IL PORTALE DELL'ARTE DI RODONI.CH

LA BIBLIOTECHINA DI LAURETO - PRIMA PARTE

LA BIBLIOTECHINA DI LAURETO - SECONDA PARTE


© GARZANTI


GOFFREDO DI STRASBURGO

TRISTANO E ISOTTA

Se nel mondo non si serbasse memoria di coloro che operarono bene, tutto quanto di bene si compie nel mondo non avrebbe valore.

Male agirebbe chi non volesse apprezzare come tale il bene che l'uomo compie a vantaggio del mondo.

Odo spesso disprezzare ciò che pur si bramerebbe di avere e a questo riguardo anche il poco diventa troppo e si vuole appunto ciò che non si vuole.

All'uomo conviene sempre lodare una cosa di cui deve far uso e compiacersene fintanto che gli è utile.

Assai caro mi è chi sa pesare il bene e il male e che sa apprezzare gli altri - e finanche me stesso - al giusto valore.

Onore e lode producono l'arte, poiché l'arte a lode è creata. Dove con l'onore fiorisce la lode, ivi fiorisce anche ogni genere d'arte.

Come tutto ciò che è privo di onore e di lode perisce, così invece prospera ciò che in onore sta e di lode non è frustrato.

Molti sono quelli che usano volgere il bene in male e il male in bene; questi tali agiscono a rovescio.

Come bellamente risplendono congiunti sapienza e giusto senno!

Se insieme a essi alberga l'invidia, sapienza e giusto senno svaniscono.

O virtù! come sono stretti i tuoi sentieri e com'è ardua la tua via! Beato chi segue la tua via e per i tuoi sentieri cammina.

Se, già maturo negli anni, io trascinassi la mia vita nella noia dell'ozio non sarei così esperto del mondo come sono.

Io per amore del mondo ho dedicato la mia fatica a sollievo dei nobili cuori, dei cuori che porto nel mio proprio cuore, e a conforto del mondo nel quale il mio cuore è rivolto. Non alludo al mondo di tutti coloro di cui sento dire che non sanno sopportare contrarietà alcuna e si cullano soltanto nei piaceri: nei piaceri Dio li lasci pur vivere. Non a questo mondo e al suo costume io rivolgo il mio dire; le nostre vie troppo divergono. Un altro mondo intendo io, che nutre insieme nel cuore il dolce tormento, il dilettoso dolore, la gioia del cuore, la desiosa tristezza, la dolce vita, la triste morte, la dolce morte, la triste vita.

Alla vita sia consacrata la mia vita, a questo mondo voglio appartenere e con esso perire o prosperare. Vi sono stato fino a oggi, vi ho trascorso i miei giorni e ne dovevo trarre insegnamento e guida per la faticosa vita. Questo è il mondo al quale ho riservato la mia opera per suo diletto affìnché il mio narrare muti almeno per metà il suo affanno in dolcezza e allevi la sua pena. Poiché chiunque ha qualche cosa con cui occupare lo spirito, che non vada ozioso, si libera dalle sue pene e acqueta il cuore angustiato.

Tutti sono d'accordo nel dire che il mal d'amore che opprime il cuore deserto, aumenta vieppiù con l'ozio. Il desiderio amoroso si accresce nell'inoperosità. Perciò è bene che chi porta nel cuore male d'amore e desiderio amoroso cerchi con ogni diligenza un'attività per il corpo, affnché anche lo spirito, occupato, possa averne bene e riposo.

Tuttavia a nessuno che soffra di questo male io consiglio di ricorrere a un'attività che mal si addica all'amore puro. L'amante segua col cuore e con le parole un amoroso racconto e così allevi le ore.

Ora però c'è un detto cui voglio credere: l'animo innamorato quanto più si occupa di novelle d'amore, tanto più accresce la propria pena. E questo detto lo confermerei, se non fosse che vi contrasta una cosa: chi ha vero amore nel cuore, per quanto gli dolga, sempre vi rimane attaccato e quanto più lo brucia l'amoroso ardore, tanto più ama.

Questa pena è tanto piena di delizie, questo soffrire è così dilettoso che nessun cuore, il quale ne sia preso, vi si vuole sottrarre.

E' cosa certa come la morte e da questo stesso dolore lo riconosco, che il vero amatore ama le novelle amorose. Perciò chi desidera racconti d'amore non vada oltre, ma si fermi qui che io gli narrerò di nobili amanti che professarono puro amore; di due innamorati, un uomo e una donna, una donna e un uomo, Tristano, Isotta; Isotta, Tristano.

So bene che molti hanno raccontato la storia di Tristano, ma pochi l'hanno fatto con fedeltà. Se ora io facessi altrettanto e inoltre parlassi come dispiacendomi di ogni loro narrare intorno a questa saga, agirei diversamente da come debbo. Quindi non lo faccio: essi parlano bene e soltanto con nobili intenti e a vantaggio mio e del mondo, e quello che l'uomo fa con retta intenzione è ben fatto. Ma, come dissi, essi non hanno rettamente narrato e così fu in verità. Non hanno parlato come fece Tommaso di Britannia, il quale fu maestro di avventure e lesse nei libri brettoni la vita di tutti i nobili signori di cui ci ha dato notizia. Poiché egli rettamente narra la verità intorno a Tristano io cominciai a investigare diligentemente nei libri francesi e latini e a preoccuparmi molto di raccontare la sua storia secondo verità. Così cercai a lungo finché trovai un libro che narrava come fu questa avventura. La storia quindi di questo amore propongo a tutti i nobili cuori affinché ne abbiano svago e conforto. Buon per loro sarà il leggerla: buono?, sì, perché l'amore nobilita l'animo, rafforza la fedeltà, purifica la vita e può conferirle grande virtù, poiché ove l'uomo leale legga oppure oda narrare di così assoluta fedeltà, è indotto ad amare maggiormente questa virtù e tutte le altre. Amore, fedeltà e perseveranza, onore e molti altri beni non gli sono mai tanto cari come là dove si parla d'amore e per pena amorosa si piange.

L'amore è tale gaudio, tale gioiosa lotta, che senza il suo ammaestramento nessuno può avere virtù e onore. Dall'amore deriva altrettanta virtù quanta è la felicità che esso porta con sé.

Ahimè! Perché tutto ciò che ha vita non tende al vero amore? Perché io così pochi ne trovo che, soltanto a causa della lieve pena che talvolta sta nascosta nel cuore accanto all'amore, vogliano accettare il puro desiderio per un cuore amico? E come un animo nobile non vorrebbe sopportare di buona voglia un male per un bene mille volte maggiore e un disagio per averne molte gioie? Chi dall'amore non ebbe mai pene, dall'amore neppure ebbe mai gioia. Nell'amore gioia e dolore non andarono mai disgiunti; bisogna con essi guadagnare lode e onore oppure senza di essi perire. Se al cuore dei due amanti di cui parla questo racconto l'amore non avesse dato tormento, e la gioia del cuore doloroso desiderio, il nome e la storia loro non sarebbero mai giunti a tanti nobili cuori per loro conforto e salute.

E ancor oggi sempre dolce e nuova è la storia della loro perfetta fedeltà, il loro amore, la loro passione, la loro gioia, la loro pena; sebbene da lungo tempo siano morti, il loro dolce nome vive ancora e la loro morte deve restare viva a lungo e per sempre per il bene del mondo, ispirare fedeltà a chi di fedeltà è bramoso e onore a chi onore persegue; la loro morte deve sempre essere nuova vita a noi vivi; poiché udire narrare della loro fedeltà, della purezza di questa fedeltà, dell'amore e della pena del loro cuore, questo è alimento per tutti i cuori ed è così che la morte è viva. Noi ne leggiamo la vita, ne leggiamo la morte e questo ci è dolce come il pane.

La loro vita e la loro morte sono il nostro pane: così vive la loro vita, così vive la loro morte. Così essi vivono ancora pur essendo morti e la loro morte è pane ai viventi.

E chi ora voglia udir narrare la loro vita e la loro morte, la gioia e il dolore loro, questi porga orecchio e cuore e troverà appagato ogni suo desiderio. Viveva in Parmenia un cavaliere, di anni ancora fanciullo, secondo quanto ho letto, il quale era, come veracemente racconta la sua storia, per nascita e per territori pari a re e a principi, bello, di persona avvenente, leale, ardito, generoso e ricco. Per coloro ai quali voleva a suo tempo far piacere, il signore appariva come un sole che irradiasse gioia, una letizia per il mondo, un esempio per la cavalleria, un onore per la famiglia e una sicurezza per il paese.

Nessuna delle virtù che si addicono a un cavaliere gli faceva difetto; soltanto, egli voleva andare troppo lontano, abbandonarsi ai desideri del suo cuore e vivere solo secondo la sua volontà, onde più tardi gran male gli incolse.

Poiché così è e così fu in tutti i tempi, ché la giovinezza esuberante e la grande ricchezza conducono alla prepotenza. A pazientare, cosa che può fare anche un uomo di grande potenza, raramente egli si adattava: ricambiare il male col male, spiegare violenza contro violenza, a questo soltanto pensava.

Ora avviene sovente che un uomo, dandosi l'importanza di un Carlomagno, voglia rivalersi dei torti subìti; sa Iddio se, in molti casi, non debba invece transigere affinché non gliene venga gran danno.

Chi non sa sopportare alcun male ne incontra di maggiori: è questo un disgraziato destino; allo stesso modo anche l'orso, che vuol vendicare ogni piccola offesa, finisce con l'essere preso e a molti mali soggiace.

Mi pare che anche a Riwalin sia accaduto altrettanto, perché troppo voglioso di vendicarsi, tanto che male gliene incolse. Questo però non derivava da animo malvagio, dal quale tanti mali provengono, ma dalla sua inesperta fanciullezza la quale fu causa che nel suo impeto giovanile lottasse con tutto l'ardore di un giovane cavaliere contro la sua propria fortuna. Lo ingannò la giocosa età che fioriva nel suo cuore con tutta la sua prepotenza; egli faceva come tutti i fanciulli che raramente sogliono essere prudenti; di nulla si dava pensiero, ma si curava solo di vivere e soltanto vivere.

Da quando la sua vita ebbe principio e ascese come la stella del mattino e guardò il mondo sorridendo, egli sempre credette - il che mai si avverò - di poter vivere sempre così nella gioia vivente.

No, quest'alba della sua vita ebbe breve durata; il sole del mattino, la letizia della sua vita, aveva appena cominciato a splendere che cadde rapida la sera, a lui fino allora ignota, e spense la sua aurora.

La storia ci racconta, e le sue avventure lo provano, che Riwalin era il nome che gli si addiceva e Kanelengres il sopranome.

Molti credono che fosse di Lohnois e re di quella regione, ma Thomas ci assicura di aver letto nelle avventure che era di Parmenia e aveva un'altra terra in feudo da un signore brettone, il duca Morgan, del quale doveva esser suddito.

Ora Riwalin, già ricco di onori e da tre anni armato cavaliere, era già edotto di tutta la scienza della cavalleria e forte nel maneggio delle armi e possedeva beni, territori e sudditi. Non so se fosse per necessità o per baldanza che, come narrano le storie, egli attaccò Morgan, come se questi fosse stato in colpa. Mosse a cavallo e a mano armata contro di lui con tale violenza che espugnò molte città, le quali dovettero arrendersi e, volenti o nolenti, riscattare a caro prezzo vita e averi, finché egli venne così a possedere tale potenza e tale ricchezza che ovunque si volgesse poteva imporre la sua volontà.

Però spesso gliene venne male e perse molti uomini valorosi, poiché Morgan si difendeva e gli resisteva con le sue schiere e gli infliggeva gravi danni. Perché nella guerra, come nella cavalleria, si alternano vittoria e sconfitta e nel mestiere delle armi perdere e vincere è costume di guerra.

Morgan faceva altrettanto, gli distruggeva città e castelli e gli rapinava uomini e beni per quanto poteva; ma non riusciva a molto perché sempre Riwalin si prendeva la rivincita e lo metteva fuori combattimento con grave danno. E questo continuò sino a che alla fine Morgan non poté più resistere né in alcun modo salvarsi se non nelle sue fortezze migliori e più munite. Riwalin assediò anche queste e in accaniti combattimenti e battaglie sempre lo ricacciò indietro fino alla porta e sovente davanti a questa tenne tornei e brillanti tenzoni.

Così lo oppresse con la sua forza, mettendo il paese a ferro e fuoco finché il duca venne a patti e con fatica ottenne che gli fosse accordata una tregua di un anno e la pace tra loro venne conchiusa con garanzie e giuramenti come si conveniva.

Quindi Riwalin ritornò al suo paese ricco e contento, con i suoi fidi, e li ricompensò con mano generosa e tutti li arricchì lasciandoli ritornare alle loro case soddisfatti e con onore.

Riuscita questa impresa, non trascorse molto tempo che Kaneles si accinse per suo piacere a un'altra spedizione, e di nuovo si partì dalle sue terre con grandi ricchezze come suole esigerlo l'ambizione. Tutto ciò che poteva occorrergli per un anno fu portato a bordo di una nave. Sovente egli aveva udito raccontare quanto rinomato per dignità e cortesia fosse il giovane re Marco di Cornovaglia, il quale era tenuto in sommo onore e aveva sotto di sé la Cornovaglia e l'Inghilterra. La prima l'aveva per eredità e quanto all'Inghilterra le cose erano andate così: la possedeva fin da quando i Sassoni avevano scacciato i Britanni dal Galles, rimanendo signori del paese. Da loro era rimasto anche il nome alla terra che prima si chiamava Britannia e poi da quelli del Galles, Engelant.

