ROBERT SCHUMANN




SCRITTI SULLA MUSICA E I MUSICISTI
1838-1853


PREFAZIONE DI LUIGI RONGA


1838


LE ULTIME COMPOSIZIONI DI FRANZ SCHUBERT

Se la fecondità è una caratteristica principale del genio, Franz Schubert appartiene ai geni più grandi. Non oltrepassò di molto i trent’anni, ma scrisse tanto da far stupire e forse soltanto la metà delle sue composizioni è stata sinora stampata, una parte attende ancora la pubblicazione, un’altra molto più grande sarà concessa al pubblico dopo lungo tempo oppure molto probabilmente mai. Nella prima rubrica abbiamo i suoi canti, che si sono diffusi più presto e più largamente; egli forse avrebbe messo in musica a poco a poco tutta la letteratura tedesca; e quando Telemann richiede “che un vero compositore dovrebbe poter mettere in musica il passaporto”, avrebbe trovato il suo uomo in Schubert.
Dove toccava, sprizzava fuori della musica: Eschilo, Klopstock, così ribelli alla composizione musicale, hanno ceduto alle sue mani; d’altra parte egli metteva in rilievo i lati più profondi alle poesie più facili di Müller e di altri. Poi c’è una quantità di opere strumentali d’ogni forma e specie: trii, quartetti, sonate, rondò, danze, variazioni a due e a quattro mani, grandi e piccole, piene delle cose più meravigliose e di rarissime bellezze; la nostra Rivista le ha più volte caratterizzate in modo più preciso. Delle opere che ancora attendono la pubblicazione ci si citan messe, quartetti, un gran numero di Lieder, ecc. Nell’ultima rubrica infine vi sono le sue composizioni maggiori, parecchie opere, grandi pezzi da chiesa, molte sinfonie, ouvertures, ecc., che son rimaste in possesso degli eredi. Le composizioni di Schubert ultimamente apparse hanno il titolo:

Gran Duo per pianoforte a quattro mani (op. 140)
e 3 grandi Sonate per pianoforte.
(ultime composizioni di Schubert)

Vi fu un tempo in cui io non parlavo volentieri di Schubert: soltanto di notte potevo raccontare di lui agli alberi ed alle stelle. Chi non fantastica una volta nella vita! Io non pensavo che a lui, rapito da questo nuovo spirito, la cui ricchezza mi sembrava infinita ed incommensurabile, sordo a tutto ciò che gli poteva testimoniare contro. Coll’avanzare dell’età, col crescere delle esigenze, il circolo dei prediletti rimpicciolisce sempre di più; la cosa dipende da noi ed anche da loro. Quale sarà il maestro, che si pensa sempre lo stesso durante tutta la vita? Per apprezzare Bach son necessarie esperienze che la gioventù non può avere; dalla gioventù persino l’altezza solare di Mozart viene stimata troppo bassa; per la comprensione di Beethoven non bastano i soli studi musicali: in certi momenti della vita egli ci entusiasma di più per un’opera che per un’altra. Questo è certo: che età eguali si attirano sempre, l’entusiasmo giovanile viene compreso dalla gioventù e la forza virile del maestro soltanto dall’uomo fatto. Così Schubert rimarrà sempre il prediletto della gioventù, perché dimostra di possedere ciò ch’essa vuole: un cuore riboccante, pensieri arditi, azione decisa; poi racconta ciò che essa ama di più: delle storie romantiche ed avventure di cavalieri, di fanciulle. Egli mischia a tutto ciò spirito e umorismo, ma non tanto da offuscare il delicato accordo fondamentale. Inoltre mette le ali alla fantasia dell’esecutore come nessun altro compositore, all’infuori di Beethoven, e volentieri ci si lascia allettare da ciò che vi è di facilmente imitabile in parecchie sue caratteristiche, si vorrebbero sviluppare migliaia di pensieri ch’egli ha soltanto leggermente accennato. Tale è l’effetto che farà ancora lungamente.
Dieci anni fa, dunque, avrei senz’altro contato queste opere ultimamente apparse fra le più belle del mondo, e rispetto alla produzione del presente lo sono anche ora. Ma, come composizioni di Schubert, non le metto nella categoria del suo quartetto per archi in re minore, del suo trio in mi bemolle maggiore, e di molti suoi canti e piccoli pezzi per pianoforte. Il Duo specialmente mi sembra nato ancora sotto l’influenza di Beethoven, tanto ch’io lo ritenni la trascrizione d’una sinfonia, finché il manoscritto originale, su cui stava scritto di suo pugno “Sonata a quattro mani”, volle convincermi di tutt’altro. Dico “volle”, perché ancora non ho rinunciato alla mia idea. Chi scrive così abbondantemente come Schubert finisce per non badar più tanto ai titoli e così la sua opera fu intitolata forse nella fretta “Sonata”, mentre era già pronta nella sua testa come sinfonia. Ancora è da ricordare una ragione volgare: che cioè in quel tempo in cui il suo nome appena cominciava ad essere conosciuto si trovavano più facilmente editori per una sonata che per una sinfonia. Essendomi familiarizzato col suo stile, colla sua maniera di trattare il pianoforte, confrontando quest’opera con le altre sue sonate in cui s’esprime il più puro carattere pianistico, me la posso spiegare soltanto come pezzo orchestrale. Si odono strumenti a corda e a fiato, i tutti, gli a solo, il rullio dei timpani; insomma, l’estesa forma sinfonica, persino qualche reminiscenza delle sinfonie di Beethoven (per esempio, la seconda parte ricorda l’andante della sua seconda sinfonia e l’ultima parte ricorda l’ultimo tempo di quella in la maggiore e qualche passo meno spiccato che mi sembra aver perduto attraverso la riduzione), rinforzano il mio modo di vedere. Ma vorrei però proteggere il Duo contro il rimprovero di non esser stato, come pezzo per pianoforte, sempre ben pensato, obbiettando che non si può pretendere dallo strumento qualcosa che non può rendere, mentre come riduzione di una sinfonia sarebbe da considerare con altri occhi. Prendendola come tale, possediamo una sinfonia di più.
Già abbiamo menzionato le reminiscenze di Beethoven; ben tutti viviamo dei suoi tesori. Ma anche senza questo nobile precursore, Schubert non sarebbe diverso; la sua originalità si sarebbe manifestata forse più tardi. Infatti, chi ha solo un po’ di sentimento e di cultura riconoscerà e distinguerà alle prime pagine Beethoven e Schubert. Paragonato a Beethoven Schubert è un carattere di ragazza, molto più loquace, più tenero e più ampio; è un fanciullo che spensierato gioca fra i giganti. In questo rapporto le sue composizioni sinfoniche si trovano con quelle di Beethoven e non possono esser pensate nella loro intimità diversamente da come le ha concepite Schubert. È vero che anche lui sente alcuni passi con forza e spiega delle grandi masse: c’è sempre però il rapporto come da donna a uomo, questi comanda dove quella prega e persuade. Ma tutto questo si dice soltanto a confronto di Beethoven; rispetto ad altri è ancora abbastanza uomo, ed anzi il più ardito ed il più libero di spirito dei musicisti moderni. In questo senso si deve considerare il Duo. Non c’è bisogno di cercare le bellezze; esse ci appaiono facilmente e ci guadagnano quanto più spesso le osserviamo; dobbiamo perciò affezionarci a quest’anima amante di poeta. Per quanto l’adagio appunto ricordi Beethoven, non conosco nessuna cosa dove Schubert abbia saputo manifestare se stesso più di quanto abbia fatto Beethoven; così in carne ed ossa che ad ogni singola battuta sfugge dalle labbra il suo nome e si esclama: l’ho indovinato! Ed ora saremo ancora d’accordo in questo, che l’opera si mantiene alla stessa altezza dal principio alla fine; cosa che in verità si dovrebbe esigere sempre, ma che il tempo moderno ci dà così di rado. Un’opera simile non dovrebbe rimanere estranea a nessun musicista e se essi non capiscono parecchie creazioni del presente come non capiranno molte altre del futuro, è perché manca loro la cognizione delle transizioni.
La nuova scuola cosiddetta romantica non è affatto cresciuta dall’aria: tutto ha la sua buona ragione d’essere.
Le sonate sono designate come l’ultima opera di Schubert e ciò è abbastanza strano. Forse giudicherebbe in tutt’altro modo chi ignorasse la data della composizione. Forse io stesso le avrei messe in un periodo più antico dell’artista, poiché il trio in mi bemolle maggiore m’è sempre parso l’ultimo lavoro di Schubert, come il suo più caratteristico. Sarebbe in verità sovrumano che dovesse sempre salire e superare se stesso chi, come Schubert, ha composto tanto e giornalmente. Dimodoché queste sonate possono essere effettivamente gli ultimi suoi lavori. S’egli le abbia scritte nel suo letto di malato o no, non son riuscito a sapere: dalla musica stessa sembra di poter concludere per la prima ipotesi, perché con la triste parola “ultimissime” la fantasia è tutta riempita dal pensiero della vicina dipartita. Comunque, queste sonate mi sembrano spiccatamente differenti dalle altre sue, specialmente per una molto più grande semplicità d’intenzione, per una volontaria rinuncia a brillanti novità in cui egli altra volta si compiaceva, per lo sviluppo di certe generali idee musicali, mentre altra volta sovrapponeva periodo su periodo. Come se ciò non potesse aver mai fine, non fosse mai in
imbarazzo per proseguire, corre avanti di pagina in pagina sempre musicale e ricco di canto, interrotto qua e là da singoli sentimenti violenti, ma che presto si calmano nuovamente. Se in questo giudizio la mia fantasia pare sedotta dalla presenza della sua malattia, io devo rimettermi a chi giudichi con più calma.
Così hanno agito queste sonate su di me. Egli poi ha finito anche di buon umore, leggero e gentile, come se l’indomani potesse di nuovo cominciare. Altro gli era destinato. Egli poté andar incontro all’ultimo minuto con viso tranquillo. E se sul suo epitaffio sta scritto che lì giacciono sotterrate “un prezioso possesso, ma ancor più belle speranze”, noi vogliamo ricordarci riconoscenti soltanto del suo “prezioso possesso”. Rovellarsi su che cosa egli avrebbe potuto ancor raggiungere non conduce a nulla. Egli ha fatto abbastanza e sia venerato chi come lui ha vagheggiato e portato a compimento tante cose.

DUE QUARTETTI DI CHERUBINI
N. 1 in mi bem. maggiore.

I quartetti di Cherubini, già apparsi da molto tempo, hanno sollevato persino fra i buoni musicisti una discordanza di opinioni. Non si tratta della questione, se questi lavori provengano da un maestro dell’arte, poiché su ciò non potrà sorgere alcun dubbio, ma se questo è il vero stile del quartetto che noi amiamo e che abbiamo riconosciuto come modello. Ormai ci si è abituati alla maniera dei tre famosi maestri tedeschi e, per un giusto riconoscimento, si sono ammessi nel circolo anche Onslow e in ultimo Mendelssohn, come compositori che continuano a seguire le tracce di quelli. Or viene appunto Cherubini, ar-tista incanutito nella più alta aristocrazia dell’arte e dotato di personali vedute artistiche. Egli, nonostante l’età avanzata, è il maggior armonista del nostro tempo; il fine, sapiente ed interessante italiano, a cui nella sua severa concentrazione e forza di carattere vorrei qualche volta paragonare Dante. Confesso che quando sentii questo quartetto per la prima volta provai disagio, specialmente dopo le due prime parti: non era quello che m’aspettavo; molte cose mi parvero in istile d’opera, sovraccariche, altre invece meticolose, vuote e bizzarre; forse quest’impressione dipendeva dall’impazienza della mia gioventù che non sapeva spiegarsi subito il senso nel discorso sovente strano del vegliardo; d’altra parte però sentivo benissimo il fascino imperioso di un sovrano maestro. Ma poi seguirono lo scherzo col suo fantastico tema spagnuolo, lo straordinario trio, e in ultimo il finale che getta scintille da tutte le parti come un brillante quando lo si rivolge: allora non vi fu più alcun dubbio su chi aveva scritto il quartetto e se questo era degno del suo maestro. A molti certamente accadrà come a me; prima ci si deve familiarizzare con lo spirito particolare di quest’opera, col suo stile di quartetto: qui non ci parla la familiare lingua materna, ci parla invece un aristocratico straniero; quanto più impariamo a capirlo, tanto più altamente dobbiamo stimarlo.
Possano questi cenni, che danno un’idea molto debole dell’originalità dell’opera, eccitare l’attenzione dei circoli dei quartetti tedeschi. All’esecuzione sono necessari degli artisti, dei veri artisti. In un accesso di presunzione degna d’un critico ho desiderato: Baillot per il primo violino (sembra che Cherubini abbia pensato soprattutto a lui), Lipinski per il secondo violino, Mendelssohn per la viola (è il suo strumento principale, organo e piano eccettuati) e Max Bohrer o Fritz Kummer per il violoncello...

N. 2 in do maggiore.

Questo secondo quartetto mi sembra che sia stato scritto molto tempo avanti al primo della stessa raccolta e forse è magari la stessa sinfonia che, se non m’inganno, ebbe così poco successo alla prima esecuzione a Vienna; Cherubini non volle pubblicarla e più tardi, secondo quanto si dice, la trasformò in quartetto. Così nacque forse il difetto contrario: la musica come sinfonia era troppo quartettistica, come quartetto ora è troppo sinfonica; io poi sono avverso ad ogni rifusione di questo genere, perché mi pare un’offesa alla prima divina ispirazione.
Vorrei riconoscere l’origine giovanile dall’assenza di ornamentazione che distingue le vecchie composizioni di Cherubini dalle sue più recenti. Ma in verità sarei battuto se intervenisse il maestro stesso e dicesse: “T’inganni, amico: ambedue i quartetti sono stati scritti nello stesso tempo e originariamente non sono stati altro che quartetto”. E allora ciò ché ho osservato può essere soltanto un’ipotesi e stimolerà altri alla riflessione.
Del resto anche questo lavoro s’eleva, abbastanza in alto sopra il numero delle composizioni che appaiono ogni giorno e su tutte le novità che ci vengono da Parigi: se uno non ha scritto, imparato e pensato lunghi anni, non potrà mai produrre qualcosa di tal genere. Come nella maggior parte delle opere di Cherubini si trovano anche qui particolari serie di battute più aride, dei passi in cui ha lavorato soltanto l’intelletto; ma si trova anche qualcosa d’interessante, sia nella composizione come nella finezza contrappuntistica e nell’imitazione; qualcosa insomma che dà a pensare. Il massimo slancio e la massima vitalità degna d’un maestro portano in sé lo scherzo e l’ultimo tempo. L’adagio in la minore ha un carattere estremamente singolare, come di romanza, qualcosa di provenzale: udendolo diverse volte si espande sempre più nei suoi incanti; il finale è fatto in modo che pare debba sempre riprendere da capo mentre si sa prossima la fine. Nel primo tempo una imitazione fra viola e violino ci ricorda una medesima imitazione tra fagotto e clarinetto della sinfonia in re maggiore di Beethoven; alla metà della ripresa generale poi possiamo osservare l’eguale disegno nel punto corrispondente della stessa sinfonia. Ma nel carattere i due tempi sono così diversi che la somiglianza sarà avvertita soltanto da pochi.

FEDERICO CHOPIN
Impromptu, op. 29.
Quattro Mazurke, op. 30.
Scherzo, op. 31.

