BIOGRAFIA - LETTERE - SCRITTI 1837


Anche il '37 è un anno doloroso; Schumann si difende con l'alcool e la composizione. Rientra spesso a tarda notte, ubriaco, e improvvisa al pianoforte. I vicini protestano ed egli rischia lo sfratto. Robert non rivedrà Clara che in agosto quando suonerà a sorpresa a Lipsia, e proprio la Sonata op. 11 a lei dedicata. Nel frattempo sono nati i Davidsbündlertänze op. 6, ideale continuazione di Papillons e Carnaval, nonché i Pezzi fantastici op. 12; in entrambe le raccolte lo stato d'animo inquieto e pericolosamente dissociato tra Florestano ed Eusebio, tra slanci entusiastici e ripiegamenti straniati, si manifesta con pregnante intensità. Il pianoforte di Schumann è un vero e proprio diario intimo, un attento sismografo che ci restituisce il suo lacerato mondo interiore; la sua musica è luogo del molteplice ove le diverse personalità che vivono nel compositore si manifestano senza soluzione di continuità, in una sorprendente, audace libertà. L'arte non è gratuito gioco di forme, ma necessaria espressione di contraddizioni drammatiche, è autobiografia musicale in linea con tutta la grande arte romantica.
Dopo il concerto di agosto Robert ritrova Clara; i due si scrivono, si spiegano e scoprono nuovamente di appartenersi.

Una nuova richiesta viene inviata all'antico maestro che questa volta si dimostra più comprensivo: pur continuando a rimandare ogni decisione definitiva, poiché Clara deve ancora ripartire per una serie di concerti, concede ai due innamorati di scriversi e di vedersi. È già qualcosa. Sempre in quei mesi una nuova soddisfazione aiuta Schumann nel difficile cammino di artista ancora semisconosciuto: Liszt recensisce favorevolmente sulla "Revue et Gazette Musicale de Paris" la Sonata op. 11 e il Concerto senza orchestra op. 14; è una conferma autorevole che dona nuove energie al musicista.
Nonostante i dubbi che spesso assalgono Robert durante la lontananza dell'amata, la quale non sempre riesce a trovare il tempo di scrivergli o le parole giuste per rassicurarlo, il '38 è un anno più sereno e fecondo:

Io scrivo ora più facilmente, più graziosamente [...] da quattro settimane non faccio che comporre [...] i suoni accorrono verso di me come delle onde, io accompagno il loro canto e ciò mi riesce quasi sempre. lo gioco con le forme. Mi sembra di esser da un anno e mezzo in possesso del segreto [...] Vi sono ancora molte cose in me. Se tu mi resti fedele, tutto ciò si rivelerà, altrimenti tutto resterà muto [...] Giammai ho scritto cosí facilmente [...l mi sento pieno di musica. Ho tale desiderio di creare che in mezzo al mare, in un'isola selvaggia, non potrei fame a meno.

È il momento delle opere più serene, distese, segnate da incantevoli abbandoni lirici; è il momento delle Scene infantili op. 15, delle Novellette op. 21, della Kreisleriana op. 16. Inoltre Clara incontra Liszt a Vienna e gli mostra il Carnaval e i Pezzi fantastici; il celebre pianista è entusiasta anche di queste opere; Robert ne è lusingato. [MURSIA-RAUSA]

Per A. de Zuccalmaglio [67]
Lipsia, 31 gennaio 1837

Mio stimatissimo e caro Signore,

sappia anzitutto che alcuni giorni fa ho dato da leggere al signor Mendelssohn, con cui faccio colazione quotidianamente, il Suo articolo: «Primi suoni». Io lo spiavo da lontano per vedere i mutamenti della sua espressione man mano che s'avvicinava alla conclusione, che (devo dirglielo francamente) ha fatto venire anche a me le lacrime agli occhi! Egli lesse attentamente: il suo viso splendido, imponente, soffermandosi attentamente ad ogni parola, dava sempre più segni d'approvazione. Ed eccoci al punto! Avrebbe dovuto vederlo. «Eh! che è ciò? Davvero troppo! Mi fa veramente piacere; ci sono vari modi di fare un elogio, ma questo esce da un cuore puro», ecc. ecc. Avrebbe dovuto vederlo e sentirlo: «Molti vivi ringraziamenti a colui che l'ha scritto ». Così proseguì. Dopo di che ci tuffammo nello champagne!
Veramente già da molto tempo io mi dicevo: «Nessuno ha scritto sulla musica come Wedel [68]! »
Spesso mi sembra d leggere nella faccia di Mendelssohn, che con eterno e dolce moto esprime ciò che passa interiormente ed esteriormente a lui. La Sua prosa è così vitale in ogni parola, così pittorica in ogni singola frase, così armoniosa. Ma basta di ciò...
Forse potrò vederLa e parlarLe durante l'estate. Mi dispiace che Lei allora troverà difficilmente qui Mendelssohn, che vuol trascorrere l'estate a Francoforte tra le braccia della sua sposa. Nella veste di fidanzato, è veramente come un bambino!
Ha forse in composizione qualche piccola poesia adatta per il giornale?
Non posso far nulla per la Sua tragedia.
Barth [69] mi guardò dall'alto in basso alla mia nuda parola « tragedia ». Riordini presto la Sua «Wedeliana», della quale, con l'aiuto di Dio, mi occuperò...

***

A E. A. Becker
Lipsia, 10 febbraio 1837

Egregio Signore,

Le invio il Concerto di Clara (op. 7), con la preghiera, se Le è possibile farlo da oggi a lunedì, di voler scrivere un cenno su questa composizione, che merita veramente di venir segnalata nei giornali. Ella sa forse che non sono in buoni rapporti col «vecchio» [70], e ciò renderebbe sconveniente ch'io parlassi di tale concerto: questa sarà forse per Lei una ragione di più per accogliere favorevolmente la mia preghiera. Basterà un mezzo foglio. Ma richiedo che Ella firmi con le Sue iniziali C. F. B. Il resoconto potrebbe cominciare con l'apprezzamento sul concerto di Herz e terminare con qualche parola su quello di Bennett. Quest'idea forse Le converrà. Nell'attesa di una Sua risposta, il Suo

Schumann

«
Ella sa forse che non sono in buoni rapporti col 'vecchio'» scrive Schumann. Ed è con una gioia amara, vergognosa e sfolgorante ad un tempo, che nel maggio del 1837 viene a sapere che proprio il Vecchio ha messo "Serpentinus" alla porta, perché Clara sembrava sul punto di innamorarsene.
Schumann è inasprito. Potrebbe supporre che la fuga di Banck gli renderà Clara, o condividere, senza nulla lasciar trapelare, la tristezza di quella fanciulla che può credersi abbandonata una seconda volta; ma egli non vuole, egli disprezza la solitudine di Clara. Sembra che ella sia così affranta, da non poter dare tutti i concerti già stabiliti nella tournée. È questo, allora, il momento scelto da Schumann per proclamare la sua soddisfazione nell'essersi sbarazzato di colei che considerava sua fidanzata. Di più: afferma che sarà obbligato a innamorarsi di una donna della quale sente già il fascino, ma nessuna delle donne che gli stanno intorno può esser sospettata di sostenere la parte della quasi amante. La verità è che Schumann attende la visita di miss Anna Robena Laidlaw. Gli hanno detto che la giovane pianista viene a Lipsia soltanto per fare la sua conoscenza ed egli vede in lei un pretesto per riconciliarsi con la vita, raffigura in lei una limpida potenza, destinata a strapparlo dal dolore e restituirlo alla luce.
Pertanto accoglie la nuova venuta con emozione e con gratitudine. Le inglesi gli sono sempre piaciute e questa è di bellissimo aspetto. Quando si presenta in casa di Schumann è accompagnata dalla madre e da un principe di Varsavia (almeno così ha capito Schumann: "ein Fürst aus Warschau"); racconta il suo viaggio in Polonia e come sia stata nominata concertista da camera della duchessa Federica di Cumberland. Robert le risponde, provando un piacere da gran tempo ignorato. Poi le signore si ritirano, scortate dal principe di Varsavia che altri non è che un certo signor Fürstenau. Quello stesso pomeriggio, Schumann ricambia la visita. Miss Anna gli racconta come la sua famiglia sia stata in relazione per molti anni con Walter Scott; discorre di pittura, si mette al pianoforte. Il suo modo di suonare risente delle qualità specifiche del suo maestro, il mite e affabile Louis Berger. Fra i due giovani il ghiaccio è ormai rotto.
Anche la salute va molto meglio. Il maestro rimette sul telaio le Davidsbündlertänze, i Phantasiestücke e si occupa del concerto che miss Anna dovrà dare al Gewandhaus. Con gioia, la prega di accompagnarlo nelle sue passeggiate, nelle sue visite, e non cessa mai dal chiederle particolari intorno a Walter Scott. Crede di esser ritornato ai giorni felici dell'infanzia.
Al concerto al Gewandhaus, Anna seduce il pubblico con la leggerezza del suo tocco e poi cede all'invito di Schumann e accetta di cenare con lui e una coorte di ammiratori all'Hotel di Baviera. Intorno alla tavola c'è una folla di gente di spirito: Walter von Goethe, Monicke, Anger, Reuter, Wenzel... A Schumann non resta altro che scrivere un articolo entusiasta nella Neue Zeitschrift für Musik, un articolo che appare l'indomani, subito dopo il trionfo della sua amica. Tutti, Robert, Anna, Anger sono felici per qualche giorno e dimenticano che miss Laidlaw è lì soltanto in visita. Verso la metà di luglio, infatti, essa deve lasciare Lipsia e Schumann la guarda partire con visibile malinconia. Prima di partire, essa gli ha promesso, come prova d'affetto, di mandargli il suo ritratto insieme con un disegno di fiori. Lui non ha promesso nulla.
Bastano poche righe stampate, di semplice carattere pubblicitario, a riaprire in tutta la sua profondità la ferita che Schumann credeva ormai cicatrizzata. Un bel giorno nell'Allgemeine Musikalische Zeitung legge il seguente annuncio: "Il 13 agosto Clara Wieck darà un concerto ed eseguirà fra l'altro la Sonata in fa diesis minore di Florestan ed Eusebius..."
[Alcune fra le prime composizioni di Schumann apparvero sotto questi due nomi, che son poi, come si visto, gli pseudonimi da lui adottati nelle sue rubriche sulla Nuova Gazzetta di Musica.]
Di colpo l'amore torna a travolgerlo. È come se Clara gli si presentasse dinanzi improvvisamente. La sera del concerto, confuso tra la folla, egli contempla colei che non ha più incontrato da diciotto mesi. Schumann lascia la sala sconvolto. Nello stesso giorno Clara, a mezzo del fido Becker, gli fa chiedere di ridarle le lettere che egli un tempo le ha scritte. Robert soddisfa subito i desiderio di lei e l'interroga aspramente intorno ai suoi sentimenti:

