I dizionari Baldini&Castoldi

Jenufa di Leoš Janácek (1854-1928)
libretto proprio, dal dramma La sua figliastra di Gabriela Preissova

[Její pastorkyna] Opera in tre atti

Prima:
Brno, Teatro Nazionale, 21 gennaio 1904

Personaggi:
la vecchia Buryja, massaia e usufruttuaria del mulino (A); Laca Klemen, Števa Buryja, fratellastri e suoi nipoti (T), Kostelnicka [la sagrestana], vedova e nuora della vecchia Buryja (S); Jenufa, la sua figliastra (S); il mugnaio (Bar); il sindaco (B); sua moglie (Ms); Karolka, sua figlia (S); una serva (Ms); Barena, domestica del mulino (S); Jano, giovane pastore (S); la zia (A); musici, popolani



Capolavoro assoluto del realismo slavo, Jenufa è l’opera teatrale di Janácek che ha conseguito il più ampio successo sulle scene nazionali ed europee. Il musicista moravo vi lavorò nel decennio 1894-1903, un periodo che venne funestato dalla morte dei suoi unici due figli: le date delle due morti (Vladimír nel 1890, Olga nel 1903) sembrano quasi incorniciare entro una luttuosa parentesi la stesura dell’opera. La lunga genesi è giustificata sia dall’intensa attività didattica del musicista, che gli permetteva di comporre solo a tempo perso, sia, soprattutto, dall’incubazione di un linguaggio nuovo e originale, che veniva cercato tra continui dubbi, ripensamenti e mancanza di conferme. Lo stile musicale di Jenufa è infatti il risultato dei lunghi studi che Janácek dedicò alle inflessioni della lingua parlata cèca: egli ascoltava la gente per le strade e nei mercati, come pure il canto degli uccelli e i rumori della natura e trascriveva sui suoi taccuini di appunti le note, le intensità e le durate che aveva ascoltato, aggiungendovi le sue osservazioni di psicologia interiore. Tornava così alle origini stesse del linguaggio musicale, le cui fonti erano da ricercare, secondo il suo punto di vista, nelle inflessioni irriflesse e quasi inconsce della parola parlata.

Eseguita nel 1904 in un teatrino di provincia, l’opera ha dovuto attendere dodici anni prima di offrirsi all’attenzione europea con l’esecuzione al Teatro Nazionale di Praga, con varianti all’orchestrazione realizzate in collaborazione con il direttore Karel Kovarovic. La fortuna di Jenufa è stata spesso messa in relazione con la coeva fioritura del verismo italiano. Ma il realismo popolare di Janácek ha basi diverse rispetto a quello di Mascagni o di Leoncavallo, e non solo per la musica, che parte da premesse assai più moderne e originali, ma anche nell’impianto drammatico del libretto, vicino piuttosto all’area del ‘naturalismo’ tedesco, e proiettata nella sfera di quella ‘filosofia morale’ tipica delle tradizioni culturali slave.

Va ricordato che dagli anni Ottanta si è ritornati alla versione originale dell’orchestrazione, e che nell’originale cèco l’opera si intitola ancora oggi Její pastorkyna (La sua figliastra), il che pone immediatamente la matrigna Kostelnicka al centro dell’azione; il titolo Jenufa si diffuse all’estero grazie alla traduzione tedesca di Max Brod, lo scrittore e giornalista nonché biografo di Franz Kafka e di Janácek.

Atto primo . Jenufa è la figlia adottiva della Kostelnicka, l’austera sagrestana della chiesa di un paesino della Slovacchia morava. È amata da due fratellastri: il ricco Števa, del quale è promessa sposa, e il povero Laca, prostrato da un rabbioso dolore per non essere il preferito. Jenufa attende un figlio da Števa e aspetta al mulino il suo ritorno dalla commissione di leva. Se egli dovesse partire per il servizio militare e non si potesse celebrare subito il matrimonio, la sua gravidanza verrebbe scoperta, a suo disonore. È tesa e preoccupata. La vecchia Buryja la invita ad aiutarla nel lavoro. Laca la stuzzica, senza riuscire a suscitare interesse in lei. Jenufa si mostra una giovane buona e istruita: ha infatti insegnato a scrivere al pastorello Jano, che giunge entusiasta a mostrarle i suoi progressi. Laca confida al mugnaio che spera di veder partire soldato il rivale Števa; invece questi è stato esonerato e arriva al mulino completamente ubriaco per la felicità con un gruppo di musicanti. Jenufa lo richiama alle proprie responsabilità, ma Števa non ha voglia di pensare al matrimonio. Tutti danzano, ma la festa viene interrotta da Kostelnicka, che, vedendo Števa ubriaco, impone che il matrimonio con Jenufa sia rimandato di un anno per verificare se il comportamento del fidanzato mostrerà un miglioramento. Laca torna a tormentare Jenufa; le dice che Števa in lei ama solo il suo splendido volto, non il cuore. Ella, esasperata, lo fa ingelosire a tal punto che questi le sfregia la guancia con un coltello.