Chopin ormai non può più scrivere nulla, che alla settima od ottava battuta non debba farci esclamare: "È suo!". Si è definito ciò una maniera e s’è detto ch’egli non progredisce più. Si dovrebbe invece essere più riconoscenti verso di lui. Non è forse la stessa forza originale che già dalle sue prime opere v’ha irraggiato così meravigliosamente, che v’ha in sul primo momento confuso, e più tardi rapito? E quando egli v’ha dato una serie delle più rare creazioni e voi lo capite più facilmente, lo pretendete di un colpo tutto diverso? Ciò si chiamerebbe abbattere un albero perché ogni anno vi riporta gli stessi frutti: ma i suoi frutti non sono mai gli stessi, tanto per sapore quanto per forma sono i più diversi anche se il tronco è sempre identico.
Così il sopracitato Impromptu per quanto poca importanza abbia nell’insieme delle sue opere, non saprei paragonarlo ad un’altra composizione chopi-niana; è una cantilena rinchiusa al principio ed alla fine da un grazioso insieme di figure, è così fine nella forma e, ripeto, un così vero Impromptu che nessuna delle altre composizioni di Chopin può stargli accanto. Lo scherzo nel suo carattere appassionato ricorda già di più il suo predecessore: resta però sempre un pezzo avvincente all’estremo, da paragonare non inopportunamente ad una poesia di Lord Byron, così tenero, così ardito, così pieno d’amore come di disprezzo. Naturalmente, non è per tutti. Chopin ha egualmente sollevato le mazurke ad una piccola forma d’arte; per quante ne abbia scritte, ben poche sono somiglianti. Quasi ognuna ha qualche tratto poetico, qualcosa di nuovo nella forma o nell’espressione. Così è nella seconda delle suddette mazurke la tendenza del tono di si minore verso il fa diesis minore, mentre poi (lo si osserva appena) conclude in fa diesis; nella terza la tonalità fra il maggiore e il minore oscilla fino a che vince la terza maggiore; nell’ultima mazurka notiamo un punto debole, cioè l’improvvisa conclusione con le quinte, per le quali i Cantores tedeschi si metteranno le mani nei capelli. Un’osservazione di sfuggita: le epoche differenti sentono anche in modo diverso. Nelle migliori opere di chiesa dei vecchi maestri italiani si trovano progressioni di quinte, quindi non devono aver suonato male ai loro orecchi. In Bach e in Haendel, di simili ne appaiono egualmente, in modo frammentario però e di rado; la grande arte dell’intreccio delle parti evitava ogni andamento parallelo. Nel periodo mozartiano le quinte scompaiono interamente. Poi vennero di trotto i grandi teorici e le proibirono sotto pena di morte, finché di nuovo comparve Beethoven che inserì le più belle quinte del mondo, specialmente in progressione cromatica. Ora, un seguito di quinte cromatiche, continuato per una ventina di battute, non deve naturalmente essere segnalato come qualcosa di eccellente, ma piuttosto come qualcosa di estremamente cattivo; non si devono tuttavia staccare simili passi isolati dall’insieme, ma udirli in rapporto a ciò che precede e in relazione al tutto.

FRANZ SCHUBERT
Quattro impromptus per pianoforte, op. 142.

Avrebbe ancora dovuto vivere per vedere come ora lo si festeggia; questo lo avrebbe dovuto ispirare fino al massimo grado. Ora ch’egli riposa già da lungo tempo, raccoglieremo accuratamente ciò che ci ha lasciato dopo la morte; qualunque suo lavoro attesta il suo genio; poche opere hanno così impresso il sigillo del loro autore come le sue.
Così in ogni pagina dei primi Impromptus si sente bisbigliare: "Franz Schubert!"; come lo conosciamo nel suo umore inesauribile, com’egli è solito ad incantarci, a deludere e ad avvincerci nuovamente, così lo ritroviamo ancora qui. Tuttavia non credo che Schubert abbia davvero intitolato impromptu queste composizioni; il primo è così chiaramente il primo tempo d’una sonata, completamente sviluppato e finito, che non può nascere alcun dubbio. Il secondo impromptu lo ritengo il secondo tempo della stessa sonata: la tonalità ed il carattere si riannodano strettamente al primo.
I suoi amici dovrebbero sapere dove sono andate a finire le parti finali, se Schubert abbia finito o no la sonata; si potrebbe forse considerare il quarto Impromptu come il finale, tuttavia, benché concordi la tonalità, la leggerezza di tutta la disposizione dice quasi il contrario. Soltanto un esame dei manoscritti originali potrebbe chiarire queste supposizioni. Io non ritengo queste composizioni una cosa di poco conto; poco importano in verità i titoli e le intestazioni, ma d’altra parte una sonata è ornamento così bello nella corona delle opere d’un compositore, ch’io volentieri attribuirei a Schubert ancor una, anzi una ventina in aggiunta alle molte che ha scritto. Per ciò che riguarda il terzo Impromptu, non l’avrei creduto un lavoro di Schubert, ma tutt’al più un lavoro del tempo della sua fanciullezza: sono delle variazioni poco o punto notevoli su un tema dello stesso genere. Mancano totalmente d’invenzione e di fantasia, mentre altrove Schubert s’è mostrato così creatore anche nel genere delle variazioni. Si suonino dunque l’un dopo l’altro i due impromptus, s’aggiunga loro per finire il quarto e si avrà, se non proprio una sonata completa, ancora una volta un bel ricordo di lui. Se già si conosce la sua maniera basta una sola lettura per possederli interamente. Nella prima parte v’è la decorazione leggera e fantastica fra i “riposi” melodici, una cosa che ci potrebbe cullare nel sonno; il tutto è stato creato in un’ora di sofferenza, come nella meditazione di cose passate. Il secondo tempo ha un carattere più contemplativo, di una maniera frequente in Schubert; il terzo (il quarto Impromptu) tutto diverso fa il broncio, un broncio però delicato e buono; difficilmente ci si può ingannare: più d’una volta m’ha ricordato La collera per un soldino perduto di Beethoven, un pezzo molto comico e poco conosciuto.

1839

CONCERTO PER PIANOFORTE
DI F. MENDELSSOHN BARTHOLDY Op. 4

La musica per pianoforte forma un’importante sezione nella storia moderna della musica; in essa si è mostrata per la prima volta l’aurora d’un nuovo genio musicale. I più importanti ingegni del presente sono pianisti; osservazione che si è fatta anche in epoche più antiche. Bach ed Haendel, Mozart e Beethoven s’educarono al pianoforte e, similmente agli scultori che da principio modellano le loro statue in piccolo ed in materia più morbida, fecero spesso al pianoforte dei bozzetti di ciò che poi elaborarono in grande colla massa orchestrale. Lo strumento stesso si è poi perfezionato ad un alto grado. Con il progresso della tecnica pianistica, e per il più ardito slancio che la composizione prese con Beethoven, lo strumento crebbe di diffusione e d’importanza: e se si arriverà (come io credo) ad aggiungergli l’uso d’un pedale come nell’organo, s’apriranno al compositore nuove vedute, e, liberandosi poi dall’appoggio dell’orchestra, potrà muoversi ancor più riccamente, più armoniosamente e più liberamente. Noi vediamo questa separazione del pianoforte dall’orchestra, preparata da molto tempo: il nuovo gioco pianistico, a dispetto dell’effetto sinfonico, vuol dominare solo coi propri mezzi e in ciò si dovrà cercare la ragione del perché negli ultimi anni si siano prodotti così pochi concerti per pianoforte e così poche composizioni originali con accompagnamento... Ciò che una volta era considerato come un arricchimento delle forme strumentali e come un’importante creazione, oggi si respinge senz’altro. Tanto sono mutati i tempi!
Certamente sarebbe una perdita per l’arte, se andasse fuor d’uso il concerto per pianoforte e orchestra; d’altra parte non possiamo contraddire i pianisti quando dicono: "Noi non abbiamo bisogno d’altri aiuti, il nostro strumento raggiunge da solo l’effetto più completo". Così dobbiamo aspettare di buon animo il genio che ci mostri in modo brillante come si possa unire l’orchestra al pianoforte, tanto da lasciare al virtuoso la possibilità di sviluppare la ricchezza della sua arte e del suo strumento, mentre l’orchestra, intrecciando più artisticamente l’insieme nei suoi svariati caratteri, avrebbe una parte più importante che quella del semplice “spettatore”. Noi vorremmo giustamente richiedere dai nostri giovani compositori, come risarcimento di quella seria e degna forma del concerto, pezzi “solistici” ugualmente seri e degni, e cioè dei “tempi d’allegro” ben finiti e pieni di carattere che si potessero eventualmente suonare come apertura d’un concerto, e non dei Capricci o delle variazioni. Fino ad allora dovremo ricorrere ancor molto sovente a quelle vecchie composizioni, che sono atte ad aprire degnamente un concerto ed a provare nel modo più sicuro la purezza dell’artista: per esempio, quelle eccellenti di Mozart e di Beethoven; oppure (se in un ambiente più scelto si vuoi mostrare il volto d’un grand’uomo ancor troppo poco apprezzato) quelle di J. Sebastian Bach; o, se si vuole infine far sentire qualcosa di nuovo, quelle in cui l’antica traccia, specialmente di Beethoven, fu seguita felicemente ed amabilmente. Fra queste ultime annoveriamo, fatte le debite riserve, i concerti già da tempo apparsi di F. Moscheles e di Felix Mendelssohn...
Uno speciale ringraziamento noi votiamo ai nuovi compositori di concerti perché essi finalmente non ci annoiano più con trilli e, specialmente, con salti d’ottava, alla fine del pezzo. La vecchia cadenza nella quale i vecchi virtuosi sfoggiavano tutta la bravura possibile, anche ora (fondata su di un’idea molto più solida) si potrebbe utilizzare con fortuna.
Anche lo scherzo, come ci è reso familiare dalla sinfonia e dalla sonata, non potrebbe esser introdotto con effetto nel concerto? Sarebbe una bella lotta con le singole voci dell’orchestra, però la forma dell’intero concerto dovrebbe subire un piccolo cambiamento. Mendelssohn vi potrebbe riuscire meglio d’ogni altro.
Infatti egli è sempre lo stesso, ancora e sempre muove col suo solito passo giocondo; nessuno ha il sorriso sulle labbra più bello del suo. Difficilmente i virtuosi potranno in questo concerto far pompa delle loro prodigiose abilità.
Egli non richiede da loro cose che non abbiano già fatto e suonato centinaia di volte. Spesso difatti li abbiamo uditi lamentarsene. Essi hanno un po’ di ragione: l’occasione di mostrare la bravura mediante la novità e il fulgore dei passaggi non deve rimanere esclusa dal concerto. Ma la musica sta sopra ogni cosa e a chi ce la dona sempre e più ricca spetta di diritto la nostra lode più alta. La musica è l’effusione di un’anima bella; non importa se sgorga davanti a centinaia di persone, o per sé nel silenzio; purché sia sempre l’espressione di un’anima bella. È per questo che le composizioni di Mendelssohn fanno un effetto così irresistibile, quando le suona egli stesso; dell’esecuzione tecnica non vogliamo far caso; le dita hanno soltanto una funzione mediata e potrebbero benissimo stare nascoste; l’orecchio soltanto deve accogliere la musica ed il cuore poi decidere. Io penso spesso che Mozart doveva suonare così. Se dunque a Mendelssohn spetta la lode, ch’egli ci dà sempre da ascoltare della vera musica, non vogliamo però affermare che questa musicalità risulti più leggermente in un’opera che in un’altra.
Così anche questo concerto appartiene alle sue creazioni più leggere. M’inganno di molto, s’egli non l’ha scritto in pochi giorni, forse in poche ore. Avviene come quando si scuote un albero: i frutti maturi e dolci cadono al primo colpo. Si chiederà in che rapporto stia col suo primo concerto. È e non è il medesimo: è lo stesso perché è d’un maestro fatto, non è lo stesso perché è scritto dieci anni più tardi. J. Sebastian Bach appare qua e là nell’armonizzazione. Melodia, forma, strumentazione del resto sono proprietà di Mendelssohn. Ci si rallegri del dono leggero e sereno; quest’opera è simile a quelle che ci davano i nostri vecchi maestri, quando si riposavano delle loro grandi creazioni. Il nostro più giovane compositore non avrà dimenticato come quei vecchi maestri (dopo essersi riposati con un’opera leggera) comparissero poi all’improvviso con qualcosa di poderoso, e il concerto in re minore di Mozart e quello in sol maggiore di Beethoven son per noi la prova di questo.

I ROMANTICI DEL DIAVOLO

Ma dove si nascondono questi romantici del diavolo? Il vecchio buon direttore di musica di Breslavia, Mosevius, si dichiara improvvisamente loro fierissimo nemico; anche la Gazzetta universale di musica li fiuta sempre da lontano. Ma dove si nascondono costoro? Son forse Mendelssohn, Chopin e gli altri? Che cosa hanno da dire contro costoro, quei vecchi signori? Valgon più di loro Vanhal e Pleyel, o Herz e Hunten? Se invece non pensate né a quelli né agli altri, esprimetevi chiaramente. Se voi parlate di un “tormento e dei martiri di questo periodo musicale di transizione”, vi dirò che invece molti chiaroveggenti sono di tutt’altra opinione. Smettetela una buona volta di metter tutti in un fascio e di guardare con sospetto agli sforzi dei nostri giovani musicisti per quello che di biasimevole può apparire nelle composizioni della scuola franco-germanica, cioè in Berlioz, Liszt, ecc. E se questo non vi garba, datevi voi stessi delle opere, voi, cari signori! - Opere! Opere!

FEDERICO CHOPIN
Quattro Mazurke, op. 33.
Tre Valzer, op. 34.
Preludi, op. 28.

Delle nuove composizioni di Chopin, oltre ad un fascicolo di mazurke e di valzer, dobbiamo ricordare una strana raccolta di preludi. Egli si manifesta sempre più luminoso e più facile - è forse l’abitudine alla sua maniera? - Così le mazurke, che ci appaiono più popolari delle precedenti, attireranno subito; i valzer, di ben altra tempra che i soliti, dovranno soprattutto piacere, e sono tali che solo a un Chopin potevano venire in mente; sembra ch’egli, da grande artista, guardi la folla danzante trasportata appunto dal suo gioco pianistico e pensi a tutt’altro che a quello che lì si danza. Una tal vita ondeggiante si muove là dentro, che le mazurke sembrano davvero improvvisate in un salone da ballo. Ho designato i preludi come strani. Confesso che li immaginavo ben diversi, e condotti come i suoi studi, cioè più grandiosamente.
È invece il contrario: sono schizzi, principi di studi o, se si vuole, rovine, penne d’aquila, tutto disposto selvaggiamente e alla rinfusa. Ma in ciascuno dei pezzi sta scritto con delicata miniatura perlacea: “Lo scrisse Chopin”; lo si riconosce dalle pause e dal respiro impetuoso. Egli è e rimane il genio poetico più ardito e più fiero del tempo. Il fascicolo contiene pure qualcosa di ammalato, di febbrile, e di repulsivo; cerchi ciascuno ciò che lo può allietare, e soltanto il filisteo rimanga lontano. Che cos’è un filisteo?

Ein hohler Darm
Von Furcht und Hoffnung ausgefüllt
Dass Gott erbarm!

[“Un intestino vuoto - pieno di timore e di speranza; - che Dio n’abbia pietà!”]

Ma terminiamo più dolcemente col bel distico di Schiller:

Jenes Gesetz, das mit ehernem Stab den Sträuben den lenket,
Dir nicht gilt’s. Was du thust, was dir gefällt, ist Gesetz.

[“Quella legge che con una bacchetta di rame guida chi le resiste, - non vale per te. È tua legge ciò che fai, ciò che ti piace.”]


GRANDE OUVERTURE DE WAVERLEY
Op. 2 di E. Berlioz


Ma eccoci a Berlioz, a questo furioso baccante, al terrore dei Filistei, pei quali vale come un mostro villoso dagli occhi divoranti. Ma dove lo vediamo oggi? Al camino scoppiettante d’una signorile casa scozzese, fra cacciatori, cani e ridenti damigelle di campagna.
Mi sta innanzi un’ouverture per... Waverley, per quel romanzo di W. Scott che nella sua noia graziosa, nella sua freschezza romantica, nella sua impronta schiettamente inglese, m’è ancor sempre il più caro fra tutti i moderni romanzieri stranieri. Per questo dunque Berlioz ha scritto la musica. Si domanderà: per quale capitolo, per quale scena, e infine, per quale scopo? Poiché i critici volentieri vogliono sempre sapere ciò che i compositori stessi non sanno dir loro e per di più spesso non capiscono nemmeno la decima parte di ciò che discutono. Cielo! quando verrà finalmente il tempo in cui non si chiederà più che cosa abbiam voluto significare colle nostre divine composizioni? cercate le quinte e lasciateci in pace! Questa volta, intanto, il motto sul frontespizio dell’ouverture dà qualche schiarimento:

Dreams of love and Lady’s charms
Give place to honour and to arms.

[“I sogni d’amore e i vezzi delle dame
Faccian posto all’onore ed alle armi.”]