A Clara, 13 agosto 1837

È ancora fedele e sicura? La mia fede in Lei è incrollabile, ma anche il più forte coraggio può vacillare, se non ode più nulla dell'essere che ama sopra ogni cosa al mondo. E tale è Lei per me. Ho riflettuto mille volte, e tutto mi dice: «Dovrà avvenire, se noi lo vorremo e se agiremo »! Mi scriva un semplice « sì », se Lei accetta di consegnare a Suo padre, per l'appunto nel giorno del Suo compleanno, il 13 settembre, una mia lettera. Egli è ora ben disposto verso di me e forse non mi respingerà, se Lei gli parla in mio favore.
Mentre Le scrivo, spunta l'aurora. Se un'altra sola aurora ci separasse ancora! Ad ogni modo si aggrappi a questo pensiero: «Dovrà avvenire, se noi lo vorremo e se agiremo.»
Non parli a nessuno di questa lettera; altrimenti tutto verrebbe guastato. Non dimentichi il «sì». allora. Devo avere anzitutto questa certezza per poi poter pensare ad altro. Le dico ciò con tutta l'anima mia, così come l'ho scritto qui, e lo firmo col mio nome

Robert Schumann

Aggiunge sulla busta: «Dopo lunghe giornate di silenzio, di speranza e di disperazione, vorrei che queste righe fossero accolte con l'antico affetto. Se esso è scomparso, prego che mi si rimandi la lettera senza aprirla.
Clara apre la lettera, e risponde due giorni dopo:

Clara a Robert
Lipsia, 15 agosto 1837

Lei non chiede che un semplice "sì"? Come potrebbe un cuore, pieno d'indicibile amore quale il mio, non pronunciare con tutta l'anima una parola così piccola, ma tanto importante? Io lo faccio, e tutto il mio essere glielo sussurra in eterno! Potrei descriverLe i dolori del mio cuore, le lacrime sparse. Oh, no! Forse il destino vorrà che noi ci parliamo tra breve; allora... Il Suo progetto mi sembra arrischiato, ma un cuore amante non bada al pericolo. Ancora una volta Le dico: "Sì!" Vorrà Dio tramutare il mio diciottesimo compleanno in un giorno di dolore? Oh, no! sarebbe troppo crudele! Anch'io sentivo da lungo tempo che "deve avvenire". Nulla al mondo potrà distogliermi, e io mostrerò a mio padre che un giovane cuore può essere risoluto.
Molto in fretta. La Sua Clara


Nello stesso tempo essa raccomanda a Robert di mandare subito un biglietto a Wieck per ringraziarlo dei modo con cui sono state messe in valore le sue composizioni durante il concerto di domenica. Il Vecchio in quelle righe, che ignora scritte per invito di Clara, vede un tentativo di apertura. Ne approfitta per riprendere contatto con l'allievo; è evidentemente convinto che il giovane non sia più pericoloso, che la lontananza abbia fatto la sua opera, che il formale rifiuto contro il quale Robert ha urtato una prima volta l'abbia cosí scoraggiato da fargli rinunciare a Clara. Per un mese non fanno altro che scambiarsi proteste d'affetto. Non ci si deve ingannare: né Schumann né Wieck recitano la commedia. Il Vecchio, finché non si parla di Clara, vuoi molto bene all'autore dei Carnaval [vedi lettera a Becker dell'8 settembre]; Schumann, dal canto suo, guarda al maestro come a un padre per l'avvenire e gli auspica un tramonto felice. Punti di vista stranamente opposti che, ignorandosi l'un l'altro, sono perfettamente sinceri. Robert vede spesso Clara. La figura della fanciulla domina di nuovo la sua vita. L'ha ritrovata e trema di perderla, quando pensa al passo rischioso che sta per tentare nei riguardi di Wieck.
Il ricordo dei giorni trascorsi in armonia con se stesso e con gli esseri cari gli torna alla mente. Pensa a miss Laidlaw, che ha mantenuto la promessa e gli ha mandato un ritratto e un disegno. Da parte sua, lui le offre in cambio i Pezzi fantastici, perché la donna possa ritrovarvi i paesaggi delle loro lunghe passeggiate. In più, nel pezzo intitolato In der Nacht (Nella notte) che è poi il pezzo di tutta la raccolta preferito da Schumann, ella incontrerà adombrata la leggenda di Ero e Leandro, cosí come la raccontano gli antichi poeti: Leandro nuota fra le onde del mare, sul venire della sera, per raggiungere l'amata, che aspetta in cima a una torre e lo guida col lame di una torcia accesa. Il giovane si dibatte, emergendo dai flutti: Ero lo chiama ed egli risponde; poi esce dall'acqua, felice di trovarsi a terra. Stretti uno all'altra, Ero e Leandro innalzano un canto d'amore. Ma lui deve ritornare, né può rassegnarsi a partire. Pietosa, la notte avvolge nelle tenebre il mare muggente e i due amanti.
La volontà e il desiderio di far Clara interamente sua trionfano dell'incertezza di Schumann. Il 13 settembre 1837, egli consegna alla fanciulla tre lettere: una per Friedrich Wieck, una per la signora Wieck, una per Clara stessa.
Ma prima scrive due lettere 'di lavoro' a Moscheles e a Becker:

A J. Moscheles
(Flottbeck, presso Amburgo)
Lipsia, 23 agosto 1837

Lei riceverà qui di nuovo, mio stimatissimo Signore, due composizioni completamente diverse.

Decifrare il «Ballo di maschere» [71] sarà per Lei un gioco: e non mi sarà neppure difficile convincerLa che tanto l'ordinamento quanto i titoli sono sorti dopo la composizione del pezzo. Le raccomando con maggiore fiducia i miei «Studi». Qualcuno di essi mi piace ancora, quantunque abbia più di tre anni di vita. Lei sa il valore che io dò al Suo giudizio; me lo faccia conoscere con due righe, che leggerò io solo. I Suoi «Studi» mi procurano tanto diletto quanto l'albero di Natale ad un bambino. Non trovo, invece, annunciato ancora nulla del «Concerto patetico».
Ed ora una preghiera: essa riguarda l'arte, come pure il mio interesse. L'editore del mio giornale s'è lasciato convincere dalle mie insistenti istanze a pubblicarvi ogni trimestre una composizione importante. Io colgo l'occasione per realizzare i vari progetti, e la cosa deve infiammare i musicisti. Vorrei far trascrivere testi di «Canzoni» e raccogliere i più interessanti in un fascicolo; anche uno di meno valore verrà stampato, Perché la critica lo indichi fedelmente, e il lettore possa seguire con le note alla mano. I manoscritti d'ignoti e di veri talenti verranno particolarmente segnalati; i loro nomi si apriranno in tal modo immediatamente una strada (il giornale ha circa 500) lettori, che riceveranno gratuitamente le composizioni complete). Di tanto in tanto verranno stampate vecchie opere, di cui non esiste che il manoscritto, come le «Fughe» di Scarlatti, la partitura d'un intero concerto di Bach. Con la collaborazione dei miei amici vorrei inoltre formare un ciclo di brevi composizioni: l'uno dovrebbe cominciare, l'altro vedere il pezzo e aggiungervi una nuova composizione, e così via, affinchè l'insieme abbia la consistenza e la continuità che mancano così spesso agli altri album. In breve, ho a questo proposito vari progetti in mente.
In primo luogo, sarà bene pubblicare quattro studi di diversi maestri, che dovranno formare il primo fascicolo del Capodanno 1838. Io m'occupo troppo di tutto ciò che La concerne, egregio Signore, per non aver pensato che forse Ella acconsentirebbe a riservarmi per il mio giornale uno degli Studi del Suo secondo fascicolo, prima che vengano stampati da Kistner. Il Suo nome ispirerebbe subito una tale fiducia, che il primo passo sarebbe contemporaneamente una vittoria! Chopin m'ha promesso il suo concorso, e ho già uno studio di A. Henselt [72], il più notevole dei giovani compositori, che certamente Le piacerà. Per il quarto Studio sono ancora incerto non so se lo chiederò a Mendelssohn o a qualcun altro.

A Ernesto A. Becker
Lipsia, 8 settembre 1837

I miei migliori ringraziamenti per tutto, mio carissimo. Sarà fatto così. La Sua lettera, tuttavia, mi aveva talmente scoraggiato, che feci sapere a Clara che rinunciavo a scrivere. Io non ero affatto tentato, ma ella mi pregò insistentemente di farlo per il giorno del suo compleanno; ciò potrebbe servire per stringere l'accordo. Sia lode a Dio! Io nuoto in una beatitudine perfetta. Vorrei che Lei fosse qui, per vedermi trasformato così. Il «vecchio» mi tratta nel modo più affettuoso; io lo ricambio, ed egli avrà una vecchiaia felice!... Nell'attesa di quel bel momento, L'abbraccio

Il Suo Schumann

L'onomastico di Clara è il 13 settembre.

La lettera a Wieck è straordinariamente rispettosa e misurata. In essa, Schumann stende un bilancio delle proprie qualità e dei propri difetti; dipinge il suo avvenire con tutta la franchezza possibile, senza abbellirlo e senza oscurarlo. E al riparo dal bisogno, ha il cuore giovane, le mani che ardono di lavorare; è amato da quanti lo avvicinano. Porterà dunque a termine quanto ci si attende da lui. Non basta? Confessa timidamente, con una sorta di accorato sorriso, che diciotto mesi di prova possono permettere di giudicare della sua fedeltà, della sua costanza. Per terminare, afferma con forza che il suo amore per Clara non è il risultato di una passione fugace, bensI dell'intima convinzione che nella vita si trova raramente un'unione, come quella, capace di congiungere insieme tante attrazioni reciproche e tanti indizi favorevoli.