Ora quelli che dominavano il paese e lo avevano in loro potere volevano tutti esserne signori e i piccoli re; e questa fu la loro sfortuna perché cominciarono a combattere e a uccidersi fra loro, tanto che alla fine misero se stessi e i loro domini sotto la protezione di re Marco: da allora egli governò così bene in tutti i campi che mai, in alcun regno, sovrano fu meglio obbedito. E le storie ci narrano che in tutti i paesi all'intorno che riconoscevano la sua autorità nessun re fu amato quanto lui.

Colà voleva andare Riwalin che pensava di rimanere un anno presso re Marco per apprendere da lui la disciplina e acquistare nuove cortesi virtù e affinare i suoi costumi. Il suo nobile cuore gli suggeriva che conoscendo gli usi di paesi stranieri, avrebbe potuto migliorare i propri e averne egli stesso rinomanza. Cominciò in questo modo: lasciò le sue genti e le sue terre in custodia al suo mariscalco, antico signore del paese, della cui lealtà era sicuro; Rual di Foitenant era il suo nome; quindi si imbarcò con soli dodici compagni; questi gli bastavano e non gliene occorrevano altri.

Quando a suo tempo arrivò in Cornovaglia, apprese, essendo ancora in mare, che Marco, il potente, era a Tintajoel, e volse allora la prora verso quella parte. Qui scese a terra e ivi lo trovò e di ciò si rallegrò molto; rivestì se stesso e i suoi riccamente e come a loro si addiceva e quando giunse alla corte, re Marco il cortese cortesemente lo ricevette, lui e il suo seguito. Riwalin ebbe colà tale accoglienza e tali onori come mai e in nessun luogo ne aveva avuto di simili. Molto ne godeva il suo animo e il viver cortese tanto gli piaceva, che spesso diceva fra sé:

"In fede mia, Dio stesso mi ha guidato fra questa gente; la mia buona fortuna mi ha favorito, tutto quello che ho udito delle virtù di re Marco è tutto vero, la sua vita è cortese e buona». Così egli aprì l'animo suo a Marco dicendogli per quale motivo fosse venuto.

Quando Marco ebbe appreso la sua storia e le sue intenzioni disse:

"Benvenuto tu sei e inviato da Dio. La mia vita e i miei beni e tutto quello che posseggo siano ai tuoi ordini".

Kanelengres stava contento a corte e la corte era tutta presa di lui; poveri e ricchi lo avevano caro e lo tenevano in onore e mai ospite fu più gradito. Ben lo meritava il valoroso Riwalin che era, e sapeva esserlo, pronto a ogni loro servizio con bontà e con amore e con animo amico.

Così egli viveva nell'onore e nella vera bontà in cui, come nelle altre virtù, ogni giorno progrediva, finché giunse la grande festa di re Marco alla quale, per invito e per ordine, conveniva gran folla di gente. Una volta all'anno, al suo messaggio subito accorrevano alla Cornovaglia i cavalieri del regno d'Inghilterra, conducendo con sé grande schiera di belle dame e grande magnificenza.

Fu deciso di tenere i festeggiamenti durante le quattro fiorite settimane quando ha principio il dolce mese di maggio sin dove esso ha fine, e di riunire gli invitati a Tintajoel su verdi prati nel più bel luogo che occhio abbia mai veduto. La dolce e soave stagione vi aveva profuso i suoi tesori con mano generosa; gli uccellini del bosco, che sono la gioia dell'orecchio, fiori, erbe e fronde e tutto quello che rallegra l'occhio e i cuori gentili, di ciò era piena l'estiva campagna. Vi si trovava tutto quello che si voleva che il maggio portasse: ombre a riparo del sole, i tigli presso alle fontane, i soavi e miti zeffiri che si inchinavano cortesemente alla nobile compagnia di re Marco. Sorridevano i variopinti fiorellini dall'erba rorida. Il verde prato, l'amico del maggio, si era fatto una splendida veste estiva che si rispecchiava negli occhi dei nobili invitati. Gli alberi in fiore sorridevano così dolcemente a chi li mirava che anima e cuore si volgevano con aperta gioia alla ridente fiorita e tutti le rendevano il riso. Il dolce canto degli uccelli, così soave e bello, che tanto sollievo dà all'orecchio e all'animo, riempiva tutta l'aria dal monte al piano. Il felice usignolo, che sempre sia benedetto, gorgheggiava dai rami fioriti con tale slancio che infondeva gioia e coraggio in molti nobili cuori.

L'allegra brigata si era gaiamente adagiata sulla verde erbetta, ciascuno a suo agio. E si erano disposti, secondo il loro piacere, i ricchi sontuosamente, la gente di corte con decoro, qui gli uni sotto tende di seta, là gli altri tra i fiori. I tigli offrivano ampio riparo e molti stavano nascosti fra le loro verdi fronde. Mai ospiti e cortigiani furono più splendidamente albergati. Qui, com'è costume nelle grandi festività, si trovava gran dovizia di cibi e di ricche vesti, di cui ciascuno poteva usare a suo piacere, avendo re Marco avuto cura con grande larghezza che tutti vivessero nell'abbondanza e fossero felici.

Così ebbe inizio la festa e chi era invogliato a guardare lo poteva fare, perché il luogo vi si prestava mirabilmente. Si poteva vedere a proprio agio e come si voleva: questi venivano per ammirare le dame, quelli per vedere le danze, chi guardava torneare e chi giostrare, il desiderio ovunque si volgesse veniva soddisfatto, poiché quanti erano presenti in giovanile età gioconda si industriavano tutti per rallegrare la festa e accrescere l'allegria. E re Marco, il cortese e il buono, pur non avendo a fianco altra femminile beltà, aveva una rara meraviglia in sua sorella Blancheflur, una fanciulla che mai più bella fu veduta ivi o altrove. Di lei si diceva che non vi era uomo che l'avesse guardata con occhio devoto senza che in lui crescesse l'amore per la donna e per la virtù.

La gioia degli occhi, il bel paesaggio, rendeva anche molti giovani arditi e baldi e molti nobili cuori coraggiosi. Inoltre si trovavano sul prato varie belle dame, ciascuna delle quali meritava di essere vera regina di bellezza; esse pure portavano animazione e gioia a tutti i convenuti e rallegravano i cuori. Allora cominciò il torneo della gente di corte e anche dei forestieri: i più degni e i migliori cavalcavano liberamente qua e là; c'erano anche il prode re Marco e il suo compagno Riwalin con altri suoi fidi che si industriavano di dimostrarsi tali da essere degni di lode e da confermare quindi la loro fama. C'erano anche destrieri coperti di zendado e di pelli, con gualdrappe alcune bianche come neve, altre gialle, brune, rosse, verdi o azzurre, finemente tessute in bella seta oppure traforate in molte guise, ricamate e ornate e in tanti modi guarnite. I cavalieri portavano vesti meravigliosamente ritagliate e traforate con grande arte.

Anche la stagione estiva era palesemente in favore di re Marco, poiché si potevano ammirare in quel ritrovo molte bellissime corone di fiori che essa gli recava in omaggio.

In questa dolce piena estate si tennero varie belle tenzoni: le schiere spesso si scontravano, si sospingevano qua e là, tanto che giostrando giunsero fin dove Blancheflur, la gentile, questa meraviglia della terra, stava con molte altre belle dame a guardare lo spettacolo; poiché essi cavalcavano con tale maestria, con tanta regale dignità che ogni occhio ne godeva. Ma le gesta migliori le compié Riwalin il cortese, che in quel giorno e in quel luogo sembrava davvero destinato a superare tutti. Ben lo notarono le dame, le quali andavano dicendo che in tutte le schiere nessuno si comportava con tanto cortese decoro, nessuno cavalcava con altrettanta grazia; e tutte lodavano in lui l'arte del combattere.

"Vedete - dicevano -, questo giovane è uomo avventurato, vedete come tutto quello che intraprende è degno di lui, come perfetta è la sua persona, come armoniosa e nobile ogni sua movenza! Come sempre saldo regge lo scudo, come gli si addice la spada in mano! Come ben gli si adattano le sue vesti e come porta bene il capo e la chioma, e come piacevole è tutto il suo fare e quanto dilettosa la sua persona. Beata l'avventurata donna che da lui avrà gioia!".

Blancheflur, la buona, si rese conto della loro inclinazione poiché pure lei teneva Riwalin in altrettanto pregio; lo aveva accolto nel suo animo ed egli le era entrato nel cuore dove imperava con scettro e corona. Ma essa teneva tutto ciò così ben segreto che rimaneva a tutti nascosto.

Allorquando i giochi d'arme ebbero termine e i combattenti si dispersero, dirigendosi ognuno secondo il proprio gradimento, accadde che per avventura Riwalin ritornasse là dove sedeva Blancheflur la bella. Subito con un balzo dal cavallo le fu vicino e guardandola negli occhi le disse molto cortesemente:

"A dê vus sal la bele".

"Merzî"

disse la pulzella, e aggiunse modestamente:

"Iddio munifico che tutti i cuori ricolma, colmi di doni a voi pure l'anima e il cuore. E siano rese a voi grandi grazie, senza rinunzia però all'ammenda che a buon diritto devo esigere da voi".

"Ohimè, dolce Signora, che cosa ho mai fatto?", chiese Riwalin il cortese. Essa rispose:

"A un mio amico, il migliore che io abbia, voi avete recato danno".

"Dio mio - pensò egli tra sé -, che storia è questa? o che cosa ho commesso che possa esserle dispiaciuto? Di che cosa mi incolpa?".

E pensò di avere involontariamente offeso nel torneo qualche amico di lei onde essa ne fosse contristata e irritata contro di lui.
Ma no, l'amico che lei intendeva era il suo cuore che per causa di lui soffriva; questo era l'amico di cui parlava. Ma egli non la comprendeva e con la sua grazia abituale e con grande cortesia le si rivolse:

"Madonna, io non voglio che voi mi portiate odio o malvolere, perciò se è vero quanto mi dite, pronunciate voi stessa giudizio su di me; quello che voi comanderete io lo farò".

La dolce fanciulla parlò e disse:

"Per l'offesa non vi odio troppo, né per essa troppo vi amo. Vi metterò perciò meglio alla prova con la soddisfazione che mi darete per quello che avete fatto".

Al che egli si inchinò per andarsene e lei, la bella, vedendo ciò sospirò segretamente ed esclamò dal profondo del cuore:
"O amico diletto, Dio ti benedica!".

Solo allora cominciarono i loro pensieri a corrispondersi.
Kanelengres si allontanò cogitabondo, ricercando ansiosamente di che cosa si dolesse Blanchefiur e di quale storia si trattasse mai. Ripensava il suo saluto, le sue parole, considerando a parte il suo sospiro, la benedizione, tutta la sua condotta e quindi venne a riguardare il suo sospiro e la sua dolce benedizione come un avvio all'amore; giunse così alla convinzione che ambedue non altro che dall'amore potessero provenire. Questo infiammò anche tutti i suoi sensi i quali andarono e presero Blancheflur e la condussero immantinente nel regno del cuore di Riwalin e colà la incoronarono sua regina.

Sì, Blancheflur e Riwalin, il re e la dolce regina, si scambiarono il regno del loro cuore: quello di Blancheflur seguiva Riwalin e quello di lui obbediva a lei eppure nessuno di loro sapeva dell'altro. Essi avevano reciprocamente scambiato i loro pensieri unendoli insieme. Ora il diritto aveva affermato le sue buone ragioni, poiché ella gli stava nel cuore con la stessa pena che ella aveva per causa di lui. E poiché egli non era sicuro della disposizione dell'animo di lei né se essa agisse per amore o per odio, la sua mente oscillava nel dubbio e i suoi pensieri erravano qua e là. Ora egli voleva fuggirsene subito e ora subito voleva ritornare e così si impigliava nei lacci del suo proprio pensiero e non poteva svincolarsene.

L'innamorato Riwalin esperimentò in se stesso come l'amante somigli all'uccellino di bosco, il quale nel suo libero volo si posa sul ramo invischiato e quando si accorge del vischio e sta per alzarsi in volo, vi rimane attaccato per le zampine: vorrebbe allora fuggire e agita le penne, ma dovunque con esse tocchi il ramo resta impigliato e prigioniero; si sbatte allora su e giù con tutte le sue forze e in ogni senso e alla fine resta vinto nella lotta contro se stesso e giace invischiato sul ramo.

Nella stessa maniera agisce l'animo giovanile incontrollato: quando viene in amoroso desiderio, l'amore opera in lui i suoi portenti con desioso affanno; allora egli vorrebbe riconquistare la sua libertà, ma lo trattiene la dolcezza dell'amoroso vischio ed egli vi resta talmente intricato che non può più in alcun modo liberarsene.