Questo ci conduce più vicino alla traccia: soltanto, desidererei che in questo momento un’orchestra intonasse l’ouverture e che tutti i miei lettori sedessero intorno per esaminare coi loro occhi. Mi sarebbe molto facile di descrivere l’ouverture sia in modo pratico attraverso l’impronta delle immagini ch’essa ha eccitato variamente in me, sia mediante l’analisi della struttura dell’opera. Questi due modi di spiegare la musica hanno il loro valore; il primo, se non altro manca di aridità, dove il secondo invece, bene o male, finisce per cadere. In una parola, la musica di Berlioz dev’esser udita; lo sguardo stesso alla partitura è insufficiente: egualmente ci si affaticherebbe invano a farsene un’idea sul pianoforte. Spesso infatti vi sono soltanto effetti di suono e di risonanza, ammassi d’accordi stranamente buttati e che danno il tracollo, spesso strani inviluppi d’accordi che anche un orecchio esercitato non riesce a rappresentarsi chiaramente se non udendoli. Se si va al fon-do d’ogni pensiero particolare essi appaiono, considerati in sè stessi, sovente comuni e persino triviali. Ma l’insieme esercita su di me un fascino irresistibile, nonostante le molte cose inconsuete che offendono un orecchio tedesco. In ciascuna sua opera Berlioz si è mostrato diverso, in ognuna ha tentato un campo diverso; non si sa se debba esser definito un genio o un avventuriero musicale: egli splende come un lampo, ma però lascia dietro di sé una puzza di zolfo; traccia grandi frasi e verità e tosto cade in un balbettamento da scolaro. A chi non abbia oltrepassato i primi inizi della cultura e del sentimento musicale (e i più si trovano in questa condizione), Berlioz deve sembrare addirittura un pazzo, e specialmente ai musicisti di professione che passano i nove decimi della loro vita a suonare le cose più comuni [Spesso ho dovuto constatare che fra i musicisti di mestiere s’incontra la maggior ristrettezza di spirito; d’altra parte non manca loro una certa abilità (Sch.)], apparirà doppiamente pazzo perché egli esige da loro ciò che nessuno aveva richiesto prima di lui. Da ciò la lotta contro le sue composizioni, da ciò il passare degli anni, prima che una di esse si faccia strada fino alla chiarezza d’una esecuzione perfetta. Però l’ouverture per Waverley si farà strada più facilmente. Waverley e la figura dell’eroe sono conosciuti; il motto in particolare parla dei “sogni d’amore a cui la gloria delle armi ha fatto posto”. Che cosa può esserci di più chiaro? C’è da desiderare che l’ouverture venga stampata ed eseguita in Germania; la sua musica potrebbe danneggiare soltanto un ingegno debole, che nemmeno con musica migliore potrebbe essere spinto avanti. Ancora ricorderò che, cosa assai strana, l’ouverture ha qualche lontana rassomiglianza con La calma del mare di Mendelssohn. E nemmeno è da trascurare un’altra osservazione: Berlioz ha designato l’ouverture con “opera 1”, perché egli ha annul-lata la sua opera 1, precedentemente stampata (Otto scene del Faust) e desidera sia invece considerata l’ouverture per Waverley come opera prima. Ma chi ci garantisce che anche la seconda “op. 1” più tardi non gli piaccia più? Ci si affretti dunque a conoscere quest’opera che, nonostante tutte le debolezze della gioventù, per grandezza ed originalità d’invenzione è la più notevole che recentemente ci abbia dato la Francia.

FRANZ LISZT
Studi, op. 1
Grandi Studi, fasc. 1 e 2

…Possiamo partecipare subito al lettore una scoperta, che farà aumentare l’interesse per questi studi. Noi abbiamo citato una raccolta pubblicata da Hofmeister col titolo di “op. 1”, designata come “travail de jeunesse” e un’altra pubblicata da Haslinger sotto il titolo Grandes Etudes. Da un esame più attento risulta che la maggior parte dei pezzi di quest’ultima raccolta non è che un rimaneggiamento di quell’opera giovanile, già da molto (forse vent’anni fa) pubblicata in Lione e scomparsa presto a causa dell’editore poco conosciuto; poi fu nuovamente ricercata dall’editore tedesco e ristampata. Se per ciò la nuova raccolta, pubblicata del resto dallo Haslinger in modo veramente magnifico, non si può dire una vera e propria opera originale, appunto per questa circostanza deve procurare un doppio interesse al pianista di professione che ha l’occasione di confrontarla con la prima edizione. Da questo confronto vien fuori in primo luogo la differenza del modo di suonare il pianoforte di allora e di adesso; nella nuova edizione rileviamo quanto sia aumentata la ricchezza dei mezzi che cerca di superare l’antica in pienezza e splendore, però dobbiamo osservare che la primitiva inge-nuità, anima della prima effusione giovanile, appare quasi completamente soffocata nell’attuale forma dell’opera. Il nuovo lavoro, dandoci poi una misura del modo attuale di sentire e di pensare dell’artista ora più elevato, ci permette di gettare uno sguardo nella sua più segreta vita spirituale, dove spesso rimaniamo indecisi se invidiare il fanciullo o l’uomo che sembra non poter giungere ad alcuna pace.
Sull’attitudine di Liszt alla composizione, i giudizi s’allontanano talmente l’uno dall’altro, che una analisi approfondita dei momenti più importanti in cui s’è manifestato il suo ingegno, non si trova qui fuori di posto. Cosa difficile questa, per la ragione che nelle composizioni di Liszt regna una vera confusione circa la numerazione delle opere, e inoltre la maggior parte di esse non è addirittura numerata, dimodoché si possono far soltanto delle congetture intorno al tempo in cui esse apparvero. Che si tratti di uno spirito inconsueto moventesi in modo molteplice, risulta da tutte le sue opere. La sua vita sta nella sua musica. Allontanatosi presto dalla patria, gettato in mezzo alle eccitazioni d’una grande città, già ammirato come fanciullo e ragazzo, si mostra spesso, anche nelle sue più antiche composizioni, pieno di nostalgia, andante verso la patria tedesca, o frivolo, spumeggiante nei leggeri modi francesi. Per degli studi continui e seri di composizione, sembra non abbia avuto né la tranquillità, né un maestro degno del suo ingegno e perciò, a maggior ragione, studiò come virtuoso, come accade a tutte le vivaci nature musicali che preferiscono il suono rapidamente eloquente all’arido lavoro sulla carta. Se egli come virtuoso è giunto ad un’altezza stupefacente, come compositore è rimasto indietro e così nascerà sempre una sproporzione che s’è chiaramente fatta sentire finanche nelle sue ultime opere. Altri avvenimenti hanno poi incitato diversamente il giovane artista. Dapprima egli voleva trasportare nella musica le idee del Romanticismo letterario francese, fra i cui corifei viveva; ma all’improvviso arrivo di Paganini venne incitato a spingere la tecnica del suo strumento al massimo possibile. Alle volte lo vediamo indifferente sino al blasement, sottilizzare le più tristi fantasie (per esempio nelle sue Apparitions) mentre altre volte si diffonde nei più sfrenati artifici virtuosistici, ironico e temerario sino alla semi-pazzia. Dapprima parve che l’arte di Chopin lo facesse tornare di nuovo in sé. Chopin infatti mantiene nelle sue composizioni una “forma” e le meravigliose figurazioni della sua musica sono sempre attraversate dal roseo filo d’una melodia. Ma ormai era troppo tardi per lo straordinario virtuoso riprendere ciò che aveva trascurato come compositore, e forse, non soddisfatto di sé come tale, cominciò a rifugiarsi presso altri compositori abbellendoli con l’arte sua. Così egli sapeva trasportare da maestro sul suo strumento le opere piene di fuoco di Beethoven e Schubert; oppure, nel desiderio di dare anche qualcosa di proprio, riprendeva le sue vecchie cose per adornarle e circondarle colla pompa della virtuosità nuovamente acquistata. Queste mie osservazioni sono da considerarsi come un tentativo per spiegarci che la carriera intrapresa da Liszt come compositore, non fu né chiara né continua a causa del suo preponderante genio di virtuoso.
Ma io sono ben sicuro che Liszt, data la sua eminente natura musicale, sarebbe divenuto un notevole compositore, se avesse dedicato alla composizione ed a se stesso il medesimo tempo che consacrò allo strumento e agli altri maestri. Ciò che abbiamo ancora da aspettarci da lui, si può soltanto supporre. Per acquistare il favore della sua patria, egli dovrebbe soprattutto ritornare alla chiarezza ed alla semplicità, qualità che si manifestano così gradevolmente nei suoi studi più vecchi; ora mi pare ch’egli dovrebbe proce-dere in modo diverso da quello presente, e cioè alleggerire invece che appesantire. Non dimentichiamo però ch’egli ha voluto darci degli studi e perciò la difficoltà nuovamente complicata della composizione si giustifica con lo scopo che mira precisamente al superamento delle maggiori difficoltà... Voler applicare loro la critica nella guisa consueta per cercare e correggere delle quinte e dei movimenti paralleli, sarebbe una fatica inutile. Composizioni simili, bisogna sentirle: esse sono strappate violentemente allo strumento con la foga delle mani che direttamente devono rendere l’effetto su questo. E anche si deve vedere il compositore, perché se lo spettacolo di qualunque forma di virtuosismo solleva l’ammirazione, tanto più fa effetto quello immediato del compositore quando lotta col suo strumento, quando lo doma e lo fa obbedire in ognuno dei suoi suoni e piegare alla sua volontà. Sono veri studi di tempesta e di orrore, studi per dieci o dodici persone al massimo; virtuosi più deboli alle prese con loro, ecciterebbero soltanto le risa.
Insomma hanno molta affinità con qualcuno degli studi per violino di Paganini, per alcuni dei quali Liszt ha manifestato recentemente l’intenzione di trascrivere per il pianoforte... Come dicevamo, si deve udir tutto ciò da un maestro, possibilmente da Liszt stesso. Qualcosa invero ci urterebbe anche allora: sia là dov’egli esce da ogni limite, sia dove l’effetto raggiunto non ricompensa abbastanza la bellezza sacrificata. Attendiamo con desiderio la sua venuta che ci è promessa pel prossimo inverno. Appunto con questi studi, egli ha avuto un grande successo nell’ultimo soggiorno a Vienna. Grandi effetti presuppongono sempre grandi cause, altrimenti un pubblico non si lascia entusiasmare per nulla. Ci si prepari intanto coll’esame delle due raccolte all’audizione dell’artista: egli darà allora la miglior critica, al pianoforte.

1840

LA SINFONIA IN DO MAGGIORE
DI FRANZ SCHUBER

Il musicista che visita Vienna per la prima volta può bearsi per un po’ di tempo del festevole rumore delle strade e spesso fermarsi ammirato davanti al campanile di Santo Stefano; ma tosto si ricorderà che non lontano dalla città si trova un cimitero, più importante per lui di tutto ciò che la città ha di più notevole, dove due dei più grandi spiriti della sua arte riposano a pochi passi soltanto l’uno dall’altro [Dal 1888 ambedue riposano nel cimitero centrale, accanto al monumento funerario di Mozart]. Come me, più d’un giovane musicista dopo i primi giorni di stordimento, sarà andato al cimitero di Währing, per porre su quelle tombe un’offerta di fiori, fosse pur soltanto un mazzo di rose selvatiche, come ne ho trovate piantate vicino alla fossa di Beethoven. La tomba di Franz Schubert era disadorna. Alfine s’era compito un fervido desiderio della mia vita ed io contemplai a lungo le due tombe sacre, quasi invidiando quel tale, un conte O’ Donnel se non erro, che giace proprio in mezzo a loro. Guardare in viso per la prima volta un grand’uomo, stringer le sue mani, appartien bene, credo, ai momenti più desiderati d’ognuno. Se non m’è stato concesso di poter salutare in vita quei due artisti, ch’io venero al di sopra di tutti i musicisti moderni, avrei voluto almeno aver vicino in quella visita funebre un loro intimo amico, o meglio di tutto, pensavo fra me, un loro fratello. Tornando a casa, mi venne in mente che infatti viveva ancora un fratello di Schubert, Ferdinand, che, come sapevo, Schubert stesso aveva amato assai. Andai tosto da lui e lo trovai somigliante al fratello (secondo l’aspetto del busto che vidi accanto alla tomba del maestro), più piccolo, ma saldamente complesso, e nell’espressione del suo viso si leggeva lealtà e musica in egual misura. Egli mi conosceva di nome, poiché spesso ebbi l’occasione di esprimere pubblicamente la mia venerazione pel fratello. Egli mi raccontò e mi fece vedere molte cose, alcune delle quali, colla sua autorizzazione, erano state anche prima comunicate alla Rivista sotto il titolo di “Reliquie”. Infine mi fece vedere alcune composizioni (veri tesori!) del fratello Franz Schubert, che ancora si trovano nelle sue mani. La ricchezza che ivi giaceva ammucchiata mi fece fremere di gioia; dove mettere prima le mani, dove fermarsi? Fra l’altro, mi vennero mostrate le partiture di parecchie sinfonie, molte delle quali non sono ancora state eseguite, anzi spesso furono messe da parte, dopo ritoccate, perché troppo difficili e troppo ampollose. È necessario conoscere Vienna, le particolari condizioni dei concerti, le difficoltà di riunire i mezzi per allestire grandi esecuzioni, per scusare il fatto che qui, dove Schubert è vissuto e ha scritto, all’infuori dei suoi Lieder, accade di sentir poco o nulla delle sue maggiori opere strumentali. Chi sa quanto tempo anche la Sinfonia, di cui oggi parliamo, sarebbe rimasta coperta di polvere e nell’oscurità, s’io non mi fossi tosto inteso con Ferdinand Schubert d’inviarla a Lipsia alla direzione del Gewandhaus ed all’artista stesso che li dirige, al cui acuto sguardo difficilmente sfugge la più timida bellezza sbocciante, e perciò tanto meno quella splendida e magistralmente abbagliante. Così si realizzò la cosa. La sinfonia giunse a Lipsia, venne udita, compresa, di nuovo udita con gioia e quasi universalmente ammirata. L’operosa casa editrice Breitkopf ed Haertel comprò l’opera e la privativa, ora finalmente è pronta nelle parti, e presto lo sarà in partitura, come noi desideriamo per l’utilità e il bene di tutti.
Lo dico subito apertamente: chi non conosce questa Sinfonia conosce ancor poco lo Schubert; e questa lode può sembrare appena credibile se si pensa a tutto quello che Schubert ha già donato all’Arte. S’è detto così spesso e a dispetto dei compositori che “dopo Beethoven bisognava astenersi dal comporre opere sinfoniche” e infatti, all’infuori di alcune opere orchestrali di una certa importanza (le quali sono interessanti soltanto per il giudizio sulla formazione della cultura dei loro compositori, e non esercitarono un decisivo influsso né sulla massa, né sul progresso del genere) all’infuori di alcune opere, dico, la maggior parte delle altre fu soltanto un opaco riflesso della maniera beethoveniana: non tenendo conto naturalmente di quei fiacchi e noiosi fabbricanti di sinfonie che avevano la forza d’imitare in modo passabile l’ombra della cipria e della parrucca di Haydn e di Mozart, ma non le teste che vi appartenevano. Berlioz appartiene alla Francia e viene nominato solo qualche volta come uno straniero interessante e come una testa balzana. Quello che avevo presentito e sperato, (e tanti forse con me) è ora avvenuto in modo magnifico: Schubert, mostratosi già in molti altri generi sicuro nelle forme, ricco di fantasia e vario, afferrò a modo suo anche la sinfonia, trovò il modo di cogliere il punto giusto per giungere alla folla. Certo egli non ha pensato di voler continuare la Nona Sinfonia di Beethoven, ma da artista diligentissimo, creò ininterrottamente una sinfonia dopo l’altra; il trovarsi davanti alla sua settima sinfonia senza aver conosciuto le precedenti e senza aver assistito allo sviluppo delle medesime è forse l’unico inconveniente a cui potrebbe dar luogo la sua pubblicazio-ne e così causare l’incomprensione dell’opera. Forse anche per le altre sue composizioni sarà tolto il catenaccio; la più piccola opera avrà pur sempre l’importanza di una cosa di Franz Schubert; anzi i plagiatori viennesi di sinfonie non avrebbero avuto bisogno di cercare tanto lontano l’alloro desiderato, poiché si trovava sette volte ammucchiato nel piccolo studio di Franz Schubert in un sobborgo di Vienna. Qui sì c’era da donare una degna corona! Spesso accade così: se a Vienna si parla, per es., di * , non finiscono mai di lodare il loro Franz Schubert; ma se sono fra di loro, non vale nessuno dei due. Come che sia, rinfreschiamoci ora alla ricchezza dello spirito che sprizza da quest’opera preziosa. È ben vero però, che questa Vienna col suo campanile di Santo Stefano, con le sue belle donne, con la sua pompa pubblica e cinta dal Danubio come da innumerevoli nastri, si distende nel piano fiorito (che a poco a poco sale a monti sempre più alti) è ben vero che questa Vienna con tutti i suoi ricordi dei più grandi maestri tedeschi, dev’essere un fertile terreno per la fantasia d’un musicista. Sovente, quando contemplavo la città dalle alture dei monti, mi venne in mente che più di una volta l’occhio irrequieto di Beethoven si sarà rivolto verso quella lontana catena di Alpi; che Mozart avrà spesso seguito sognante il corso del Danubio, inoltrantesi fra i boschi e le foreste; che papà Haydn ben sovente avrà guardato dal campanile di Santo Stefano, scuotendo il capo davanti a così vertiginosa altezza. Gli aspetti pittoreschi del Danubio, del campanile di Santo Stefano, delle Alpi lontane riunite insieme e penetrate d’un vago profumo d’incenso cattolico: ecco Vienna! e se l’incantevole paesaggio ci sta innanzi vivo, vibreranno delle corde che mai altrimenti sarebbero state in noi toccate. Nella sinfonia di Schubert, piena di chiara, fiorita vita romantica, la città mi sorge oggi innanzi più nitida che mai, e ancor m’è chiaro come in questi luoghi appunto possano nascere opere simili. Io non dico questo per dar rilievo alla composizione della sinfonia; le diverse età scelgono troppo variamente nel fondo dei loro testi e delle loro immagini e se al giovane diciottenne una data musica suggerisce un avvenimento storico, l’uomo adulto non vede che un semplice fatto, mentre invece il musicista non ha pensato né all’una né all’altra cosa e ci ha dato soltanto la musica migliore che aveva nel cuore. Si può ben credere che il mondo esteriore, oggi colla sua luce, domani colle sue ombre, penetri nell’intimo del poeta e del musicista; ma in questa sinfonia si cela qualcosa di più di una semplice melodia e dei sentimenti di gioia e di dolore che la musica ha già espresso altre volte in cento modi; essa ci conduce in una regione dove non possiamo ricordare d’essere già stati prima: per consentire in tutto ciò, si deve ascoltare profondamente una simile opera. Oltre ad una magistrale tecnica musicale della composizione, qui c’è la vita in tutte le sue fibre, il colorito sino alla sfumatura più fine, v’è significato dappertutto, v’è la più acuta espressione del particolare e soprattutto infine v’è diffuso il romanticismo che già conosciamo in altre opere di Franz Schubert. E questa divina lunghezza della sinfonia è, come uno spesso romanzo in quattro volumi di Jean Paul che non finisce mai, per l’ottima ragione di lasciar creare il seguito al lettore. Questo sentimento di ricchezza diffuso ovunque ricrea l’animo, mentre purtroppo in generale si deve sempre temere la fine che molto spesso vi delude. Sarebbe incomprensibile come Schubert abbia potuto acquistare di colpo questa splendida maestria di maneggiare l’orchestra colla massima facilità, se appunto non si sapesse che sei altre hanno preceduto questa sinfonia da lui scritta nella più matura virilità [Sulla partitura è scritto “marzo 1828”; nel novembre Schubert morì (Sch.)]. Bisogna pur sempre chiamare un ingegno straordinario chi come lui (che durante la vita sentì eseguire così poco le sue opere orchestrali) raggiunse un così caratteristico modo di trattare gli strumenti e la massa orchestrale, tanto da sembrare un dialogo fra le singole voci umane e un coro.
Eccettuate molte opere beethoveniane, non ho mai trovato questa rassomiglianza con l’organo della voce, così ingannevole e sorprendente; è l’opposto trattamento del canto di Meyerbeer. La completa indipendenza in cui sta questa sinfonia rispetto a quelle di Beethoven, è un altro indizio della maturità dell’artista. Si osservi come il genio di Schubert si manifesta qui giusto e saggio. Nella coscienza delle sue forze più modeste egli cerca d’evitare le forme grottesche, le ardite relazioni, che noi incontriamo nelle ultime opere di Beethoven; egli ci dà un’opera in una forma più leggiadra e, sebbene in un modo nuovo, non ci conduce mai troppo lontano dal punto centrale e sempre ci riporta ad esso. Così deve sembrare a chiunque consideri la sinfonia. Il brillante, il nuovo dell’istrumentazione, la larghezza e l’ampiezza della forma, il grazioso avvicendarsi della vita interiore, tutto quel mondo nuovo in cui siamo trasportati confonderà in principio questa o quella persona, come del resto accade a chiunque getti un primo sguardo su qualcosa d’inconsueto; tuttavia anche così rimane sempre quel soave sentimento che si prova dopo il passaggio d’una pièce favolosa ed incantata; si sente ovunque come il compositore sia padrone del fatto suo e la connessione delle cose diverrà col tempo ben chiara a tutti. La pomposa e romantica introduzione dà subito questa impressione di sicurezza, sebbene tutto appaia ancor velato di mistero. Interamente nuovo è pure il passaggio da questa introduzione all’allegro; il tempo non sembra mutarsi affatto, vi si giunge senza saper come. Analizzare, smembrare le singole parti non apporta nessuna gioia, né a noi né agli altri; per dare un’idea del carattere di racconto che la compenetra, si dovrebbe trascrivere tutta la sinfonia. Non voglio però lasciare senza una parola la seconda parte, che ci parla con voci così commoventi. In essa si trova un passo, là dove un corno chiama come da lontano, che mi sembra esser disceso da un’altra sfera. Qui tutto appare come se un ospite divino si fosse introdotto di soppiatto nell’orchestra.
Questa sinfonia ha dunque agito su di noi come nessuna ancora, dopo quelle di Beethoven. Artisti e amici dell’arte si sono riuniti in suo onore: ed ho udito dal maestro, che l’ha diretta così accuratamente e che ha reso l’esecuzione così superba, pronunciare alcune parole quali avrei voluto riferire a Schubert come un alto messaggio di gloria per lui. Forse dovranno passare degli anni prima che la sinfonia sia resa familiare in Germania, tuttavia non c’è da dubitare ch’essa venga trascurata; essa porta in sé l’eterno germe di giovinezza.
La visita funebre, che m’ha fatto ricordare un parente del Dipartito, mi ha dunque portato una seconda ricompensa. La prima l’ebbi in quel giorno stesso: io trovai sulla tomba di Beethoven... una penna d’acciaio, ch’io ho conservato caramente. L’uso soltanto nelle occasioni solenni, come oggi: possa esserne sgorgato qualcosa di gradevole!