A Federico Wieck
consegnata il 13 settembre 1837


Friedrich Wieck e le sue figlie (Clara a sinistra)

Ciò che Le voglio dire è molto semplice - e tuttavia più d'una volta potranno mancarmi le giuste parole. Una mano tremante non sa guidare la penna con calma. Se qua e là la forma o l'espresione saranno errate, voglia perdonarmelo con indulgenza.
Oggi è il compleanno di Clara; il giorno in cui l'essere che io amo di più al mondo aprì per la prima volta gli occhi alla luce; il giorno che io non avrei creduto dovesse aver tanta importanza nella mia vita. Confesso che, sino ad ora, non ho mai pensato con tanta tranquillità al mio avvenire. Al riparo dal bisogno, per quanto la mente umana possa prevedere, la testa piena di bei progetti, un cuore giovane, entusiasta di tutto ciò che è nobile, mani per lavorare, la coscienza di agire in una meravigliosa sfera d'attività e la ferma speranza di poter compiere ciò che si attende dalle mie forze, stimato e amato da molti... Io pensavo che tutto ciò fosse sufficiente. Ah! quale risposta dolorosa devo darmi a questo proposito! Che cos'è ogni cosa in paragone al dolore d'esser diviso per l'appunto da colei che vale tutto questo sforzo, e che m'ama con altrettanta profondità e fedeltà? Lei conosce a fondo, padre felice, quest'essere senza pari. Chieda ai suoi occhi se io non ho detto la verità!
Da diciotto mesi, inflessibile come il destino, Lei m'ha messo alla prova. Come potrei essere in collera con Lei! L'avevo crudelmente ferito, ma come me l'ha fatto espiare! E adesso mi vuoi sottoporre ad una nuova prova altrettanto lunga! Forse, se Lei non esige l'impossibile le mie forze potranno andare di pari passo coi Suoi desideri, forse io saprò riguadagnare la Sua fiducia. Lei sa che sono perseverante per ogni scopo elevato. Se Lei crede d'aver sperimentato a sufficienza la mia fedeltà e la mia virilità, benedica l'unione di queste due anime, alla cui perfetta felicità non manca che la consacrazione paterna. Non è un'esaltazione del momento, uno slancio di passione fugace e superficiale, che mi lega a Clara con tutte le fibre del mio essere: è l'intima convinzione ehe raramente si presenta nella vita una unione che porti in sè tutti i più favorevoli auspici; è la nobile, adorabile giovanetta stessa, che irradia dappertutto la felicità e si fa garante della nostra. Se pure Lei è giunto a questa convinzione, mi prometta solamente di non decidere per il momento nulla riguardo l'avvenire di Clara, ed io m'impegno sul mio onore di non parlare a Sua figlia contro il Suo desiderio. Mi permetta soltanto, quando Loro sono in viaggio, di darle e di riceverne notizie.
Queste domande, da cui dipende la mia vita, partono dal profondo del mio cuore; esso batte in questo istante così tranquillamente, perché è conscio di volere soltanto la felicità e la pace tra gli uomini. Fiducioso, rimetto il mio avvenire tra le Sue mani. Le mie condizioni, il mio talento, il mio carattere meritano una risposta delicata e completa. Preferibilmente, parliamoci!
Sono momenti solenni quelli che mi separano dall'istante in cui apprenderò la Sua decisione - solenni come l'intervallo tra il lampo e il tuono nella tempesta, durante il quale ci si chiede tremanti se essa passerà distruggendo o beneficando
Con la più profonda espressione di cui è capace un cuore amante e angosciato, io La scongiuro di esserci benevole: ridiventi l'amico d'uno dei Suoi più vecchi amici, e il migliore dei padri della migliore delle figlie.
Robert Schumann

Inclusa una lettera per la Signora Wieck (egli si appella alla bontà di cuore di una donna che vuoi bene a Clara e che ha sempre dimostrato di avere stima di lui).

Anzitutto, mia buona Signora, raccomando caldamente il nostro futuro destino al Suo cuore, che non è quello d'una matrigna, credo. Il Suo sguardo limpido, i Suoi benevoli sentimenti il Suo vero amore e la stima che ha per Clara, Le faranno trovare la soluzione migliore. Che il compleanno d'un essere, colmato sino ad ora di ogni felicità, non divenga un giorno di dolore! Ci preservi tutti dalla grande sventura che ci minaccia!
Il Suo devoto
R. Schumann

Inclusa una lettera per Clara (a Clara, le chiede di appoggiare con amore tutto quello che egli dice ai suoi genitori.)

Lei pure, cara Clara, deve, dopo questa dolorosissima separazione, patrocinare con amore tutto ciò che ho detto ai Suoi genitori e proseguire là ove la mia parola s'è dovuta arrestare [74].

il Suo R. S

Wieck, sorpreso, accorda a Schumann il colloquio richiesto. Stavolta, il Vecchio non oppone un rifiuto formale alle preghiere dell'allievo, ma mette avanti una quantità di buone ragioni: Clara è troppo giovane per sposarsi; deve finire il suo giro di concerti attraverso l'Europa; è assolutamente necessario aspettare... Wieck cerca di disorientare l'avversario con frasi confuse e contraddittorie; un po' gli fa sperare il consenso, un po' lo spaventa con il timore del rifiuto; in conclusione non stabilisce nulla di concreto. Si limita a fare alcune leggere concessioni: Robert e Clara potranno vedersi in pubblico e, mentre Clara sarà in viaggio, scriversi sotto il suo controllo.
Tutto ciò significa ancora separazione. Schumann, nel suo smarrimento, non riesce a misurare quale delle due separazioni sia più dolorosa: la prima o la seconda? Egli ha creduto fino all'ultimo nell'adesione di Wieck:

A Ernesto A. Becker
Lipsia, 14 settembre 1837

La risposta di Wieck è stata così confusa, così esitante tra il rifiuto e la concessione, che non so più davvero a che santo votarmi. Assolutamente! Oh! se Lei fosse stato qui per qualche momento, se ei fosse ora affinchè egli potesse parlare con qualcuno, che lo distogliesse da certe idee che mi sembrano ispirate dalla sola vanità - quale l'intenzione di far dare concerti a C. sino alla sua morte! Come ho detto, non ha un solo buon pretesto per rifiutare, ed è ciò che rende la sua risposta così incoerente. Non ho ancora parlato a Clara, la cui forza di volontà è la mia sola speranza. Vorrebbe Lei scrivere alcune righe a W., per dimostargli la grave responsabilità in cui incorre? Soltanto, avrei piacere di leggere prima la Sua lettera, ma faccia in ogni modo come meglio Le sembra. Gli dica che Le ho parlato della lettera indirizzata a lui, ecc. ecc. Sono profondamente abbattuto e non ho più la facoltà di pensare.

A Clara Wieck Lipsia,
18 settembre 1837

Il colloquio con Suo padre è stato terribile! Quella freddezza, quella cattiva volontà, quelle frasi confuse, quelle contraddizioni! Egli ha un nuovo modo di annientare: conficca al suo avversario il coltello nel cuore dalla parte del manico. Ed ora, mia cara Clara, che fare? Io non so da dove incominciare. Assolutamente! Il mio cervello fallisce qui, e a mezzo del sentimento non s'ottiene nulla da Suo padre. Che fare, che fare? Soprattutto si armi, e non si lasci vendere. Io credo in Lei con tutta l'anima, e solo ciò mi sostiene ma bisogna che Lei sia molto forte, più di quanto suppone... Suo padre mi ha detto le spaventose parole: «Nulla m scuote». Tema tutto da lui. Egli la costringerà con la forza, se non riuscirà con l'astuzia. Diffidi di tutto!
Io sono oggi così depresso, così abbattuto, che non so concepire un pensiero bello e buono. Persino la Sua immagine è svanita, e posso a mala pena figurarmi il Suo sguardo. Tanto pusillanime da rinunciare a Lei non sono diventato, ma sono così amareggiato, ferito nei miei più sacri sentimenti, da giudicarmi dello stesso conio del più mediocre degli uomini. Se ricevessi soltanto una Sua parola! Mi dica ciò che devo fare. Altrimenti tutto in me diverrà scherno e disprezzo; dovrò lasciar tutto, andarmene. Non poterLa neppur vedere! Noi, m'ha detto egli, veramente potremmo farlo, ma soltanto su terreno neutro, in presenza di tutti: proprio per dare spettacolo a tutti! Com'è opprimente e tormentoso questo stato di cose! Quando Lei è in viaggio potremo anche scriverci. Ecco quanto egli ci accorda! Cerco invano una scusa alla condotta di Suo padre, che ho sempre considerato una persona nobile e umana! Invano cerco nel suo rifiuto un motivo migliore e più profondo di quello che egli adduce; per esempio il timore di Lei, promettendosi anzi tempo ad un uomo, non possa proseguire la Sua carriera d'artista, che sia troppo giovane, e via dicendo. Ma nulla di tutto ciò. Mi creda, egli La getterà fra le braccia del primo che si presenterà con abbastanza denaro ed un titolo! Non sogna che concerti e viaggi, ed è perciò che La tormenta, paralizza le mie forze proprio nell'impulso di creare cose belle, e ride delle Sue lacrime!
Il Suo anello mi guarda amorevolmente, come se volesse dirmi: «Non parlar male del padre della tua Clara!» Lei mi disse ultimamente tre volte: «Sia forte!» Io ascoltai... Queste parole partivano dal profondo della Sua anima... Clara, da quel giorno son divenuto quale mi vede; se oggi son debole e ho addolorato Suo padre, non sia arrabbiata con me. Eppure ho ragione! Ma gli occhi devono esser rivolti alla meta. Lei deve tentare tutto con la Sua bontà, e, se non Le riesce in tal modo, con la Sua forza. Io non posso far altro che tacere: da qualsiasi nuova preghiera a Suo padre, non potrei attendermi che un'altra umiliazione. Aguzzi l'ingegno, e mi dica che cosa dobbiamo fare: La seguirò come un bambino... Ah! quanto mi preoccupa tutto ciò! Riderei di fronte alle sofferenze della morte, ma non posso sopportare a lungo queste condizioni; sono troppo contrarie alla mia natura!
Che il buon Dio mi consoli, affinchè non debba soccombere sotto il dolore. Le radici della mia vita sono divelte.

nel pomeriggio dello steso giorno

Credo che nulla sia perduto; ma abbiamo anche guadagnato ben poco. Ora le mie lettere m'irritano. Tra otto o dieci settimane sarebbe stato meglio. Vedo che tutto dipende dal saper proseguire calmi e cauti. Alla fine egli dovrà pur rassegnarsi al pensiero di perderLa. La sua caparbietà naufragherà dinanzi al nostro amore; deve accadere, mia Clara...
Dissuada Suo padre dalle sue numerose opinioni errate... Quando gli chiesi se non credeva che noi saremmo stati le persone più felici dell'universo, egli ne convenne; eppure non mutò decisione. Inoltre egli disse che avremmo avuto bisogno di più denaro di quanto supponiamo, e nominò una somma enorme. Ne abbiamo tanto quanto centinaia di famiglie ragguardevoli. Non si lasci convincere forzatamente su questo punto. Poi disse che Lei avrebbe pianto spesso segretamente, se non avessimo dato ricevimenti, ecc. Clara, è vero ciò? O non è forse ridicolo?
Egli non seppe, nè sa addurre nulla di più fondato. Il nostro buon diritto* e la ragione, che sono dalla nostra parte, ci proteggono. Se ci spinge all'estremo. cioè s'egli non ci dà il consenso tra un anno e mezzo o due sapremo far valere il nostro diritto. Allora la legge ci unirà. Dio non voglia, che siamo costretti a giungere a tanto. Mi faccia avere tra breve alcune buone parole che mi plachino. La Sua immagine mi appare dinanzi agli occhi più chiara e più bella di stamani, quando Le scrivevo. E il suo: «Sia forte!» ripetuto tre volte, mi risuona all'orecchio come se scendesse dal cielo azzurro...
E prima ch'io prenda congedo da te, mia adorata fanciulla, promettimi ancora una volta sulla tua anima, che hai il coraggio d'affrontare arditamente le prove che ci sono imposte. Io alzo in questo istante due dita della mia mano destra e giuro di fare altrettanto. Non rinuncio a te. Fidati di me. Così ci aiuti Iddio e così io rimanga in eterno

il tuo Robert

Mi prometta sul Suo onore di restituirmi immediatamente questa lettera.

