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EUGENIO BERNARDI

LA «TRAGEDIA FIORENTINA»

MUSICA NELLA SECESSIONE

pp. 213-214

La critica wildiana sembra aver del tutto dimenticato Una tragedia fiorentina, considerandola al massimo come uno scampolo di un altro dramma di Wilde, La duchessa di Padova (1891), a sua volta bollato come un centone di ricordi elisabettiani (soprattutto della Duchessa di Amalfi di John Webster) rivisitati in clima decadentistico, ma non vivificati da quel «mimetismo sconcertante ed istrionico» (Praz) che si riconosce alle opere migliori di questo autore. A questa sua breve opera Wilde accenna nel De Profundis («Invece di creare belle opere musicali e variopinte come Salomé, La tragedia fiorentina e La Sainte Courtisane mi costrinsi a scrivere lunghe lettere da avvocato»); secondo Robert Ross il manoscritto definitivo sarebbe stato trafugato (insieme a quello della Sainte Courtisane e della Duchessa di Padova) dalla casa del poeta nel 1895, subito dopo l'arresto di lui. Il testo tradotto in tedesco da Max Meyerfeld risale invece ad un manoscritto ritrovato da Ross e considerato mancante di una scena iniziale che, a quanto sembra, Wilde raccontò agli amici (ma che forse non scrisse mai). La Tragedia fu rappresentata in prima assoluta al Deutsches Theater di Berlino il 12 gennaio 1906 nella versione di Meyerfeld e con l'interpretazione di attori famosi (Rudolf Schildkraut, Tilla Durieux, Alexander Moissi).
Chiedersi quali motivi abbiano spinto Zemlinsky a questa scelta non ha molto senso, né i testi precedentemente scelti dallo stesso compositore per i suoi lavori teatrali (Sarema, Es war einmal, Der Traumgörge, Kleider machen Leute) indicano una linea di rigorose scelte letterarie entro quella 'democrazia degli stili' che era tipica del tempo. Maggiore coerenza rivela la scelta dei testi di Maeterlinck per l'op. 13. A Wilde Zemlinsky ricorse per una seconda opera composta durante gli anni di Praga: il libretto di Der Zwerg (Il nano) del 1921 è tratto dal Compleanno dell'Infante.
La scelta deriva molto probabilmente dal ricordo della Salomé straussiana e da quel gusto della 'maniera grande' e del 'rinascimentismo' che era di gran moda alla svolta del secolo, soprattutto a Monaco. D'altra parte non si può negare che questo breve testo, impostato su un'unica situazione di prevedibile sviluppo («un pensiero che striscia di punto in punto come una serpe») possa affascinare un compositore. Il libretto contiene alcune didascalie introdotte per accennare ad una scena iniziale fra gli amanti, inoltre qualche indicazione per la scenografia e un tentativo di dare una progressione psicologica più articolata alla reazione di Simone, reazione che nel testo di Wilde appare fin dall'inizio come un agguato. La lunga scena insiste infatti solo sul comportamento di lui, sull'affacciarsi dapprima allusivo, poi sempre più concreto del proposito di vendetta, con una progressione tanto esclusiva da far sì che la battuta finale di Bianca («come accecata da un miracolo») appaia come il necessario coronamento dell'attenzione che l'autore rivolge a questo personaggio scaltro e violento, al cui confronto Guido è solo un poeta galante, un esteta fatuo ed indifferente alla violenza della vita vera. Attribuire alla 'grande azione' di Simone ed alla sua pretesa di essere il personaggio di una Weltbühne («Sia dunque questo misero spazio ora un teatro del mondo, dove i potenti cadono e Dio mette in gioco la nostra vita inoperosa») un significato ulteriore, ossia la capacità di alludere alla problematica insita nella violenza borghese e nella sua ansia di valore-bellezza, significherebbe togliere quest'opera 'musicale e variopinta' dal suo contesto e inravvedere profondità di pensiero sotto il luccichio del paradosso.
Scegliere un testo di Wilde nel 1914-15 (e tanto più a Praga, dove nasceva l'espressionismo di Werfel e di Hasenclever) dove sembrare una scelta anacronistica. In un contesto consono a Zemlinsky, Hofmannsthal (come prima di lui Hermann Bahr) [Gutenberg]aveva preso le distanze dall'estetismo inglese, da «questo gruppo di artisti, cui manca talmente il gusto per la moralità ed il sano buon senso da ritenere come succo e senso di tutta la poesia una concezione personale, profonda e stimolante della bellezza, della bellezza in sé, estranea alla morale, ad uno scopo, alla vita» (Swinburne, 1893). Non per la via del culto della vita e della bellezza, ma per quella dei 'nervi' doveva passare la concezione dell'arte moderna, contraddistinta dalla crisi e dalla delusione: «A noi non è rimasto nulla fuorché una vita infreddolita, scipita, desolata, una rinuncia inabile al volo. Non abbiamo che una memoria sentimentale, una volontà paralizzata ed una sinistra capacità di raddoppiarci. Stiamo a guardare la nostra vita [...]. Oggigiorno due cose sembrano essere moderne: l'analisi della vita e la fuga dalla vita [...]. Si fa dell'anatomia della vita della propria anima oppure si sogna [...]. La morale comune è oscurata da due impulsi: dall'impulso della sperimentazione e da quello della bellezza, dall'impulso di capire e da quello di dimenticare (Gabriele D'Annunzio, 1893). Inaccettabili gli sembrano gli esteti inglesi, incapaci di udire la vita …rumorosa, brutale ed informe» scorrere al di là delle pareti dei loro sontuosi ateliers. Accettabile gli sembra D'Annunzio, nonostante «la sua visione alquanto rigida ed artificiosa della vita», perché era capace di sentire «l'intima bellezza e la tristezza delle cose in continuo mutare», di entrare cioè in quel mondo di 'corrispondenze' e 'trasmutazioni' che è il regno nel quale opera il poeta (e tanto più l'uomo di teatro). Ricordando Wilde, Hofmannsthal si rifiuta di distinguere fra un Wilde prima e dopo Reading, fra persona e destino: un vero esteta, come Walter Pater, «un uomo pieno di rispetto e timore verso la vita, un uomo di profondo rigore» Wilde non lo era mai stato; era stato invece un uomo di «tragica sregolatezza» che «continuamente sfidava la vita». Insultava la realtà. E sentiva che la realtà si accingeva a balzargli presto addosso con un salto dal buio» (Sebastian Melmoth, 1905).

© EUGENIO BERNARDI E LA BIENNALE DIVENEZIA