WOLFGANG AMADEUS MOZART WEBSITE

 

MARIO BORTOLOTTO

Nell'isola magica di Mozart

UN INEDITO DEL MUSICISTA

REPUBBLICA, 23 febbraio 2000

 

Una novissima opera eroicomica maturata nello stesso ambientegaudente che vide poi fiorire «Il flauto magico». Librettista della «Pietra filosofale» [Der Stein der Wesen] fu Emanuel Schikaneder onnipresente tuttofare e geniale arruffone cui si deve anche il testo del «Flauto». Si deve al musicologo americano David J. Buch il recupero di quel manoscritto dimenticato e poi autenticato anche in Germania.
Sulla vita di Mozart, forse più che su ogni altra, ben pochi sono gli asserti assodati: di conseguenza, si scatenano le opinioni contrastanti, che decise simpatie o avversioni sostengono con veemenza, e quasi con furore. Constanze scivola da brava moglie (un po' volubile) a sgualdrina provetta. Così gli amici. Noi, fra questi,abbiamo una decisa benevolenza per Emanuel Schikaneder, l'ufficiale autore della Zauberflöte. Ma ecco un biografo assai informato, e ammirevole come scrittore, Wolfgang Hildesheimer, manifestarci un fiero livore. Sta parlando di Joseph Lange, marito di Aloysia Weber, l'immortale amata di Mozart, a quanto dicono, e, dunque, suo cognato: «attore e pittore, fu il primo Amleto e il primo Clavigo al Burgtheater di Vienna... artista serio e molto coscienzioso, come dimostrano i suoi appunti, non va certo messo alla stregua di uno Schikaneder, che fu sempre un avventuriero, in fin dei conti un guitto».
In realtà, era quegli un geniale arruffone, capace di tutto: uomo di teatro se altri mai, fu tra i primi arappresentare proprio Shakespeare: fu Riccardo III, Macbeth, Jago e Prospero; e, in quanto a librettista, dovrebbero bastare, per il «Flauto magico», le lodi di Goethe. Vero è che, dopo la morte di Mozart, un altro del gruppo si fece avanti come vero autore: Karl Ludwig Giesecke, divenuto poi un signore molto perbene (ritratto, fra l'altro, da Henry Reaburn), e addirittura professore di mineralogia presso la Royal Dublin Society.
La soluzione più attendibile di questa querelle postuma pare essere la collaborazione: tutto, nella cerchia di Schikaneder si faceva assieme e, stante il livello di quelle simpatiche serate (i succulenti festini dopo lo spettacolo, le cene in cui Mozart sperperò allegramente i suoi sensibili guadagni), si potrebbe parlare senz'altro di partouzes (anche) intellettuali: passandosi le ragazze (coriste, attricette, e via discorrendo), fra un tocai e uno champagne nascevano le proposte, e l'amabile padrone di casa era poi lì per attuarle. Di solito - vi furono eccezioni amare - il successo coronava le trovate di Johann Joseph, divenuto Emanuel non si sa bene per qual ragione: un nome ebraico quando il vero ebreo, Da Ponte, l'aveva mutato in un insospettabile Lorenzo.
Ora, quanto veniva rappresentato nel suo teatro era, anche sul piano musicale, di ottima qualità, il più delle volte almeno: opere tutte accolte specie il «Flauto», con favore che, mentre Mozart stava morendo, diveniva di sera in sera più entusiastico, anche se le prime recensioni risultano tutt'altro che favorevoli: il Musikalisches Wochenblatt aveva tacciato soggetto e linguaggio di «scadenti»; il celebre conte Zinzendorf, nel ghiottissimo diario stracolmo di osservazioni anche azzeccate, aveva definito il Flauto come «farce incroyable»: spirito illuminato, quell'instancabile frequentatore di teatri scriveva nella lingua di Diderot. Ma le sue riserve, spesso feroci, non devono trarre in inganno: apparteneva a quel tipo di Viennesi che, ci assicura Musil, potranno anche scambiare un genio per un cretino, mai però l'inverso: si tratta in genere di persone che hanno l'ammirazione difficile, specie per i contemporanei.
Schikaneder, uomo di mondo per eccellenza, lasciava dire e, con incrollabile ottimismo, aspettava il meglio. E, intanto, s'informava delle novità. La compagnia shakespeariana aveva portato anche in Austria i testi su cui, appena qualche anno dopo, si sarebbe riconosciutala Frühromantik, fino a scatenare quella shakespearomania (derisa da Grabbe) destinata adurare senza fine. E, accanto a quella, la poesia del poeta alla moda (fino almeno all'intervento tutt'altro che bonario dell'Olimpico): Christoph Martin Wieland, e i particolare il Wieland del Dchinnistan, la raccolta di racconti orientali, di tono fiabesco, che replicava le «Mille euna notte», giunte di Francia nella versione-parafrasi di Galland.
