dai titoli, «Adele di Pointieu», «La felice metamorfosi o siano i Petits-maitres burlati», «Coro di seguaci d'Amore».
La versione parigina
Non si dimentichi che questa rappresentazione napoletana, emblematica della rivisitazione in qualche modo obbligata che non solo la partitura ma la concreta realtà spettacolare dell'«Orfeo» nel suo complesso conobbe, nel suo incontro con la situazione del gusto e delle convenzioni sceniche italiane o italianizzanti, ebbe luogo quasi contemporaneamente alla nuova versione del lavoro che Gluck aveva preparato per le scene parigine. La quale, in sostanza, nasceva dall'analoga necessità di adeguare lo spettacolo allo schema operistico francese; a tal fine Gluck mutò il registro del protagonista dal contralto (primo interprete ne era stato il leggendario Guadagni) al tenore (espressamente per il grande Le Gros), aggiunse alcuni nuovi brani vocali e strumentali e ritoccò in più punti la strumentazione, mettendo a profitto l'esperienza di dodici densi anni di esperienze compositive.
Il frutto più prezioso di questa revisione, accanto a pagine stilisticamente perfette ma alquanto neutre sotto il profilo espressivo, sono lo stupendo «Air des Furies», tratto dal balletto «Don Juan» e un'aria con cori per Euridice, «Cet asile aimable et tranquille», entrambi nel secondo atto. Ma, a nostro parere, neanche questi due momenti eccelsi riescono a conferire alla versione francese l'unità organica e la freschezza inventiva della redazione di Vienna.
Se in un primo momento la versione riveduta ebbe una diffusione limitata (corrispondente all'area non vasta, a giudicare dalle tabelle del Löwenberg, di predominante influenza del gusto teatrale francese), conquistò alla lunga il predominio sulla versione originale nel processo di diffusione europea dell'opera. Lo sviluppo della drammaturgia gluckiana si era infatti concretato in una serie folgorante di tragédie-lyriques, dalla versione francese dell'«Alceste», all'«Armide», alle due «Iphigénies», sì che parve naturale l'adozione dell'«Orfeo» francese, oltretutto più ricco e sfarzoso rispetto al più lineare prototipo italiano, in un certo senso arcaico e demodé.
D'altra parte, proprio la risonanza internazionale della drammaturgia gluckiana aveva contribuito a rilanciare i modelli, sia pure profondamente riveduti, della tradizione drammatica d'oltralpe, relegando in una sfera tutto sommato provinciale la produzione seria di segno italiano. Last but not least, mentre l'Orfeo scomparve ben presto dal repertorio italiano, continuò ad essere ininterrottamente rappresentato sulle scene francesi, sommando, solo a Parigi, tra il 1774 e il I848, ben 297 esecuzioni.
È sul modello francese, più congruo con certe fondamentali caratteristiche della drammaturgia romantica che lavorarono, a tacer d'altri, autori come Liszt (che ne curò una rappresentazione a Weimar nel 1854 per la quale compose espressamente un Preludio e un Finale) ed Hector Berlioz, che mise in scena l'«Orfeo» a Parigi il I9 novembre 1859, sino a Camille Saint Saëns, autore di una revisione della partitura insieme con G. Doret ( 1911 ).
La versione di Berlioz
La versione di Berlioz, merita una speciale menzione per vari motivi: in primo luogo perché essendo stata pubblicata sia nella versione per canto e pianoforte (Escudier, Parigi I859), sia in partitura (Heinze, Lipsia I866) ebbe grande diffusione e costituì la base per le successive edizioni di Peters, Novello, Schirmer, Ricordi; in secondo luogo perché - pur fondendo liberamente, e certo arbitrariamente, la versione viennese con quella parigina e presentando un testo musicale variamente emendato e modificato - ripristinava il ruolo contraltile del protagonista, operando in tal modo (sia pure in un taglio interpretativo che accentuava l'elemento universalmente «umano» di Orfeo, sulle componenti di stilizzazione settecentesca) una fondamentale operazione filologica, che ebbe in Pauline Viardot-Garcia un avallo oltremodo efficace e convincente sia a livello vocale, sia a livello scenico.
