I dizionari Baldini&Castoldi

Suor Angelica di Giacomo Puccini (1858-1924)
libretto di Giovacchino Forzano

Opera in un atto

Prima:
New York, Metropolitan, 14 dicembre 1918

Personaggi:
suor Angelica (S), la zia principessa (A), la badessa (Ms), la suora zelatrice (Ms), la maestra delle novizie (Ms), suor Genovieffa (S), suor Osmina (S), suor Dolcina (S), la suora infermiera (Mz), una novizia (S), due cercatrici (S, Ms), due converse (S, Ms)



Dopo aver completato il Tabarro , primo pannello di un ‘trittico’ che vagheggiava sin dall’inizio del secolo, nel gennaio 1917 Puccini trovò un soggetto adatto per continuare nell’impresa: glielo aveva proposto Giovacchino Forzano, trentatreenne uomo di teatro a tutto campo (baritono, poi librettista e regista di grande successo). Forzano si rivelò per il compositore un collaboratore ideale, grazie al fiuto per il coup de théâtre , al gran mestiere e a una facile vena che gli consentirono di risolvere velocemente anche il problema del terzo e ultimo atto unico. A partire dalla fine di marzo del 1917 Puccini si buttò a capofitto nel lavoro e immaginò subito l’atmosfera musicale adatta per caratterizzare il luogo dov’era rinchiusa la povera Angelica. La sua vis creativa lo portò a schizzare subito un progetto dello Schicchi , che Forzano aveva nel frattempo ultimato, prima di tornare con rinnovato impegno a Suor Angelica (già composta quasi per intero entro la fine di giugno e tutta strumentata col 14 settembre successivo). In origine la ‘prima’ era fissata per il dicembre del 1918 in due teatri, il Metropolitan di New York e il Costanzi di Roma. Gli ultimi sussulti della grande guerra rendevano oltremodo difficoltosi i viaggi, in specie quelli transoceanici, perciò Puccini rinunciò a recarsi negli Stati Uniti, e tutti i suoi sforzi si concentrarono sul debutto europeo. A New York Suor Angelica ebbe come interpreti Geraldine Farrar (la prima Butterfly americana) e Flora Perini (la zia principessa). Al grande successo dell’atto fiorentino, osannato dalla critica statunitense, non ne corrispose uno pari per le altre due opere: Angelica , in particolare fu definita un autentico fallimento, poiché la musica era «troppo poco raffinata per essere naturale». La prima romana ebbe luogo l’11 gennaio 1919, e la parte principale fu sostenuta da Gilda Dalla Rizza. Qui la critica riabilitò in parte Suor Angelica , ma dopo le prime riprese nei teatri europei l’opera cominciò a riscuotere meno successo delle sue due compagne, che cominciarono a vivere un’esistenza separata. Tuttavia l’impatto teatrale dei tre atti unici, visti uno dopo l’altro, è fra i più travolgenti, ed è dunque preferibile mettere in scena, come ora si fa più frequentemente, l’intero Trittico : posta al centro, Suor Angelica costituisce il perno di tutta la drammaturgia.