Atto secondo . Alcuni mesi dopo. Jenufa ha partorito da pochi giorni il bambino. Tutti la credono a Vienna a servizio, ma lei ha vissuto nella casa della matrigna, nascosta agli occhi del paese. Jenufa è provata ma felice per l’evento. La matrigna la manda a dormire dopo averle somministrato un forte sonnifero. Poi convoca Števa per convincerlo a sposarla. Ma questi non ne vuole sapere: Jenufa non le piace più con il volto sfregiato. È pronto a pagare per il mantenimento del figlio, ma non vuole che la paternità venga svelata, anche perché nel frattempo si è fidanzato con la figlia del sindaco. Kostelnicka convoca allora Laca, che si mostra molto cambiato. È serio, responsabile e pentito del suo gesto: si dichiara pronto a sposare Jenufa, che continua ad amare con grande devozione. Ma quando apprende da Kostelnicka che la figliastra è appena divenuta madre, si irrigidisce per un attimo all’idea di accettare con lei anche un figlio di Števa. Allora Kostelnicka gli racconta che il bambino è morto e lo allontana con una scusa. Dopo qualche momento di straziante riflessione, Kostelnicka decide di sopprimere il bambino ed esce con lui nella tempesta di neve che infuria. Jenufa si sveglia. È allarmata per la scomparsa del bambino e prega la Madonna. Al suo ritorno Kostelnicka mente ancora una volta: le narra che durante i due giorni in cui ella ha dormito il bambino si è ammalato, è morto ed è stato da lei seppellito. Convince quindi Jenufa ad accettare le nozze con Laca, che giunge per dichiararle il suo amore. Mentre i due si parlano, Kostelnicka appare scossa e in preda a oscuri presentimenti di morte.

Atto terzo. Nella abitazione di Kostelnicka fervono i preparativi per il matrimonio di Jenufa e Laca. Giunge anche la famiglia del sindaco con Karolka, la nuova fidanzata di Števa, mentre alcune ragazze si esibiscono in una danza popolare nuziale. Gli sposi si inginocchiano per ricevere la benedizione della nonna e anche Kostelnicka, da tempo vittima di crisi nervose per il rimorso del suo delitto, si accinge a benedirli. Ma in quel momento viene data tumultuosamente la notizia che il ghiaccio del ruscello ha restituito il cadavere di un bambino lì abbandonato: Jenufa riconosce gli indumenti del suo bambino. La folla la vuole linciare, ma Laca la difende; nel parapiglia generale emerge la voce della Kostelnicka, che discolpa Jenufa e si confessa autrice dell’infanticidio, fra lo sbigottimento generale. Mentre la donna viene consegnata alla giustizia, Jenufa le accorda il suo perdono; invita quindi Laca ad andarsene insieme a tutti gli altri, ma egli le resta accanto, rinnovandole per l’ennesima volta il suo amore: i due giovani si abbracciano e si incamminano verso la loro futura vita in comune.

La musica di Jenufa , assieme arcaica e moderna, folkloristica e autonoma, aggressiva e delicata, dipinge un affresco potente, in cui l’elemento folkloristico è solo una cornice, mentre l’opera vive assai più dell’elemento sociale e della caratterizzazione emotiva dei protagonisti. La melodia di Janácek spesso è tormentata e frammentaria come la parlata comune; procede per scatti, teneri indugi ed emozioni improvvise, in una discontinuità di pungente realismo. Sovente si rilevano temi musicali di carattere folkloristico: Janácek, come Bartók e come la precedente scuola nazionale russa, fu infatti un attento studioso della canzone popolare. Ma, a differenza dei compositori russi dell’Ottocento, non ha attinto a quel patrimonio per rielaborare temi preesistenti, ma ne ha scritti di originali, pur se dotati di movenze e di caratteri popolari. Il linguaggio armonico è assai poco tradizionale: sia perché si basa anche sulle scale modali tipiche del folklore, sia perché Janácek si serve di un certo accordo per rendere una determinata sfumatura drammaturgica ed emotiva, uscendo il più delle volte dagli schemi della tradizione. Ma è soprattutto l’incisività del discorso musicale nel suo complesso a colpire in Jenufa : l’uso di ostinati, incalzanti, diabolicamente fissi, come la nota ribattuta dello xilofono che collega le scene del primo atto ed è, nel contempo, simbolo dell’inesorabile scorrere del tempo e realistica immagine del moto perpetuo delle pale del mulino. La corrente della nervosa energia sinfonica di Jenufa rappresenta inoltre un superamento del sistema wagneriano dei Leitmotive e l’abbandono del contrappunto di matrice tedesca, ottenendo quell’indipendenza dei timbri cara a Debussy. Vi sono buoni motivi per ritenere che Jenufa martellò la mente del musicista in forma di caotico e affastellato flusso ritmato di voci sovrapposte, ricco di schegge verbali iterate: come un divisionistico gioco di specchi in cui si rifletteva distintamente un mondo sonoro reale, mutato in una visione deformata e ossessiva dagli artifici del comporre. Forse il realismo di Jenufa è così toccante anche perché narra, in forma d’incubo, una storia talmente archetipica da lasciar apparire in filigrana i contorni di una fiaba terrificante. Il sonnifero somministrato alla ragazza per decidere del suo destino e ucciderle il figlio pare la magica pozione delle fiabe: e nell’istante in cui Kostelnicka decide di uccidere il bambino, è la musica stessa a rendere quasi visibile la trasformazione di una donna in un’autentica strega indemoniata.

f.p.

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