La Viardot nel ruolo di Orfeo
Certo, i risultati stilistici ed espressivi di un incontro così singolare tra un direttore-revisore della grandezza di Berlioz (che di Gluck fu in qualche modo erede spirituale) e di un'interprete come la Viardot-Garcia non erano destinati a ripetersi tanto frequentemente nel futuro: e non solo per le stravaganti interpolazioni che di rappresentazione in rappresentazione si operavano su un testo di per sé tutt'altro che fedele a questa o a quella delle versioni originali, quanto per lo stile, in genere viziato da superfetazioni romantico-veriste di cui fecero (e fanno) triste sfoggio sia i direttori, sia, ancor più cordialmente, gli interpreti vocali. A quest'ultimi è in genere negato - salvo eccezioni memorabili - il senso della morbida vocalità settecentesca, il segreto di un canto naturalmente espressivo e pur sempre fondato sulla purezza dell'emissione, la levigata euritmia del fraseggio, la precisione della dizione, la plasticità del ritmo. Impresa certo non facile, se è stata in tempi recenti clamorosamente fallita anche da un cantante della sensibilità e della cultura di Dietrich Fischer-Dieskau, protagonista (secondo persistenti modelli esecutivi di ascendenza ottocentesca, renitenti all'uso del travesti) di una assai modesta incisione discografica dell'opera diretta da Karl Richter.
L'approccio stilistico in Italia
Le difficoltà di un approccio stilisticamente corretto con l'«Orfeo» furono evidenti, più che altrove, in Italia, dove pure il lavoro fu ripreso in forma scenica (dopo qualche riproposta in versione da concerto) a partire dal I889 (al Teatro Costanzi di Roma e ben presto nei maggiori centri teatrali del paese). Toscanini lo diresse alla Scala nel I907 (protagonista Maria Gay) nel 1924 e nel 1925 (protagonista Fanny Anitúa), attenendosi alle versioni correnti, anche se dal 1914 poteva disporre della buona edizione curata da Hermann Abert per i «Denkmäler der Tonkunst in Osterreich», e lasciandone infine una più che opinabile versione discografica parziale.
L'interpretazione toscaniniana si collocava - né avrebbe potuto fare altrimenti - all'interno della vulgata visione storiografica che faceva di Gluck un eversore delle convenzioni del melodramma settecentesco e un inconscio precursore del dramma musicale romantico e wagneriano: e bisogna ammettere che le letture che si sono date e tuttora si danno delle opere gluckiane (in particolare, vorremmo dire, dell'Orfeo), muovendo da questa prospettiva decisamente falsa, riescono alla nostra coscienza culturale e alla nostra sensibilità musicale affatto improbabili e decisamente antistoriche.
Vero è che esiste in Italia uno iato vistoso fra la tradizione esecutiva esemplata su modelli criptoromantici e le acquisizioni critiche degli ultimi decenni, che hanno definitivamente legato l'opera di Gluck al vasto movimento di pensiero e di gusto dell'Illuminismo italiano ed europeo, variamente rispecchiato nelle precedenti esperienze teoriche e musicali italiane e francesi, dalle quali Gluck è di fatto inseparabile.
Le geniali intuizioni di un regista come Luchino Visconti e di un coreografo come Aurelio Millos hanno già avviato, nella recente storia degli spettacoli gluckiani in Italia, il superamento - sul piano dello spettacolo - della manierata e stucchevole ambientazione dell'opera in un'Ellade ricostruita con la cartapesta, in stile Impero.
D'altra parte, sul piano musicale, il recupero della più autentica dimensione testuale è resa ormai agevole dall'ottima edizione critica delle opere di Gluck promossa a partire dal 1951 dall'Institut fur Musikforschung di Berlino e pubblicata dalla casa editrice Bareureiter di Kassel.
Esistono dunque oggi tutte le condizioni perché si ripri stini un attivo confronto con la realtà espressiva dell'«Orfeo» di Gluck. Impresa come poche altre delicata e insidiosa: «Non si vuol nulla - ammoniva lo stesso Gluck nella Prefazione al «Paride ed Elena» nel I770 - perché la mia aria nell'«Orfeo», «Che farò senza Euridice», mutando solamente qualche cosa nella maniera dell'espressione diventi un saltarello di burattini. Una nota più o meno tenuta, un rinforzo trascurato di tempo o di voce, un'appoggiatura fuor di luogo, un trillo, un passaggio, una volata può rovinare tutta una scena in un'opera simile; e non fa nulla o non fa che abbellire un'opera delle solite.»