In un monastero, sul finire del XVII secolo. Mentre le campane rintoccano, suor Angelica attraversa il chiostro e raggiunge le consorelle raccolte in preghiera nella piccola chiesetta. All’uscita dalla funzione, la zelatrice punisce due converse giunte in ritardo; non Angelica, che ha fatto umilmente atto di contrizione. Poco per volta escono allo scoperto le dure regole della vita di clausura, fatta di privazioni e umiliazioni, come quella che tocca poco dopo a suor Osmina, rea di aver tenuto due rose nelle maniche e costretta a rinchiudersi in cella. Ma ci sono anche giovani monache, come Genovieffa (“O sorelle, sorelle, io voglio rivelarvi”) capaci di entusiasmarsi alla vista di un raggio del sole che getta una luce dorata sull’acqua della fonte. La maestra spiega alle novizie che, per via degli orari rigidi di uscita dal coro, solo per tre sere di maggio le suore possono vedere il tramonto. Le monache si rendono allora conto che è passato un anno dalla morte di una sorella, e Genovieffa le invita a portare sulla tomba un secchiello d’acqua di fonte, pensando che l’estinta lo gradirebbe. Angelica le ricorda che i morti non coltivano desideri, ma hanno finalmente trovato la pace (“I desideri sono i fiori dei vivi”). Genovieffa, che pascolava le pecore prima di entrare in convento, desidera vedere un agnellino (“Soave Signor Mio”), mentre suor Angelica, interpellata, dichiara di non avere desideri. Mente, affermano le suorine, e narrano sottovoce quanto sanno sul suo conto: di origine nobile, ella vive da sette anni in clausura senza aver notizie della famiglia, che l’ha rinchiusa in convento per punizione, e vorrebbe aver notizie dei suoi parenti. Il pettegolezzo viene interrotto dalla suora infermiera, che ottiene da Angelica, che «ha sempre una ricetta buona fatta coi fiori», un rimedio a base di erbe per suor Chiara, punta dalle vespe. Rientrano poi le cercatrici portando buone provviste, che scatenano la gola di suor Dolcina. Mentre tutte beccano un tralcetto di ribes, la cercatrice descrive una ricca berlina parcheggiata fuori del parlatorio: subito Angelica viene colta dall’ansia, che cresce sinché la campanella annuncia una visita. Le monachelle sperano che sia un loro parente, ma Genovieffa si rivolge ad Angelica, che se ne sta tormentata in un angolo, e a nome di tutte le augura che sia quella visita che attende da tanti anni. La badessa chiama l’affannata protagonista al parlatorio, invitandola a calmarsi; poi la vecchia zia principessa entra, e con atteggiamento altero comunica alla nipote che è venuta a farle firmare una carta per dividere il patrimonio da lei amministrato dopo la morte dei genitori. Angelica invoca la sua clemenza, ma la zia prosegue implacabile, spiegandole che l’atto serve alla sorella minore che sta per sposarsi, nonostante il disonore che Angelica ha gettato sulla casata, procreando un figlio al di fuori del matrimonio. Spiega poi all’infelice madre che, quando si raccoglie in preghiera, le riserba un solo pensiero: che abbia a espiare la colpa commessa (“Nel silenzio di quei raccoglimenti”). Ma Angelica, affranta, è tormentata dal desiderio di conoscere la sorte di quel figlio che le è stato strappato: prima di uscire la vecchia, rimamanendo impassibile com’era entrata, le rivela che è morto di una malattia incurabile. Angelica dà sfogo allora a tutta la sua atroce disperazione (“Senza mamma”), e sogna il figlio in ogni luogo. Non le resta che preparare una pozione di erbe velenose per togliersi la vita e dare addio al piccolo mondo che l’ha ospitata per sette anni. Ma all’improvviso si pente del suo gesto: mentre sta per spirare le appare, come in una visione, la Vergine, che spinge un bambino verso di lei, in segno di perdono.

Suor Angelica divide col Tabarro il ruolo centrale che il fattore tempo riveste nell’economia del dramma. In particolare il passato è premessa indispensabile della tragedia claustrale, dove la protagonista non ha mai vissuto una vera felicità: quasi due terzi dell’opera sono costellati di riferimenti tramite cui si prende gradatamente coscienza del lento fluire del presente. «Le tre sere della fontana d’oro» sono le uniche in cui le recluse contemplano il tramonto, e conducono le suorine alla riflessione malinconica: «un altr’anno è passato». Il candido desiderio di Suor Genovieffa («Da cinqu’anni non vedo un agnellino») è una delle tante premesse perché Angelica, a colloquio con la zia principessa, constati dolorosamente che «sett’anni son passati» da quando è entrata in clausura. Tutte le strutture temporali, insomma, devono essere rievocate per poter contestualizzare l’attimo che si vive sulla scena. Un secondo parametro vincola saldamente Angelica alle altre due opere: l’inedito ruolo giocato dalla caratterizzazione musicale dell’ambiente in rapporto allo sviluppo dell’azione e alla forma musicale dell’atto unico. Nell’asettico convento di clausura, dove si svolge la vicenda, la vita non pulsa e l’amore manca, mentre regnano il senso di colpa e l’ipocrita bigotteria. Preghiere, rintocchi di campane, inni in latino, sottolineati da una scrittura modale e da timbri sfumati e algidi, marcano un distacco dal mondo degli affetti terreni che è frutto della costrizione e della rinuncia. Angelica è sottratta a ogni inserto naturalistico, di cui invece Tabarro è permeato; pure il luogo claustrale fornisce l’occasione per costruire un tessuto musicale omogeneo e rigoroso, che riflette un clima peculiare. Puccini amò quest’atto unico più degli altri due, non solo per l’originalità del soggetto, ma soprattutto perché gli consentiva di tornare alla tematica prediletta negli anni centrali della sua produzione: l’amore colpevole ( Manon Lescaut ) o frainteso ( Madama Butterfly ), vissuto da una protagonista femminile a tutto campo. Peraltro Angelica si differenzia profondamente: dopo avere vissuto l’amore senza un’ombra di egoismo, ne viene privata. Le due eroine precedenti hanno un ruolo attivo nel determinare la propria sorte, mentre la monaca è costretta a subire le angherie del suo milieu aristocratico, e viene rinchiusa tra le mura di un convento per seppellire una colpa che tale non è. In nome delle convenzioni bigotte della sua classe le viene negato il diritto alla maternità, sebbene un istinto biologico fortissimo le consenta di sopravvivere, sorretta com’è dal pensiero di un’altra esistenza che comunque cresce, mentre il tempo intorno a lei si è fermato. La brutale rivelazione della morte del bimbo le toglie l’ultimo appiglio, e il suicidio viene, dopo il grande assolo – “Senza mamma”, vertice fra i più toccanti dell’arte di Puccini – come diretta conseguenza della contrazione dei tempi drammatici. Sette anni d’attesa contro tre frasi pronunciate seccamente dalla crudele zia principessa: un urto talmente improvviso e violento da farle completamente smarrire la ragione.