* Anche la legge... Ironia del destino! Quando, a Heidelberg, si andava logorando sui trattati di diritto civile e sui codici, Schumann non pensava certo che, un giorno, egli avrebbe dovuto servirsi di quegli aridi articoli come di armi per conquistare la donna amata. Se vi sarà costretto, arriverà sino a confessare che quella grigia materia, apparentemente inerte, freme di passione; ch'essa permette all'amore di vivere e colpisce a morte. Ma bisogna prepararsi a un addio. Wieck, già da tempo, ha pensato di far compiere a Clara un ampio giro di concerti, con Vienna per tappa ultima e con un soggiorno di parecchi mesi in quella città. I due amanti, quando la data della separazione si avvicina, pongono grande cura di premunirsi contro le parole tendenziose che, inevitabilmente, verranno pronunziate innanzi a loro. Non hanno già sofferto abbastanza per tanti inganni, per tante insidie e per l'ingenuità con cui vi sono caduti?

Clara a Robert Lipsia, 1837
(Di pugno di Robert scritto in testa alla lettera:
« Letta ii 26 settembre con infinita gioia! »)

Dubita ancora di me? Glielo perdono, perchè non sono che una debole ragazza! Sì, debole: ma la mia anima è forte e il mio cuore è fermo e immutabile. Le basti questo per sopprimere ogni dubbio. Sino ad ora sono stata molto infelice, perciò La prego di scrivere sotto a queste righe una parola che mi tranquillizzi, ed io potrò partire senza preoccupazioni. Ho promesso al babbo di essere serena e di dedicarmi ancora per alcuni anni soltanto all'arte e al mondo. Udrà parlare di me, e verrà di nuovo assalito dal dubbio, apprendendo l'una o l'altra cosa. Allora pensi: "Ella fa tutto ciò per me!" E se mai Lei dovesse titubare... allora spezzerebbe un cuore che ha amato una volta sola.

Clara

Sull'esterno: «Apra la lettera, ma poi nie la restituisca. Lo faccia per la mia pace».

A Clara
Lipsia, 1837

Non si restituicono parole così celestiali. Anche presso di me esse sono al sicuro. Ed ora, non una parola sul passato; volgiamo uno sguardo sicuro e tranquillo alla meta della nostra vita. Abbi fiducia in me, mia adorata Clara, e questa profonda fiducia nella mia forza dia forza anche a te in tutte le prove. Un'ultima preghiera, prima che tu t'allontani da me. Come mi hai talvolta chiamato tacitamente, dammi ora del «tu»; quel «tu» che unisce così intimamente. Tu sei la mia amatissima fidanzata, e più tardi...!

Ancora un bacio. Addio

Il tuo Robert

A Clara
Lipsia, 3 ottobre 1837

Potrebbe accadere che per un lungo periodo di tempo noi rimaniamo reciprocamente senza notizie, che le nostre lettere vengano intercettate da tuo padre, che mi calunnino presso di te, che ti dicano ch'io t'ho dimenticata, e così via... Non credere mai nulla di tutto ciò. Il mondo è cattivo, ma noi ne usciremo puri. Se io potessi contare con sicurezza su una tua lettera ogni due mesi, mi sentirei molto più tranquillo. Pretendo troppo? Tra tre ore ti vedrò! Che angoscia ne provo! È l'ultima volta forse per sempre...

Tre ore dopo, con angoscia infinita, stringe fra le braccia l'amata. Come Ero e Leandro. Clara che si mostra la piú forte, mentre Schumann la contempla e attinge nei suoi occhi la fiducia, la certezza di un amore che vincerà ogni attesa piú lunga. Partita Clara, Robert scoppia in singhiozzi. Non gli resta che piegarsi umilmente su se stesso e attendere un messaggio della fanciulla. Sa che le notizie tarderanno a venire; l'ha detto lui stesso nelle poche parole che compongono un poema di lontananza e di attesa: «Se potessi contare soltanto su una tua lettera ogni due mesi, questa certezza mi darebbe tranquillità. È pretendere troppo?».

A Clara
Lipsia, 8 novembre 1837

di buon mattino

Ti voglio dire ancora una cosa: non avertene a male, mia cara fanciulla! Una sera tu mi hai detto alcune parole che non avresti dovuto pronunciare, perchò esse hanno addolorato te e me. Non sei, dunque, felice d'esser mia? Non hai la convinzione che sarai la più felice delle donne? Se tu non l'hai, sarebbe meglio spezzare ora i nostri legami; io ti renderei tutto, anche l'anello. Ma se il mio amore t'è caro, se esso riempie il tuo cuore, se hai ben pesato tutti i miei difetti, le mie maniere sgarbate, se il poco che ti posso offrire ti basta, anche se non sono perle nè diamanti, allora tutto rimanga qual era, mia fedele Clara! Ed io non ti renderò mai nulla, non ti scioglierò mai dai tuoi impegni verso di me, e farò valere tutti i diritti che mi danno il tuo e sì» e il tuo anello...!
Serba nel cuore ciò che ti scrissi: il dubbio è già infedeltà, la fede è mezzo possesso. In quanto al resto, lo spirito benigno che ci ha destinati l'uno all'altra fin dalla nostra nascita ci condurrà ad un lieto fine.
Ti ripeto ancor oggi la preghiera di conservare in un luogo sicuro tutte le mie lettere. di rammentare che ho la tua sacra promessa di non mostrare mai i miei scritti a tuo padre (come facesti in un momento di debolezza a Dresda), di non scordarti mai che hai altrettanti doveri verso di te quanti ne hai verso tuo padre, al quale hai già dato molte gioie, mentr'egli tramuta i tuoi più begli anni in anni di dolore; e di non dimenticarmi mai...
Ogni sera alle nove, rammenta... Io sono presso a te, come sempre... Addio, mia cara fanciulla

Il tuo Robert


CLICK TO ENLARGE

A Clara, il 29 (novembre)

Ma è mai possibile tormentarsi tanto per un po' di denaro che ancora ci manca annualmente? Certamente, è necessario! Tu sai quanto possiedo. Ne adopero per me la metà. Se l'altra metà non ti basta, potrai guadagnare qualche cosa. Tutto dipende dal nostro modo di sistemarci, e tu devi sapere subito ciò che ho pensato in proposito. Preferirei mantenere ancora per qualche tempo la mia posizione indipendente, abitare una bella casetta non lontano dalla città, averti presso a me: lavorare, vivere tranquillamente e beatamente con te. Naturalmente continuerai a coltivare la tua grande arte, però non per il pubblico e per il guadagno, ma per singoli eletti e per la nostra felicità. Tutto ciò se tu lo vorrai. Un simile sistema di vita non richiede grandi spese. Io non so nè tu puoi sapere se così sarai felice e se la tua felicità sarà duratura. Col tempo, noi mutiamo: spesso il caso o il destino possono guastare ogni bel piano. Subentrano altri fattori. Ma, come t'ho detto, questa sarebbe la vita che io preferirei. Potrei dipingere tutto a colori più belli, in modo da farti cadere sul mio cuore dicendomi: «Sì, Robert, vivremo così». Fallo lo stesso, se mi ami.
Sarebbe del tutto diverso, se tu desiderassi far la gran vita. Io vi acconsentirei. In tal caso abbandoneremmo la nostra casa per tre mesi (potrei allontanarmi ogni anno per tal periodo, supposto che volessi continuare a redigere il giornale), e andare una volta a Parigi e una volta a Londra. Tu sei conosciuta dappertutto; io ho amici e relazioni in quantità. In breve, onori e guadagni non ci potrebbero mancare, e noi torneremmo carichi di tesori alla nostra casa - che in verità ancora ci manca. Lipsia sarebbe allora il punto centrale, da cui qualunque sia la decisione che prenderemo potremmo mandare i nostri raggi, nel secondo caso come dei soli, nel primo piuttosto come lune...
... Supposto che questa vita non ti piacesse più... che cosa risponderesti se io ti dicessi una mattina: «Cara signora, ho composto, a tua insaputa, alcune straordinarie sinfonie e altre importanti cose, e soprattutto ho in progetto grandi viaggi, poichè sembra che anche tu brami corone d'alloro. Che ne diresti se impaccassimo i nostri diamanti e andassimo e rimanessimo a Parigi?» - Tu mi risponderesti: «Certo non avrei nulla in contrario!» - oppure: «Ma ascolta!» - oppure: «Come vuoi!» - o ancora: «No, restiamo qui, mi piace così!» - e ritornerei silenzioso al mio tavolino e redigerei il giornale come prima.
O belle visioni, che nessuno vi spezzi! Che io sia una volta felice, vicino al tuo dolce cuore! Quelle notti angosciose trascorse insonni per te, quei dolori senza lacrime devono venir ricompensati da un buon Dio! Lasciami riposare ora un istante!
Certamente ho fatto i conti proprio senza l'oste, cioè senza tuo padre. Però, in questo campo puoi agire tu sola; io per ora non posso far nulla.
Ciò mi porta all'argomento della mia lettera, al quale alludo con le parole «far valere le pretese». Non ho bisogno di dirti che non farò della nostra unione una questione giuridica. Credi che io sarei un ostacolo se tu amassi un uomo più fortunato, che, per quanto si può prevedere, ti farebbe felice? No, t'amo troppo; non lo sarei anche se dovessi soccombere; e inoltre sono anche troppo superbo, e tu l'hai certo notato in dati casi.
Tu mi dici piuttosto duramente ch'io ho rotto il mio legame con Ernestina. Non è vero. È stato sciolto con il consenso d'entrambi nella forma dovuta. Per ciò che riguarda però questo lato oscuro della mia vita, vorrei palesarti il profondo segreto di una grave sofferenza psichica, che m'è sopravvenuta allora. Ma per raccontarlo dovrei impiegare molto tempo: quell'epoca comprende gli anni dall'estate 1833 in poi. Prima o poi lo devi apprendere, e con ciò avrai la chiave di tutte le mie azioni e del mio strano essere. Per ora, ti dirò solo le parole che ho letto ultimamente in un ottimo libro: «È un pazzo colui che segue la voce del suo cuore; ma non giudicate!»
Dunque ancora una volta: il tuo «sì» e il vincolo esteriore, l'anello, ti legano certamente... ma nessuno ti può costringere, ed io meno di tutti, a restarmi fedele. Tu sei una ragazza timorata di Dio e sai tutto ciò. Però m'hai indotto a dirti queste cose con ia tua strana osservazione.
Clara, quant'è doloroso che noi dobbiamo vivere la nostra più bella e fiorente gioventù separati l'uno dall'altra! Dappertutto sento parlare soltanto del tuo bel temperamento, ti sento lodare; ed io non posso parlarti, non posso udirti, non posso nulla imparare da te, nè la tua anima mi può beare. Ed anche tu non hai nulla di me, se non alcuni ricordi che hanno valore soltanto per te: la prima indimenticabile serata della nostra rinnovata unione in settembre - e del resto molti dolori, e l'anello, che non ti dà più alcuna vera gioia a quanto mi dici in quella brutta ultima pagina della tua lettera. Ma per fortuna quale differenza fra questa e la prima! Sembra quasi impossibile che sieno scritte dalla medesima fanciulla! Tu sei così piena di passione e di buon senso, così diffidente e così buona; ami così calorosamente... ma puoi anche far andare in collera!