LE QUATTRO OUVERTURES DEL «FIDELIO»

Dovrebbe esser stampato a lettere d’oro ciò che l’orchestra di Lipsia ha eseguito giovedì scorso: tutte le quattro ouvertures del Fidelio, l’una dopo l’altra. Sien grazie a voi, o Viennesi del 1805, ché non vi piacque la prima e così Beethoven in un accesso di rabbia divina ne creò una dopo l’altra ancora tre! Mai, né meglio m’apparve così possente come quella sera in cui l’ho potuto spiare sul lavoro nel suo laboratorio - mentre creava, scartava, modificava - sempre focoso e ardente. Forse più gigantesco egli s’è mostrato nel secondo piglio. La prima ouverture non era piaciuta. “Un momento!” disse fra sé “alla seconda ouverture dovrà passarvi la voglia di pensare. E si pose nuovamente al lavoro, fece sfilare dinanzi alla sua mente il dramma commovente e cantò ancora una volta i grandi dolori e la grande gioia della sua amata.
È demoniaca, questa seconda ouverture, e nei particolari forse ancor più ardita della terza (la più conosciuta) in do maggiore. Poiché anche quella non lo soddisfece, egli la mise di nuovo da parte e mantenne soltanto dei pezzi staccati dai quali formò la terza con più calma e più arte. Più tardi seguì ancora quella più facile e popolare in mi maggiore, che di solito si sente come ouverture, in teatro.
Questa è la grande opera delle quattro ouvertures; a simiglianza di come crea la natura, noi vediamo prima l’intreccio delle radici, da cui poi nella seconda si solleva il fusto gigantesco, allarga le sue braccia a destra e a sinistra e chiude infine con un leggero cespo di fiori.

FRANZ LISZT

I

Ancora affaticato da una serie di sei concerti che ha dato a Praga durante un soggiorno di otto giorni, sabato sera giunse a Dresda il signor Liszt. È difficile che sia stato atteso altrove più ardentemente che nella capitale ove soprattutto sono prediletti il pianoforte e la sua musica. Lunedì egli diede un concerto: la sala era splendente ed affollata dalla migliore società ed anche da parecchi membri della famiglia reale. Tutti gli sguardi fissavano la porta da cui doveva entrare l’artista. È vero che il suo ritratto è molto conosciuto e che quello davvero eccellente di Kriehuber ha afferrato con i tratti più decisi il suo profilo di Giove; ma il giovine Giove in persona interessa sempre in un modo del tutto speciale... E difatti noi spieremo devotamente ogni movimento di quest’artista dei cui miracoli siamo stati informati già vent’anni fa udendo sempre il suo nome accanto ai più importanti, e infine davanti al quale, come davanti a Paganini, si inchinarono tutti i partiti e apparvero riconciliati per un momento! Così tutto il pubblico l’acclamò entusiasticamente alla sua entrata, prima ancora ch’egli cominciasse a suonare. Io l’avevo già udito; ma l’artista di fronte a un pubblico e di fronte a poche persone, è diverso. Le sale belle e splendenti, lo sfavillio dei candelabri, il pubblico elegante, tutto ciò eleva la disposizione d’animo tanto di chi dà, come di chi riceve. Il demone mosse le sue forze; quasi volesse provare il pubblico sembrò giocare prima con lui, poi gli diede da ascoltare qualcosa di più profondo, finché avvolse, per così dire, ciascuno colla sua arte e sollevò e portò seco tutti come voleva. Questa forza, di sottomettere un pubblico, di sollevarlo, di portarlo e di lasciarlo cadere a piacimento, non si può certo incontrare ad un grado così elevato in nessun’altro artista, Paganini eccettuato. Uno scrittore viennese ha celebrato Liszt in una poesia che si componeva soltanto di epiteti ricavati dalle sole lettere del nome; la poesia, in sé priva di gusto, ha però il suo lato buono; come le lettere e i concetti s’accavallano uno sull’altro sfogliando un dizionario, qui nello stesso modo si affollano intorno a noi i suoni e le impressioni. In un minuto secondo s’avvicendano il delicato, l’ardito, il vaporoso, lo stravagante; lo strumento fiammeggia e scintilla sotto il suo maestro. Di tutto ciò s’è già parlato centinaia di volte e i viennesi in special modo hanno tentato d’impadronirsi dell’aquila in tutti i modi possibili, volandogli dietro con corde, con forconi e con poesie. Bisogna vederlo, oltreché sentirlo; Liszt non dovrebbe assolutamente suonare fra le quinte, andrebbe perduta una gran parte di poesia.
Egli ha suonato e accompagnato tutto da solo il concerto, dal principio alla fine. E come Mendelssohn ha avuto un giorno l’idea di dedicare un intero concerto ad un solo autore con ouverture, pezzi di canto e d’istrumenti (l’idea si può abbandonare al pubblico per utilizzarla); così Liszt dà i suoi concerti quasi sempre da solo. La signora Schroeder--Devrient soltanto gli comparve accanto ed è ben l’unica che sappia ovunque sostenersi in una simile vicinanza. Essi eseguirono insieme il Re degli Elfi e alcuni piccoli Lieder di Schubert.
Non conosco abbastanza il termometro del successo del pubblico locale per parlare dell’impressione che ha fatto in Dresda lo straordinario artista, e per pronunciarmi in proposito. L’entusiasmo fu definito straordinario; in verità, fra tutti i tedeschi, il viennese è quello che meno risparmia le mani e nella sua idolatria giunge persino a conservare i guanti stracciati nell’applaudire Liszt. Nella Germania settentrionale è un’altra cosa, s’è detto.
Martedì mattina Liszt è partito per Lipsia. Un’altra volta parleremo della sua apparizione fra noi.


II.

Ai lettori lontani e stranieri, a quelli che non hanno la speranza di veder mai quest’artista in persona e stan dietro ad ogni parola che vien detta su di lui - io vorrei dar loro un’immagine di quest’uomo straordinario! Ma questo ha le sue difficoltà. La cosa più facile è ancora il parlare del suo aspetto esteriore. S’è cercato di ritrarlo in molti modi, s’è detta schilleriana ed anche napoleonica la testa dell’artista; e come tutti gli uomini straordinari sembrano avere un tratto in comune, specialmente quello dell’energia e della forza di volontà negli occhi e nella bocca, così quei confronti colgono in parte nel vero. Egli rassomiglia soprattutto a Napoleone, quale abbiam spesso visto ritratto da giovane generale - pallido, magro, dal profilo marcato, con l’espressione della figura concentrata piuttosto nell’alto della testa. È pure sorprendente la rassomiglianza di Liszt col defunto Ludwig Schunke, somiglianza che colpisce ancor più profondamente al riguardo della sua arte, così che io spesso durante le esecuzioni di Liszt ho creduto di riudire qualcosa di già udito. Ma la cosa più difficile è il parlare di quest’arte stessa. Non si tratta più di questo o quel modo di suonare il pianoforte, ma soprattutto della “espressione” di un carattere ardito, a cui per dominare e per vincere la sorte non ha dato utensili pericolosi, ma quelli pacifici dell’arte. Quanti e importanti artisti ci son passati dinanzi in questi ultimi anni, quanti ne possediamo noi stessi che per parecchi rispetti stanno a paro di Liszt, già sappiamo: ma per energia e audacia essi devono tutti lasciargli senz’altro il posto. In ispecial modo si è voluto porre volentieri Thalberg a gara con lui, per paragonarli l’uno all’altro. Basta osservare soltanto le due teste, per trarre la conclusione. A questo pro-posito ricordo il detto d’un noto disegnatore viennese che paragonò la testa del suo compatriota Thalberg con quella “d’una bella contessa dal naso maschile”, mentre della testa di Liszt diceva che poteva servir di modello ad ogni pittore per quella di un dio greco. Una simile differenza vale all’incirca per l’arte loro. Come esecutore Chopin può stare a paro di Liszt e non gli cede in nulla, almeno per ciò che riguarda fantastica delicatezza e grazia; ma ben più vicini gli stanno Paganini e, come donna, la Malibran; dall’arte loro, infatti, Liszt stesso riconosce di aver profittato di più.
Liszt ora può essere vicino ai trent’anni. Com’egli già da ragazzo fu detto un fenomeno, come per tempo venne lanciato all’estero, come più tardi il suo nome splendente emerse qua e là accanto ai più celebri e come poi egli sia scomparso per lungo tempo finché l’apparizione di Paganini lo stimolò a nuove aspirazioni, com’egli due anni or sono improvvisamente rientrò in scena a Vienna ed entusiasmò la città imperiale - queste ed altre cose - già sappiamo. Dopo la sua fondazione, la Rivista ha cercato di seguire l’artista e non ha celato nulla di ciò che risuonava pro o contro di lui, sebbene le voci maggiori e quelle specialmente di tutti i grandi artisti s’unissero per lodare il suo eminente ingegno. Così egli venne recentemente da noi, ornato coi più alti onori che possano accogliere un artista, e solidamente stabilito nella gloria; era quindi difficile preparargli dei nuovi onori o accrescergli la gloria, più facile invece era volerglieli diminuire, giacché in ogni tempo sono esistiti pedanti e bricconi. E questa ultima cosa fu qui tentata. Il pubblico era inquieto non per colpa di Liszt, ma disgustato per gli errori della disposizione del concerto. Un uomo conosciuto come “pasquinista” se ne giovò per eccitare il pubblico anonimamente contro l’artista, dicendo che Liszt “era venuto da noi soltanto per appagare la sua insaziabile avidità”. Non ricordiamo di più questa infamia.
Il primo concerto (dato il giorno 17) offrì un singolare aspetto. La folla era una massa confusa. La sala appariva interamente un’altra. I posti riservati all’orchestra erano stati utilizzati per gli uditori. E in mezzo, Liszt.
Cominciò con lo scherzo e col finale della Sinfonia pastorale di Beethoven. La scelta era abbastanza bizzarra e non felice per molte ragioni. In una stanza, a quattr’occhi, questa trascrizione, del resto estremamente accurata, può far dimenticare l’orchestra; ma in una sala più grande, nello stesso luogo dove abbiamo udito la sinfonia così sovente e compiutamente dall’orchestra, la debolezza dello strumento appariva tanto più sensibile, quanto più la trascrizione cercava di rendere le masse nella loro forza; una riduzione più semplice, uno schizzo avrebbe forse fatto maggior effetto. Tuttavia, si capisce, s’era udito il maestro al suo strumento; s’era contenti di averlo visto scuotere la criniera. Per rimanere nell’immagine, il leone tosto si mostrò più possente: eseguendo una fantasia su temi di Pacini, in modo straordinario. Ma tutta la bravura stupefacente ed audace che qui mostrò, vorrei sacrificare alla magica delicatezza ch’egli seppe effondere nello studio seguente. Eccettuato Chopin, come ho detto, nessuno lo può eguagliare. Egli finì col conosciuto Galop cromatico, ma siccome l’entusiasmo era al colmo suonò ancora il suo celebre Valzer di bravura.
Esaurimento e indisposizione impedirono all’artista di dare il promesso concerto, il giorno seguente. Frattanto gli venne preparata una festa musicale che rimarrà per Liszt stesso, come per tutti i presenti, una cosa indimenticabile. Chi dava la festa (Mendelssohn) aveva scelto, per l’esecuzione, delle composizioni sconosciute all’ospite: la sinfonia di Franz Schubert, il salmo Wie der Hirsch schreit, l’ouverture Calma del mare e Viaggio felice, tre cori del Paolo e, per finale, il concerto in re minore per tre clavicembali di Sebastiano Bach.
Quest’ultimo fu suonato da Liszt, da Mendelssohn e da Hiller. Nulla sembrò preparato, tutto sembrò nato lì per lì; furono tre ore felici di musica, come non recano anni interi. Alla fine Liszt suonò ancora da solo, e maravigliosamente. La riunione finì in un giocondo entusiasmo e lo splendore e la serenità che si rispecchiavano in tutti gli occhi possano essere stati un ringraziamento all’organizzatore per l’omaggio che rendeva quella sera al celebre e grande artista.
Ancora ci attendeva la più geniale esecuzione di Liszt: il Pezzo da concerto di Weber, col quale cominciò il suo secondo concerto. Poiché quella sera virtuoso e pubblico apparivano in un accordo di speciale vivacità, durante ed alla fine dell’esecuzione l’entusiasmo oltrepassò qualunque immaginazione.
Liszt attaccò subito il pezzo con una forza e una grandezza d’espressione quasi si trattasse d’una spedizione sul campo di battaglia, e continuò crescendo di minuto in minuto fino a quel passo in cui egli sembra mettersi a capo dell’orchestra e giubilante condurla egli stesso. Qui egli sembrò quel generale a cui noi l’avevamo paragonato nella figura esteriore, e la forza del successo non fu dissimile a un: “Vive l’Empereur!”. L’artista ci diede ancora una fantasia sul tema degli Ugonotti, l’Ave Maria, la Serenata e, a richiesta del pubblico, ancora il Re degli Elfi di Schubert. Ma il Pezzo da concerto fu e rimase il culmine delle sue interpretazioni.
Non so davvero da chi proveniva il pensiero del regalo di fiori che gli fu offerto dopo la fine del concerto per mezzo d’una cantante prediletta: certo la corona non era immeritata. Bisogna avere una natura ben stretta e maligna per criticare (come purtroppo avvenne in un giornale di qui) una così amabile intenzione. Alle gioie che l’artista vi prepara, egli ha consacrata la vita; delle fatiche che la sua arte gli è costata, voi non sapete nulla; egli vi dà il meglio di ciò che ha, il fiore della sua vita, ciò ch’è divenuto perfetto; e poi non gli vorremmo permettere una semplice corona di fiori? Ma Liszt non rimase debitore in nulla. Nella gioia visibile per la calorosa accoglienza che gli era stata fatta nel secondo concerto, egli si mostrò subito pronto a darne ancora un terzo per una qualsiasi opera pia, la cui scelta lasciava alla designazione delle persone competenti. Così suonò ancora una volta lunedì scorso a favore della cassa-pensioni per i musicisti vecchi e malati, dopo aver dato a Dresda il giorno prima un concerto per i poveri. La sala era piena zeppa; il nobile scopo, la scelta dei pezzi, il concorso delle nostre cantanti più distinte e, soprattutto, Liszt stesso, avevano sollevato molto interesse per il concerto. Ancora esaurito pel viaggio, e per i molti concerti dati nei giorni precedenti, Liszt giunse al mattino e poiché andò subito alla prova, gli rimase ben poco tempo per riposare prima del concerto. Non si permise un momento di tregua. Non devo lasciar passare questo senza ricordo: un uomo non è un Dio e lo sforzo visibile con cui egli suonò la sera del concerto era la conseguenza naturale di tante fatiche precedenti.
Con un amabile pensiero egli aveva scelto delle opere di tre compositori presenti, di Mendelssohn, di Hiller e mie; di Mendelssohn l’ultimo concerto, op. 40, di Hiller degli studi, di me parecchi numeri tratti da un’opera antica intitolata Carnaval. A stupore di parecchi timidi virtuosi, devo dire che Liszt suonò quasi tutte le composizioni per così dire, a prima vista. Egli forse conosceva fuggevolmente gli studi e il Carnaval, ma la composizione di Mendelssohn l’aveva vista soltanto pochi giorni prima del concerto; continuamente disturbato, gli fu veramente impossibile trovare un po’ di tempo per studiare. A un mio lieve dubbio che un quadro carnevalesco così rapsodico potesse fare effetto su di una folla, rispose che invece ben lo sperava, e ch’era la sua ferma opinione. Credo tuttavia si sia illuso. Dirò solo qualche parola sulla composizione che deve la sua nascita ad un caso. Il nome di una piccola città dove viveva una mia conoscenza musicale, conteneva le note della scala che appunto appartengono anche al mio nome [La piccola città Asch (As-c-h = la bem-do-si) e l’amica era Ernestina von Fricken, l’ “Estrella” del Carnaval, che per breve tempo fu fidanzata di Schumann.]; così nacque uno di quei giochetti che dopo l’esempio di Bach non son più nulla di nuovo. Un pezzo fu terminato dopo l’altro, appunto durante il carnevale del 1835, in seria disposizione di spirito e di speciali circostanze. Diedi più tardi ai pezzi dei titoli e chiamai Carnaval la raccolta. Se parecchie cose possono eccitare questo o quell’uditore, le sensazioni musicali però si mutano troppo rapidamente perché un intero pubblico, che non vuol esser disturbato ogni minuto, possa seguirle. Il mio amabile amico non aveva preso in considerazione tutto questo e per quanto suonasse con grande partecipazione e genialità, non poté sollevare l’intero pubblico, ma forse colpire qualcuno in particolare.
Accadde diversamente cogli studi di Hiller, che appartenevano ad una forma più conosciuta (uno in re bemolle magg., e l’altro in mi minore ambedue molto caratteristici e graziosi), ottennero una calda accoglienza.
Il concerto di Mendelssohn era stato già apprezzato nella sua tranquilla chiarezza magistrale attraverso l’esecuzione del compositore stesso. Come ho detto, Liszt suonò il pezzo quasi a prima vista. Nessuno può far questo così facilmente come lui. Infine, si mostrò ancora nel pieno splendore del suo virtuosismo nel pezzo finale, l’Hexameron, - un ciclo di variazioni di Thalberg, Herz, Pixis e di Liszt stesso. Si deve ammirare, come Liszt abbia avuto ancora la forza di ripetere a metà l’Hexameron e poi ancora il suo Galop a gran gioia del pubblico.
Io avrei tanto desiderato ch’egli eseguisse pubblicamente anche delle composizioni di Chopin, che suona incomparabilmente e con grande amore. In camera sua egli cordialmente eseguisce tutta la musica che si desidera sentire da lui. Quante volte l’ho ascoltato così, e con quale ammirazione!
Ci lasciò martedì sera.

