RICHARD WAGNER WEBSITE
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Wanderer, Wandern, Wanderung sono parole molto importanti per la storia del grande immaginario romantico tedesco. Il "viandante", nella nostra mentalità latina è sempre stato colui che transita da un luogo all'altro, da una collettività all'altra, consapevole che la casa, il gruppo sociale ben identificato sono gli ambiti che gli competono, che sente suoi ed in cui si riconosce. Egli è legato affettivamente alla famiglia, alla casa degli avi, alla terra che lavora, sia essa sua o non lo sia; il cammino è un viaggio, da programmare e compiere nel più breve tempo possibile perché ostico e talvolta pericoloso; riveste carattere episodico e tradizionale - ad esempio, l'abitudine millenaria alla transumanza delle antiche civiltà pastorali. E il viaggio, quando è conseguenza dell'imperativo della fame, genera angoscia, diventa trauma, dilacerazione; diviene il dolore degli emigranti che, con poca o nessuna attenzione per le nuove realtà che li circondano, cercano di ricostruire luoghi e collettività il più possibile vicini a quelli che hanno dovuto abbandonare.

Ben differente è invece la connotazione auratica che la parola Wanderer, viandante, assume nelle terre di lingua tedesca. Qui, chi segue un cammino non si dirige verso qualcosa di connotabile fisicamente, verso un "luogo" reale, tangibile; al contrario, egli è un avventuriero dello spirito, un essere che va alla ricerca di sé stesso, o meglio dell'indefinibile, di ciò di cui una lontana eco del proprio animo rende certi dell'esistenza, ma che sfugge ad ogni più rigorosa disamina razionale. I pellegrini e i Clerici vagantes che solcavano l'Europa delle prime ere cristiane: ecco il referente, il misticismo universalistico di chi fa della Wanderung, quasi sempre a piedi, quasi mai a cavallo, il fine e non il mezzo; di chi giace per una notte sotto un riparo di fortuna, od offerto da uno stanziale ospitale, ben sapendo che ciò non è, nè è desiderato, per sempre; che il giorno successivo il cammino dovrà riprendere, lungo prati verdi, colli boscosi, radi villaggi annunciati da campanili appuntiti, sotto cieli sempre mossi, sempre spazzati dal vento, talvolta plumbei ed ostili; talvolta in compagnia, ma più spesso da soli.

E' la galleria di paesaggi, più realistici di quanto non possa pensare chi non ha mai viaggiato in Germania, usciti dal pennello del pittore Caspar Friedrich; realistici ma pure pervasi da una profonda, commossa religiosità mistica, che per uno spirito romantico è essa pure, inevitabilmente, realtà.

Il Wanderer, l'uomo in cammino con bastone e mantello che cerca sé stesso, esiste e vive dunque immerso, congiunto alla natura, Ma non necessariamente si tratta di una natura ostile; al contrario, essa può anche essere il campo in cui si esprimono e si realizzano i disegni del Divino. Così la concepisce Klopstock, cantore di una vitalità essenziale, profonda, in cui anche il tuono, la folgore, devono essere ammirati e capiti; perché capire ed ammirare la folgore sarà capire ed ammirare Dio.

Sulla stessa prospettiva, ma più lontano da una visione personale cristiana e allo stesso tempo più vicino ad un panteismo cosmico, pagano ed anche olimpico, si colloca Goethe.

Goethe, la cui opera è come poche ricca di Wanderung; è un viandante Guglielmo Meister, che, nella Theatralische Sendung (La vocazione teatrale) rinuncia alla sicurezza borghese per seguire l'imperativo della sua passione interiore ed una compagnia di squattrinati artisti girovaghi; per incontrare poi, nei Lehrjahre (Anni di apprendistato), quell'imperativo - "Ricordati di vivere!" - che rammenta la necessità ed il diritto all'entusiasmo, allo sguardo infantile, meravigliato e divertito sul mondo e sugli uomini anche da parte di chi non è stato mai o non è più Wanderer, e nel benessere borghese ci vive gratificato. Molte sono le liriche, nella poesia goethiana, ispirate alla Wanderung; indimenticabile e commovente la quiete religiosa emanata dai pochi versi che compongono il Wanderer Nachtlied.

Su tutte le vette è silenzio,

dalle cime degli alberi odi

appena un sospiro.

Gli uccellini tacciano nel bosco.

Attendi, solo: presto riposerai anche tu.

 

Sguardo infantile, meraviglia, e allegria; talvolta anche rifiuto dell'universo limitato ed organizzato nella quotidianità; ecco alcune caratteristiche che possono perciò contraddistinguere il Wanderer romantico. Le incontriamo in Aus dem Leben eines Taugennichts (Vita di un perdigiorno), di Eichendorff, dove il protagonista canta:

Dio vuole dimostrare il suo favore a chi

manda per il vasto mondo,

Egli vuole mostrare le sue meraviglie

Sui monti, nel bosco, al fiume, nei campi.

Lo stesso spirito informa anche il primo Lied del ciclo Die Schone Mullerin (La bella molinara) di Muller, musicato da Schubert. Questa lirica è diventata una vera e propria canzone popolare.