A Clara Lipsia,
22 dicembre 1837

Tra le mille voci che t'acclamano gioiosamente, ne distingui una che ti chiama dolcemente per nome? Ti volgi: sono io! «Tu qui, Robert?» - mi chiedi. Perchè no ? Io rimango sempre silenziosamente ai tuo fianco e ti seguo dappertutto, anche quando tu non mi vedi. Poi l'apparizione svanisce di nuovo. Ma l'amore e la fedeltà rimangono invariati...

A Clara
Lipsia, S. Silvestro 1837
dopo le 11 di sera

Son qui seduto già da un'ora. È tutta la sera che ho il desiderio di scriverti, ma non trovavo le parole. Ora siediti vicino a me, intreccia le tue braccia intorno a me, e guardiamoci negli occhi - silenziosi - beati.
Due esseri umani s'amano sulla terra. Per l'appunto suonano i tre quarti.
Gli uomini cantano in lontananza un corale. Conosci tu i due che s'amano? Quanto siamo felici
Clara, inginocchiamoci!
Vieni, mia Clara, io ti sento qui... Uno vicino all'altra, rivolgiamo la nostra ultima parola al Signore...

La prima lettera, datata da Praga il 3 settembre, non porta a Schumann la gioia tanto attesa. Clara, viaggiatrice inafferrabile, che vaga senza aver lasciato indirizzo, mentre lei sa dove raggiungere il fidanzato, si lagna di non aver ricevuto ancora una riga da quando è partita. Rimprovero ingiusto che risveglia in Schumann il ricordo di alcune parole pronunciate da Clara durante il loro ultimo colloquio; parole per entrambi dolorose. L'eterna discussione del dubbio ricomincia:

Non sei dunque felice di appartenermi? Non sei convinta d'essere la pia amata fra le donne? Se tu non avessi questa certezza, sarebbe meglio spezzare i nostri legami. Ti renderei tutto, perfino l'anello! Ma se il mio amore ti è caro, se esso riempie il tuo cuore, se hai pesato tutto, i miei difetti e la mia asprezza, se il poco che posso offrirti ti basta, allora resta come prima la mia fedele Clara. Io non ti renderò mai nulla, e tu non ti scioglierai mai dai tuoi impegni verso di me; tutti i diritti derivanti dal tuo si e dal tuo anello io li farò valere.

Clara protesta. Ma si, certo, essa rifiuta di riprendere l'anello, né vuole che Schumann la sciolga dal suo giuramento. Essa si è promessa in piena sincerità e tutta la sua anima appartiene all'amato in attesa che il suo corpo... Perché dunque parlar di rottura?
Le lettere si succedono con ritmo frequente; Praga è una grande città e alla ragazza riesce piú facile liberarsi dalla sorveglianza paterna, che non in viaggio. Un poco alla volta, essa placa la suscettibilità dolorosa dell'amico, lo consola, lo distrae, lo riporta alla fiducia.
Ma poi lo ferisce (oh quanto terribilmente!) con una lettera di inaudita bassezza. È il 24 novembre e l'indomani lascerà Praga. Prima di partire, confida il frutto delle sue meditazioni. Ha riflettuto: senza ritirare a Robert la parola data, ha deciso di non darsi a lui se non quando la sua posizione sarà completamente mutata. Essa vuole vivere al riparo dalle preoccupazioni; è un'artista giovane, bella, piena di pretese. L'arte esige che essa si sacrifichi, che si allontani da Schumann, se questi non può garantirle una vita agiata.
Robert, stupefatto, non comprende nulla di quanto sta accadendo. Che cosa rispondere? Dopo tre ore di sofferenza disperata, senza lacrime, Schumann siede al suo tavolo e comincia la perorazione. Si sforza di essere moderato, di sviluppare i suoi argomenti con lentezza e lucidità.
Gli occhi affuscati da tanto dolore, non gli permettono di leggere piú che la metà delle parole che scrive. Tuttavia egli continua. E la sua tenerezza a poco a poco lo trascina, oltre le frontiere della ragione, verso uno sfogo patetico che è come la dimostrazione inconsapevole del trionfo dell'amore sul denaro, del cuore sull'intelligenza.
Da Vienna, Clara risponde. Ma non risponde a tono; sembra non ricordar più né la lettera del 24 novembre né l'indignazione di Schumann, cosI come una sonnambula che abbia dimenticato i misfatti compiuti nel sonno. Torna ad essere quella fanciulla ardente, geniale, disinteressata, alla quale un uomo ardente, geniale e disinteressato ha consacrato i suoi sogni. Una specie di primavera, una primavera d'inverno, fatta di neve e di crepuscoli gelidi, riempie l'anima di Schumann. Egli si raddrizza in tutta la sua altezza e lanciando un grido di letizia e di passione, guarda cadere nel nulla l'ultimo giorno dell'anno:

Sono qui da un'ora. Tutta la sera ho voluto scriverti, ma non trovavo le parole. Siediti vicino a me, circondami con le tue braccia, guardiamoci negli occhi, tranquilli, felici. In questo mondo ci sono due creature umane che si amano. Da lontano esse si cantano un corale. Li conosci tu, questi due esseri? Come siamo felici, Clara! mettiamoci in ginocchio. Vieni, Clara mia, ti sento qui, vicino a me. La nostra ultima parola sarà la pii bella; una piccola parola tedesca: Liebe.

Il soggiorno a Vienna si annuncia trionfale. Clara suona davanti all'Imperatore e a pubblici deliranti; commuove anche il pensoso Grillparzer
[Franz Grillparzer (1791-1872), poeta, narratore e drammaturgo austriaco, una tra le più eminenti figure di Vienna intellettuale nella prima metà del secolo scorso. Autore dei drammi L'avola, L'ebrea di Toledo, Medea. Fu amico di Beethoven e di altri grandi musicisti] a tal punto da eccitargli l'estro e da farsi dedicare una poesia che incomincia con questi versi:

Un mago, stanco del mondo e della vita,
rinchiuse, fremente, i suoi incantesimi
in un armadio duro come il diamante;
poi gettò la chiave nel mare e fu colto da morte...

Nelle lettere a Robert, pur gementi d'amore, Clara esalta la vita di Vienna. Una città come quella nasconde in sé tal somma di energie e di aspetti emotivi che un artista ne è affascinato. Al suo contatto, egli prende infatti coscienza del proprio potere; capisce quanto sia necessario coprire il rumore della folla con una voce forte; si rende conto della molteplicità degli ostacoli ed anche di come siano meschini paragonati alla vastità dell'insieme.
Schumann, conquistato dall'entusiasmo della fidanzata, progetta di passare due mesi a Parigi, città immensa che splende sul mondo. Laggiù, potrebbe incontrare molti artisti amatissimi: Berlioz, per esempio, o Simonin de Sire; il suo patrimonio intellettuale si arricchirebbe. Clara gli consiglia di dirigersi piuttosto a Vienna, poiché ella pensa non già a una escursione ma alla possibilità che Robert si stabilisca fermamente in Austria. Per giungere a questo occorre una capitale di lingua tedesca; la Neue Zeitschrift für Musik potrebbe trasportarsi nella città degli Absburgo e lui potrebbe ottenere un posto di professore nel Conservatorio.
Schumann sembra sedotto dall'idea. Fin dal 18 marzo 1838 ne parla coi fratelli Eduard e Carl. Se potrà rescindere il suo contratto con Friese, se troverà un editore a Vienna e otterrà dal governo austriaco l'autorizzazione a pubblicare il giornale, egli sceglierà senza dubbio la città di Mozart e di Schubert.
E quando tutto sarà in ordine, Clara lo raggiungerà e si sposeranno.
Una gioia ancora: Clara entra in conoscenza con Liszt, ch'è venuto a Vienna per dare una serie di concerti a beneficio delle vittime dell'inondazione del Danubio. I due pianisti, l'uno grande e di esteriore potenza, l'altra piena di semplicità profonda, si trovano a fronte e, immediatamente, scoprono un terreno d'intesa che si chiama Schumann. Il generoso Franz ha già celebrato, nella Revue et Gazette Musicale de Paris, le lodi, degli Impromptus (op. 5), della Sonata (op. 11) e del Concerto senza orchestra (op. 14); Clara gli dà da leggere il Carnaval e i Phantasiestücke. subito conquistato e grida la sua ammirazione con quella violenza tempestosa che gli è propria: non esita ad affermare che il Carnaval è l'opera di un genio.
Schumann assiste da lontano all'incontro di Liszt con Clara e ne resta tutto sconvolto. Da molto tempo egli ama quel giovane dal viso emaciato che racchiude l'Europa nel suo pianoforte, quell'artista che non esita un momento a riconoscere il talento di un collega, egli lo ama già da un pezzo. Vorrebbe esprimergli la sua gratitudine, dirgli che nessun critico lo ha mai tanto aiutato col suo incoraggiamento; vorrebbe appoggiare il suo capo dai lunghi capelli contro quell'altra chioma non meno fluente. Ma è inchiodato a Lipsia e non può far altro che chiedere a Clara di ringraziare Liszt con un lungo sguardo.