UN CONCERTO D’ORGANO DI MENDELSSOHN

Vorrei poter scrivere di ieri sera, in queste pagine, a lettere d’oro. È stato finalmente un concerto per “uomini”, un buon concerto dal principio alla fine. E ancora una volta mi sono accorto che con Bach non si è mai finito e ch’egli divien sempre più profondo quanto più lo si sente. Zelter, e più tardi Marx, hanno detto su ciò cose perfette e molto giuste...
La migliore rappresentazione e spiegazione delle sue opere, rimane poi sempre quella viva, cioè coi mezzi della musica stessa; e da nessuno se ne potrebbe intendere una più fervida e fedele di quella dataci iersera da chi ha dedicato la maggior parte della sua vita a Bach e ch’è stato il primo a rinfrescarne in Germania il ricordo con tutta la forza del suo entusiasmo. Anche adesso egli dà il primo impulso perché con un monumento pubblico l’immagine di Lui sia portata più vicino all’occhio dei contemporanei. Son già trascorsi cent’anni prima che questo fosse tentato da altri; devono forse passarne altri cento perché giunga ad effetto?
Non è nostra intenzione di chiedere con un appello formale qualche cosa per un monumento a Bach: quelli per Mozart e per Beethoven non sono ancora finiti, e dovrà passare del tempo prima che lo siano.
Ma l’idea uscita ora di qui potrebbe eccitare qualcuno qua e là, specialmente nelle città che si sono rese particolarmente benemerite per l’assidua esecuzione delle opere di Bach, per esempio di Berlino e Breslavia, dove molti sanno che cosa l’arte deve a Bach: infatti a Bach la Musica deve poco meno di ciò che una religione deve al suo fondatore. Su ciò s’esprime Mendelssohn stesso in chiare, semplici parole nella circolare che annunzia il concerto...

TRIO IN RE MINORE DI F. MENDELSSOHN Op. 49

Poche parole su quest’opera, ché certo si trova già nelle mani di tutti.
È il trio-maestro del presente, come a loro tempo furono quelli di Beethoven in si bemolle e in re, e quello di Schubert in mi bemolle, un capolavoro che dopo anni rallegrerà ancora nipoti e pronipoti. La tempesta di questi ultimi anni comincia a calmarsi a poco a poco e, confessiamolo, ha già gettato alla riva parecchie perle. Sebbene scosso da quella meno di ogni altro, Mendelssohn rimane pur sempre un figlio del tempo, e ha dovuto lottare e spesse volte ascoltare il chiacchierio di alcuni ottusi scrittori: “La vera fioritura della musica è dietro di noi”; egli invece ha saputo conquistarsi un posto elevato sì che possiamo dire: egli è il Mozart del secolo XIX, il più limpido musicista che primo ha chiaramente viste e riconciliate le contraddizioni dell’epoca. E non sarà neppure l’ultimo artista.
Dopo Mozart è venuto un Beethoven; al nuovo Mozart seguirà un nuovo Beethoven, anzi è forse già nato. Che cosa debbo dire ancora su questo trio, che, appena sentito, ciascuno non abbia già detto da sé? Più felici senza dubbio, quelli che l’hanno udito dal creatore stesso. Se vi possono essere dei virtuosi più arditi, altri difficilmente però saprà rendere le opere di Mendelssohn con la freschezza così incantevole del compositore stesso.
Questo non spaventi alcuno dal suonare anche il trio; confrontandolo con altri, per esempio con quelli di Schubert, ha minori difficoltà, benché queste nelle opere di prim’ordine siano sempre in rapporto coll’effetto, sicché maggiori son le difficoltà, più ricco è l’effetto. Ma che il trio non sia del pianista soltanto, ma che anche gli altri debbano penetrarlo e possano contare sul godimento e sul ringraziamento di chi ascolta, non occorre, credo, ricordare.
Operi dunque questo trio il suo effetto, come deve, e sia per noi una nuova testimonianza della forza artistica del suo creatore, che ora pare quasi alla sua più alta fioritura.

1841

SONATA DI CHOPIN Op. 35

Dar uno sguardo alle prime battute di questa sonata e dubitare ancora di chi sia, sarebbe poco degno dell’occhio d’un buon conoscitore di Chopin. Così comincia, e così finisce: con dissonanze, attraverso dissonanze, nelle dissonanze. Eppure quanta bellezza nasconde anche questo pezzo! Si potrebbe definire un capriccio, se non una tracotanza, l’averla chiamata “Sonata”, poiché egli ha riunito quattro delle sue creature più bizzarre, per farle passare di contrabbando sotto questo nome in un luogo in cui altrimenti non sarebbero penetrate. Supponete, per esempio, che un organista di campagna venga in una città musicale “per farvi delle spese artistiche” - gli si presentan le novità - ma egli non ne vuol affatto sapere - infine, un commesso destro gli passa una “Sonata”. - "Ecco" dice entusiasta "questo è per me, ecco un pezzo del buon tempo antico" - e la compra, è sua. Giunto a casa si getta sul pezzo - ma, mi sbaglierei di molto, s’egli, ancor prima d’aver faticosamente decifrata la prima pagina, non scongiura tutti i santi spiriti della musica e non dice che non è vero stile di sonata, ma piuttosto un sacrilegio. Invece Chopin ha raggiunto ciò che voleva; la sua Sonata ha preso posto negli scaffali d’un organista e chissà che dopo molti anni non cresca un nipote più romantico che, scossa la polvere dalla Sonata, non pensi fra sé suonandola: “Ma non aveva poi mica così torto!”.
Con tutto questo, è già data anticipatamente una metà del giudizio. Chopin non scrive affatto quello che si potrebbe avere da altri; egli rimane fedele a se stesso e ne ha buona ragione.
È da rimpiangere che la maggior parte dei pianisti, anche quelli colti, non possan considerare e giudicare un’opera senza che prima se ne siano impadroniti colle proprie dita. Invece di abbracciar con lo sguardo pezzi così difficili, si torturano e si rompon la testa ad ogni battuta, e quando a mala pena riescono a mettere in chiaro le più rudi relazioni di forma, stanchi metton l’opera da parte e la chiaman “bizzarra, confusa”, ecc. Come press’a poco Jean Paul, Chopin ha appunto i suoi periodi ingarbugliati e per non perdere la traccia dello sviluppo non bisogna fermarsi troppo a lungo nelle sue parentesi a una prima lettura.
Nella Sonata si urta in passi di questo genere quasi ad ogni pagina e la maniera spesso selvaggia e arbitraria di Chopin di scrivere gli accordi, rende il raccapezzarsi ancora più difficile. A lui non piace, particolarmente, l’enarmonizzare, se così posso esprimermi, ed ha spesso delle battute e delle tonalità con dieci e più diesis, tonalità che preferiamo soltanto nei casi più salienti. Spesso ha ragione, ma spesso confonde anche senza ragione, e, come s’è detto, allontana da sé una buona parte del pubblico che non vuole essere continuamente corbellato e messo colle spalle al muro. Così, la Sonata ha cinque bemolli in chiave, una tonalità che certo non può vantare nessuna speciale popolarità. Eccone l’inizio:

Dopo quest’inizio sufficientemente chopiniano, segue una di quelle parti tempestose e appassionate che troviamo frequentemente in Chopin. Bisogna udire questo passo più volte e ben sonato. Questa prima parte dell’opera ci porta anche un bel canto; sembra che l’aria nazionale polacca, quale si sentiva nella maggior parte delle precedenti melodie chopiniane, scompaia a poco a poco col tempo, e che Chopin s’inchini, attraverso la Germania, talvolta all’Italia.
Si sa che Bellini e Chopin, essendo amici, spesso si comunicavano le loro composizioni e che perciò non rimasero senza un reciproco influsso. Come s’è detto, si nota soltanto una leggera tendenza verso il “modo meridionale” e al finire del canto, dall’armonia lampeggia nuovamente l’intero Sarmata nella sua ostinata originalità. Dopo la conclusione della prima frase del secondo tempo osserviamo un intreccio di accordi che Bellini non avrebbe mai osato, né potuto fare.
L’intero tempo finisce ben poco all’italiana - ed a questo proposito mi viene in mente un bel motto di Liszt, che una volta disse come Rossini e compagni terminassero sempre con un “votre très humble serviteur”; - ben diverso Chopin, le cui conclusioni esprimono piuttosto il contrario.
La seconda parte è la continuazione di questa disposizione di animo, ardita, spiritosa, fantastica; il Trio dolce, sognante, rispecchia completamente la maniera di Chopin. Dello scherzo il nome soltanto, come molti di Beethoven. Segue, ancora più cupa, una Marcia funebre, che ha persino qualcosa di repulsivo; al posto suo un adagio in re bemolle, per esempio, avrebbe fatto un effetto incomparabilmente più bello. Quello che appare nell’ultimo tempo sotto il nome di finale è simile ad un’ironia piuttosto che a una musica qualsiasi. Eppure, bisogna confessarlo, anche da questa parte senza melodia e senza gioia soffia uno strano, orribile spirito che annienterebbe con un pesantissimo pugno qualunque cosa volesse ribellarsi a lui, cosicché ascoltiamo come affascinati e senza protestare fino alla fine - ma anche però senza lodare: poiché questa non è musica. Così la Sonata finisce come ha cominciato, enigmaticamente, simile ad una sfinge dall’ironico sorriso.

FEDERICO CHOPIN
Due Notturni, op. 37.
Ballata, op. 38.
Valzer Per pf., op. 42.