Così accadde anche a Riwalin; i suoi pensieri si erano impigliati nell'amore della regina del suo cuore; questo smarrimento della sua mente lo aveva indotto in uno strano inganno, non sapendo se essa fosse male o ben disposta verso di lui e mossa da odio o da amore. Speranza e dubbio se lo disputavano senza posa. L'amore gli suggeriva speranza, ma il dubbio suggeriva odio e in questo contrasto egli non poteva fermare l'animo né sull'una né sull'altro; così i suoi sentimenti ondeggiavano sempre nell'incertezza; la speranza lo sospingeva e il dubbio lo tratteneva e fra questi due non c'era tregua, tanto erano tra loro confusi. Veniva il dubbio e gli diceva che la sua Blancheflur lo aveva in dispregio ed egli allora avrebbe voluto fuggirsene via, ma subito dopo la speranza lo incoraggiava nella dolce illusione d'amore ed ecco che abbandonava ogni idea di fuga. In questa lotta non sapeva da quale parte volgersi: quanto più strenuamente combatteva, tanto più lo soggiogava l'amore e quanto più cercava di fuggire, tanto più l'amore lo richiamava indietro. E il tormento continuò così finché la speranza vinse e debellò il dubbio; Riwalin fu fatto certo dell'amore di Blancheflur e da allora in poi, tutti i suoi pensieri e tutti i suoi affetti furono concentrati in lei e nessun potere contrario valse più.

Ora che il dolce amore aveva volto alla propria volontà cuore e animo di Riwalin, egli non avrebbe creduto che al vero amore si potesse accompagnare tanta amarezza. Riflettendo alla sua vita e riandando a tutta la sua avventura con Blancheflur, la rivide in pensiero, ne considerò tratto per tratto i capelli, la fronte, il mento e la bocca, le gote e la gaudiosa luce che come il riso di un dì di Pasqua le rideva negli occhi; allora Amore, questo incendiario, accese in lui il fuoco del desiderio che cominciò ad ardere anche nel suo cuore. Gli fu subito manifesto quale fosse la fatica d'amore, poiché entrò in una nuova vita. Allorché questa nuova vita gli si rivelò, egli mutò pensieri e costumi e divenne un uomo tutto diverso, poiché tutto quello che ora cominciava a fare era misto di stranezza e di oscurità. I suoi sensi innati erano dall'amore fatti così disordinati e confusi come se non fossero in suo potere. La sua vita perse ogni allegro sorriso, egli si allontanò da tutti gli svaghi che era solito frequentare. Silenzio e malinconia occuparono la maggior parte della sua vita, l'animo suo essendo tutto rapito nell'amoroso affanno.

Anche l'innamorata Blancheflur non sfuggì al medesimo destino, oppressa anche lei dallo stesso male che egli provava per causa di lei. L'onnipotenza dell'amore invadendo violentemente anche l'animo suo le aveva rapito ogni tranquillità e faceva che si sentisse in disaccordo con se stessa e col mondo. Gli svaghi e i giochi che prima aveva cari le erano ora di peso e la sua vita si uniformava alla tristezza che le gravava sul cuore.

E questo travaglio lo soffriva senza capire da dove venisse, poiché mai prima di allora aveva saputo che cosa fosse tale dolore e tale pena di cuore. E sovente diceva tra sé:

"Ahimè, Signore Iddio, che vita è ormai la mia! Ma che cosa mi è dunque avvenuto? Io ho pure incontrato molti uomini senza che da essi mi venisse alcun male, ma da quando mi avvenne di vedere lui, il mio cuore non è più stato libero e lieto come lo era prima. Vederlo è cosa che mi ha procurato grande afflizione. Il mio cuore cui prima era ignoto il dolore, ora ne è devastato; egli mi ha cambiata, anima e corpo. Se anche ad altre donne, al vederlo e udirlo, dovesse accadere quello che accadde a me, e ciò per una tendenza in lui innata, quanta bellezza andrebbe sprecata per colpa della sua vana vita! Se però egli dalla magia apprese ogni sorta di incantesimi donde mi venne questo strano male, allora meglio sarebbe se fosse morto e nessuna donna dovesse mai più vederlo. Mio Dio, che gran soffrire mi è venuto da lui! In verità, io non ho mai guardato né lui né alcun altro con occhio malevolo e neppure ho mai odiato alcuno; come dunque ho meritato che tanto male mi venga da uno che guardo con occhio benigno? Ma perché rimprovero quest'uomo giusto? Egli forse è senza colpa e Dio sa se le pene che io soffro per lui non siano invece dovute soltanto al mio proprio cuore? Molti uomini ho veduto e che colpa ne ha egli, se l'animo mio si è fermato su di lui piuttosto che su di un altro? Da varie nobili dame ho udito magnificare il suo regale aspetto e le sue cortesi maniere, e rimandarsi le sue lodi come una palla e io stessa con i miei occhi e nel mio cuore ho potuto constatare la verità d'ogni virtù che si diceva di lui, sìcché l'animo mio ne è restato ammaliato e il mio cuore conquistato. Invero è questo che mi ha abbagliata, questo l'incantesimo che mi ha fatto smarrire il senno. Non lui mi ha fatto alcun torto, non l'uomo amato che accuso, ma è l'animo mio stolto e mal guidato che è causa del mio male e che fortemente vuole quello che non dovrebbe volere se consultasse l'onore e il buon diritto, e ora altro non vede che il proprio desiderio in questa dilettosa persona di cui tanto e così subitamente si è preso. E, Dio lo sa, se non devo vergognarmi della parola per il mio buon nome di fanciulla, mi pare che questa pena che porto nel cuore non sia altro che amore. Sento desiderio di stargli continuamente vicina e questo nuovo sentimento che nasce in me si può solo interpretare con le parole "amore" e "sposo". Quello che ho potuto apprendere intorno all'amore e che ho udito narrare di donne innamorate ha ora preso anche il mio cuore con il dolce affanno che tanti nobili cuori tormenta".

Quando la cortese e buona damigella fu convinta nell'animo suo (secondo il costume di tutti gli amanti) che il suo amico Riwalin sarebbe stato la gioia del suo cuore, il suo maggior conforto, la sua vita migliore, cominciò a levare gli occhi su di lui e a rimirarlo ogni qual volta le era possibile, per quanto lo permettesse il buon costume. Lo salutava segretamente con dolci sguardi e lo seguiva spesso e a lungo con occhio innamorato.

L'amico suo cominciò ad accorgersene e allora si accrebbero anche il suo amore e il conforto che trovava in lei e il suo cuore si infiammò di desiderio e rimirò l'amata con sguardi più arditi e più dolci di quanto avesse fatto sino allora, salutandola egli pure con gli occhi ogni volta che ne aveva il destro.

Allorché la bella fu sicura che egli l'amava come lei amava lui, tutta la sua pena svanì, poiché essa aveva sempre temuto che egli non avesse affetto per lei; ora invece riconobbe che l'amico suo le era incline come l'amore lo è all'amore. Lo stesso egli sapeva di lei e ciò infiammava i desideri di entrambi e allora cominciarono scambievolmente a intendersi e ad amarsi con tutto il cuore. Avvenne quindi a loro come si suol dire: che quando l'amante guarda negli occhi l'amato il fuoco d'amore è un tributo che va sempre crescendo.

Ora, finiti i festeggiamenti di re Marco e congedati i nobili cavalieri, giunse al re notizia che un suo nemico muoveva contro di lui a mano armata con tali forze che qualora non lo si fosse subito fermato avrebbe ben presto devastato tutto il paese fin dove potesse arrivare. Immediatamente Marco radunò un grande esercito e assalì i nemici con grandi forze, li debellò e uccise o fece prigionieri tanti dei loro uomini che fu un miracolo se qualcuno si poté salvare.

Il nobile Riwalin fu ferito di spada nel fianco così gravemente che i suoi lo portarono senza indugio e con grande cordoglio quasi morente a Tintajoel e là lo deposero. Subito si sparse la nuova che Kanelengres era ferito a morte e ucciso in battaglia: ne fu fatto grande lamento alla corte e in tutto il paese.

Tutti coloro che conoscevano le sue virtù lamentavano di cuore la sua sorte e rimpiangevano che il suo valore, la sua bella persona, la sua dolce giovinezza, la lodata gravità del suo contegno dovessero così presto andar perduti con lui e avere una fine così precoce. Il suo amico re Marco lo pianse e mai per nessun altro aveva fatto tale duolo. Lo piansero molte nobili donne, molte dame lamentarono la sua persona e tutte quelle che l'avevano prima conosciuto erano mosse a pietà della sua mala sorte. Ma per grande che fosse il loro dolore, una fra queste vi era, la donna sua, la cortese, pura e buona Blancheflur, la quale costantemente con le lacrime e col cuore lamentava le sofferenze del suo diletto e quando era sola e dava sfogo al suo dolore si colpiva con le mani e si batteva ripetutamente il petto; proprio là dove il cuore le doleva la bella si dava ripetuti colpi. Così la soave damigella affliggeva il suo dolce e giovane corpo con tale doloroso impeto che avrebbe accettato qualunque altra morte, in cambio di quella vita, pur di non morire per amore. Essa sarebbe certamente perita e morta di dolore se non avesse avuto conforto nella speranza di poter vedere il suo amato, comunque ciò potesse farsi. In tal caso avrebbe sofferto volentieri qualsiasi cosa le potesse poi accadere. Così trascorreva la sua vita finché cominciò a ritornare in sé e a riflettere come fare per vederlo e quindi lenire il suo male.

Allora si rammentò di una sua aja che sempre in tutte le circostanze l'aveva tenuta sotto la sua direzione e la sua cura e l'aveva sempre protetta. La prese da parte e la condusse dove non c'era alcuno all'infuori di loro due e cominciò a raccontare della sua pena, come fanno e hanno sempre fatto quelli che sono nelle medesime condizioni: i suoi occhi versavano lacrime che cadevano fitte e abbondanti sulle sue chiare gote; ella tese davanti a sé le mani giunte:

"Ah, vita mia - disse - ah, vita mia! ohimè, aja diletta, dammi ora prova della tua devozione che è così grande e meravigliosa: e poiché tu mi sei così fedele che ogni mia salvezza e ogni mio consiglio dal tuo solo dipendono, così confido ora la pena del mio cuore alla tua bontà: se tu non mi aiuti sono perduta".

"Orsù, madonna, qual è la vostra pena e il motivo del vostro doloroso lamento?".

"Ahimè, mia cara, come posso dirtelo?".

"Ma sì, diletta signora, parlate".

"Io muoio per quest'uomo mortalmente ferito, Riwalin di Parmenia. Bramo tanto vederlo, se ciò fosse possibile e se sapessi come riuscirci prima che davvero egli muoia; poiché purtroppo egli non potrà guarire, se mi aiuterai io non ti rifiuterò mai nulla finché avrò vita".

L'aja pensò:

"Se acconsento che male ne può venire? Poiché quest'uomo già mezzo morto morirà certamente domani o oggi stesso: così io avrò conservato alla mia signora vita e onore e le resterò sempre più cara di qualunque altra donna".

"Diletta signora - disse - cara vita mia, il vostro dolore mi va al cuore e se con la mia vita io posso stornare il vostro travaglio non dubitate di me. Io stessa mi recherò da lui, lo vedrò e ritornerò subito; devo conoscere il luogo in cui si trova e rendermi conto anche delle persone".

Così ci andò, fingendo di volerlo confortare per il suo male e intanto gli disse segretamente che la sua signora desiderava vederlo, secondo onore e con ogni onestà, se egli volesse permetterlo. Quindi se ne ritornò con la risposta. Prese la fanciulla e le mise una povera veste da mendicante, coprì la bellezza del suo volto con fitti veli, poi la prese per mano e la guidò a Riwalin. Egli pure aveva congedato tutti i suoi dicendo di aver bisogno di solitudine e di tranquillità ed era rimasto solo. L'aja poi dichiarò che conduceva con sé una medichessa e così ottenne che la lasciassero entrare presso di lui. Allora essa chiuse il chiavistello e disse:
"Ora, madonna, guardatelo"

. E lei, la bella, gli si avvicinò e quando lo ebbe visto:

"Ahimè esclamò - e sempre ahimè! ahimè non fossi mai nata, com'è ridotto il conforto mio!".

Riwalin le si inchinò con grande fatica come può fare un uomo ferito a morte, ma questo a lei poco importava e neppure se ne accorse, ma si sedette senz'altro accanto a lui, accostò la gota alla sua finché per l'amore e insieme per il dolore le forze la abbandonarono. La sua rosea bocca si sbiancò, il suo volto perse il bel colore che prima aveva; ai suoi chiari occhi il giorno divenne fosco e oscuro come la notte. Così giacque a lungo priva di sensi con la guancia contro quella di lui, come se fosse morta. Quando si riebbe alquanto da questo deliquio, si prese l'amato fra le braccia e mise la sua bocca su quella di lui e lo baciò mille volte in una sola ora, finché la sua bocca diede a lui forza d'amore e gli infiammò i sensi, poiché là dentro vi era amore: la sua bocca lo riempiva di gioia, la sua bocca gli diede tale energia che egli allacciò strettamente la regale fanciulla al suo corpo già per metà morto. Quindi non durò a lungo finché la volontà di ambedue cedette e la dolcissima donna concepì da lui un figlio. Per l'amore della sua donna egli fu vicino a morire; se Iddio non lo avesse salvato egli mai avrebbe potuto risanare. Invece guarì perché così doveva essere.