Ma il cammino esistenziale del Wanderer può anche condurre ad un esito infausto; e questo comincia quando il movimento non è più essenziale a se stesso ma diventa una tensione verso qualcosa, una ricerca esteriore; "Dove tu non sei, là è la felicità", recita la lirica Der Wanderer di Schmidt. Si compie quando la volontà di solitudine, di Einsamkeit prende il sopravvento sulla necessità e sul desiderio di socializzare. "Chi solitudine sceglie, ben presto solo sarà", canta il vecchio arpista nella Theatralische Sendung; l'uomo, essere sociale, riesce ad espandere e ad espandere tutte le sue potenzialità, ad esistere totalmente solo vivendo nel sociale; andando incontro agli altri, parlando il loro linguaggio. Rinunziare al mondo, chiudersi totalmente nell'individualità, significa rinunziare ad una parte di sé; e la dilacerazione (Zerrissenheit) che ne consegue apre il baratro dell'ipocondria, della schizoidia, della follia, scelta e/o destino tragico di molte importanti figure artistiche dell'Ottocento romantico. Goethe esemplifica bene questi stati d'animo in uno dei suoi inni più belli: Harzreise im Winter (Viaggio invernale nello Harz).

Nella macchia il sentiero si perde,

dietro i suoi passi

si chiudono di colpo gli arbusti,

si rialzano l'erbe,

l'inghiotte la solitudine. (...)

Dapprima spregiato, or spregiatore,

segretamente, in inetto

amore di sé,

il proprio valore consuma.

Anche a questa infausta avventura dello spirito spetta una Waderung privilegiata: è la Winterreise (Viaggio d'inverno), ciclo liederistico ancora di Muller e musicato da Schubert. La natura, da madre amorevole si è qui fatta strega e matrigna; il paesaggio invernale, bianco e gelido, che accoglie nella monotonia i passi del protagonista, che fugge da una wertheriana delusione amorosa, non promette più calore ne' primavera. Il tempo si annulla; non esiste una sequenza narrativa, non esiste più il passato ne' il futuro, ma solo un disperato, eterno presente. Esiste solo un'amarissima riflessione sulla crudeltà ed ostilità umana, in uno spazio uguale ed illimitato che sprofonda in se' stesso; l'innavicinabilità alla comunità degli uomini, o più generalmente dei viventi, da cui il protagonista si esclude e si sente escluso; e la scelta, nell'ultimo Lied, di condividere il cammino con un altro reietto, un vecchio mendicante suonatore di organetto, troppo simile all'arpista di Goethe. Raramente la musica, in tutta la sua storia, ha conosciuto note tanto tragiche, agghiaccianti quanto quelle con cui Schubert ha saputo magistralmente rivestire la Winterreise.

Ma, con il progredire dell'Ottocento, il mondo germanico diviene sempre meno adatto alla Wanderung. La ricerca spirituale individuale non trova più posto in un sistema di vita dove l'operosità è finalizzata esclusivamente al profitto ed al dominio sulla natura; dove oggetti e comportamenti vengono standardizzati nel gusto Biedermeier; dove l'unico tipo di analisi conoscitiva cui viene data credibilità è quella scientifica. Goethe e Muller descrivevano uomini che si chiudevano dei confronti del mondo, ora si può assistere ad un mondo che si chiude nei confronti dell'individualità.

La Wanderung viene relegata ad uno spazio circoscritto, lontano dalla vita quotidiana; quello della solenne liturgia wagneriana, che celebra sé stessa ed il popolo tedesco. E' un mondo onirico, mitologico, ma anche necessariamente artificiale, perché scenico. Così Wotan e Sigfrido sono Wanderer; così anche l'Olandese Volante e Kundry, Ebreo errante al femminile in Parsifal, per i quali la Wanderung non è più una scelta o addirittura un premio divino, bensì la più atroce delle condanne.

La produttività grande borghese richiede ormai figure ed imprese monolitiche, ben cementate alla terra; come la mitica casa dei Buddenbrook, a Lubecca, descritta da Thomas Mann. La stasi e non più il movimento, il lasciarsi andare alla regolarità quotidiana sotto un tetto accogliente sono la seduzione, da cui è impossibile fuggire anche quando odora di morte. Seduzione cui cede Giovanni Castorp in Der Zauberberg (La montagna incantata ), quando, raggiunto il sanatorio di Davos in Svizzera per visitare suo cugino, ancora lievemente malato, non riesce più a staccarsene per alcuni anni, venendone poi strappato solo allo scoppio della Grande Guerra.

La staticità monolitica è caratteristica propria dei regimi totalitari; l'assurdo progetto hitleriano di Germania, un'Acropoli di dimensioni colossali, progettata a Berlino e mai realizzata a causa dello scoppio della guerra, esemplifica ciò degnamente. Niente di imprevedibile, quindi, nel fatto che gli anni del nazionalsocialismo non portino fortuna al Wanderer. Bisognerà aspettare il secondo dopoguerra per vedere il premio Nobel attribuito ad un grande scrittore che ha fatto della Wanderung la caratteristica costante dei suoi personaggi, in Oriente come in Occidente alla ricerca della propria identità spirituale che nasce ed esiste nella dialettica eterna e pregnante tra interiorità ed esteriorità, tra Io e Mondo: Hermann Hesse.

(Pubblicato su I Fatti - novembre 1989)