Chopin potrebbe adesso pubblicare ogni cosa senza il suo nome, tanto, lo si riconoscerebbe subito egualmente. In ciò v’è lode e biasimo insieme, lode per il suo ingegno, biasimo per la sua aspirazione.
Profondissima è in lui quella mirabile forza originale che, appena si mostra, non lascia alcun dubbio sul nome del suo maestro; inoltre egli porta un’abbondanza di nuove forme che, nella loro delicatezza e audacia, meritano egualmente l’ammirazione. Sempre nuovo e inventivo nella forma esterna, nella fisionomia dei suoi pezzi e nei particolari effetti strumentali, egli rimane però nell’intimo eguale a se stesso, tanto che noi temiamo non produca più cose maggiori di quelle prodotte sinora.
Se quanto ha fatto è grande abbastanza per aggiungere il suo nome fra quelli imperituri della storia dell’arte moderna, osserviamo però che la sua attività si limita al piccolo cerchio della musica per pianoforte mentre invece avrebbe dovuto raggiungere colle sue forze altezze ancora maggiori, influendo sullo sviluppo dell’arte nostra in generale. In ogni modo accontentiamoci: egli ha già creato molte cose magni-fiche, ed anche ora ce ne dà tante che noi potremmo esser contenti e dovremmo ben felicitarci se altri artisti avessero composto soltanto la metà di ciò che ha prodotto lui.
Per esser chiamati poeti, non c’è bisogno di ponderosi volumi: per una o due vere poesie si può meritarne il nome e Chopin ne ha scritte ben più di una o due.
Appartengono a queste poesie anche i Notturni sopra citati; essi si differenziano dai suoi anteriori essenzialmente per un ornamento più semplice, per una grazia più discreta. Si sa come Chopin si sia sempre presentato tutto coperto di pagliuzze d’oro, di fronzoli e di perle. Ora è cambiato, egli si mostra più maturo; ama ancora l’ornamento, ma più pensoso, e sotto cui la nobiltà della poesia rifulge più amabilmente; bisogna inoltre concedergli un gusto finissimo, ma tutto questo non conta per i professori di basso fondamentale che cercano soltanto le quinte e si eccitano ad ogni “trovata difettosa”: invece potrebbero imparare molte cose da Chopin e specialmente a far delle quinte. Dobbiamo ancora segnalare la Ballata come un pezzo notevole. Chopin ci ha già dato un’altra composizione sotto tal nome (una delle sue opere più selvagge e caratteristiche): la nuova è tutt’altra cosa, inferiore alla prima come opera d’arte, ma però non meno fantastica e ricca di spirito. Le appassionate parti centrali sembrano esser state aggiunte soltanto più tardi; ricordo benissimo che quando Chopin la suonò qui finiva in fa maggiore, ora finisce in la minore. Egli disse ch’era stato ispirato per le sue ballate da alcune poesie di Mickievicz. Viceversa un poeta potrebbe trovare molto facilmente le parole dalla sua musica; essa commuove nel più profondo dell’anima. Il valzer infine è, come tutti i suoi anteriori, un pezzo da salon del genere più nobile; se l’autore lo suonasse per la danza, ha osservato Flo-restano, almeno una buona metà delle danzatrici dovrebbero essere contesse. Infatti, il valzer è aristocratico da capo a fondo.

SEI ROMANZE SENZA PAROLE
DI F. MENDELSSOHN BARTHOLDY
Quarto fascicolo, op. 53.

Un fascicolo, finalmente, di veri Lieder. Non differiscono dai precedenti di Mendelssohn se non per una maggiore semplicità e, dal punto di vista della melodia, per il loro carattere vocale più leggero, spesso popolare. Questo vale specialmente per quello che il compositore stesso ha designato col nome di Canto popolare; è uscito dalla stessa sorgente da cui Eichendorf ha attinto alcune delle sue più meravigliose poesie e Lessing il suo Paesaggio dell’Eifel. Non ci si può saziare di sentirli. Il tratto popolare, che comincia a mostrarsi in generale in molte delle composizioni degli artisti più giovani, induce a liete riflessioni per l’avvenire più vicino; e, cosa che a parecchi potrà sembrare abbastanza strana, per un occhio aperto questo tratto popolare è già manifesto negli ultimi lavori di Beethoven.
La terza romanza, in sol minore, ha pure un tono popolare, sebbene non quello d’un coro; suona piuttosto come un canto a quattro voci. Si osservi del resto, come nelle sue romanze senza parole Mendelssohn è proceduto dalla semplice canzone per il Duo fino al modo polivocale e ai cori. Così accade al vero artista creatore; dove si potrebbe spesso credere che egli non potesse andar più innanzi, ha già fatto all’improvviso un passo avanti, e ha guadagnato nuovo terreno. Altri passi nel quarto fascicolo ricordano veramente cose più vecchie dei fascicoli precedenti; certe tendenze riprese sembrano diventare persino una maniera. Questo però è un rimprovero che centinaia comprerebbero con sacrifici: quello specialmente di venir riconosciuto l’autore a certe andature, da giurarvi sopra. Attendiamo con gioia molte altre raccolte ancora!

SOPRA ALCUNI PASSI PRESUMIBILMENTE CORROTTI
DELLE OPERE DI BACH, MOZART E BEETHOVEN

Se si conoscessero tutti, forse ci sarebbero da scrivere dei volumi in-folio: ed io credo che, talvolta, i maestri dovrebbero ridere nell’altro mondo, se potessero udire qualcuna delle loro opere con tutti gli errori che il tempo, la consuetudine ed anche un rispetto timoroso han lasciato sussistere.
Da lungo tempo era mio disegno portare la discussione su questo argomento pregando gli artisti e gli amici dell’arte di voler esaminare le opere più conosciute dei maestri sopra citati e, ove fosse possibile, confrontarle col manoscritto originale. È vero che i manoscritti ingannano sovente, poiché nessun compositore può giurarvi che non gli siano sfuggiti degli errori. Ed è anche naturale che un musicista scrivendo in un tempo incredibilmente breve centomila puntini saltellanti, una dozzina di questi punti vada a finire o troppo in alto o troppo in basso, effettuando così le più folli armonie. Ad ogni modo, il manoscritto rimane sempre l’autorità che dev’essere interrogata per la prima. Tutti i possessori dei manoscritti dovrebbero confrontare con la copia a stampa il passo sospetto corrispondente e gentilmente comunicare il risultato. Tuttavia per l’accertamento di alcuni di questi passi non c’è nemmen bisogno di tirar fuori l’originale, talmente chiaro l’errore salta agli occhi.
La maggior parte degli errori si trova forse nelle edizioni delle opere di Bach e specialmente in quelle più antiche. Sarebbe un lavoro assai meritorio (ma altrettanto lungo) se qualche conoscitore di musica, pienamente familiarizzato con lo stile di Bach, intraprendesse a correggere tutto ciò che finora è stato stampato erroneamente. Un bell’inizio ci ha dato la casa editrice Peters di Lipsia; ma finora si limita alle composizioni per pianoforte. Una sola critica del Clavicembalo ben temperato con l’indicazione delle diverse lezioni (si dice che Bach stesso abbia fatto molte varianti) potrebbe riempire interamente un volume. Citiamo qui qualche caso.
Nella grande magnifica Toccata con fuga per organo, le due voci si muovono nel “manuale” sopra il pedale d’organo in una progressione strettamente canonica. È possibile credere che questo sia sfuggito al correttore? Egli ha lasciato sussistere una quantità di note che si manifestan false rispetto al canone. Nel seguito del pezzo, al passo parallelo (pagina 4 e 5) capitano sviste simili...
Un altro caso strano su cui il solo manoscritto di Bach potrebbe dare un chiarimento, si trova nell’Arte della fuga. L’intera fuga XVI lunga quattro pagine si trova già una volta nella X... Come avvenne ciò? Non è possibile che Bach abbia copiato nella stessa opera quattro pagine, nota per nota! Egualmente stampate sono nella partitura di Nägeli le due fughe e, soltanto per la somiglianza della tonalità e del tema che corre attraverso tutto il pezzo, si può spiegare che questa ripetizione sia rimasta così a lungo inosservata.
Ma chi, godendo delle armonie bachiane, pensa agli errori?
Tanto è vero che io stesso per un anno intero non osservai (in una delle fughe di Bach più note a me) questi errori, finché un maestro dall’occhio d’aquila me li fece notare. La fuga citata è quella in do minore con un tema meraviglioso, ed è la sesta nell’edizione Haslinger. S’inserisca fra la terza e la quarta battuta un’unica nota, un fa diesis (ottava centrale) e tutto sarà giusto. Su questo non vi può essere alcun dubbio.
Veniamo ora ad alcuni casi forse più interessanti pei lettori, esaminando opere ch’essi hanno inteso o suonato un numero infinito di volte senza osservare i tradimenti fatti all’originale. Io prego quindi i lettori di prender in mano le partiture, perché far stampare per intero i passi porterebbe via troppo spazio: inoltre non sarebbe possibile un giudizio senza l’esame più scrupoloso dei passaggi stessi.
Il primo passo sospetto è nella sinfonia in sol minore di Mozart, un’opera in cui ogni nota è d’oro puro, ogni parte un tesoro: e pure - si potrebbe crederlo? - nell’andante si sono inserite quattro intere battute, che secondo la mia ferma persuasione non vi appartengono. Dopo la 29a battuta (non contando la croma d’attacco) comincia una frase di quattro battute che conduce il periodo da re bemolle maggiore a si bemolle minore e che nelle quattro battute seguenti vien ripetuto tale e quale soltanto con una istrumentazione più semplificata; non si può credere che questo l’abbia proprio voluto Mozart.
Ciò appare a prima vista dalla legatura della 32a colla 33a battuta assolutamente antimozartiana; certo, questo particolare colpisce qualunque musicista ad un’audizione anche superficiale.
Ci domandiamo ora quale dei due periodi di quattro battute sarebbe da eliminare; il primo o il secondo? A uno sguardo fugace ci si potrebbe forse dichiarare per il primo; l’entrare graduale degli strumenti a fiato, che crescono sino al forte, non è senza un senso artistico. Ma molto più naturale nella condotta delle parti, più chiara e più semplice, e per-tanto anche senza crescendo, mi sembra l’altra lezio-ne, per cui son da eliminare le battute dalla 29a alla 32a, dove poi tutti gli strumenti s’uniscono in un chiaro crescendo nel forte.
Le stesse quattro battute di troppo si trovano nella ripresa della seconda parte e qui dovrebbero togliersi, allora le battute 48a-51a. Come quest’errore sia potuto passar di contrabbando, anche qui dovrebbe mostrarlo la partitura originale che pare si trovi nelle mani del consigliere André. La versione più verosimile è che Mozart ha prima scritto il passo come noi crediamo debba essere - poi, rifinito nella strumentazione, l’ha inserito nella partitura - ma più tardi, tornando nuovamente al suo primo pensiero, ha dimenticato di cancellare la seconda lezione... Del resto mi si dice che nel Conservatorio di Parigi l’andante vien suonato con l’omissione delle quattro battute nei due passi. Mendelssohn pure s’è da lungo tempo mostrato a ciò favorevole.
Ricordo infine ancora qualche passo nelle sinfonie di Beethoven, che quasi a prima vista si manifestano come errori del copista. Uno di questi ho già ricordato altra volta: è nel finale del primo tempo della sinfonia in si bemolle maggiore. Delle tre battute forte (8 prima del finale) una è manifestamente di troppo. La svista era facile da commettere a causa della completa somiglianza delle note in tutte le parti. Potrebbe averla fatta Beethoven stesso.
Ma che si sia potuto per tanti anni sentire nella sinfonia il passo seguente, come sta nella partitura, senza scattare ad alta voce, non si potrebbe spiegare se non perché l’incanto della musica beethoveniana ci avvince a tal punto da farci dimenticare il pensiero e l’udito.
Nel primo tempo (partitura pag. 35, battuta 3a) si trova precisamente:

Orbene, se invece delle pause improvvise nei primi violini, mettessimo il segno di simili (//) non suonerebbe meglio e in ben altro modo? Questo non risulta dall’inversione della battuta quinta, dove le viole hanno ciò che prima si trovava nei violini primi? Certo, è così. Il copista ha preso il segno di simili per delle pause o qualche coboldo birichino era entrato in gioco.
Ries racconta come una volta Beethoven si fosse arrabbiato per un passo della Sinfonia Eroica che lui, Ries, aveva variato colla migliore intenzione del mondo. Io credo che se oggi Beethoven sentisse il passo in questione della Sinfonia Pastorale, all’orche-stra o al direttore capiterebbe press’a poco quello che capitò a Ries.
Basta, per questa volta; potessero almeno i casi citati esser presi in considerazione da molti artisti! Come potremmo meglio provare la nostra venerazione per i nostri grandi maestri, se non sforzandoci d’allontanare dalle loro opere i danni che v’ha recato l’errore o il caso? Con questa sola intenzione sono state scritte queste righe.

UN’OUVERTURE DI CHERUBINI

All’esecuzione di questa ouverture ci è tornato di nuovo in mente come questo grande uomo e maestro sia ancor troppo poco conosciuto ed apprezzato, mentre sarebbe giusto lo fosse ora di più, giacché la comprensione delle sue composizioni è stata portata a noi più vicino dalla via che ha presa la nuova e migliore musica.
E poi perché non ricercare un artista che ai tempi di Beethoven era certo il secondo dei maestri della musica moderna e che dopo la morte di quello è ben da considerare il primo fra i viventi?

1842

STUDI DI BRAVURA DAI CAPRICCI DI PAGANINI
trascritti pel pianoforte da Franz Liszt

L’opera originale ha il titolo: 24 Capricci per Violino solo, composti e dedicati agli artisti da N. Paganini. Oeuvre 1. Una trascrizione di 12 di essi fatta da Robert Schumann, in due fascicoli, apparve già negli anni 1833 e 35... La raccolta di Liszt comprende cinque numeri dei Capricci; il sesto è una trascrizione del notissimo rondò della Campanella. Qui non si può parlare d’una copia pedante, d’un puro riempimento armonico della parte del violino; il pianoforte agisce con altri mezzi che il violino.
Produrre degli effetti analoghi, non importa con quali mezzi, era il compito qui più importante del trascrittore. Come Liszt conosca i mezzi e gli effetti del suo strumento, sa bene chiunque l’abbia udito. È dunque del massimo interesse avere le composizioni del più grande violinista-virtuoso (quanto ad audace abilità), P a g a n i n i, commentate dal più ardito pianista-virtuoso del tempo, L i s z t. Uno sguardo alla raccolta, a questa strana impalcatura di note rovesciata, è sufficiente per convincersi che qui non si tratta di cose facili. Pare che Liszt abbia voluto riversare nell’opera tutte le sue esperienze e lasciare ai posteri i segreti del suo modo di suonare; egli non poteva provare la sua venerazione per il grande artista defunto più splendidamente che mediante questa trascrizione così accuratamente elaborata sin nei minimi particolari e che riflette così fedelmente lo spirito dell’originale. Se la trascrizione di Schumann voleva mettere maggiormente in rilievo il lato poetico della composizione, Liszt accentua (senza però disconoscere quello) di più il lato virtuosistico; i pezzi sono giustamente designati Studi di bravura, giacché è ben chiaro che si suonano per conseguire lo scopo di meravigliare il pubblico. Pochi, veramente, saranno coloro che s’attenteranno di venirne a capo, forse non più di quattro o cinque in tutto il mondo. Ma questo non può impedirci di trattare ugualmente la cosa. Quando si tratta del più estremo limite del virtuosismo ci rallegriamo d’esserci avvicinati a questo limite, anche se soltanto a qualche distanza. Se noi osserviamo con maggior attenzione parecchie cose di questa raccolta, salta subito agli occhi che il fondo musicale spesso non sta in nessun rapporto colle difficoltà meccaniche. Sotto la protezione della parola “studi” passano molte cose. Dovete in ogni modo esercitarvi a studiarli non importa a qual prezzo.
Diciamo, dunque, che questa raccolta è la cosa più difficile che mai sia stata scritta per pianoforte, come l’originale d’altronde è per il violino. Paganini ha voluto significar questo con la sua bella e breve dedica “Agli artisti” cioè “io sono accessibile soltanto agli artisti”. Lo stesso è per l’opera pianistica di Liszt; soltanto i virtuosi di professione potranno capirla a poco a poco. Questo è il punto di vista da cui bisogna giudicare la raccolta. Dobbiamo vietarci, del resto, un esame analitico dell’originale con la trascrizione: ci costerebbe troppo spazio. Val meglio prender in mano le due opere. Interessante è il confronto del primo studio col corrispondente della trascrizione di Schumann, a cui ingegnosamente v’invita quella di Liszt stesso, per la copia fattane, battuta per battuta. È il sesto capriccio dell’edizione italiana. L’ultimo studio è in forma di variazioni (come nella raccolta dell’originale): queste variazio-ni devono essere quelle che hanno stimolato H. W. Ernst pel suo Carnevale veneziano; noi riteniamo la trascrizione di Liszt come la cosa musicalmente più interessante di tutta l’opera; ma anche qui si trovano, spesso in piccolissimi passi di qualche battuta, difficoltà d’ordine immenso, che Liszt stesso avrà dovuto studiare. Chi possiede totalmente queste variazioni (e cioè così leggermente e scherzosamente che esse ci scorrano innanzi come scene d’un teatro di fantocci) può correre il mondo senza paura per ritornarsene poi con un’aurea corona d’alloro come un secondo Paganini-Liszt.