Anche i biografi più acuti, con rare eccezioni, non compresero la necessità di dilatare la prima parte del dramma, dando ragione al pubblico che a sua volta aveva dimostrato di non amare troppo la minuta descrizione della vita monacale. Troppo attratto dall’atmosfera peculiare del convento di suore di clausura, il compositore non si sarebbe accorto che la sua immaginazione ne sarebbe rimasta fatalmente imbrigliata. Critiche simili non tengono conto dell’assoluta necessità di questa ‘tinta’, fatta di pennellate uniformi e di colori sfumati (soprattutto impasti tra legni e arpa). La descrizione musicale dell’atmosfera non risponde a una logica realistica, se non per certi tocchi di concretezza, quei canti in lode di Cristo e della Vergine o quella voce delle campane, che divengono elementi funzionali all’accrescersi del dramma personale della protagonista.

Come in Tabarro , l’azione inizia al tramonto per concludersi a notte inoltrata, e vede in scena un nutrito gruppo di quindici personaggi, tutti femminili. Estranea al convento è solo la zia principessa, l’unica parte importante di tutto il teatro pucciniano affidata a un contralto. Nella galleria dei grandi carnefici pucciniani essa occupa un posto di primo piano, per la complessità psicologica che dimostra nel poco spazio concessole in partitura. La sua ostentata freddezza ha aspetti quasi patologici, che Puccini suggerisce trattando la sua linea vocale per formule ossessive: il canto prevalentemente declamato s’aggira come una serpentina e scolpisce l’immagine di una figura immota, che il tempo ha congelato in un passato carico di sordo rancore.

Nel miracolo si udranno anche le voci bianche e quelle maschili, unite nel canto dell’inno (“O gloriosa virginum”). Puccini seppe evitare ogni monotonia da uniformità dei timbri e isolò sovente piccoli gruppi dal contesto (trattati come coro da camera), affidò frasi solenni alle suore di rango superiore e si valse di un secondo soprano dalla voce più leggera, suor Genovieffa, per alcuni passi di carattere. Ma soprattutto seppe fondere le voci all’orchestra, calibrando le sonorità e i colori, e sfruttò abilmente gli idiofoni in lunghi episodi concertanti assieme alle prime parti di legni e archi, non di rado con l’intervento di trombe e corni con sordina. L’orchestra si muove in punta di piedi entro un dramma fatto di sottili perfidie e di malinconia, sfoggiando una grande varietà di tenui impasti timbrici e dinamiche soffuse (dal pianissimo al piano ). Una citazione a parte merita il miracolo finale, dove le voci del coro misto sono sostenute da una tavolozza timbrica fredda e brillante: arpeggi di due pianoforti nel registro acuto sugli accordi fissi dell’organo, fanfara di tre trombe, leggeri colpi dei piatti, rintocchi delle campane. Un timbro che è già luce di per sé, ma che intensifica anche l’effetto del fascio luminoso che proviene dalla chiesetta. Su questa invenzione timbrica, che comunica l’idea della trasfigurazione della protagonista, cala il sipario sull’atto centrale del Trittico . Puccini interpreta l’evento come un’abbagliante visione della morente, senza alcun fine edificante, ed è un suggello perfetto per un’opera intensamente poetica, che non manca mai di commuoverci.

m.g.

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