Fu così che Riwalin guarì e Blancheflur, la bella, fu da lui insieme liberata e gravata da due diversi dolori di cuore: essa fu libera dalla grande tribolazione per lui, ma ne riportò una ancora maggiore; lasciò il doloroso desiderio del cuore e si riportò indietro la morte... con l'amore lasciò la pena e col figlio acquistò la morte. E tuttavia, comunque fosse, in qualsiasi maniera essa fosse da lui liberata o gravata sia da bene come da male, pure altro non vedeva che il diletto amore e l'uomo amato. Non si curava né del bambino che portava in seno né del pericolo di morte: altro non sapeva che amore e sposo e faceva come deve fare chi vive e come fa chi ama; il suo cuore, l'animo suo, il suo desiderio non erano rivolti che a Riwalin, come anche il pensiero di lui a lei sola e al suo amore era rivolto. L'animo loro aveva un solo amore, una unica brama: egli era lei, essa era lui, egli era suo, ella sua. Se qui vi era Blancheflur, qui era anche Riwalin; se là vi era Riwalin, là era anche Blancheflur, dove erano entrambi vi era leal amur; la loro era un'unica vita; essi erano felici l'uno nell'altro, elevavano il loro spirito con molte comuni gioie e quando potevano convenientemente restare soli in un luogo, la loro felicità era piena e tanto dolce che non avrebbero scambiato la loro vita neppure per mille regni.

Ma tutto questo fu di breve durata, poiché ben presto e quando più godevano la vita secondo il loro desiderio, vennero a Riwalin dei messi con la notizia che il suo nemico Morgan aveva ancora una volta invaso il paese con grandi forze. A questa nuova fu subito allestita una nave per Riwalin, e imbarcatovi tutto l'occorrente, provviste e cavalli, tutto fu presto pronto per la partenza.

Dal momento in cui l'amorosa Blancheflur apprese dal diletto sposo la triste novella ebbe principio il suo tormento. Dal dolore rimase senza vista e senza udito e il suo corpo restò senza vita come se fosse morta; dalla sua bocca altro suono non uscì se non la triste parola ahimè!. Soltanto questo e null'altro diceva.

"Ahimè! - ripeteva sempre - ahimè, amore, ahimè, sposo mio! Qual grande travaglio mi avete procurato! Amore, infelicità del mondo tutto! Così brevi gioie tu dài! tanto instabile sei! Che cosa ama in te il mondo? Ben vedo che tu lo ricompensi come suol fare il falso di cuore. La tua fine non è così bella come la prometti al mondo quando lo seduci dapprima con breve gioia e poi lungo dolore. La traditrice illusione che si culla in così falsa dolcezza inganna tutti i viventi, e ciò è ben manifesto in me: da ciò che doveva formare tutta la mia gioia non ne ho ricavato che mortale ambascia di cuore: il mio conforto se ne va e mi abbandona qui!".

In mezzo a questo doloroso lamento venne a lei il suo fido compagno Riwalin col pianto nel cuore per prendere congedo:

"Madonna - disse - datemi licenza; ho il dovere e l'obbligo di partire; voi, o bella, deve guardarvi Iddio! Possiate sempre essere sana e felice"

. E di nuovo lei venne meno dal dolore e cadde davanti a lui come morta nelle braccia dell'aja.

Quando il suo fido amico vide un così gran dolore nella sua diletta le fu subito fedele compagno poiché ne condivise fin in fondo la sofferenza. Il colore e la forza cominciarono ad abbandonare il suo corpo; con grande tristezza le si sedette a lato e a malapena poté riaversi tanto da prendere tra le braccia la donna dolente e stringerla dolcemente a sé; la baciò sulla bocca, sugli occhi, sulle guance, sino a che alla fine essa un po' alla volta ritornò in sé e poté sollevarsi e stare diritta.

Allorché Blancheflur ebbe ripreso i sensi, vide l'amico suo presso di sé, lo rimirò con grande tristezza:

"Oh - disse diletto mio, quanto male ho avuto per causa vostra! Signore, perché mai vi ho conosciuto se dovevo averne poi tanti palpiti dolorosi quanti ne sopporta il mio cuore per voi! Se mi fosse lecito dirvi tutto, agireste meglio e più amabilmente verso di me. Signore e amico, io ho sofferto da voi molti mali e particolarmente tre che sono mortali e inevitabili: l'uno è che porto un bambino che non spero di poter dare alla luce, a meno che Iddio non mi venga in aiuto; l'altro è ancora più grande: quando il mio signore e fratello apprenderà questa mia sventura e con questa il suo proprio disonore, mi condannerà e mi farà miseramente morire; il terzo male è il più grave di tutti e molto peggiore che la morte: io so bene che se anche tutto andasse bene e mio fratello mi lasciasse vivere senza uccidermi, però certamente mi diserediterà e mi toglierà beni e onore così che sarò sempre in dispregio a tutti e in cattiva fama. Inoltre dovrò allevare il mio bambino, lui che pure ha un padre vivente, senza l'aiuto e il consiglio paterno. Tuttavia non mi lamenterei se potessi portare l'onta da sola e ne andassero liberi e con onore la mia nobile famiglia e il mio nobile fratello. Ma se si diffonde la notizia che io abbia concepito un figlio illegalmente, questo sarebbe una pubblica vergogna per la Cornovaglia e l'Inghilterra. E guai se accade che si ritenga che per colpa mia due paesi vengano diffamati e avviliti, allora meglio per me sarebbe essere morta. Vedete mio signore continuò essa -, questa è la pena, questa è la continua angoscia di cuore della quale pur vivendo muoio ogni giorno. Signore, se non mi aiutate e se Iddio non destina altrimenti non avrò più bene nella vita".

"Madonna - rispose egli -, se voi avete sofferto per me io lo sconterò come meglio posso e anche adesso vi difenderò in modo che per colpa mia non abbiate più tribolazioni né possano sorgere calunnie. Qualsiasi cosa possa in futuro accadere, io ho veduto con voi giorni così felici che non sarebbe giusto se doveste, me consenziente, sopportare anche la minima pena. Madonna, voglio dirvi tutto il mio cuore e tutto l'animo mio, dolore e gioia, bene e male e tutto quello che in me avviene: in nulla di questo mi ritiro, per quanto grave possa essere e vi starò sempre a fianco: vi do la scelta fra due vie; decida il vostro cuore se io devo rimanere o partire. Ora riflettete se volete che io rimanga qui e veda come si svolge la vostra ventura, allora così sia fatto. Se voi invece vi degnate di venire via nel mio paese con me, io stesso e tutto quello che ho siamo ai vostri ordini; mi avete dato tanta felicità che devo ricambiarla con ogni sorta di bene. Qualunque sia il vostro desiderio, madonna, fatemelo conoscere, poiché quello che volete voi lo voglio io pure".

"Grazie, signore - disse allora lei - voi parlate e mi fate offerte in modo che Dio deve compensarvelo e che dovrò sempre seguire volentieri i vostri passi. Amico e signore, sapete bene che qui non vi può essere dimora per me. Purtroppo non posso nascondere la mia angoscia per il mio bambino altro che cercando di andarmene segretamente: questo sarebbe il miglior consiglio nelle circostanze in cui mi trovo; amico e signore, assistetemi in questo".

"Ebbene, madonna - disse egli - ascoltatemi: questa sera quando mi imbarcherò fate in modo di trovarvi colà di nascosto prima di me, in modo che io dopo aver preso licenza vi trovi là con la mia gente; fate questo e così sia"

. Con queste parole Riwalin se ne andò da re Marco e gli narrò quello che i suoi messi gli avevano riferito intorno alla sua gente e al suo paese. Prese allora licenza da lui e quindi da tutti i suoi. Questi fecero lamento per Riwalin quale egli mai aveva veduto fare per alcuno: fu accompagnato da molte benedizioni che Dio prendesse sotto la sua protezione il suo onore e la sua vita. Ora quando cominciò a scendere la notte ed egli giunse alla sua nave e vi fece portare le sue robe, vi trovò la sua signora, la bella Blancheflur. Così la nave salpò ed essi se ne partirono di là.

Quando Riwalin arrivò al suo paese e si rese conto del grande danno che Morgan gli aveva inferto con forze superiori, chiamò il suo mariscalco del quale conosceva la fedeltà e in cui riponeva ogni fiducia, colui che si curava del suo prestigio sulla sua gente e sul suo paese: questi era Rual li Foitenant, sostegno dell'onore e della fedeltà, che mai in ciò aveva vacillato. Questi, cui tutto era ben noto, gli disse quale calamità si era abbattuta sul paese.

"Eppure - aggiunse - poiché per nostro conforto siete venuto in tempo e Dio vi ha rimandato a noi, così a tutto vi sarà rimedio e potremo ancora salvarci; dobbiamo solo essere di buon animo; ormai non c'è più ragione di temere"

. Allora Riwalin gli raccontò la dolce avventura con la sua Blancheflur ed egli molto se ne rallegrò.

"Ben mi accorgo, signore - disse - che il vostro onore cresce in tutti i modi e la vostra dignità, il vostro valore, la vostra gioia e la vostra felicità salgono come il sole. Non potete sulla terra acquistarvi da una donna fama maggiore che da lei. Perciò, signore, ascoltatemi: se essa vi ha fatto del bene, dovete lasciargliene godere la ricompensa. Appena avremo condotto a termine questa impresa e stornato da noi questo malanno che ora ci incombe, preparate una grande festa, ricca e sontuosa, e prendetela pubblicamente in matrimonio davanti a parenti e famigli; e anzi vi consiglio che ancora prima vogliate contrarre il matrimonio in chiesa secondo l'uso cristiano, che lo vedano sacerdoti e laici: in questo modo onorate voi stesso e siete sicuro che le vostre imprese riusciranno sempre con fortuna a vostro onore".

Così fu fatto e tutto compiuto; e quando la ebbe presa in moglie la affidò in quella stessa ora al fedele Foitenant. Questi la condusse a Kanoel nel castello medesimo dal quale, come ho letto nei libri, il suo padrone aveva derivato il nome di Kanelengres, Kanel da Kanoel. In questo medesimo castello viveva anche la moglie di Rual, donna che per aspetto e animo avrebbe fatto onore al mondo. A essa egli raccomandò Blancheflur e procurò che fosse alloggiata come lo comportava il suo nome.

Quando Rual ritornò al suo signore ambedue si consigliarono fra loro intorno al pericolo in cui si trovavano. Mandarono in tutto il paese e riunirono tutta la cavalleria e impiegarono ogni loro sforzo soltanto per la difesa. Così mossero a cavallo contro il sire Morgan. Erano attesi fermamente da lui e dai suoi che ricevettero Riwalin con duro combattimento. Ahi! Quanti buoni garzoni furono là abbattuti e uccisi! Quanto pochi furono risparmiati. Quanti uomini vennero a rovina da ambedue le parti e quanti giacquero morti e feriti! E in questa calamitosa battaglia venne ucciso anche Riwalin, l'eroe degno di ogni rimpianto, che tutto il mondo dovrebbe piangere, se dopo la morte giovasse ancora il doloroso lamento.

Kanelengres il buono, che per animo cavalleresco e per virtù di principe non stava neppure di mezzo passo indietro ad alcuno, giaceva ora miseramente morto. Pure in questo triste frangente vennero i suoi e lo portarono fuori dalla mischia con grande fatica e profondo cordoglio e gli diedero sepoltura come a eroe che portava con sé nella tomba né più né meno che tutto il loro onore.

Se ora io parlassi a lungo del loro cordoglio e del loro rammarico e di come ognuno lo pianse, a che cosa servirebbe? Con lui erano tutti morti agli onori e alla bontà e a tutto quell'animoso slancio che dovrebbe dare ai buoni fortuna e vita felice.

Così è stato e così deve essere: il prode Riwalin ormai è morto e altro non vi è più da fare per lui che quello che di diritto spetta a un morto. Null'altro vale: è d'uopo rinunciare a lui e così si deve; Dio che non dimentica i nobili cuori, lo abbia nella sua custodia.

Quanto a noi, dobbiamo continuare a dire di Blancheflur e di quello che avvenne di lei. Quando la bella apprese la ferale notizia, che ne fu del suo cuore? Fa', o Signore Iddio, che mai nulla di simile ci accada! Io sono sicuro che per quante mortali pene per l'uomo amato possa aver contenuto un cuore di donna, esse tutte erano anche nel cuore di lei, pieno di mortale affanno. A tutto il mondo fu manifesto quanto la morte di lui le andasse al cuore. Tuttavia, mai in tutto questo tempo gli occhi suoi si inumidirono di lagrime. Come mai poté avvenire questo, Signore Iddio, che ella non piangesse? Il suo cuore era impietrito, non c'era in esso più nulla di vivo, se non l'amore vivente e il vivissimo dolore che vivamente lottava con la sua vita.

Ma faceva lei lamento con parole per il suo sposo? Non già. Nello stesso istante era rimasta ammutolita e il lamento era morto sulle sue labbra; la lingua, la bocca, il cuore, il senno, tutto era come perduto. La bella non si lamentava più, non gemeva né diceva parola. Lentamente cadde e giacque nelle doglie fino al quarto giorno, più misera che donna fu mai, rivolgendo e contorcendo il suo corpo in tutti i sensi, finché con grande fatica diede alla luce un fantolino.

Ed ecco: egli fu salvo e lei morì.

O triste vista, quando dopo triste ventura con ancor più triste tristezza si vede spettacolo più triste ancora!