LE OUVERTURES PER LA «LEONORA» DI BEETHOVEN

Più d’uno si ricorderà con gioia di quella sera in cui, sotto la direzione di Mendelssohn, l’orchestra di Lipsia ci fece udire, l’una dopo l’altra, tutte e quattro le ouvertures per la Leonora. La rivista già ne ebbe a parlare. Oggi vi torniam sopra perché è apparsa stampata la quarta ouverture (la seconda in ordine di composizione).
Non vi potrà essere dubbio sull’ordine in cui Beethoven scrisse le ouvertures. Forse più d’uno potrebbe ritenere quella testé pubblicata [Èeffettivamente la prima. Gli studi più recenti hanno dimostrato l’incertezza delle notizie della biografia dello Schindler, a cui lo Schumann si riferisce] come la prima di quelle che Beethoven ha abbozzato per la sua opera, perché ha interamente il carattere d’un primo getto ardito, tale da sembrar scritta nella gioia più violenta per l’opera compiuta, che si riflette in linee più piccole nei tratti principali. Ma il libro dello Schindler (pag. 58) elimina questo dubbio nel modo più assoluto. Ecco quel che si ricava dalla sua precisa assicurazione. Beethoven scrisse dapprima l’ouverture che dopo la sua morte apparve come op. 138 nell’ediz. Hasslinger; venne eseguita soltanto a Vienna davanti ad un ristretto cerchio di intenditori, ma fu trovata all’unanimità “troppo facile”. Beethoven, piccato, scrisse allora l’ouverture ora apparsa presso Breitkopf e Haertel, ma mutò poi anche questa, e ne venne fuori quella più nota, in do maggiore, che bisogna indicare col n. 3. Infine Beethoven scrisse la quarta ouverture in mi bemolle maggiore nel 1814, quando il Fidelio fu di nuovo messo in repertorio.
Quasi tutti i musicisti concordano nel considerare la terza ouverture come quella di maggior effetto e la più artisticamente perfetta. Ma non si stimi troppo poco la prima ch’è, salvo un passo debole (pag. 18), un pezzo fresco e bello, ben degno di Beethoven. L’introduzione, il passaggio all’allegro, il primo tema, il ricordo dell’aria di Florestano, il crepuscolo finale - tutto questo rispecchia l’anima ricca del maestro. Più interessanti, invero, sono le relazioni in cui sta la seconda colla terza. Qui possiamo seguire l’artista nel procedere del suo lavoro. Osservare e confrontare com’egli abbia variato e rifiutato pensiero e strumentazione, come non abbia potuto liberarsi dell’aria di Florestano, come le tre battute iniziali di quest’aria sian trascinate attraverso tutto il pezzo, come non abbia potuto tralasciare il richiamo delle trombe dietro la scena (sì da rimetterlo nella terza ouverture in modo ancor più bello che nella seconda), come non abbia avuto né riposo né tregua perché la sua opera raggiungesse la perfezione, quale ammiriamo nella terza - osservare e confrontare, dico, tutte queste cose appartiene a ciò che di più interessante e istruttivo si possa proporre per l’utilità d’un giovane artista. Come seguiremmo volentieri passo per passo le due opere! Questo si raggiunge colle partiture in mano con molto maggior piacere che con delle lettere sulla carta e perciò abbiamo accennato soltanto in breve alle differenze più essenziali. Dobbiamo osservare ancora un fatto. Nella partitura che s’è trovata in possesso di Breitkopf e Haertel, purtroppo mancano verso la fine alcuni fogli. Allo scopo dell’esecuzione per i concerti di qui, questa lacuna viene integrata coi passi corrispondenti della terza ouverture. In ogni modo, era l’unica cosa opportuna da farsi. È vero che il direttore d’orchestra deve guardarsi dall’animare l’orchestra in modo tale che il passo

(21 battute prima della fine) non sia troppo lento rispetto al presto

L’inconveniente sarebbe evitato se dopo la battuta

della seconda ouverture (parte dei violini primi, nono sistema, ultima battuta) fosse proseguito forse subito col fff della seconda ouverture (pag. 68 della partitura). La perdita delle piccole varianti dell’istrumentazione, che il completo abbandono del presto secondo la prima lezione porterebbe con sé, ci pare assai poco notevole.
D’altra parte si deve far valere il “rispetto” che non vuoi sacrificare nessuna battuta. Ma non si potrebbe trovare un’altra copia dell’ouverture, che contenga anche il finale al completo?

1843

SINFONIA SCOZZESE DI F. MENDELSSOHN
BARTHOLDY in la min., op. 56.

La nuova sinfonia di F. Mendelssohn ha interessato al più alto grado tutti coloro che finora hanno seguito con interesse e curiosità la brillante strada di questo astro così raro. Lo si riguardava un po’ come alla sua prima opera nel territorio della sinfonia; poiché la sua vera prima sinfonia, in do minore, appartiene quasi alla prima giovinezza dell’artista [Composta verso il 1824 - op. 11.], la seconda, che scrisse per la Società Filarmonica di Londra, non è stata ancora pubblicata [Reform-Symphonie, composta verso il 1830 - pubblicata nel 1868 come op. 107.], infine la sinfonia-cantata Lobgesang non può essere considerata come un’opera puramente strumentale. Così la sinfonia mancava nel ricco serto delle sue creazioni, poiché, eccettuando l’opera, egli s’era mostrato fecondo in tutti gli altri generi.
Noi sappiamo, da altri, che Mendelssohn iniziò questa nuova sinfonia diverso tempo fa, cioè durante il suo soggiorno in Roma [Lo Schumann riferisce alla Sinfonia Scozzese ciò che andreb-be detto della Sinfonia Italiana]; ma l’effettivo compimento è recentissimo. È interessante di saper ciò, per dare un giudizio di questa sinfonia. Come accade, quando noi strappiamo da un vecchio libro dimenticato un foglio ingiallito che ci ricorda un tempo trascorso in modo così chiaro da farci dimenticare il presente, così dei soavi ricordi avranno avvolto la fantasia del maestro quando trovò nelle sue carte quelle vecchie melodie, cantate nella bella Italia; così nacque, infine, cosciente o no, questa delicata pittura musicale che, un po’ come la descrizione del viaggio in Italia nel Titano di Jean Paul, deve aver fatto dimenticare per qualche tempo a qualcuno la tristezza di non aver visto quella terra benedetta. È già stato detto più volte che attraverso l’intera sinfonia spira un caratteristico tono popolare; questo può sfuggire soltanto ad un uomo privo di qualsiasi fantasia. L’incantevole colorito particolare poi contribuisce ad assicurare alla sinfonia di Mendelssohn (come per quella di Schubert) un posto speciale nella letteratura sinfonica. In questa sinfonia non troviamo né il tradizionale pathos strumentale, né l’abituale ampiezza mastodontica, né un appesantimento dello stile beethoveniano.
Troviamo piuttosto un’analogia, nel carattere specialmente, con la sinfonia di Schubert, colla differenza che, mentre quest’ultima ci fa supporre piuttosto un selvaggio, tzigano tumulto popolare, quella di Mendelssohn ci trasporta sotto il cielo italiano. Con ciò viene ad esser detto che in Mendelssohn si trova un carattere graziosamente castigato che si esprime in modo meno straniero, mentre dobbiamo ammettere che in Schubert si notano altre qualità, ed in ispecial modo una più ricca forza inventiva.
In fondo la sinfonia di Mendelssohn si distingue ancora per l’intima relazione che collega i quattro tempi; lo sviluppo melodico del tema principale è dello stesso genere nei quattro singoli tempi; questo si riconosce ad un semplice confronto fuggevole. Così essa forma più che ogni altra sinfonia un tutto strettamente connesso: carattere, tonalità e ritmo si differenziano ben poco l’uno dall’altro nelle diverse parti.
Per ciò che riguarda il lato puramente musicale della composizione nessuno sarà in dubbio sulla sua maestria. La sinfonia si pone accanto alle ouvertures per la bellezza e la delicatezza della costruzione dell’insieme e dei particolari; e non è meno ricca d’incantevoli effetti strumentali. Ogni pagina della partitura ci dà nuova prova di come Mendelssohn sappia finemente richiamare un antico pensiero, come sappia ornare una ripetizione in modo che ci si presenti come soffusa da una nuova luce, come sia ricco e interessante il particolare, senza sovraccarico e senza sfoggio filisteo di bravura.
L’effetto della sinfonia sul pubblico dipenderà in parte dal maggiore o minore virtuosismo dell’orchestra; infatti in generale è sempre così, ma qui, dove la forza delle masse sarà meno osservata della compiuta finezza degli strumenti isolati, n’è doppiamente il caso: soprattutto si esigono delicati strumenti a fiato. L’effetto più irresistibile è dato dallo Scherzo; nel nostro tempo non ne è stato scritto un altro più ricco di spirito; gli strumenti vi parlano come esseri umani.
La riduzione per pianoforte è del compositore stesso e perciò si ha certo l’immagine più fedele che si possa immaginare. Ciò nonostante, spesso lascia supporre soltanto la metà dell’incanto degli effetti orchestrali. L’ultimo tempo della sinfonia provocherà delle opinioni contrastanti, molti s’aspetteranno il solito finale mentre invece esso, arrotondando a guisa d’un cerchio tutto l’insieme, ricorda il principio del primo tempo. Noi troviamo questo finale molto poetico: è come una sera che corrisponde ad un bel mattino.

ANTONIO BAZZINI

Da un po’ di tempo il pubblico comincia a far capire la sua noia pei virtuosi, e (come più volte l’ha confessato) pure questa Rivista. Che i virtuosi stessi sentano ciò, sembra provarlo la loro voglia, nata recentemente, d’emigrare verso l’America; e tanti loro nemici covano il segreto desiderio ch’essi se ne rimangano, per carità! laggiù per sempre; poiché, tutto ben considerato, il loro nuovo virtuosismo ha contribuito ben poco al bene dell’arte. Quando però questo virtuosismo ci vien così graziosamente presentato come dal sopracitato giovane italiano, allora ascoltiamo volentieri con attenzione per ore intere - sia detto in breve, da anni nessun virtuoso m’ha dato una gioia così intima e momenti così piacevoli e felici, come Antonio Bazzini. Mi pare ch’egli sia conosciuto troppo poco, e anche qui non sia stato degnamente apprezzato nel grado ch’egli merita. Il pubblico della Germania del Nord è fatto così, ormai non si risolve a concedere il nome di “artista” che molto difficilmente ed a pochissimi. Se alle volte un virtuoso viene da Parigi, magari con qualche decorazione, allora questo aiuta il pubblico ad eliminare qualche dubbio. Invece Bazzini è venuto qui quasi sconosciuto, senza pretese; nel chiasso della fiera è sempre difficile farsi conoscere; ci si aspettava un suonatore da salotto, come se ne son sentiti a dozzine. Egli certo vale molto di più, e se gli si prendesse la mano sinistra (per sostenere il violino) potrebbe ancor scrivere con l’altra e farebbe bella figura fra le conosciute celebrità dei compositori italiani; in altre parole, egli ha pure un ingegno evidentemente creatore e se acquisterà qualche conoscenza del teatro, avrà certamente altrettanto diritto a scrivere opere come il signor Donizetti, ecc. L’ha provato chiaramente il suo Concerto per violino: il getto naturale, la tecnica conveniente, la melodiosità e l’armoniosità veramente affascinante di molte parti; di tutto ciò il gran numero dei virtuosi non ha nemmeno un’idea. È italiano in tutto, nel senso migliore; egli sembra venire non da un paese di questa terra, ma da un paese del canto, da un paese sconosciuto, eternamente sereno: così mi sembra talvolta, ascoltando la sua musica.
Come esecutore Bazzini appartiene certamente ai più grandi del presente; non conosco nessuno abile come lui nella tecnica, nella grazia e nella pienezza del suono, e soprattutto in purezza ed eguaglianza; inoltre predomina gli altri specialmente per freschezza, giovinezza e severità d’interpretazione e se mi raffiguro il carattere senza cuore e senz’anima di qualche blasé virtuoso belga e di molti altri, egli mi sembra essere un giovane fra vecchi cadenti, a cui sta dinanzi un avvenire ancora più brillante anche se ora ha già raggiunto una eccellenza artistica veramente splendida.
Per firmare questo giudizio mi sarebbe occorso di sentire lo Scherzo su temi dell’Invito alla danza di Weber e il suo Concerto. Nei due pezzi seguenti m’accorsi con dispiacere ch’egli non disprezza la lusinga del pubblico; non era della musica, ma piuttosto un mucchio di acrobatismi violinistici nei quali nessuno, si sa, potrà uguagliare Paganini. Bazzini non dovrebbe voler superare né quest’ultimo né se stesso; ciò mi sembra persino non corrispondere alla sua natura, che per piacere ed affascinare ha soltanto da spiegare i suoi vezzi.
Voglia dunque il mondo accordare al giovane, amabile e grande artista quell’interesse di cui è stato sovente così prodigo verso i meno degni. Ancora una qualità lo distingue, quella della modestia; non v’è nulla in lui che voglia incuriosire e stupire. Ne abbiamo già avuti abbastanza di pallidi virtuosi, stan-chi del mondo; rallegratevi d’un viso giovane e forte, dal cui sguardo appare la serenità e il desiderio della vita, come solo un animo veramente felice sa riflettere.

TARANTELLA, op. 43, di FEDERICO CHOPIN

Ecco un pezzo della più folle maniera di Chopin: par di vedere innanzi a sé il danzatore piroettante spinto dalla follia: e fa girar la testa anche a noi stessi. Nessuno può davvero dire bella questa musica, ma possiamo perdonare al maestro le sue selvagge fantasie, e gli si può permettere che per una volta ci lasci vedere le parti più tenebrose del suo animo.
D’altra parte Chopin non ha mai scritto per i critici d’antico stampo...

AFORISMI

Devi trovare melodie ardite, originali.

“M’è piaciuto” oppure “Non m’è piaciuto” dice la gente. Come se non ci fosse qualcosa di più elevato, che piacere alla gente!

Si parla spesso della corruzione del gusto del pubblico; chi l’ha guastato? Proprio voi compositori-virtuosi! Non mi consta che il pubblico si sia mai addormentato ad un concerto di Beethoven...

Mandar luce nel profondo del cuore umano - ecco il dovere dell’artista!

Nessuno può più di quanto sa. Nessuno sa più di quanto può.

In letteratura, chi non conosce le pubblicazioni nuove più importanti, è ritenuto incolto. Anche per la musica dovrebbe essere così.

I dilettanti vogliono capire in un baleno ciò che gli artisti hanno pensato per giorni, mesi ed anni?

IL SOGNO D’UNA NOTTE D’ESTATE
(da una lettera)

- Chi per primo deve sapere da me qualcosa sul Sogno d’una notte d’estate, sei naturalmente tu, amico carissimo. L’abbiamo visto ieri finalmente (quasi 300 anni dopo la prima rappresentazione). Che il direttore del teatro abbia voluto ornare proprio con questo spettacolo una sera d’inverno, attesta uno spirito giudizioso, poiché in piena estate si richiederebbe piuttosto un Racconto d’inverno - per ragioni ben note. Molti, posso assicurartene, vedevano volentieri Shakespeare soltanto per udire Mendelssohn; a me è accaduto il contrario. So benissimo che Mendelssohn non fa come i cattivi attori che, trovandosi casualmente a recitare con grandi attori, si dànno delle arie; la sua musica, eccettuata l’ouverture, vuol essere un accompagnamento soltanto, una meditazione, un ponte come fra Zettel e Oberon, senza di cui è impossibile un salto nel regno della féerie: poiché già ai tempi di Shakespeare essa aveva certamente la sua parte. Chi s’attendeva di più dalla musica si sarà trovato deluso: essa si mostra ancor più discreta che nell’Antigone, dove in verità i cori avevano costretto il musicista a una più ricca elaborazione. La musica, del resto, non interviene nel corso dell’azione nel rapporto amoroso dei quattro giovani; una volta soltanto descrive con emozione espressiva il cercare di Hermia del suo amante: questa è una parte eccellente. Nel resto, essa accompagna soltanto le parti féeriques dell’opera. Qui davvero Mendelssohn era a suo posto e nessuno, sai bene, lo sarebbe stato come lui.
Sull’ouverture tutti sono d’accordo da lungo tempo. Come forse nessun’altra opera del compositore questa ouverture è tutta penetrata dal fuoco ardente della gioventù e il maestro ormai esperto ha fatto, in uno dei momenti più felici il suo primo, altissimo volo. Fu per me una cosa commovente il veder spesso ricomparire dei frammenti dell’ouverture nei numeri della partitura composti più tardi: non mi piace però il finale dell’opera, che riporta quasi letteralmente il finale dell’ouverture. L’intenzione del compositore, d’arrotondare l’insieme, è ben chiara; ma essa mi sembra voluta troppo apertamente; Mendelssohn avrebbe dovuto cercare per questa scena le sue più fresche armonie; qui dove la musica poteva raggiungere il più grande effetto, io m’ero atteso qualcosa di originale, di nuovo. Cerca d’immaginare la scena dove gli Elfi, entrando da tutti i buchi e da tutte le fessure della casa ballano la loro ronda, mentre Droll
[È il Puck shakespeariano] sta a “scopare l’atrio lucente e candido” ed Oberon sparge la sua benedizione: “La pace sia in questo castello” ecc. - e dirai che certo non si poteva pensare una cosa più bella da metter in musica! Se Mendelssohn volesse ancora comporre qualcosa di meglio per questo passo!
Così m’è parso che nel finale fosse mancato il più alto effetto del pezzo; questo si è subito notato perché ci si ricordava della incantevole musica dei numeri precedenti, per esempio la testa d’asino di Zettel può ancor oggi divertire molti, l’incanto della verde notte nella foresta e la confusione che segue, restano indimenticabili per molto tempo; l’insieme però ha fatto l’impressione d’esser più che altro una “rarità”. Del resto, credimi pure, la musica è fine, ricca di spirito, fin dal primo apparire di Droll e degli Elfi, burlesca e scherzosa negli strumenti, come se li suonassero gli Elfi stessi, e si sentono dei suoni interamente nuovi. Estremamente amabile è ancora il canto degli Elfi che segue tosto, con le parole finali: “Ed ora buona notte, fa la nanna”; e così sempre quando sono in scena le fate. Dovresti ancora ascoltare una marcia (la prima, credo, che Mendelssohn abbia scritto) prima del finale dell’ultimo atto, che ricorda un po’ la marcia della Consacrazione dei suoni di Spohr: e per quanto avrebbe potuto esser più originale, contiene un “trio” molto grazioso. L’orchestra suonò eccellentemente sotto la direzione di M. D. Bach, gli attori non si son risparmiata nessuna fatica: gli scenari invece furono quasi pietosi...

