Elvio Giudici

Le quattro versioni di Orfeo

L'opera in CD e video.
Guida all'ascolto.

[Milano, Il Saggiatore, 1995, pp. 251-252.]

I rifacimenti, le revisioni e le contaminazioni subite dall'«Orfeo ed Euridice» (una delle poche opere del Settecento a essere stata regolarmente eseguita nei duecento anni che la separano da noi) sono tra i più comp]essi e numerosi di tutta la storia del teatro lirico. Ragion per cui, quando si parla di quest'opera, occorre sempre precisare a quale Orfeo ci si riferisce: non solo in generale ma per ogni singolo brano, dato che una prassi oltremodo comune è sempre stata quella del patchwork tra le diverse sue edizioni, sia come successione dei diversi numeri, sia all'interno d'un brano, la cui prima sezione è magari d'una versione, e la seconda di un'altra.
Le versioni fondamentali dell'opera sono, comunque, quattro.
I. L'edizione originale scritta nel 1762 per Vienna, protagonista il castrato Gaetano Guadagni, della quale nel l963 è stata pubblicata un'edizione critica, ad opera di Anna Amalie Abert e Ludwig Finscher.
II. La rielaborazione che Gluck approntò nel 1774 per il pubblico di Parigi: volgendo in francese il testo di Calzabigi e facendosi comporre da Moline i versi necessari ai numerosi pezzi nuovi composti per l'occasione. Che sono: un'aria per Amour al prim'atto, «Si les doux accords de ta lyre»; un'aria per Orphée in conclusione del primo atto; al second'atto la danza delle Furie - tratta dal balletto «Don Juan» e posta a conclusione della relativa scena mentre nella scena seguente dei Campi Elisi viene inserito un ampio episodio per coro, soli (l'aria dell'Ombra beata «Cet asile aimable et tranquille») e danze, tra cui quella celeberrima con flauto obbligato; al terz'atto, il duetto tra Orphée e Eurydice «Je goùtais les charmes» e il Trio «Tendre Amour», ricavato da Paride ed Elena; infine, un ballo come conclusione delI'opera.
Inoltre, in aggiunta a una revisione generale della strumentazione (resa molto più sofisticata neli gli impasti, come il gusto francese prediligeva), la tessitura del protagonista viene trasposta per haute-contre: termine secentesco con cui i fran cesi indicavano - sulla scorta di Ramenu che lo impiegò sovente - una voce di tenore chiara e agile la cui estensione andava dal sol basso al re sovracuto.
Una rielaborazione, quincli, la cui portata è tale, in materia non solo di ampliamento testuale ma soprattutto di strumentazione e di tonalità, che non è fuor di luogo parlare - al di là di giudizi di merito - di due opere profondamente diverse nella forma e ancor più nello spirito.
III. La revisione di questa seconda versione, operata da Berlioz nel 1859 per il Théatre Lyrique di Parigi, a seguito della quale la
parte di Orfeo - la cui altlsslma tessitura i tenori, ormai quasi scomparsi gli haute-contre, trovavano sempre più arduo sostenere - fu trascritta ner contralto e affidata alla celebre Pauline Viardot e quindi a un Orphée en travesti. A parte i pesanti ritocchi romanticizzanti sull'orchestrazione di diversi brani (ivi compreso «Quel nouveau ciel» che pur se preferibile nella strumentazione viennese, anche nella parigina proprio non si vede quale nota abbia men che sublime), cospicui mutamenti vengono introdotti nell'aria posta a chiusura del primo atto, la cui cadenza finale se la scrisse la stessa Viardot. E a concludere l'opera - riarrangiata da tre a quattro atti - viene inserito un coro, «Le Dieu de Paphos» tratto da «Echo et Narcisse» dello stesso Gluck, in luogo di tutto il grosso blocco che comprendeva Trio e balletto finale.
IV. La versione stampata da Ricordi, in occasione della ripresa dell'opera alla Scala nel 1889 consiste in una ritraduzione in italiano della seconda versione ma con svariate aggiunte estrapolate da quelia berlioziana del 1859, il tutto con notevole rimescolamento nella successione prevista sia dall'una sia dall'altra. Versione che, pur essendo la più pasticciata e la meno fedele di tutte alla concezione gluckiana (il sapientissimo impianto tonale su cui evolve la narrazione ad esempio, già alterato in peggio dallo stesso Gluck nella versione parigina, subisce qui il definitivo collasso), è stata la più eseguita, facendo quindi la parte del leone anche nelle varie edizioni discografiche fino agli inizi degli anni Ottanta.
Imperativo essendo ormai lo scegliere soltanto una partitura di Gluck (specie adesso che si dispone d'un'edizione critica), optare per quella di Vienna o quella di Parigi - che, nel caso, è però doveroso eseguire in francese - è cosa da rapportarsi soprattutto al gusto personale del direttore, giacché quest'ultima versione è senza dubbio più grandiosa e drammatica, con contrasti più marcati e raffinatezze di chiaroscuri ignote all'altra: e che dimostra, per inciso, quanto diversa fosse l'atmosfera nella quale Gluck intendeva immergere l'opera revisionata.
Ma l'Orfeo più autentico, il gusto odierno ha ben pochi dubbi (più che giustamente, a mio avviso) nel ritenere sia il primo. D'accordo, la perdita soprattutto della sezione di balletto in re minore con flauto obbligato, nonché della sublime aria «Cet asile aimable et tranquille», è sicuramente dolorosa. Ma in compenso tutta la struttura dell'opera, con la contenutezza delI'organico e con la timbrica ben altrimenti caratterizzata, al pari del ben diversamente serrato impianto tonale complessivo, risulta emozionalmente assai più incisiva, oltre che d'atmosfera più suggestiva: quella stessa atmosfera che, evolvendo la sensibilità espressiva verso le temperie romantiche si è cercato di mitigare con l'infonderle una drammaticità a forti tinte che assolutamente non le compete.