Colei che in Riwalin concentrava tutto quanto aveva di prezioso, colei che egli tenne in così grande onore finché Dio permise che egli ne avesse cura, in lei il dolore fu troppo grande e maggiore di qualsiasi altro, poiché tutta la sua forza, ogni sua consolazione, ogni attività, ogni cortesia, il suo onore, tutto il suo valore, tutto era per sempre perduto. La morte di lui, almeno, fu gloriosa, ma quella di lei ben misera. Per quanto grande fosse il danno che dalla morte del signore ne derivò al paese e al popolo, pure la pietà non fu così profonda come quando si vide questo tormento e la pietosa fine della dolcissima donna. Ogni uomo di cuore compiangeva il suo dolore e la sua disgrazia. E chiunque abbia mai avuto o desideri avere gioia da una donna rifletta in cuor suo come anche al migliore degli uomini può in simili casi avvenire disgrazia e come facilmente egli può perdere gioia e vita; e implori da Dio grazia per la sua casta donna, affinché Egli la assista ed essa sia sempre il suo aiuto e il suo conforto.

Ora però veniamo a parlare del bambino, che non aveva né padre né madre e di quello che Dio per lui destinò. La perfetta fedeltà si accompagna al dolore e sempre si rinnova, mantenendolo vivo in sé anche dopo la morte. In colui che piange un amico, questa fedeltà che va oltre la tomba sta al di sopra di ogni ricompensa e ne è come il coronamento.

E secondo quanto ci narrano le storie, questa corona ben la meritarono il mariscalco e la sua nobile donna, essi che furono una sola carne ed ebbero una sola fede davanti a Dio e davanti agli uomini e rimasero esempio davanti agli uomini e davanti a Dio di perfetta fedele devozione fino alla morte, secondo il precetto divino. Se in questo mondo premio di una tale devozione fosse il titolo di re o di regina, ben lo meriterebbero questi nobili sposi, come in verità posso attestare per come egli si condusse ed essa agì. Quando Blancheflur, la loro signora, morì, Riwalin era già stato sepolto, tuttavia la piccola creatura che essa aveva dato alla luce ebbe miglior sorte pur dopo mala ventura, come chi sia prescelto ad alti destini.

Il mariscalco e la sua sposa presero in gran segreto l'orfanello e lo tennero nascosto agli occhi del mondo, facendo diffondere la notizia che la loro sovrana aveva partorito un figlio morto in lei e con lei. Ci fu allora in tutto il paese triplice lamento per la triplice sventura e il triplice lutto: lamento sulla morte di Riwalin, lamento su quella di Blancheflur, e lamento anche sulla perdita del bambino che avrebbe dovuto essere il loro conforto e la loro gioia. Vi era inoltre il terrore che Morgan incuteva al popolo e che era pari al dolore per la morte di Riwalin; poiché la maggiore infelicità è l'avere giorno e notte davanti agli occhi l'immagine dell'odiato nemico, fra tutte le tribolazioni la più aspra e quasi la morte da vivi. Molto pianto e molto lamento fu fatto sulla tomba di Blancheflur e ci fu cordoglio fuor di misura. Non conviene però a me, né io lo vorrei, turbarvi con troppo tristi novelle, poiché all'orecchio non suona gradita la soverchia tristezza e non c'è cosa, per quanto buona, che non perda di valore se troppo vi si insiste. Lasciamo quindi i lunghi lamenti e torniamo all'orfanello di cui abbiamo intrapreso a narrare la storia.

In questo mondo le buone e le male sorti si avvicendano e, dopo la sventura, la fortuna si volge nuovamente al bene.

Nel giorno dell'afflizione, quindi, per quanto grave essa sia, conviene all'uomo saggio seguire buon consiglio, vivere con i vivi e darsi coraggio per la vita, come fece il buon mariscalco Foitenant. Oppresso da gravi cure, in mezzo ai suoi affanni, riprese a meditare sui danni del paese e sulla propria morte e mancandogli la forza delle armi per difendersi dal nemico ricorse all'astuzia: convocò da ogni parte tutti i vassalli del suo signore e li esortò a deporre le armi e ad arrendersi. Essi quindi diedero vita e beni in custodia a Morolt e misero saggiamente da parte l'odio e le vendette contro di lui e le loro proprie rivalità e così salvarono la gente e il paese.

Al ritorno, Foitenant, il fido mariscalco, chiamò la moglie e la pregò di volersi coricare come donna vicina a partorire e le raccomandò, per la sua vita stessa, di fingere, quando fosse giunta l'ora, di aver messo al mondo un fanciullino, facendo passare per proprio il figlio del loro signore.

La pia mariscalca, la buona, la fida, la casta Floreta, specchio tersissimo di femminile virtù, gemma di vera bontà, fu pronta a seguire il consiglio che le sembrò onesto e confacente all'onore. Perciò dispose anima e corpo come donna che stia per sgravarsi, fece preparare le sue stanze e tutto l'occorrente come esperta matrona e simulò grandi sofferenze di spirito e di corpo come se fosse in travaglio. Allora, segretamente e alla presenza di una sola fida nutrice, le fu posto accanto il fantolino.

Presto si diffuse la notizia che la buona mariscalca aveva partorito un figliolo e così fu infatti, poiché in lui essa ebbe un figlio che per tutta la vita le dimostrò vera filiale reverenza. Il caro bambino nutriva per lei quella dolce tenerezza che si conviene a un figliolo verso la madre sua e questa pure lo amava di materno affetto, come se essa stessa lo avesse portato nel seno. Si dice che non sia mai esistita, né prima né poi, coppia di sposi che abbia con eguale cura allevato il figlio del suo signore e la storia racconta poi quante fatiche e affanni abbia per lui sostenuto il fido mariscalco.

A suo tempo la pia mariscalca si recò in chiesa umilmente a piedi, secondo il rito, portando in braccio il bambino con ogni tenera cura. Ricevuta piamente la benedizione e fatta la consueta offerta, essa ritornò dall'altare e ridiscese la chiesa con ricco e brillante seguito di cortigiani. Fu allora tutto apprestato per il battesimo del bambino affinché, qualunque cosa gli potesse poi accadere, egli fosse già stato fatto cristiano nel nome di Dio.

Il sacerdote, secondo l'uso, domandò che nome dovesse imporre al fanciullo e la gentil mariscalca parlò in segreto al marito domandandogli come volesse chiamarlo. Il maniscalco stette a lungo in silenzio riflettendo ansioso quale nome meglio convenisse alla sorte del fanciullo, rievocandone col pensiero la storia secondo che egli stesso l'aveva conosciuta.

"Vedete, madonna - disse egli allora - io appresi da suo padre la storia di lui e della sua Blancheflur e per quali e quante traversìe dovette passare il loro amore, come ella nella tristezza concepì il suo figliolo e nella tristezza lo mise al mondo: chiamiamolo quindi Tristano"

. Questo nome significa tristezza e dalla sventura dei suoi genitori il bambino fu, da triste, chiamato Tristano e battezzato con questo nome che ben gli si addiceva.

Così da triste Tristano fu il suo nome e quanto gli convenisse ce lo dimostra bene la sua vita. Considerate quanto triste fu la sua nascita, vedete quanto presto dovette sopportare durezze e travagli, vedete che triste vita fu la sua e quale triste morte, fra tutte amarissima, mise fine alla pena del suo cuore.

Chiunque legga questa storia deve riconoscere che il nome ben si adattava alla sua vita e che egli era in realtà tale uomo come era chiamato, e si chiamava con ragione Tristano quale era veramente. E a chi volesse sapere per quale motivo Foitenant facesse dire che il fanciullo Tristano era morto ancor prima della nascita nella madre sua, possiamo rispondere in tutta sincerità che egli agì in questa maniera per pura devozione al suo signore e che così fece perché temeva l'odio di Morgan; infatti se questi avesse saputo che vi era il bambino, lo avrebbe con astuzia o con violenza fatto perire, privando così il paese dell'erede. Perciò il fido vassallo si prese l'orfano per figlio e lo allevò così bene che per ricompensa il mondo dovrebbe impetrargli da Dio quella grazia che egli ben si meritò causa l'orfanello. Ora che il fanciullo era battezzato e mantenuto secondo l'uso cristiano, la virtuosa mariscalca si prese viva cura del suo caro bambino: voleva sapere e vedere tutto quello che lo riguardava e vegliava a che nulla mancasse al suo benessere e che non mettesse mai il piede in fallo.

Quando lo ebbe così guidato fino al suo settimo anno, ormai che sapeva ben parlare e ben comportarsi, che sapeva e poteva comprendere, suo padre il mariscalco lo affidò a un uomo saggio col quale lo mandò in lontani paesi stranieri perché ne imparasse la lingua e soprattutto perché prima di ogni altra apprendesse la scienza dei libri.

Fu questa la prima limitazione alla sua libertà; entrò ora sotto il giogo delle restrizioni a lui ignote e che fino allora gli erano state risparmiate. Nel fiore degli anni, quando la felicità avrebbe dovuto spuntare per lui ed egli vivere nella gioia, sin dall'inizio della sua vita, la parte migliore ne era già passata; quando avrebbe dovuto cominciare a fiorire nel gaudio lo colse il gelo della sventura che tanta gioventù rovina e che fece appassire il fiore della sua felicità.

Già nella sua prima giovinezza la libertà stessa gli sfuggì. La dottrina dei libri e la sua costrizione fu il principio delle pene, eppure fin dall'inizio egli vi applicò la mente con tanta diligenza che in poco tempo apprese dai libri più di qualunque altro fanciullo prima o dopo di lui.

Fra queste due discipline dei libri e delle lingue trascorreva gran parte del suo tempo; si esercitava pure in ogni genere di strumenti musicali e vi si dedicava a tutte le ore con tale ardore che li suonava meravigliosamente. Imparava sempre, oggi questo, domani quello, oggi bene, domani meglio ancora. Inoltre aveva appreso a cavalcare agilmente con lancia e scudo, a dare con abilità di sprone al cavallo su ambo i fianchi, a farlo arditamente saltare, torneare, a mollare e incitare il cavallo, a volteggiare a destra e a sinistra secondo l'uso cavalleresco; e in questo sovente si divertiva. Parare attentamente, attaccare con forza, correre velocemente e saltare, inoltre maneggiare l'arco, tutto questo egli faceva egregiamente secondo le sue forze. Ci dice pure la storia che egli aveva imparato a cacciare meglio di chiunque. Era pure esperto in ogni sorta di giochi di corte e ne conosceva un gran numero. Di persona era tale che mai garzone nato di donna fu più avvenente di lui. In tutto egli eccelleva per animo e per costumi. Ma tutta questa abbondanza di grazia era commista a contrastante sventura, secondo quanto ho letto, poiché purtroppo egli era destinato al dolore.

Quando ebbe compiuto il quattordicesimo anno il mariscalco lo riprese a casa e gli ordinò di girare a cavallo e a piedi per conoscere il paese e la gente e rendersi conto degli usi e dei costumi; cosa che il giovinetto fece tanto lodevolmente che in tutto il regno non ci fu a quel tempo giovane cavaliere virtuoso come Tristano. Tutti lo guardavano con occhio benigno e animo amico, com'è giusto che si faccia verso chi tende solo alla virtù e ha in orrore ogni vizio.

Verso quest'epoca venne dalla Norvegia in Parmenia attraverso il mare una nave mercantile che approdò a Kanoel proprio davanti al castello dove dimorava il mariscalco col suo giovane signore Tristano e tutta la sua casa. Ora, quando i mercanti stranieri ebbero esposto la loro mercanzia, fu ben presto noto a corte che vi erano buoni acquisti da fare. Anche a Tristano venne per sua sventura notizia che c'erano in vendita falchi e altri begli uccelli e tanto se ne interessò che due dei figli del mariscalco si misero d'accordo fra loro (poiché i fanciulli sono inclini a queste cose) e insieme al loro fratello putativo Tristano andarono dal padre e subito lo pregarono che in onore di Tristano permettesse loro di comprare alcuni falchi. Il degno Raul accondiscese, ma comunque solo a fatica lo avrebbe negato, poiché gli sarebbe dispiaciuto non poter esaudire la domanda del suo amico Tristano che gli era più di tutti caro e a cui dimostrava maggiore affetto che ad alcun altro del suo paese o della sua gente. Neppure dei propri figli si prendeva tanta cura come di lui. E con questo ben dimostrava al mondo la sua fedele devozione, la virtù e l'onore che in lui risplendevano.

Egli si levò e prese paternamente per mano il suo figliolo Tristano; gli altri figli lo seguirono con molti dei loro fidi che, un po' sul serio un po' per gioco, lo accompagnarono fino alla nave. Qui si trovava in gran copia tutto ciò che può invogliare e attirare il desiderio: gioielli, sete, nobili vesti vi erano in grande abbondanza e anche molti bellissimi uccelli, falchi pellegrini, falchetti, cavedine, sparvieri, astorri e anche astorri sauri, bozzaghi. Non mancavano neppure i fringuelli, tutto il mercato ne era pieno. Furono comprati falchetti e smerghi per Tristano e per merito suo ne furono acquistati anche per coloro che passavano per suoi fratelli: ognuno ebbe ciò che desiderava.