NIELS W. GADE

In un giornale francese si leggeva recentemente:
“Desta l’attenzione in Germania un giovane compositore danese; si chiama Gade, viaggia spesso da Copenhagen a Lipsia e viceversa, col violino sul dorso, e rassomiglia a Mozart in carne ed ossa”. La prima e l’ultima frase sono perfettamente esatte; in quella di mezzo s’è inserito qualcosa di romantico. Il giovane danese, con la sua testa di Mozart dalla forte capigliatura che par scolpita in pietra, venendo in realtà qualche mese fa a Lipsia (sebbene tanto lui quanto il violino in carrozza) ben ha corrisposto alle simpatie che già avevano destato fra i nostri musicisti la sua ouverture per l’Ossian e la sua prima sinfonia.
Della sua vita esteriore v’è poco da dire. Nato a Copenhagen nel 1817, figlio d’un fabbricante di strumenti di quella città, nei suoi primi anni deve aver sognato piuttosto fra gli strumenti che fra gli uomini. Egli ricevette la sua prima istruzione musicale da uno dei soliti maestri che, ovunque, badano soltanto alla diligenza meccanica e non all’ingegno, e si dice anzi che il mentore non dev’esser stato particolarmente contento dei progressi dell’allievo. Egli imparò a suonare la chitarra, il violino e il pianoforte: ma senza distinguersi straordinariamente in nessuno di questi strumenti. Più tardi soltanto, ebbe in Wexschall e in Berggreen maestri più seri ed ebbe anche più volte consigli dall’eccellente Weyse. Produsse opere di diverso genere, di cui ora il compositore non vuol tener conto, perché sono, secondo lui, esplosioni d’una orribile fantasia. Più tardi egli entrò come violinista nella real cappella di Copenhagen, dove ebbe occasione di strappare agli strumenti tutti i loro segreti, segreti che qualche volta ci narra nelle sue opere strumentali. Questa scuola pratica, negata a tanti, inavvedutamente utilizzata da molti, lo educò principalmente a quella maestria dell’istrumentazione che dev’essergli riconosciuta senza discussione. L’ouverture Ricordi d’Ossian, che per giudizio di Spohr e di Schneider fu coronata del premio proposto dalla Società di musica di Copenhagen, deve avergli attirata l’attenzione del re, amatore dell’arte; cosicché egli ricevette, come molti altri ingegni suoi compatrioti, uno stipendio veramente regale per un viaggio all’estero ed egli cominciò da Lipsia, che per la prima l’aveva introdotto nel gran pubblico musicale. Egli v’è ancora, ma fra breve si recherà a Parigi, e di là in Italia. Approfittiamo dunque del momento, in cui la sua figura ci sta ancor fresca dinanzi, per dare alcuni tratti della personalità artistica di quest’uomo notevole, quale da tempo non s’è presentata ancora, fra i giovani.
Chi dalla sua rassomiglianza con Mozart, che ha davvero qualcosa di sorprendente, volesse conclude-re anche una rassomiglianza musicale, s’ingannerebbe di molto. Ci sta innanzi un carattere d’artista affatto nuovo. Sembra che le nazioni confinanti con la Germania vogliano emanciparsi dal dominio della musica tedesca: ciò forse potrà dispiacere a un teutomane, ma al pensatore dall’occhio acuto e al conoscitore dell’umanità parrà invece una cosa naturale e da rallegrarsene. Così Chopin rappresenta la sua patria, Bennett l’Inghilterra; I. Verhulst in Olanda dà speranze di divenire un degno rappresentante della sua patria, e in Ungheria si fanno valere egualmente delle aspirazioni nazionali. E poiché tutti considerano la nazione tedesca come la loro prima e più cara maestra nella musica, nessuno deve dunque meravigliarsi se essi vogliono tentar di parlare per la loro nazione una lingua propria, senza perciò rendersi sconoscenti agli insegnamenti della loro maestra. Giacché nessun paese del mondo ha dei maestri che possano paragonarsi ai nostri grandi, e nessuno ha fi-nora voluto negarlo.
Anche nell’Europa del Nord abbiam già veduto manifestarsi tendenze nazionali. Sindblad, di Stoccolma, ci ha tradotto i suoi vecchi canti popolari, Ole Bull pure, per quanto non sia un ingegno creatore di prima grandezza, ha tentato di renderci familiari gli accenti della sua patria. Gl’importanti poeti della Scandinavia, recentemente apparsi, devono pur aver dato un potente impulso al suo ingegno musicale anche se i monti, i laghi e le aurore boreali di lassù non gli abbiano ricordato che il Nord poteva ben parlare una sua lingua particolare.
I poeti della sua patria hanno ispirato pure il nostro giovane musicista; egli conosce e ama tutti; i vecchi racconti e le vecchie saghe lo accompagnavano nelle sue escursioni da ragazzo e l’arpa eolica d’Ossian gli risonò dalle sponde dell’Inghilterra. Così si mostra per la prima volta nella sua musica, e special-mente in quell’ouverture d’Ossian, un carattere nordico decisamente impresso; ma certo Gade stesso non negherà quanto deve ai maestri tedeschi. Essi hanno ricompensato la sua grande diligenza e il grande studio dedicati alle loro opere (egli conosce quasi tutte le loro composizioni) col dono ch’essi concedono a tutti coloro che si mostrano loro fedeli: cioè, con la consacrazione della maestria.
Fra i nuovi compositori è specialmente riconoscibile l’influsso di Mendelssohn in certe combinazioni strumentali, ciò risulta particolarmente nei Ricordi d’Ossian; invece nella sinfonia, parecchie cose ci ricordano F. Schubert; ma ovunque si fa valere uno stile melodico interamente originale come finora non s’era ancor presentato in un modo così popolare nei generi più elevati della musica strumentale. In genere, la sinfonia si solleva sull’ouverture sotto ogni rapporto; sia nella forza naturale, come nel magistero della tecnica.
C’è da desiderare ancora una cosa: che l’artista non si perda nella sua nazionalità e che la sua fantasia “creatrice d’aurore boreali” (come la definì qualcuno) si mostri ricca e varia, tanto da poter figger lo sguardo anche in altre sfere della natura e della vita. Così si potrebbe dire a tutti gli artisti, di raggiungere prima l’originalità per poi rifiutarla; a guisa di serpente l’artista si spogli quando l’abito vecchio comincia a sdrucirsi.
Ma l’avvenire è oscuro; accade che il più delle cose vada altrimenti di come pensiamo; per ora possiamo soltanto esprimere la speranza che noi attendiamo da questo ingegno distinto opere più solide e più belle. Come se già il caso del nome [G-a-d-e = sol-la-re-mi], come Bach, l’avesse spinto verso la musica, le quattro lettere del suo nome formano in strana guisa le quattro corde vuote del violino. Nessuno contesterà questo piccolo segno d’un più alto favore, e nemmeno quest’altro ancora: che il suo nome si può scrivere in quattro chiavi con una nota sola, che sarà facile da trovare per i cabalisti.
Entro questo mese attendiamo ancora una seconda sinfonia di Gade; essa è diversa dalla prima, cioè più delicata e leggera: e ci fa pensare alle piacevoli foreste di faggi della Danimarca.

PICCOLE NOTE TEATRALI (Dresda, 1847-50)

Jean de Paris di Boieldieu (4 maggio 1847)

Un’opera da maestro. Due atti, due scene, due ore di spettacolo - tutto perfettamente indovinato; Jean de Paris, Figaro e il Barbiere, le prime opere comiche di tutto il mondo che rispecchiano soltanto il carattere nazionale dei loro compositori.
L’istrumentazione (sulla quale specialmente si concentra oggi la mia attenzione) è dovunque magistrale - gli strumenti a fiato, clarinetti e corni, usati specialmente con predilezione, non coprono mai il canto, ed i violoncelli sono trattati qua e là con effetto come parti indipendenti.
I corni suonano in registro acuto e, quando la parte vocale è scritta più acuta ancora, essi si fondono bene con essa.

Il Templario e l’Ebrea di Marschner (8 maggio 1847)

L’ho ascoltata con grande piacere. La composizione è qua e là tormentata, non molto chiaramente strumentata: conta una quantità di ricche melodie. Notevole attitudine drammatica, qualche reminiscenza di Weber.
È come una pietra preziosa che non s’è potuta liberare interamente del suo rozzo involucro.
Il trattamento delle voci spesso non rende e l’orchestra ne soffoca l’effetto. Troppi tromboni.
I cori andarono ridicolmente male, e dovrebbero fare un effetto molto maggiore.
Insomma, la più importante opera tedesca moderna, dopo quelle di Weber.

Ifigenia in Aulide di Gluck
(14 maggiò 1847)

La Schroeder-Devrient, Clitennestra; Johanna Wagner, Ifigenia; Mitterwurzer, Agamennone; Tichatschek, Achille.
Costumi e scenari molto adatti; Richard Wagner ha messo l’opera in scena aggiungendo alla musica qualche passo che mi parve rilevare qua e là. Il finale “verso Troja” è stato aggiunto. Questo è veramente illecito - Gluck forse farebbe alle opere di R. Wagner il processo inverso - toglierebbe, taglierebbe qualcosa.
Che cosa dire dell’opera? Finché durerà il mondo una musica simile riapparirà sempre, senza invecchiare mai.
Un artista grande, originale; Mozart spunta dietro le sue spalle; Spontini lo ha spesso letteralmente copiato.
Il finale dell’opera è d’un effetto straordinario, come quello dell’Armida.

Tannhäuser di Richard Wagner (7 agosto 1847)

Un’opera di cui non ci si può sbrigare in due parole. Certo, ha un tratto geniale. Se il musicista fosse altrettanto melodico (melodiös) come ricco d’idee (geistreich), sarebbe l’uomo dell’epoca.
Vi sarebbe molto da dire sull’opera, e vale la pena ch’io mi riservi di farlo più tardi.

La favorita di Donizetti (30 agosto 1847)

Non ho inteso che due atti. Musica da teatro di burattini!

Euryanthe di C. M. v. Weber
(30 settembre 1847)

Ho provato un entusiasmo come non mi accadeva da molto tempo. La musica è ancor troppo poco conosciuta e apprezzata. È sangue del suo cuore, il più nobile sangue ch’egli aveva; quest’opera gli dev’essere costata un po’ della sua vita - certamente. Ma l’ha reso immortale.
Una catena di splendidi gioielli, dal principio alla fine. Tutto estremamente ricco d’idee e magistrale. Com’è reso magnificamente il carattere dei personaggi, di Eglantina, e di Euriante specialmente! - e come si esprimono gli strumenti! Ci parlano dal più profondo del loro intimo.
Eravamo infatuati di tutto questo, e ne parlammo a lungo. Il pezzo più geniale dell’opera mi pare il duetto fra Lysiart ed Eglantina, nel secondo atto. Pure geniale la marcia del terzo atto, in onore dello stesso Lysiart: ma la corona d’alloro non spetta soltanto a qualche passo isolato, ma bensì a tutto l’insieme.

Il Barbiere di Siviglia di Rossini
(novembre 1847)

Con la Viardot-Garcia come Rosina. Musica sempre rasserenante, ricca di spirito, la migliore che mai abbia scritto Rossini. La Viardot fa dell’opera una grande “variazione”: non lascia intatta una sola melodia. Qual falsa interpretazione della libertà lasciata al virtuoso! La sua parte migliore, del resto.

La muta di Portici d’Auber (22 febbraio 1848)

L’opera d’un beniamino della musica. Il soggetto ha sostenuto l’opera. La musica è troppo rozza, senz’anima, e inoltre orribilmente strumentata. Qualche scintilla di spirito, qua e là.

Oberon di Weber (18 marzo 1848)

Soggetto troppo lirico. Anche la musica inferiore in freschezza alle altre opere di Weber. Un’esecuzione trascurata.

1848

Ferdinando Cortez di Spontini
(27 luglio 1848)

Udito per la prima volta con rapimento.

Fidelio di Beethoven
(11 agosto 1848)

Cattiva esecuzione e tempi incomprensibili di Richard Wagner.

1949

Il Matrimonio segreto di Cimarosa
(19 giugno 1849)

Assolutamente magistrale nella tecnica (composizione e strumentazione); ma del resto abbastanza privo d’interesse e alla fine veramente noioso e vuoto d’ogni pensiero.

Il Portatore d’acqua di Cherubini
(8 luglio 1849)

Dopo molti anni ho riudito con grande gioia quest’opera ricca e magistrale. Un eccellente protagonista in Dall’Aste.

1850

Il Profeta di Meyerbeer (1. febbraio 1850)

† [Con questo semplice segno lo Schumann ha giudicato l’opera del Meyerbeer]

VIE NUOVE (1853)

Sono passati degli anni - quasi tanti quanti ho consacrato alla redazione di questi fogli, cioè circa dieci - da che io non mi son più fatto vivo su questo terreno così ricco di ricordi. Spesso, benché fossi assorbito da un’attività intensa e produttrice, mi sentivo eccitato a scrivere ancora su molti nuovi ed importanti ingegni che annunziavano una nuova forza ed una nuova era musicale; infatti l’attestano molti artisti d’alte aspirazioni dell’ultimo tempo, anche se le loro opere son conosciute soltanto da un circolo ristretto. Io pensavo, seguendo col più vivo interesse le vie percorse da questi eletti, io pensavo che un giorno apparirebbe, e dovrebbe apparire improvvisamente, qualcuno che sarebbe chiamato a render palese in modo ideale la più alta espressione del tempo, qualcuno che ci apporterebbe la perfezione magistrale non attraverso uno sviluppo graduale del suo ingegno, ma di colpo, come Minerva, quando uscì interamente armata dal capo del Cronide.
Ed è venuto questo giovine sangue, alla culla del quale hanno vegliato Grazie ed Eroi. Si chiama JOHANNES BRAHMS; raccomandatomi poco prima da un Maestro conosciuto ed amato [Eduard Marxen, di Amburgo (Sch.)], è arrivato da Amburgo, dove componeva in un silenzio oscuro, ma cui hanno vegliato Grazie ed Eroi. Si chiama alle forme più difficili dell’arte. Trasparivano dalla sua persona tutti quei segni che ci annunciano: ecco un eletto! Quando si mise al pianoforte cominciò a scoprirci regioni meravigliose: noi venimmo attirati in un circolo sempre più magico. Aggiungete a questo un modo di suonare quanto mai geniale, che fa del pianoforte un’orchestra dalle voci ora lamentose ora esultanti di gioia. Erano sonate, o piuttosto delle sinfonie velate - canzoni, la cui poesia si potrebbe comprendere senza saper le parole, benché una profonda melodia di canto le attraversi tutte - singoli pezzi per pianoforte, in parte d’una natura demoniaca ma dalla forma più leggiadra, poi sonate per violino e pianoforte - quartetti per archi - e tutto così diverso che ogni cosa pareva sgorgare da altre sorgenti. Poi sembrava ch’egli, passando come un fiume scrosciante, riunisse tutte queste sorgenti in una cascata che, coronata da un calmo arcobaleno, veniva accompagnata nel precipitare del suo corso da svolazzanti farfalle e da canti di usignuoli.
S’egli abbasserà la sua bacchetta magica là dove le potenze delle masse corali e orchestrali gli prestano le loro forze, noi potremo attenderci di scoprire, nei segreti del mondo degli spiriti, paesaggi ancor più meravigliosi. Possa fortificarlo in ciò il genio più alto, e tutto fa supporre che così sarà, poiché in lui abita un altro genio, quello della modestia. I suoi compagni lo salutano al suo primo passo nel mondo, dove forse l’aspettano delle ferite, ma anche dei lauri e delle palme; noi gli diamo il benvenuto, come a un forte combattente.
In ogni tempo, domina una segreta unione di spiriti affini. Voi che vi appartenete chiudete il cerchio sempre più stretto, perché la Verità dell’arte emani la sua chiara luce, spandendo ovunque gioia e benedizione!

R. S.