***

Nei primi due mesi del 1837 Schumann sembrava rassegnato alla perdita di Clara; viveva tranquillamente, leggendo Ivanhoe, King John e Macbeth, ricopiando l'Arte della fuga di Bach, studiando «musiche più antiche»,

lavorando al finale dell'altra (mai completata) Sonata in Fa minore e pensando a una sinfonia in Mi bemolle. In marzo questo stato d'animo lasciò il posto a un'appassionata disperazione che, a quanto sembra, egli cercava di allontanare bevendo e tenendo un comportamento tale che la pur tollerante padrona di casa minacciò di cacciarlo dall'alloggio. Il 3 maggio Clara Wieck fece ritorno a Lipsia dopo una tournée di due o tre mesi; poche settimane più tardi anche Banck cadeva in disgrazia presso il padre di Clara - tra la costernazione di lei - e il 19 Schumann pubblicava sul suo giornale un articolo, «Sull'ultimo ballo storico-artistico a casa dell'editore ***», scritto evidentemente prima dell'allontanamento di Banck: quest'ultimo vi era ridicolizzato come "de Knapp" e Clara come "Ambrosia", mentre il personaggio di "Beda" rappresentava quanto, in Clara, Schumann ancora amava. L'amore di Schumann per Clara si univa in questo periodo all'odio e, spinto forse dall'idea di «vendicarsi di lei», come poi ebbe a dire, egli prese in considerazione la possibilità di sposare un'altra Clara, di cui non si conosce il cognome. Da metà giugno ai primi di luglio passò molto tempo in compagnia di una bella pianista scozzese, la diciottenne Robena Laidlaw, cui dedicò i Phantasiestücke op. 12, composti in gran parte nel periodo dal 22 maggio al 4 luglio.
Un passo verso la riconciliazione fu compiuto da Clara. Attraverso il comune amico E.A. Becker, Clara chiese a Schumann di restituirle le lettere che lei gli aveva rimandato più di un anno prima. Egli le rispose il 13 agosto con una lettera da Clara giustamente descritta come «fredda, seria e tuttavia così bella», assicurandole che era ancora per lui «la più cara al mondo»; nello stesso giorno Clara eseguiva in pubblico, alla Börsensaal, tre degli Etudes symphoniques e il giorno successivo - la sua lettera è datata erroneamente 15 agosto - gli si promise ufficialmente. Gli innamorati non riuscirono a incontrarsi prima dell'8 o 9 settembre, e il 13, giorno del compleanno di Clara, Schumann scrisse a Wieck chiedendo la mano di lei. Sia in quell'occasione sia durante i primi mesi che seguirono sembra che Wieck fosse freddo, ironico ed evasivo più che francamente ostile; il 15 ottobre riuscì a portar via Clara per una tournée di sette mesi. Durante la separazione gli innamorati rimasero segretamente in corrispondenza, ma le lettere di Clara non portavano a Schumann solo consolazione; era decisa infatti a non sposarsi fintanto che Robert non si fosse trovato in una situazione economica che potesse garantirle l'agiatezza. Già prima della separazione, ai primi d'ottobre, il diario rivela che Schumann stava pensando nuovamente al suicidio.
Prima composizione dopo la riconciliazione con Clara furono le Davidsbündlertänze (scritta in ottobre), che Schumann pubblicò l'anno successivo, a proprie spese, presso Friese che aveva rilevato, nel luglio 1837, la pubblicazione della «Neue Zeitschrift» (a quell'epoca la sua diffusione era tra le 450 e le 500 copie). Per tutto ottobre e novembre si impegnò «furiosamente» nello studio della fuga, servendosi del manuale di [Friedrich Wilhelm] Marpurg,

ma le prime composizioni del 1838 recano poche tracce di questo interesse: si tratta delle Novelletten - le otto dell'op. 21 e alcuni dei pezzi pubblicati in seguito nelle opp. 99 e 124 - e delle Kinderszenen, queste ultime composte quasi tutte in febbraio. [ABRAHAM]




PRELUDI E FUGHE PER PIANOFORTE
DI FELIX MENDELSSOHN BARTHOLDY


Op. 35

Una testa calda così ha definito il concetto di “fuga”: “E’ un pezzo di musica, dove una voce scappa davanti a un’altra - fuga a fugere - e l’uditore davanti a tutte” perciò quando andavamo a concerti dove si eseguivano fughe, quel tale cominciava a parlar forte e, ancor più spesso, a dire ingiurie. Ma in fondo egli ne capiva poco e sembrava appunto la volpe della favola, poiché non riusciva a comporne mai alcuna per quanto lo desiderasse in segreto. In ben altro modo invece la definiscono coloro che le sanno fare, organisti, studenti di musica alla fine degli studi, ecc.! Secondo costoro “Beethoven non ha mai scritto una fuga, né avrebbe saputo scriverla; persino Bach s’era prese delle libertà che facevano alzare le spalle; il solo Marpurg [Fr. W. Marpurg, 1718-1795, celebrato teorico del suo tempo, autore d’un famoso Trattato della fuga ancora consultato ai nostri giorni.] aveva dato il metodo migliore” ecc. Altri, invece, pensano ben diversamente; io, per esempio, che per lunghe ore posso inebbriarmi delle fughe di Beethoven, di Bach e di Haendel e che ho sempre sostenuto non fosse più possibile farne una che non sia insipida, tiepida, miserevole, e tutta rappezzata; ma queste di Mendelssohn m’hanno ridotto al silenzio. S’ingannano intanto i mestieranti di fughe se credono di ritrovare i loro vecchi magnifici artifizi come le imitationes per augmentationem duplicem, triplicem, etc., oppure cancricantes motu contrario, etc. - e s’ingannano pure i romantici se sperano di trovarvi qualche inattesa fenice che si sia liberata dalla cenere d’una forma antica. Ma se essi avessero gusto per la sana musica naturale, ne troverebbero là a sufficienza. Non voglio lodare ciecamente e so anzi benissimo che Bach ha fatto anche delle fughe d’altro genere. Se ora si levasse dalla tomba forse inveirebbe a destra e a sinistra per lo stato della musica in generale; ma poi si rallegrerebbe che qualcuno coltivi ancora dei fiori sulla terra dov’egli aveva piantato delle gigantesche foreste di querce. In una parola, le fughe di Mendelssohn hanno molto di Sebastiano e potrebbero indurre in errore il più acuto redattore, se non fosse per il canto, per la melodicità più delicata, da cui si riconosce il tempo moderno, e qua e là per quei piccoli, caratteristici tratti di Mendelssohn che lo rivelano fra cento come compositore. Che i redattori lo osservino o no, rimane ben certo che il compositore non ha scritto queste fughe per passatempo, ma allo scopo di richiamare nuovamente l’attenzione dei pianisti su quella vecchia forma magistrale e di riabituarli ad essa. Inoltre egli ha scelto per ciò i giusti mezzi evitando tutte quelle infelici, inutili sottigliezze di frase e di imitationes, facendo prevalere il carattere melodico della frase cantabile. E però il tenersi strettamente alla forma di Bach, è per lui cosa naturale.
Se poi tale trasformazione sia avvenuta con vantaggio, senza che però ne venisse completamente alterato il carattere di fuga, è una domanda a cui più d’uno tenterà di rispondere. Beethoven avrebbe ben voluto farlo, ma era già troppo occupato e compreso nella costruzione delle cupole di molte altre cattedrali, perché potesse trovare il tempo di posare la prima pietra d’un nuovo edificio della fuga. Anche il Reicha tentò, ma la sua forza creatrice rimase visibilmen-te inferiore alla bontà dell’eccellente suo disegno; le sue idee, spesso curiose, non sono però da trascurare interamente. In ogni modo la fuga migliore è sempre quella che il pubblico… prende per un valzer di Strauss, in altre parole, quella che ha l’artificiosa radice coperta come quella d’un fiore, dimodoché noi vediamo soltanto il fiore. Una volta (questa è autentica) un conoscitore di musica, del resto non disprezzabile, prese una fuga di Bach per uno studio di Chopin - ad onore di entrambi; così si potrebbe dare ad intendere a qualche ragazza che l’ultima parte d’una fuga di Mendelssohn (della seconda, per esempio; nella prima l’entrata delle voci farebbe dubitare) sia una romanza senza parole, e simile grazia e delicatezza d’immagini le dovrebbe far dimenticare il quadro cerimonioso e il nome aborrito di fuga sotto cui queste composizioni le sono presentate. In breve, non sono fughe lavorate soltanto con la testa e secondo la formula, ma pezzi di musica balzati e sviluppati dallo spirito d’un poeta. Siccome la fuga offre un felice “organo” tanto per il dignitoso come per il vivace e l’allegro, la raccolta ne contiene anche di quelle in uno stile breve e rapido, di cui Bach ha buttato giù con mano maestra tanti esempi. Chiunque le riconoscerà; queste rivelano in ispecial modo l’artista fatto, pieno di spirito, che gioca colle catene come se fossero ghirlande di fiori. Per dire ancora qualcosa dei preludi, i più (come molti di Bach) non stanno in alcuna relazione originaria con le fughe e sembrano messi innanzi a queste più tardi. La maggior parte degli esecutori li preferirà alle fughe perché lasciano, anche suonati separatamente, un’impressione completa; il primo specialmente afferra sin dal principio e trascina sino alla fine. Ciascuno da sé vedrà gli altri. L’opera parla per se stessa, anche senza il nome del compositore.

Jeanquirit.

12 STUDI PER PIANOFORTE, DI F. CHOPIN Op. 25

Come potrebbe mancare nella nostra Rivista colui che così spesso, abbiamo indicato come- una stella rara nelle tarde ore della notte?
Dove vada e conduca la sua strada, quanto sia lunga e splendente, chi sa dire? Ogni volta si è mostrato sempre con lo stesso ardore profondo, con lo stesso centro di luce, con la stessa finezza, si che un bambino l’avrebbe potuto riconoscere. Ho avuto la fortuna di sentire questi studi per la maggior parte da Chopin stesso. "Li suona molto alla Chopin" mi bisbigliò Florestano nell’orecchio. S’immagini un’arpa eolia che abbia tutte le gamme sonore e che la mano d’un artista le mescoli in ogni sorta d’arabeschi fantastici, in modo però da udire sempre un suono grave fondamentale e una morbida nota alta; s’avrà cosi press’a poco un’immagine del modo di sonare di Chopin. Nessuna maraviglia perciò, se i pezzi che son piaciuti di più sian quelli che abbiamo udito da lui, e così sia citato sopra tutti quello in la bemolle maggiore, ch’è più una poesia che uno studio. Sbaglierebbe chi pensasse ch’egli facesse udire chiaramente ognuna delle piccole note; si sentiva piuttosto una ondulazione dell’accordo in la bemolle maggiore, rinnovato di tempo in tempo dal pedale, ma attraverso le armonie si distinguevano melodie dai suoni ampi, meravigliosi; una volta sola, a metà del pezzo, si sentiva chiara fra gli accordi una voce di tenore, insieme al canto principale. Finito lo studio, si prova l’impressione di chi si vede sfuggire una beata immagine apparsa in sogno e che, già mezzo sveglio, vorrebbe ancora trattenere; dopo di ciò si può dire ancora ben poco in fatto di lode. Chopin passò poi subito all’altro studio in fa minore, il secondo del volume: anche questo, per la sua caratteristica si scolpisce indimenticabilmente nella mente, così grazioso, fantastico e lieve, un po’ come il canto d’un bimbo nel sonno. Seguì poi lo studio in fa maggiore, bello ancora, ma meno nuovo nel carattere che non nel disegno; qui importava soprattutto di mostrare la bravura, la più amabile invero e dovemmo molto complimentare il maestro... Ma a che serve, descrivere colle parole?
Questi studi indicano una volta di più quale audace forza creatrice sia posta in lui: veri quadri poetici, non senza qualche piccola macchia nei particolari, ma nell’insieme sempre possenti ed afferranti. Tuttavia la mia opinione più sincera, a non volerla tacere, è che l’importanza totale mi pare maggiore nella prima grande raccolta. Questo però non può dare il minimo sospetto d’una diminuzione della natura artistica di Chopin o di un indietreggiamento, perché gli studi testé apparsi sono stati composti quasi tutti insieme ai primi e soltanto qualcuno (cui si riconosce una più grande maestria, come il primo in la bemolle magg. e l’ultimo, magnifico, in do minore) è più recente. Che il nostro amico crei ora, in generale, assai poco ed opere di piccola mole, è purtroppo anche vero e ben può dirsi che le distrazioni di Parigi n’abbiano un po’ colpa.
Ammettiamo piuttosto, che dopo tante tempeste un’anima dì artista abbia bisogno di qualche riposo e che poi forse, nuovamente fortificato, tenda ai lontani soli, che il genio sempre ci discopre.