Ottenuto quello che volevano, stavano per ritornarsene, quando Tristano vide per caso nella nave, appesa alla parete una bella scacchiera finemente lavorata e splendidamente ornata. Accanto vi erano i pezzi di finissimo avorio, magistralmente scolpiti. L'esperto Tristano la osservò attentamente:

"Ehi! - disse degni mercanti, Dio vi aiuti! ditemi se conoscete il gioco degli scacchi".

E questo glielo disse nella loro lingua. Udendolo parlare nella loro lingua che quasi da nessuno era conosciuta essi lo guardarono con maggiore attenzione e osservando tutte le sue virtù parve loro che mai giovane fosse di migliore aspetto né di migliori costumi.
"Amico - rispose uno di essi - ve ne sono vari fra noi che conoscono quest'arte; se avete desiderio di provarvici è cosa facile e lo possiamo fare: su dunque, io vi sfido a una partita."

"Sia pure", disse Tristano. E così ambedue si misero al gioco.

Il mariscalco disse:

"Tristano, io ritorno a casa; se vuoi, puoi rimanere ancora; gli altri figlioli vengono con me; rimane presso di te il tuo precettore a cui sei affidato, che avrà cura di te".

Così il mariscalco e i suoi se ne andarono e rimasero solo Tristano e il suo precettore, del quale vi posso dire, che, come narra la storia, non vi fu mai uomo dotato di maggior cortesia e di più nobile cuore: il suo nome era Kurvenal. Egli possedeva molte virtù che ben profittavano al suo discepolo il quale da lui imparava molte buone cose. Il gentile giovinetto, il virtuoso Tristano, sedeva al gioco e giocava con tale maestria e con tale arte cortese che tutti gli stranieri lo rimiravano e dicevano in cuor loro di non avere mai visto un giovane dotato di tante virtù. Qualunque cosa facesse nelle mosse del gioco, essi se ne compiacevano.

Si meravigliavano che un giovane garzone conoscesse tante lingue, queste gli fluivano dal labbro come mai avevano udito in alcun luogo.

Il giovinetto educato alle corti, nel suo linguaggio raffinato lasciava ogni tanto sfuggire alcune scherzose espressioni straniere; le pronunciava bene e ne conosceva un gran numero e con queste infiorava il suo gioco. Inoltre cantava lodevolmente canzoni e strane arie, "refloit" e "stampenie" (1). E tanto continuò in queste arti cortesi finché i mercanti decisero tra loro di portarselo via mediante qualche astuzia, ché avrebbero potuto averne guadagno e onore. Senza indugio ordinarono ai rematori di tenersi pronti e levarono essi stessi le ancore come se nulla fosse. Poi salparono e navigarono così silenziosamente, che né Tristano né Kurvenal se ne accorsero finché non furono già lontani più di un miglio; tanto erano stati assorti nel loro gioco che non avevano badato ad altro.

Compiuto il gioco, che vinse, Tristano prese a guardarsi intorno e ben si accorse di quanto era avvenuto. Mai fu visto figlio di madre più afflitto: balzò in piedi e stette in mezzo a loro:

"O degni mercanti - disse -, per amor di Dio, che cosa volete da me? dove mi conducete?".

"Amico - rispose uno di loro - vedete, nessuno può farci nulla, dovete venire con noi; state quindi tranquillo e di buon animo".

Il misero Tristano cominciò così doloroso lamento che il suo amico Kurvenal si mise a piangere dirottamente con lui e a fare tale doglianza che tutta la ciurma ne fu impazientita con lui e col fanciullo e molto rattristata. Fecero allora scendere Kurvenal in un piccolo battello e vi misero un remo e un piccolo pane per il viaggio e per la fame e gli dissero che andasse pure dove gli piaceva, ma quanto a Tristano, questi doveva rimanere con loro. Così continuarono la loro rotta e lo lasciarono in balìa delle onde in grande angustia.
Kurvenal è sballottato sul mare, afflitto per molte ragioni: per il grande dolore che vedeva in Tristano, e in pena anche per la sua stessa vita, perché temeva di morire non sapendo navigare, poiché non lo aveva mai fatto fino allora. E lamentandosi diceva:

"Ohimè, Signore Iddio, come devo fare? non mi sono mai trovato in così grande angoscia, ora mi trovo qui senza alcun amico e io stesso non so navigare. Signore, tu mi devi proteggere ed essere tu il mio pilota. Io farò con la tua grazia, quello che non ho mai fatto: sii tu la mia guida".

Con questo afferrò il remo e in nome di Dio si mise in viaggio e in poco tempo giunse, con l'aiuto divino, a riva e cominciò a narrare quello che era accaduto. Il mariscalco e la sua degna consorte se ne afflissero con tale dolore e tale lamento che non sarebbe stato maggiore se il fanciullo fosse steso morto davanti ai loro occhi. Così nella loro afflizione andarono con tutto il seguito sulla riva del mare a piangere il loro figliolo perduto. Molte labbra pregarono con fede che Dio lo proteggesse. Vi fu colà grande cordoglio, pianti e lagrime e quando cadde la sera e dovettero ritirarsi, il pianto che prima era stato raffrenato, proruppe apertamente: non si faceva più che una unica cosa, non si gridava più che una sola parola: "beas Tristan, curtois Tristant, tun cors, ta vie a de comant!", la tua bella persona, la tua dolce vita siano affidate alla protezione di Dio!".

Intanto i Norvegesi avevano proseguito il viaggio e credevano d'avere compiuto ogni loro volontà su Tristano, senonché Colui che giudica tutte le creature e tutto giudica rettamente, e al cui cenno obbediscono con timore vento e mare e ogni altra creatura, si oppose ai loro piani, e al suo comando, come Egli volle, si levò una così violenta bufera sul mare che altro non poterono fare che lasciare la loro nave in balìa del vento selvaggio, mentre oramai disperavano della loro salvezza e della loro vita.

Si erano tutti affidati a quel miserrimo timone che si chiama avventura: si abbandonavano al caso per salvarsi o perire, poiché non potevano far altro che salire verso il cielo con le onde infuriate o precipitare di nuovo in un abisso. Così i cavalloni li trascinavano su e giù, di qua e di là finché nessuno di loro fu in grado di reggersi in piedi. E così vissero per otto giorni e otto notti e avevano quasi perduto il senno e le forze.

Allora uno di essi si rivolse agli altri:

"Messeri - disse così Dio mi aiuti, mi pare che sia il giudizio di Dio a farci vivere in tali angustie; se stiamo fra la vita e la morte su questo mare in tempesta lo dobbiamo solo al peccato e all'inganno col quale abbiamo rapito Tristano ai suoi amici."

"Hai ragione dissero gli altri unanimamente - certamente così è".

Allora si misero d'accordo che se il vento e il mare si fossero calmati, appena scesi a terra avrebbero lasciato Tristano libero dove avesse voluto. E appena ebbero deciso questo col consenso di tutti, la loro penosa situazione fu immediatamente alleviata: vento e mare cominciarono a calmarsi e il sole brillò chiaro come prima. Quindi essi non indugiarono più, poiché in quegli otto giorni il vento li aveva sospinti verso la Cornovaglia ed erano così vicino alle coste che si vedeva la riva ed essi vi approdarono. Presero Tristano e lo portarono a terra; gli diedero pane e una parte delle loro provviste e:

"Amico disseroDio ti protegga e abbia cura della tua vita".

Con questo gli augurarono ogni benedizione e ripartirono subito.
Ora che cosa fece Tristano, il misero esule? Stava là seduto piangendo, poiché tutti i fanciulli altro non possono fare nella sventura. L'esule sconsolato giunse le mani e pregò Dio fervidamente:

"O Dio, Signore munifico, Tu che sei ricco di grazia e di bontà, dolce Signore, ti supplico, poiché hai permesso che io fossi rapito, Tu ora per la tua grazia e la tua bontà, che Tu mi indichi ora un luogo dove io possa ancora trovarmi fra gli uomini. Qui ovunque mi volga non vedo anima viva intorno a me; ho paura di questo sconfinato deserto; ovunque io guardi mi sembra che siano i confini del mondo e ovunque mi giri non vedo che campi deserti e luoghi selvaggi, aspre rocce e aspro mare.

Soffro tanto di questa paura, inoltre da qualunque parte mi diriga temo che i lupi e le fiere mi divorino. Per di più il giorno volge alla sera e se mi attardo e non vado via da qui, male me ne incoglierà; se non mi affretto ad andarmene e pernotto in questa foresta mai più mi salverò. Ora vedo che sono circondato da alte rocce e montagne: mi arrampicherò su una di queste finché dura il giorno, per vedere se riesco a scoprire vicino o lontano qualche abitazione dove io trovi persone alle quali mi possa raccomandare o presso le quali possa comunque rifugiarmi".

Si rialzò allora e si mise in cammino. Indossava veste e mantello di una stoffa meravigliosamente tessuta, opera di Saraceni e lavorata da mano straniera secondo l'uso pagano, ricamata e intessuta di piccoli galloni, e foggiata in modo da aderire al corpo, così che mai uomo o donna ne eseguirono di migliore. La storia ci racconta anche che questa stoffa era di color verde come un prato di maggio e foderata di un ermellino così bianco che non ne può esistere di più candido.

Così andò avanti per il suo malinconico viaggio, triste e piangente: poiché questo viaggio era inevitabile, si cinse e rialzò la veste, arrotolò il mantello e se lo pose in spalla e si avviò attraverso la foresta e la campagna deserta. Non c'era sentiero né traccia all'infuori di quella che egli vi faceva passando. Con i piedi cercava la via e con le mani si arrampicava servendosi di esse e delle gambe in luogo di un cavallo, inerpicandosi per balze aspre e scoscese finché raggiunse una vetta.

Allora per caso trovò un rozzo e stretto sentiero nel bosco invaso dalle erbe e seguendolo scese a valle dalla parte opposta. Questo sentiero continuava dritto e presto lo condusse a una bella strada spaziosa e frequentata in tutti i sensi. Qui si fermò e sedette a riposarsi piangendo: il suo cuore lo riportava ai suoi amici e al paese dov'era gente conosciuta. Grande rimpianto lo colse e ricominciò a lamentarsi con Dio della sua sventura:

"Mio Dio - disse -, Signore mio buono, mio padre e mia madre, ahimè, mi hanno perduto! Non avessi mai visto quella bella e malaugurata scacchiera che ora avrò sempre in odio. Dio maledica falchi e sparvieri che mi hanno rapito mio padre; per causa loro sono privo di amici e di parenti e tutti quelli che mi volevano bene e mi auguravano felicità sono ora in tristezza e in pena per me. Oh! mia dolce madre, so bene come tu ora per me ti tormenti; padre mio, il tuo cuore è pieno di amarezza e so bene che siete ambedue sopraffatti dal dolore! E ohimè, se almeno sapeste che io sono ancora in vita e in buona salute sarebbe una grande grazia di Dio per voi e anche per me, poiché so bene che non vi consolerete mai, se a Dio non piaccia di farvi conoscere che sono vivo. Oh, divino Consigliere che a tutto provvedi, disponi Tu che così sia!".

Mentre, come ho detto, egli se ne stava così lamentandosi, vide passare lontano due vecchi viandanti dall'aspetto raccolto, carichi di anni, e con la barba e i capelli lunghi come si addice a devoti servi di Dio e come sovente usano portare i pii pellegrini. Essi indossavano cappe di lino e vesti come a tali si conviene e sopra queste erano cucite conchiglie marine e altri gingilli strani e ognuno di essi aveva in mano un bordone. Cappelli e panni di gamba ben si adattavano al resto. Questi servi di Dio avevano brache di lino che giungevano loro ai malleoli, lavorate a mano e legate alla gamba. Piedi e caviglie erano nudi per il passo. Come segno di vita penitente portavano sulle spalle delle palme benedette. Le preghiere e i salmi e quanto di buono sapevano li leggevano alle ore.

Quando Tristano li scorse, disse tra sé timorosamente:

"Dio di misericordia, che cosa debbo fare adesso? Se quei due viandanti mi vedono, c'è il pericolo che mi prendano".

Ma quando si avvicinarono, li riconobbe dai bordoni e dagli abiti e riprese coraggio e il suo animo si rasserenò alquanto. Dal profondo del cuore disse allora:
"Sia lode a Te, Signore! questa deve essere buona gente di cui non ho da aver paura".

Ben presto essi scorsero il giovinetto seduto davanti a loro sulla via e quando furono vicini egli balzò cortesemente in piedi incrociando le mani sul petto. I due uomini lo osservarono con maggiore attenzione vedendo le sue belle maniere. Si fecero avanti e lo salutarono con questo dolce saluto:
"De us sal, beas amis";

"Dio ti salvi, caro amico, chiunque tu sia".

Tristano si inchinò ai vegliardi dicendo:
"Dê bêni si sainte companie!";

"Dio nella sua potenza benedica sì santa compagnia!."

"Caro fanciullo -replicarono essi -, di dove sei? e chi ti ha condotto qui?"