L'esotico batteva alla porta, e non solo nelle turcherie già passate di moda: si affacciava l'erotismo dei poeti persiani, a pimentare le vicende più o meno sconclusionate di tanti drammi e drammetti dal furioso intreccio. Non si può certo negare che, come impresario, Schikaneder dimostrasse un fiuto sopraffino. La silloge di Wieland venne convenientemente compulsata e dirottata in libretti d'opera o, più propriamente, di Singspiel: il teatro semicantato cheesige dai cantanti qualità di recitazione, e, anzitutto, di dizione quali, in Italia, non attecchirono mai, salvo nell'operetta. Ma la cerchia degli habitués sapeva, appunto, far di tutto. Non si dimentichi che il capobanda stesso, poteva essere attore, regista, organizzatore, e a tempo debito poeta, librettista, drammaturgo, e via discorrendo: persino cantante, se fu, nel «Flauto», e con onore, il primo Papageno.
L'azione sui suoi accoliti era certo stimolante: riusciva ad infiammarli di uno strano sacro fuoco; e le risposte fioccavano.
Fu così, che, a partire dai tardi anni Ottanta, sulle scene dell'An der Wieden si succedettero, con vario successo, pièces di tono fiabesco, quelle Zauberoper da cui, un bel giorno, proprio un cugino di Mozart mai conosciuto, Karl Maria von Weber, avrebbe estratto, come un prestigiatore, il miracolo della Romantik. Nel 1789, aprì la fortunata serie un «Oberon, König der Elfen» (Oberon re degli Elfi), ispirato, o per dir meglio suggerito a Giesecke (non ancora baronetto) dall'omonimo poema di Wieland; poi fu la volta di Schikaneder in persona, con «Der Steinder Weisen» (La pietra filosofale), nel 1790, «Der wohltätige Derwisch» (Il derviscio benevolo) - 1791 - e, finalmente, la «Zauberflöte».
Come il titolo precedente lascia intendere, l'autore doveva, anche in ambito esoterico, saperla assai lunga, se appunto un ordine iniziatico era divenuto un suo soggetto: probabilmente attraverso informazioni captate nell'ambito semisegreto della Massoneria. Si leggeva molto, fra quei gaudenti: persino il romanzo ermetico dell'abate Terrasson, Sethos, apparso in Parigi nel 1731, che, come l'opera mozartiana, è ambientato in Egitto, e si finge tradotto da un vetusto manoscritto. Gherminelle tradizionali, che a Schikaneder dovettero piacere moltissimo; e che, da parte sua, si affrettò ad emulare.
Ma la musica? Anche qui, carte in regola, e quale regola. Ad intonare il testo dello Stein parteciparono un po' tutti. Il libretto, come si legge nella locandina, ha per sottotitolo, vedi caso, «Die Zauberinsel» (L'isola magica), evi è annunciato come «novissima opera eroicomica»:nell'elenco dei cantanti, figurano Schack, Gerl, Anna Gottlieb, Barbara Gerl, e naturalmente Schikaneder l'onnipresente: vale a dire gli stessi che, un anno dopo, saranno chiamati alla prova del «Flauto». Nella stessa affiche non compaiono i nomi dei musicisti: che sono tutti di sicuro mestiere: ce ne assicura intanto un ignoto giornalista. Sono il Kapellmeister di recente nomina, Johann Baptist Henneberg, viennese puro sangue, e figlio d'arte, che avrebbe diretto il «Flauto» dalla terza replica, passando più tardi al servizio del principe Esterházy e svolgendo una brillante carriera, sul teatro, e come organista; poi gli stessi Gerl e Schack, che avrebbero difeso la loro musica, come s'è detto, sul palcoscenico, prima di divenire Tamino e Sarastro; infine - incredibile in quel 1790 che fu anno dei più neri (debiti attanaglianti, e la salute che precipitava, fra gli impegnie l'apparente aridità) - lo stesso Mozart.
L'opera, presentata l'11 settembre, avrebbe compiuto i suoi bravi giri: Brünn, Praga, Francoforte, Graz, e persino Trieste, ancora Vienna nel 1804, e infine, e fu l'ultima apparizione, Linz, nel 1814. Alcuni numeri erano stati stampati, per le cure del librettista tuttofare; il resto rimase manoscritto e, praticamente, scomparve. Riemergendo nel 1996, splendido esito di ricerche dovute ad un musicologo americano, David J. Buch, l'anno seguente dandone l'annuncio il New York Times, la partitura, su cui doveva fondarsi la certezza dell'autenticità, era nel frattempo tornata in Germania e un competentissimo (esemplare insigne della musicologia che s'occupa di carta e inchiostri, e si dice appunto "scientifica", come la polizia) garantì che quei fogli, preda di guerra dell'armata sovietica, erano gli originali: su uno si legge la firma di Mozart, quasi ogni numero recando il nome del compositore.