Eusebio.

IL VECCHIO CAPITANO

Quando ieri l’uragano infuriava violentemente contro la mia finestra e sembrava portasse con sé per l’aria corpi gerenti, mi venne per l’appunto in mente la tua immagine, o vecchio capitano, e per te dimenticai ciò che accadeva di fuori.
Già nel 183* frequentava il nostro circolo, appena sapevamo come, un magro e rispettabile personaggio. Nessuno sapeva il suo nome, nessuno domandava dove andasse, di dove venisse: lo si chiamava il “vecchio capitano”. Spesso s’assentava per intere settimane; sovente veniva ogni giorno, se si faceva della musica, si sedeva, in un angolo taciturno, come non visto, affondava profondamente il capo fra le mani e profferiva poi su ciò ch’era stato sonato le riflessioni più profonde, che colpivano giusto. "Eusebio" diss’io "nella nostra vita movimentata manca giusto un arpista come quello di Wilhelm Meister; se prendessimo per ciò il vecchio capitano, lasciandolo pur nel suo incognito?".
Questo incognito egli conservò per lungo tempo. Tuttavia, per quanto parlasse poco di sé, anzi eludesse con cura ogni discorso sulle sue condizioni, si assodò in modo sicuro, secondo tutte le informazioni, ch’egli era un certo signor von Breitenbach, militare congedato dal servizio di *** con tanta sostanza quanta gli abbisognava per vivere, e con tale amore per gli artisti ch’egli avrebbe voluto dare tutto a loro. Il fatto più importante era ch’egli viaggiava da Roma a Londra, da Parigi a Pietroburgo, e il più delle volte a piedi, per vedere e udire i più celebri musicisti, e ch’egli stesso sonava con rapimento dei concerti di Beethoven, ed anche di Spohr per violino, strumento che nelle sue peregrinazioni portava sempre legato nell’interno del soprabito. Inoltre egli dipingeva tut-ti i suoi amici in un album, leggeva Tucidide, coltivava la matematica, scriveva lettere meravigliose, ecc., ecc…
In tutto ciò v’era qualcosa di vero, come ci persuademmo frequentandolo più intimamente. Soltanto riguardo alle sue esecuzioni non potevamo mai riuscire a sentire qualcosa da lui, finché un bel giorno Florestano stette per caso ad ascoltarlo quando studiava; tornato a casa, ci disse in confidenza: "Egli suona così orribilmente che mi chiese molte scuse per il mio origliare". A questo proposito gli venne in mente l’aneddoto del vecchio Zelter che passeggiando, una sera con Chamisso per le strade di Berlino, senti ed ascoltò il suono d’un pianoforte, ma dopo un po’, preso per il braccio lo Chamisso, gli disse: "Vieni! costui fa la sua musica da sé!". Ed era infatti abbastanza naturale che gli mancasse ogni genere di tecnica sicura. Siccome il suo occhio profondamente poetico poteva raggiungere tutte le profondità e le altezze della musica beethoveniana, egli non aveva voluto cominciare i suoi studi musicali con qualche buon maestro e con esercizi e scale, ma subito col concerto di Spohr, chiamato “la scena del canto” e con l’ultima grande sonata in si bemolle maggiore di Beethoven.
Ci veniva assicurato poi che già da dieci anni all’incirca studiava questi due pezzi. Spesso egli se ne veniva allegro e annunciava che tosto sarebbe andato bene: la sonata imparava ad obbedirgli e noi presto avremmo potuto sentirla; ma più d’una volta lo vedemmo abbattuto poiché, già sulla cima, nuovamente era precipitato in basso; eppure non poteva tralasciare di ritentare da capo. Le sue possibilità pratiche, in una parola, non si potevano giudicare molto elevate; invece tanto più alto era il piacere di vederlo ascoltar musica. A nessuno io suonavo così volentieri e meglio che davanti a lui. Il suo modo d’ascoltare sollevava: lo dominavo, lo conducevo dove volevo e tuttavia mi pareva ch’io per primo ricevessi tutto da lui. Quando poi si metteva a parlare con voce chiara e piana sull’alto valore dell’arte, ciò sembrava provenire da un’ispirazione superiore, obbiettiva, poetica e vera. Egli non conosceva affatto la parola “biasimo”. Se era costretto ad ascoltar qualcosa d’insignificante, si vedeva che per lui questo non esisteva affatto; come in un bimbo, che non conosce alcun peccato, la sensazione del volgare in lui non era ancora svegliata.
Era così da molti anni che se ne veniva e andava fra noi, accolto sempre come un buon genio superiore alle cose di questa terra, quando, recentemente, si assentò più a lungo del solito. Noi lo credevamo in qualche grande viaggio a piedi, come egli faceva ogni stagione, quando una sera, leggendo nei giornali, trovammo l’annuncio della sua morte. Eusebio compose a questo proposito il seguente epitaffio: “Sotto questi fiori io sogno, lira silenziosa; incapace di suonare io stessa, divento, fra le mani di chi sa comprendermi, un amico eloquente. Passeggero, prima di lasciarmi, provami. Maggiore sarà la cura che ti prenderai di me, più belli saranno i suoni che ti renderò”.

SEI ROMANZE SENZA PAROLE DI
F. MENDELSSOHN, PER PIANOFORTE
3° fascicolo, op. 38.

Ci limitiamo per questo fascicolo ad un annuncio senza frasi. Per un cespo di rose che fiorisce ed imbalsama tutt’intorno a sé, per un occhio che felice s’affisa nella luna, nessuno può dubitare di che cosa si tratti. Dalle romanze anteriori queste più recenti si differenziano ben poco e stanno, come quelle, fra la pittura e la poesia: per cui facilmente si lasciano aggiungere dei colori o delle parole, se la musica non parlasse sufficientemente per se stessa. Ora, per quanto sian tutte figlie d’una fantasia fiorente, accade però anche alla madre migliore coscientemente o no di preferire l’una o l’altra, e che altri se ne accorga. Cosi vorrei credere che la seconda romanza e il duetto finale siano anche i prediletti del compositore; poi pure la quinta, che è più appassionata, se si può dire così delle rare commozioni d’un cuore puro. La quarta è quella che mi piace meno, sebbene appunto la più intima, ma è d’una natura più prosastica e sembra riposar più su molli cuscini che all’aperto fra i fiori e gli usignuoli. Per il duetto, mi spiace che questa ricca lingua tedesca non abbia una parola per esprimere senza affettazione una cosa simile; qui par di sentire degli innamorati che parlano pianamente con intimità e con abbandono.