Tristano era prudente e riflessivo per la sua età e raccontò loro una fola:

"Miei buoni signori - cominciò - io sono nativo di queste parti e oggi con altra gente dovevo andare a caccia a cavallo in questa foresta. Ho perduto, non so come, i cacciatori e i cani. Quelli che sono pratici dei sentieri ebbero miglior fortuna, ma io che non li conosco ho sbagliato la via finché mi sono completamente smarrito. Così mi sono messo su di una falsa traccia che mi ha condotto a un fosso e là non potei più reggere il mio cavallo che voleva sempre continuare per conto suo finché rotolammo tutti e due, io e il cavallo. Non riuscii a rialzarmi nelle staffe prima che questo avesse strappato le redini e fosse galoppato via nel bosco. Io mi sono messo su questo viottolo che mi ha condotto qui. Adesso non capisco più dove sono né dove devo andare. Ora, buona gente, abbiate la carità di dirmi dove siete diretti".

"Amico - risposero essi -, con la volontà di Dio vorremmo questa sera stessa essere nella città di Tintajoel"

. Tristano li pregò gentilmente che gli permettessero di unirsi a loro.

"Fanciullo caro - dissero i pellegrini -, se vuoi recarti là vieni pure con noi".

Tristano si incamminò con loro e intanto cominciarono a conversare di varie cose. Tristano, il gentile fanciullo, era così pronto con la risposta adatta a qualunque domanda, conservava una tale misura nel parlare e nelle maniere che i saggi vegliardi conversavano con grande compiacenza e, meglio osservando i suoi modi e il suo fare e anche la sua bella persona e vedendo le sue ricche vesti lavorate in fogge straniere, dissero tra loro:

"Buon Dio, chi e di dove è questo fanciullo le cui maniere sono così cortesi?".

Così continuarono a intrattenersi con lui e ad ascoltarlo con grande piacere per un buon miglio di strada.
Ora avvenne che in quel mentre i cani di suo zio, re Marco di Cornovaglia, avevano inseguito un giovane cervo, il quale fuggendo veniva da quella parte, stremato di forze dalla rapida fuga e braccato dalla muta. Sopraggiunsero ora anche i cacciatori con grande rumore e suono di corni per abbatterlo.

Quando Tristano vide questo, si rivolse garbatamente ai pellegrini:

"Ecco, signori, questa è la comitiva con i cani e il cervo che oggi avevo perduto; ora l'ho ritrovata; sono i miei compaesani; se mi date licenza vado con loro".

"Fanciullo - dissero essi - Dio ti benedica e ti dia buona fortuna".

"Grazie, Dio vi guardi"

- rispose loro Tristano, si inchinò a loro e s'incamminò sulla traccia del cervo.

Quando il cervo fu abbattuto, il maestro di caccia lo stese giù sull'erba con le quattro zampe come un porcello:

"Come, maestro?- esclamò Tristano il cortese -, per amor di Dio lasciate stare, che cosa fate? Chi vide mai trattare così il cervo?".

Il cacciatore si rialzò, guardò Tristano e gli disse:
"Come vuoi allora che io faccia, fanciullo? Qui da noi non si usa altro modo di scuoiare un cervo che spaccandolo dal capo alla coda e poi in quattro parti così che nessuno dei quarti sia più grande dell'altro, questo è l'uso del paese: ne conosci tu un altro, fanciullo?"

"Sì, maestro - rispose questi -. Nel paese da cui vengo l'uso è diverso".

"E quale dunque?"

domandò il maestro.

"Noi scuoiamo il cervo secondo il "bast".

"In fede mia, amico, se non me lo fai vedere, io non capirò davvero che cosa sia il "bast", né c'è alcuno in questo regno che conosca quest'arte o abbia mai udito questo nome da compagni né da stranieri. Fanciullo mio, che cosa intendi per "bast" ? per bontà tua ora mostramelo; vieni e scuoia tu questo cervo".

Tristano disse:

"Mio caro maestro, col vostro permesso lo farò, se questo vi fa piacere e così vi mostrerò, per quanto l'ho visto io, quale è l'uso del mio paese intorno al "bast", come desiderate".

Il maestro guardò il giovane forestiero con benevolo sorriso, poiché egli stesso era uomo cortese e pratico di tutte le usanze che un cavaliere deve conoscere.

"Va bene, amico - disse - fa' a modo tuo e se tu fossi troppo debole, o fido compagno e caro fanciullo, io stesso e quanti sono qui con me ti aiuteremo con le nostre mani a stendere, voltare e scuoiare il cervo, secondo le tue indicazioni".

Tristano, l'esule fanciullo, si tolse il mantello e lo posò lì accanto su di un sasso, rialzò la veste e ripiegò le maniche, lisciò i suoi bei capelli e li raccolse dietro le orecchie e tutti i presenti osservarono le sue belle maniere e considerandolo, egli appariva loro tanto gentile che lo guardavano con compiacenza dicendosi in cuor loro come tutto in lui fosse nobile, le ricche vesti di foggia straniera e il corpo ben modellato. Cominciarono a avvicinarglisi e stettero a osservare. Ora il fanciullo esule, il giovane signore Tristano afferrò il cervo con le mani e volle rovesciarlo sul dorso. Ma non poté smuoverlo perché era troppo pesante per lui; allora pregò gli altri cortesemente che lo stendessero giù per prepararlo per lo scuoiamento.

Fatto questo, egli si pose alla testa del cervo e cominciò a spogliarlo dalla pelle, dal muso in giù; alle spalle si arrestò e le scorticò l'una dopo l'altra, prima la destra, poi la sinistra. Prese quindi le cosce e le scuoiò egualmente; quindi cominciò a tagliare la pelle dai due lati e la staccò da cima a fondo, da garzone esperto, e la stese a terra. Riprese quindi le spalle e le staccò liberando il petto interamente. Mise da parte le due scapole e cominciò a dividere il petto dal dorso lasciandovi tre costole per parte; secondo la vera arte del "bast" bisogna sempre lasciarle attaccate quando si libera il petto. Poi rapidamente con grande maestria scuoiò le due cosce posteriori, non separatamente, ma insieme e anche a queste lasciò, come di giusto, attaccato il filetto là dove il dorso dista dai lombi circa una spanna e mezzo: questo, là dove si pratica questa arte di scuoiamento lo si chiama zimier. Si mise poi intorno alle costole e le separò dalla schiena. Ma lo stomaco e le interiora non convenivano alle sue belle mani e allora chiamò:

"Presto, qua due servi! prendete questa roba e portatela via!".

Così il cervo venne scuoiato e la pelle debitamente tolta; il petto, le spalle, i lombi, le gambe erano tutti posati l'uno sopra all'altro in bell'ordine: con ciò era compiuto il bast.

"Ecco - disse Tristano, l'ospite straniero -, questo è il "bast" e così si pratica quest'arte. Adesso compiacetevi di avvicinarvi con la vostra compagnia e fate la "furkie".

"Furkie"? caro fanciullo, che cosa è mai? non comprendiamo di che cosa parli. Tu ci hai or ora mostrato magistralmente questo uso di caccia che è straniero e lodevole; ora lascia il resto e compi il tuo insegnamento; noi siamo a tua disposizione".

Tristano facendo un salto colse un ramo d'albero forcuto, detto furke o forcella da coloro che conoscono la furkie. Ma non c'è differenza fra i due nomi: furke e forcella sono la stessa cosa.

Così Tristano se ne ritornò col suo ramo. Tagliò il fegato e lo separò dal resto, poi staccò la rete e i lombi e liberò il lombo cimie, dal membro cui era attaccato.

Si sedette allora sull'erba, prese i tre pezzi e li fissò alla forcella con la rete, poi con un verde virgulto li legò in vari modi.

"Ecco, signori - disse allora -, questo nella nostra caccia è detto "furkie" e perché lo ho legato alla forcella, questo uso ha con buona ragione tale nome. Ora lo prenda un servo, e voi state attenti e pronti alla vostra "curie".

"Curie? dê bênie!" - esclamarono tutti -; che cos'è? Comprenderemmo meglio il saraceno! amico, che cosa è la "curie" ? Ma no, anzi taci e non dirci nulla: piuttosto eseguilo tu stesso davanti a noi, in modo che noi lo vediamo con i nostri occhi.Fallo per la tua cortesia".

Tristano acconsentì subito: prese il rick, il tendine del cuore voglio dire, al quale il cuore sta sospeso e lo liberò tutto; tagliò il cuore per metà nel senso della lunghezza, lo prese e lo divise in quattro pezzi che gettò sulla pelle. Poi ritornò all'omento; separò la milza dai polmoni in modo da liberarne l'omento e anche questi posò sulla pelle, quindi tagliò la rete e la gola in alto là dove comincia il petto. Separò dal collo la testa con le corna e ordinò di portarla accanto al petto.

"Or bene - disse -, portate via presto questa corata e se vengono dei poveri a cui piaccia o che la desiderino, dividetela tra loro o fatene quello che vi aggrada secondo le vostre usanze. E ora mi volgo alla "curie".

Tutta la compagnia gli si fece intorno e stette a osservare quello che faceva. Tristano ordinò che gli fosse portato quello che prima aveva preparato. Tutto era pronto come egli lo aveva ordinato: i quattro quarti del cuore spartiti in quattro e posati sulla pelle secondo l'uso dei cacciatori. Egli tagliò in piccoli pezzi la milza e i polmoni, poi lo stomaco e gli intestini e tutto quello che si suol dare in pasto ai cani, come meglio gli piacque e li sparse pure sulla pelle, poi chiamò i cani ad alta voce:

"Qua, qua"

! e in un momento questi gli furono tutti attorno, aspettando il cibo.

"Vedete - disse l'esperto giovinetto - in Parmenia questo si chiama "curie" e vi dirò perché: si chiama "curie" perché sta sul cuoio quello che poi si dà ai cani; così questo sistema ha preso lo stesso nome di "curie" da "cuir", cuoio. Poi da "cuir" è venuto "curie". Fa bene ai cani ed è una buona usanza, perché quello che vi si mette sopra diventa saporito dal sangue e giova loro. Vedete ora che questo uso del "bast" non richiede alcuna altra abilità; decidete ora se vi piaccia."

"Ah, signore risposero essi -, fanciullo benedetto, che cosa dici mai? Vediamo bene che questa arte è di grande vantaggio per i cani e per i bracchi".

"Ora - riprese il buon Tristano - portate via la vostra pelle, poiché adesso non ho più nulla da dirvi e siate certi che in verità, se avessi saputo servirvi meglio lo avrei fatto volentieri. Ora ognuno si tagli il proprio virgulto e vi leghi il proprio pezzo; tenete pronta la testa e portate il vostro trofeo a corte secondo l'uso cavalleresco; questo fa onore a voi stessi. Voi sapete ora come si deve presentare il cervo; presentatelo dunque secondo le regole".

Il maestro e i servi si meravigliavano sempre di più che questo fanciullo fosse così esperto in ogni regola di caccia e conoscesse tutte queste arti.

"Vedi, caro fanciullo - dissero -, queste arti meravigliose che ci mostri e ci hai mostrate ci sembrano così belle e varie che vorremmo vederle tutte sino alla fine, senza considerare né tener conto di quello che hai fatto finora".

Gli menarono allora un cavallo e lo pregarono di andare con loro fino alla corte per far loro conoscere le altre sue arti e gli usi e i costumi del suo paese.
Tristano disse:

"Volentieri, prendete il cervo e andiamo".

Quindi montò in sella e andò con loro.
Cavalcando in compagnia ognuno di loro aspettava con impazienza l'occasione e l'ora di sapere di quale paese fosse e come fosse arrivato fin là e ognuno fantasticava a modo proprio desiderando tutti di sapere ciò che lo riguardava.

Il saggio Tristano lo comprese e cominciò a narrare la sua storia.

Il suo modo di parlare non aveva nulla di puerile; con molto senno prese a narrare:

"Al di là della Bretagna c'è un paese chiamato Parmenia: colà mio padre è mercante e per il suo stato potrebbe vivere bene e tranquillo, intendo dire da mercante. E sappiate inoltre che egli non è tanto ricco di beni quanto di animo virtuoso. Egli mi fece insegnare tutto quello che so. Poi vennero dei mercanti di terre straniere e notando la loro lingua e i loro costumi l'animo mio si sentì attratto e spinto verso quelle terre e poiché ero bramoso di conoscere anche altri paesi stranieri, non facevo che pensarci dalla mattina alla sera, finché fuggii da mio padre e partii con i mercanti e così sono arrivato qui; ora sapete tutta la mia storia: non so come vi piacerà".

"Oh, caro fanciullo - dissero essi -, era un nobile desiderio il tuo. Conoscere paesi stranieri fa bene a molti cuori e insegna molte virtù. Caro compagno, dolce giovinetto, Dio benedica la terra dove un mercante seppe allevare un figlio così pieno di virtù. Di tutti i re che sono al mondo nessuno allevò meglio un figliolo. Ora caro fanciullo, dicci come ti chiamava il tuo cortese padre?".

"Tristano - rispose egli - mi chiamo Tristano".

"Dê us adjut" - disse uno allora - in nome di Dio perché ti ha chiamato così? Sarebbe stato più adatto chiamarti "juvente bele et la riant": bella e ridente gioventù".

Così proseguirono cavalcando e discorrendo sempre del nostro fanciullo piacevolmente in vari modi e ognuno della compagnia gli poneva le domande che voleva.
In breve arrivarono in un luogo da dove Tristano poté scorgere la città. Egli allora colse da un tiglio due rami fronzuti dai quali si fece due ghirlande: una se la pose sul capo, l'altra alquanto più grande la offrì al maestro di caccia.

"Ditemi, caro maestro, che città è quella? certamente un castello reale".