Senza queste prove, sarebbe davvero arduo metter becco nella faccenda: se non fossimo anzitutto convinti della mano senza pari dalla qualità della musica. Affatto incompetenti in tecniche di laboratori, dobbiamo ammettere d'essere sempre ben poco soddisfatti dalle denominazioni che imperversano nella storia della pittura: il «vicino di Masaccio», l'«amico di Sandro», il «seguace di Piero» e, ad esempio, davanti ad una splendente Madonna con bambino - a Roma - chiaramente Beato Angelico, sopportiamo a fatica i dubbi degli onniscienti: nel caso Federico Zeri. Se non è l'Angelico, o altra volta Sandro, o chicchessia, ciò significherebbe che qualcuno dipingeva con maestria altrettanto sbalorditiva.
Ma qui, le cose vanno più lisce. Si trasecola, anzitutto, ascoltando l'ouverture, firmata Henneberg: la sua magnifica audacia, l'uso dei fiati in primo campo ben dimostrano che il valente musicista aveva avuto notizia delle sinfonie tarde e supreme, nonché dei fasti praghesi, «Figaro» e «Don Giovanni». Ma in altri momenti -c osì nell'aria di Nadine - Henneberg ha dolcezze di bonbon; e nell'altra di Lubano al secondo atto, che invita a non fidarsi troppo delle ragazze, forse traspare qualche ricordo di «Così fan tutte»: identica la specie zoologica, il misogino disperatamente innamorato di quelle irresistibili birichine. Ma il coro di Schack,"Astromont stirbt" (Astromonte muore) incanta per la sua purezza di diamante, a un passo dal «Flauto magico».E le pagine di Schikaneder, non molte, non sono certo lavoro di un inesperto. Il factotum sapeva anchecomporre.
Infine, dono inaspettato e incommensurabile, per la prima volta su disco, gli interventi di Wolfgang: il duetto dei gatti, tutto sul miau miau, come in Rossini e Ravel, che si conosceva come numero aggiunto al classico catalogo (K. 625=592 a): appunto questo «Nun, liebesWeibchen» (Ora, cara donnina) è il solo numero citatonelle monografie mozartiane, anche le canoniche. La partecipazione del musicista all'impresa collettiva era stata ben più generosa, arrivando ad anticipare, in un'opera non sua, e in cui il suo nome già glorioso nemmeno figurava, un finale che, fino alla brevissima coda (poco più d'un minuto di musica, firmata da Schack), prende in mano l'arruffatissima trama, ove le suggestioni di un racconto di Wieland si volgono a una sorta di trasumanare orfico, e risolve, come in finali celeberrimi, ogni implicazione psicologico-narrativa in limpidi rapporti formali: si vorrebbe dire in mera costruttività. Si sarebbe potuto pensare che, accettando di dare una mano ad una impresa tutt'altro che sicura, il musicista usasse le sue ficelles e se la cavasse, insomma, con le ricette sperimentate: laddove egli, conoscendo - meglio di Hildesheimer - lo spiritaccio del suo librettista, agile fino all'insolenza, accettò allegramente la partecipazione, che era anche una gara: a costo di giocarsi la assoluta novità della nascente «Zauberflöte».
A coloro che per primi poterono porre gli occhi sui fogli dispersi e bentornati, fu facile rinvenirvi affinità ed analogie con l'opera: trovare nella coppia di Lubano e Lubanara la premessa evidente a Papageno e Papagena, in Nadir e Nadine Tamino e Pamina, in Eutifronte Sarastro. Ma assai più inquietante è notare, nei colleghi qui adunati, decise maniere mozartiane e, infine, stupefacente osservare come anche di loro Mozart potesse servirsi, ove opportuno gli sembrasse: l'aria di Nadir, «Ihr gütigen Götter» (Voi, benigni dei), al second'atto, è opera di Gerl: il suo scatenato virtuosismo, in tessitura di perigliosa accensione - tocca il re sopracuto - non si saprebbe dire se sia calco compiuto su Mozart, o spericolata scrittura che in Mozart trova il compimento definitivo. Ma ancora: nell'aria «Welche fremde Stimme» (Quali strane voci), le voci traudite da Nadir sono presenze foniche simboliche: il corno evoca di colpo il clima del «Freischütz», «l'orrore silenzioso» che incantava Berlioz. Cogliere qui una premessa patente di quel futuro, vale confermare una discendenza, una genealogia reale, che non tocca Beethoven.
Negli ultimi tempi, Mozart pensava anche alla Tempesta: un poeta gli aveva inviato un libretto: misurarsi con Ariel, Caliban e Prospero! Ma, intanto, anche questo saggio drammatico si svolgeva in un'isola magica: l'incontro col poeta veniva rinviato, nel pieno senso dell'espressione, sine die. Successe, purtroppo, anche a Schubert: una «Wunderinsel», vagheggiata invano, e «composta», siapure su frammenti autentici, solo nel 1958, da Kurt Honolka: sopraffazione inaudita.