FRAMMENTI DA LIPSIA

I.
Gli Ugonotti di Meyerbeer

Oggi mi sento come un giovane guerriero coraggioso che per la prima volta mena la sua spada in una grossa faccenda! Come se questa piccola Lipsia, dove alcune questioni mondiali già sono venute in discussione, dovesse pure spianare quelle musicali, accadde che qui, probabilmente per la prima volta, venissero eseguite insieme le due più importanti composizioni del tempo - gli Ugonotti di Meyerbeer e il Paolo di Mendelssohn. Dove cominciare e dove finire? In una simile rivalità qui non si può parlare di una preferenza d’uno sull’altro. Il lettore sa troppo bene a quali aspirazioni siano dedicati questi fogli e sa bene che se si parla di Mendelssohn non si può parlare di Meyerbeer, tanto diametralmente opposte corrono le loro strade, e sa pur bene che, per dare una caratteristica di entrambi, occorre soltanto attribuire all’uno ciò che l’altro non ha - l’ingegno eccettuato, che è comune a tutt’e due. Spesso dovremmo toccarci la fronte, per sentire se tutto v’è ancora nello stato normale, quando si considera il successo di Meyerbeer nella sana Germania musicale; e’ quando si sente dire da persone onorabili, e persino da musicisti (che vedono pure con gioia la più silenziosa vittoria di Mendelssohn) che la sua musica non è trascurabile. Ancora tutto pieno dell’alta interpretazione della Schroeder-Devrient nel Fidelio, mi recai per la prima volta agli Ugonotti. Chi non si rallegra d’una prima rappresentazione, chi non se n’augura bene? Ries infatti aveva scritto di sua propria mano che parecchi passi degli Ugonotti potevano stare a paro di alcuni di Beethoven! E che cosa dicevano gli altri, e io stesso? Io era addirittura d’accordo con Florestano che, tendendo il suo pugno chiuso contro l’opera, lasciò cadere queste parole: "Dopo il Crociato aveva annoverato Meyerbeer ancor fra i musicisti, dopo Roberto il Diavolo ero rimasto dubitoso; dopo gli Ugonotti lo metto senz’altro fra la gente di Franconia". Di quale disgusto ci abbia riempiti l’opera intera e come sempre abbiamo dovuto difendercene, davvero non posso dire; siam diventati fiacchi e stanchi per la collera. Dopo qualche ripetuta audizione, si trovò qualcosa di più favorevole e di più scusabile, ma il giudizio finale rimase il medesimo ed a quelli che osavano sia pur da lontano porre gli Ugonotti accanto al Fidelio e ad opere simili, dovetti gridare senza posa: che essi non capivano nulla, nulla, ma proprio nulla. Ad un tentativo di conversione del resto, non mi sono prestato: non si sarebbe venuto a capo di nulla.
Un uomo di spirito ha ottimamente designato la musica e il dramma con questo giudizio: che ambedue si svolgono o in un postribolo o in chiesa. Io non sono affatto un moralista; ma fa andar fuori di sé un buon protestante udire il suo canto più caro gridato sul palcoscenico, il vedere il dramma più sanguinoso della sua religione abbassato ad una farsa da giorno di fiera, per riscuotere danari ed applausi, lo fa andar fuori di sé l’intera opera dell’ouverture (col suo carattere sacro ridicolmente volgare) sino alla fine; dopo la quale fine non ci resta che essere bruciati vivi al più presto [Si leggano soltanto le ultime righe dell’opera: Par le fer et l’incendie Exterminons la race impie! Frappons, poursuivons l’hérétique. Dieu le veut, Dieu veut le sang. Oui, Dieu veut le sang! (Sch.)]. Che cosa rimane dopo gli Ugonotti se non giustiziare sulla scena dei criminali ed esporre spettacoli di facili sgualdrine? Si rifletta un po’, si guardi dove tutto va a finire! Nel primo atto, un’orgia di “tutti” uomini e inoltre, cosa molto raffinata, una sola donna, ma velata; nel secondo, un’orgia di donne al bagno e in mezzo, cosa scavata colle unghie per i parigini, un uomo, ma cogli occhi bendati. Nel terzo atto, l’elemento dissoluto si mischia con quello sacro; nel quarto, vien preparato il macello e nel quinto avviene la strage in chiesa; Orgia, assassinio e preghiera: non si tratta d’altro negli Ugonotti; invano si cercherebbe un pensiero puro che duri un po’, un vero sentimento cristiano. Meyerbeer inchioda il cuore sulla pelle e dice: “Vedete, è qui, si può toccare col dito”. Tutto è artificioso, tutto apparenza e ipocrisia. E poi questi eroi ed eroine!... - soltanto due, Marcello e St. Bris, non cadono in basso così miserabilmente. Un francese, perfetto libertino [Parole come: "Je ris du Dieu de l’univers" ecc. sono piccolezze nel testo... (Sch.)], Nevers, che ama Valentina, vi rinuncia, poi la sposa - questa Valentina stessa, che ama Raoul, sposa Nevers, gli giura amore ["D’aujourd’hui tout mon sang est à vous" ecc… (Sch.)] e si lascia sposare a Raoul - questo Raoul, che ama Valentina, la respinge, s’innamora della regina e infine riceve Valentina in isposa - questa regina finalmente… la regina di tutti questi fantocci! E tutta questa roba si lascia passare perché riesce bella agli occhi e viene da Parigi, e voi costumate ragazze tedesche, non chiudete gli occhi? E il più astuto di tutti i compositori si frega le mani dalla gioia! Per parlare della musica in sé, non basterebbero quì dei volumi; ogni battuta è pensata e su ciascuna di esse ci sarebbe da dire qualcosa. Stupire o solleticare è la divisa suprema di Meyerbeer e ciò gli riesce anche con la plebaglia. Per ciò che riguarda quel corale introdotto dappertutto, pel quale i francesi van fuori di sé, confesso che se un allievo mi portasse un contrappunto simile, lo pregherei tutt’al più di non farne pel futuro di peggiori. Com’è scipito con intenzione, com’è calcolatamente superficiale (tanto che la plebaglia stessa se n’è accorta), com’è cosa massiccia da fabbro ferraio quest’eterno gridare di Marcello “Ein fest Burg” ecc.! Si fa un gran caso poi della benedizione delle spade nel quarto atto. Convengo ch’essa ha una linea molto drammatica e qualche movimento ricco di spirito che colpisce; il coro specialmente è di grand’effetto esteriore: situazione, messa in scena, strumentazione si fondono insieme e poiché l’atroce è l’elemento naturale di Meyerbeer egli qui ha scritto con fuoco e amore. Ma si osservi la melodia dal punto di vista musicale, che cos’è se non una Marsigliese raffazzonata? E poi è forse un’arte, produrre dell’effetto in simile luogo con, simili mezzi? Io non biasimo che s’impieghi ogni effetto al suo giusto luogo; ma non si deve gridare alla magnificenza se una dozzina di tromboni, trombe, oficleidi e un centinaio di uomini che cantano all’unisono son capaci di farsi sentire ad una certa distanza. Io qui devo citare un raffinamento di Meyerbeer. Egli conosce il pubblico troppo bene perché non abbia dovuto capire che troppo rumore alla fine non fa più effetto. E come avvedutamente vi pone rimedio! Egli mette subito dopo simili passi rumorosi delle arie intere con accompagnamento d’un solo strumento, come se volesse dire: “Vedete, che cosa posso fare anche con pochi mezzi, vedete, tedeschi, vedete un po’!”. Non si può purtroppo negargli un po’ di spirito.
A rivedere tutti i particolari, come basterebbe il tempo? La tendenza più esteriore di Meyerbeer, la sua immensa mancanza d’originalità e di stile sono conosciute, come il suo abile talento ad apprêter, a render lucido, a trattare drammaticamente, a istrumentare; è noto pure come egli abbia una grande ricchezza di forme. Con leggera fatica si possono trovare reminiscenze di Rossini, Mozart, Herold, Weber, Bellini, Spohr, in breve, tutta la musica. Ma ciò che gli appartiene completamente è quel celebre, fatalmente belante, ritmo sconveniente che attraversa quasi tutti i temi dell’opera; io avevo già cominciato ad indicare tutte le pagine dov’esso compare, ma alla fine mi stancai. L’odio soltanto potrebbe negare, come s’è detto, il meglio, ed anche particolari momenti più nobili e di genere più grandioso; così il canto di battaglia di Marcello è d’effetto, così è soave la canzone del paggio; così interessa la maggior parte del terzo atto per le scene di popolo vivacemente rappresentate, così la prima parte del duetto fra Marcello e Valentina, ed il sestetto, per il loro lato caratteristico, così il coro ironico, per la maniera comica con cui è trattato, così nel quarto atto la benedizione del-le spade per un carattere particolare più spiccato, e, soprattutto, il duetto che segue tra Raoul e Valentina per il lavoro musicale ed il flusso delle idee: ma che cos’è tutto ciò contro il volgare, il contorto, il mostruoso, l’immorale, l’immusicale dell’insieme? Ed ora, il Signore sia lodato, siamo alla fine, non può accadere di peggio, poiché allora si dovrebbe fare della scena una forca, ed all’estremo grido d’angoscia d’un ingegno torturato dal suo tempo, facciamo seguire pel momento la speranza che debba migliorarsi.

II.
Il Paolo di Mendelssohn

Volgiamoci ora con qualche parola ad un più nobile artista. Qui l’animo tuo si volge alla fede e alla speranza ed impari ad amare nuovamente i tuoi fratelli; qui riposi come sotto le palme, come quando, stanco per l’aver cercato, giace ai tuoi piedi un paesaggio fiorente. E’ il Paolo, un’opera di vena purissima, di pace e d’amore. Faresti danno a te e male al poeta se tu lo volessi comparare anche soltanto da lontano a quelle di Haendel o di Bach. Come tutte le musiche di chiesa, come tutti i templi di Dio, tutte le Madonne dei pittori hanno degli elementi comuni, così pure queste opere; ma è vero però che Bach e Haendel, quando scrivevano, erano già uomini fatti, mentre Mendelssohn ha composto il suo lavoro quand’era molto giovane. E’ dunque l’opera d’un giovane maestro, nello spirito del quale aleggiano le Grazie, pieno ancora di volontà di vivere e di fede dell’avvenire; e non bisogna paragonarlo con le opere di quell’epoca più severa dove quei divini Maestri, avendo dietro di sé una lunga e santa vita, guardavano di già col capo fra le nubi.
Il procedere dell’azione, la ripresa del corale che già troviamo nei vecchi oratori, la divisione del coro e dei solisti in masse e personaggi che agiscono e completano, i caratteri di questi solisti stessi; di queste ed altre cose s’è già più volte parlato in questi fogli. Anche s’è detto che a danno dell’impressione d’insieme i momenti principali sono già nella prima parte dell’azione: che Stefano, personaggio secondario, (se non ha addirittura una parte preponderante su quella di Paolo), scerna tuttavia l’interesse per quest’ultimo, che finalmente nella musica Saul fa più effetto come convertito che non come convertente: è stato pure giustamente osservato che l’oratorio nel complesso è molto lungo e che si potrebbe comodamente dividerlo in due. Soprattutto è interessante per la discussione artistica, la poetica concezione di Mendelssohn dell’apparizione del Signore; però mi pare che ragionandoci su con delle sottigliezze si guasterebbe tutto e si offenderebbe aspramente il compositore, che qui ci ha dato una delle sue più belle creazioni. Io penso che Domineddio parla in molte lingue ed anzi manifesta agli eletti la sua volontà per mezzo dei cori degli angeli: così penso che il pittore esprime più poeticamente la vicinanza dell’Altissimo con le teste dei cherubini che in alto guardano fuori dalla cornice del quadro, che non mediante la figura d’un vecchio o il segno della Trinità, ecc… Io non saprei come la bellezza possa offendere là dove non si può raggiungere la verità. Inoltre, s’è voluto sostenere che alcuni corali nel Paolo, per il raro ornamento col quale Mendelssohn li ha rivestiti, perdano della loro ingenuità. Come se la musica corale non avesse tratti tanto per esprimere la gioconda fiducia in Dio quanto per la preghiera supplicante, come se tra la Wachet auf e la Aus tiefer Not non fosse possibile alcuna distinzione, come se l’opera d’arte non dovesse appagare altre esigenze che quelle d’una parrocchia cantante! Infine si è perfino detto che il Paolo non si può considerare come un oratorio protestante, ma solo un oratorio da concerto; una persona avveduta ha poi proposto la via di mezzo: di chiamarlo cioè “oratorio da concerto protestante”. Come si vede, obbiezioni, ed anche fondate si posson fare, e la diligenza della critica dev’essere apprezzata.
Si osservi invece come in questo oratorio, oltre al pregio del sentimento profondamente religioso, che si esprime dappertutto, è indovinata magistralmente tutta questa musica, questo canto sempre alto e nobile, quest’unione della parola col suono, del testo con la musica, sì che noi vediamo tutto, come in una vera profondità, l’incantevole aggruppamento dei personaggi; si osservi la grazia che alita su tutto l’insieme, questa freschezza, questo incancellabile colorito nella strumentazione, senza parlare poi dello stile compiutamente finito, del gioco magistrale di tutte le forme della composizione; io direi che di tutto ciò si dovrebbe esser ben contenti. Una cosa soltanto debbo osservare. La musica del Paolo sgorgata in complesso così chiara e popolare, s’imprime così rapidamente nello spirito, e per lungo tempo, da far pensare che il compositore scrivendo abbia cercato in modo del tutto particolare di fare effetto sul popolo. Per quanto sia bella questa aspirazione, credo che la sua attuazione toglierebbe alle future composizioni forza ed entusiasmo; quella forza e quell’entusiasmo che troviamo nelle opere di coloro che si abbandonavano alla loro possanza senza riguardi, senza meta e senza limiti. Si rifletta infine che Beethoven ha scritto un Cristo al Monte degli Olivi ed anche una Missa solemnis, e noi crediamo che come il Mendelssohn giovane ha scritto un oratorio, il Mendelssohn uomo maturo ne porterà a compimento un altro. Sino ad allora ci accontenteremo di questo imparando e godendo.
Ed ora dobbiamo riuscire ad un giudizio conclusivo sui due uomini e sulle loro opere che caratterizzano all’estremo la tendenza e la confusione del nostro tempo. Io disprezzo dal più profondo del cuore questa gloria di Meyerbeer; i suoi Ugonotti sono l’indice generale di tutti i difetti del suo tempo, pochi eccettuati. Ci si lasci infine apprezzare ed amare questo Paolo di Mendelssohn; egli è il profeta d’un bell’avvenire, dove è l’opera che nobilita l’artista e non il piccolo successo del presente: la sua via conduce al bene, l’altra al male.