Il maestro rispose:

"Quello è Tintajoel".

"Tintajoel? Ah, che bel castello! "Dê te sal", Tintajoel, te e i tuoi abitanti".

"E così te pure, dolce fanciullo, possa tu essere sempre felice e avere sempre buona fortuna, come noi te lo auguriamo".

Così arrivarono alla porta della città davanti alla quale Tristano si fermò :

"Signori - disse loro -, io essendo straniero non conosco i vostri nomi. Ora allineatevi due a due e fate il vostro ingresso cavalcando ben in ordine l'uno accanto all'altro. Per il cervo regolatevi così: per prima deve entrare la testa con le corna, poi, subito dietro, il petto, le costole dopo le spalle e poi dovete disporre in modo che i quarti posteriori seguano subito dopo le costole, quindi disporre che per ultimo sia portata la "cuire" e la "furkie": questa è la vera veneria e non andate troppo in fretta ma cavalcate in ordine l'uno dietro l'altro ben in fila. Il maestro e io, suo staffiere, cavalcheremo insieme, se così vi pare."

"Sì, fanciullo caro - dissero tutti - noi vogliamo quello che vuoi tu".

"Così sia - rispose egli -; ora prestatemi un corno di misura adatta a me e state attenti: quando suono io suonate anche voi".

Il maestro disse:
"Amico mio, fa' pure come ti aggrada, seguiremo tutti il tuo cenno, io e quelli che sono con me".

"In buon'ora così sia fatto"

disse Tristano.

Gli diedero in mano un piccolo corno lucente:

"Avanti - gridò egli - "allez avant"!".

Così entrarono cavalcando in buon ordine due per due e quando furono sotto alla porta Tristano prese il suo piccolo corno e suonò così forte e allegramente che quelli che lo seguivano non poterono aspettare più oltre e lo suonarono tutti insieme a lui col loro corno sulla sua stessa nota. Egli procedeva in testa a tutti, ed essi lo seguivano sullo stesso suo tono, con abilità e maestria e il suono riempì tutto il castello.

Re Marco e tutta la corte, udendo il nuovo strano canto di caccia furono grandemente stupiti, poiché nulla di simile si era mai udito a corte. Ora la cavalcata era giunta all'ingresso del palazzo dove molti erano accorsi al suono dei corni molto meravigliandosi e chiedendosi che cosa potesse significare. Re Marco stesso era sceso e con lui molti dei cortigiani. Quando Tristano scorse il re si sentì subito attratto verso di lui: era il cuore che glielo segnalava fra tutti, mosso dalla natura stessa. Lo mirò attentamente e lo salutò suonando sul corno nel modo straniero così bello che nessuno si azzardò ad accompagnarlo.

Appena terminato, il cortese straniero abbassò il corno e tacque. Si inchinò profondamente al re e parlò poi gentilmente, con voce soave, come egli ben sapeva:

"Dê us sal roi et sa mehnîe", Dio salvi il re e la sua compagnia! Marco il benevolo e tutto il suo seguito ringraziarono il fanciullo cortesemente come si conviene a cortese saluto.

"Ah - dissero tutti, grandi e piccoli -, "Dê duin dûze âventure si dûze crêature", Dio dia dolce destino a sì dolce creatura".

Il re osservò il fanciullo e chiamò il maestro di caccia e gli chiese:

"Dimmi, chi è questo giovinetto, che favella con tanta grazia?".

"Ah, Sire, viene dalla Parmenia ed è così straordinariamente giudizioso e cortese come mai vidi fanciullo; dice di chiamarsi Tristano e che suo padre sia un mercante; ma non lo crederò mai: come avrebbe potuto un mercante, in mezzo a tutte le sue occupazioni, trovare tanto tempo e agio da dedicargli? Come poteva trovare tempo per lui, egli che deve sempre vivere nell'agitazione del suo lavoro? Vedete, Sire, come è ricco di virtù; anche questa nuova elegante maniera di presentarsi a corte l'abbiamo imparata da lui. E udite quale altra arte meravigliosa: il cervo viene portato a corte proprio così come è formato. Fu mai escogitata maniera migliore? Vedete, per prima viene la testa, poi subito dietro a questa il petto, quindi le spalle e le zampe e tutto questo non fu mai meglio presentato. Guardate qui: avete mai visto una così fatta "furkie"? Io non conobbi mai tali arti da quando mi occupo di caccia. Inoltre ci ha mostrato come si deve scuoiare il cervo e il sistema mi piace tanto che da ora innanzi non voglio più squartare cervo né altri animali, dovessi anche cacciare fino al mio ultimo giorno".

E così proseguì a narrare tutto fin dal principio al suo signore, e come Tristano fosse esperto nella caccia cortese e come preparasse la curie per i cani. Il re ascoltava con benevolenza quello che il cacciatore diceva, poi fece chiamare il fanciullo e ordinò che i cacciatori ritornassero alle loro case attendendo ai loro compiti e ai loro uffici. Questi voltarono le cavalcature e se ne andarono. Tristano, ora maestro di caccia, rese loro il suo piccolo corno e balzò a terra.
I giovani del seguito corsero incontro al fanciullo, lo presero per mano e lo condussero alla presenza della Corona. Egli possedeva già di per sé un incedere nobile e grazioso: il suo corpo era fatto secondo le regole della minne, la bocca vermiglia, la carnagione bianca, gli occhi chiari, i capelli castani che si arricciolavano alle punte; bianche e ben fatte le mani e le braccia, di giusta statura il corpo; la sua bellezza si palesava meglio ancora nelle gambe e nei piedi, lodevoli e tali quali si convengono in un uomo. Gli abiti, come vi ho detto, si adattavano alla sua persona e per le sue belle maniere dava piacere a chi lo guardava.

Marco rimirò Tristano :

"Amico - disse -, ti chiami Tristano?".

"Sì, Sire, Tristano, "dê us sal".

"Dê us sal bêas vassal".

"Merzi - replicò egli - gentil rois, nobile re kurnevalois: voi e i vostri sudditi siate sempre benedetti fra i figli di Dio".

Gli fu risposto con grandi ringraziamenti da tutti i cortigiani, i quali non avevano più che una parola:
"Tristan, Tristan li Parmenois, cum est bêas et cum curtois!".

Marco si rivolse di nuovo a Tristano:

"Ti dico io, Tristano, quello che devi fare. Mi devi accordare un favore di cui non vorrei fare a meno".

"Tutto quello che comandate, Sire".

"Tu devi essere il mio maestro di caccia".

Si levò allora un gran ridere intorno. Tristano disse allora:

"Signore, comandate e disponete di me; quello che voi ordinerete io lo compirò; sarò vostro maestro di caccia e vostro vassallo come meglio saprò."

"Va bene amico - disse re Marco - questo è deciso e così sia".

Ora Tristano, come avete udito, è ritornato in patria senza saperlo e credendosi ancora in terra straniera. Marco il virtuoso, inconsapevole di essere suo parente, lo trattò con molta bontà come era anche grandemente opportuno: pregò ciascuno e ordinò a tutti di mostrarsi buoni e compiacenti verso il fanciullo straniero e di fargli onore con la conversazione e la compagnia. A questo tutti aderirono molto volentieri. Così Tristano venne a far parte della corte del re che gli voleva bene e gradiva la sua società, perché il suo cuore era attratto verso di lui; lo guardava con compiacimento e il giovinetto era sempre cortesemente al suo lato e pronto al suo servizio ogni volta che ve ne era l'occasione. Dovunque fosse Marco, ivi era anche Tristano. Marco se ne compiaceva ed era felice quando lo vedeva.

Intanto avvenne che entro una settimana re Marco stesso andò a caccia con lui e con molti del suo seguito, per vedere la sua arte nel cacciare e osservare la sua abilità. Re Marco ordinò di condurgli il suo cavallo da caccia e gliene fece dono. Miglior cavalcatura Tristano non ebbe mai, poiché era un bell'animale, robusto e snello. Gli fece anche dare un piccolo corno bello e chiaro e gli disse:

"Tristano, ora ricòrdati che sei il mio maestro di caccia; facci dunque vedere la tua bravura, prendi i tuoi cani e vanne e manda i battitori dove ti pare che meglio ti convenga".

"No, Sire, non così - replicò Tristano il cortese -; manda avanti i tuoi cacciatori che devono attendere e dare la via ai cani. Essi conoscono il paese e sanno meglio di me dove passa il cervo fuggendo dalla muta; sapranno ben essi cogliere l'occasione. Io non fui mai in questo luogo e sono pur sempre uno straniero."

"Dio sa se hai ragione, Tristano, non puoi bene orientarti qui. I cacciatori devono andare avanti e fare il compito loro".

Allora i cacciatori ritornarono, legarono i cani e posero i battitori nei luoghi a loro noti, ben presto scovarono un cervo e lo inseguirono a gara fino a sera, quando i cani lo raggiunsero. Allo stesso momento venne di corsa re Marco con Tristano e molti del seguito per abbatterlo. Ci fu allora un gran suonare di corni in vari e diversi toni; suonavano tanto bene che re Marco molto ne godette e con lui molti degli altri che là si trovavano.

Ora che il cervo era abbattuto andarono dal loro maestro Tristano, il loro fido ospite, e lo pregarono di mostrar loro il bast dal principio alla fine.

"Sarà fatto", disse Tristano e con questa parola si accinse all'opera.

Ora mi pare che sarebbe inutile farvi un'altra volta lo stesso racconto. Come già vi narrai di quell'altro cervo, nello stesso modo fu scuoiato questo. Quando videro il bast e la furkie e l'arte della curie, dichiararono ad una voce che nessuno conosceva né avrebbe potuto imaginare un modo migliore. Il re ordinò di prendere e legare il cervo e se ne ritornò egli e il suo cacciatore Tristano e tutta la compagnia. Al suono dei corni e con la furkie ritornarono cavalcando a casa.

Da allora Tristano fu uno dei cortigiani prediletti. Il re e tutta la corte lo accolsero nella loro compagnia. Egli pure era compiacente e sempre pronto al servizio di ricchi e di poveri e se avesse potuto fare onore a tutti lo avrebbe fatto di buon grado. Dio gli aveva dato la grazia di potere e volere piacere a tutti: egli sapeva ridere, ballare, cantare, cavalcare, correre, essere allegro con tutti. Viveva come da lui si richiedeva; e come la gioventù dovrebbe vivere, assecondando tutto ciò che altri intraprendeva.

Ora accadde che un giorno re Marco se ne stava seduto dopo il pranzo come si suole fare per riposo e ascoltava il laio di un suonatore di arpa, il migliore che si conoscesse, che veniva dal paese di Galles.

Ora venne Tristano di Parmenia e si sedette ai suoi piedi e ascoltò con tale attenzione il laio e le dolci note che non poté più infingersi, ne fosse andato anche della sua vita, tanto l'animo suo fu commosso e il cuore infiammato.

"Maestro dissevoi suonate bene e le note risaltano bene con quella nostalgia come sono state pensate. L'hanno composta i Britanni sulla storia di ser Gurune e della sua diletta".

L'artista si fece attento e stette in ascolto come se non avesse ben inteso, sino a che non ebbe finito il laio. Poi si rivolse a Tristano:

"Che ne sai tu, caro fanciullo, da dove viene quest'aria? Hai qualche nozione di quest'arte?"

"Sì, caro maestro - rispose Tristano -, prima ne ero più esperto, ma adesso sono tanto fuori di esercizio che non mi azzarderei davanti a voi".

"No, amico mio, ecco qui quest'arpa, fammi sentire come si canta nel tuo paese".

"Me lo comandate voi, maestro, ed è vostro piacere che io suoni?", disse Tristano.

"Sì, caro compagno, comincia a suonare".

Quando egli prese l'arpa questa parve adattarsi meravigliosamente alle sue mani, che, come ho letto nei libri, più belle non potevano essere, morbide e dolci, piccole e lunghe e bianche come l'ermellino. Con queste accennava dolcemente a preludi e arpeggi in strana guisa. Allora gli riaffiorarono alla mente le canzoni brettoni. Prese il plettro, tese le corde quale più, quale meno come meglio gli pareva, e quindi Tristano, il nuovo cantore, cominciò il suo nuovo ufficio con grande attenzione. Suonava tanto dolcemente i suoi preludi e i suoi arpeggi, i suoi strani "saluti" e li rendeva così bene sulle corde del suo strumento che tutta la schiera dei cortigiani accorse e l'uno chiamava l'altro. Tutti vennero affrettandosi e a nessuno sembrò di essere arrivato troppo presto.

Ora Marco osservava tutto e riflettendo a tante cose e considerando il suo amico Tristano, assai si meravigliava che questi avesse saputo nascondere tanta cortese dottrina e tante buone arti che vedeva in lui. Tristano cominciò una canzone della fiera amante di Gralant il bello, e intonava così dolcemente e toccava l'arpa con tale maestria alla maniera brettone, che vari degli astanti ne furono tanto fuori di sé da dimenticare il loro proprio nome: orecchie e cuore erano commossi e agitati e alla mente affluivano pensieri di ogni sorta:

"Beato - dicevano molti -, il mercante che ha avuto un figlio così cortese".

Le sue bianche dita si muovevano con arte e perizia sulle corde e il suono si espandeva fino a riempire tutto il palazzo. Anche gli occhi non furono risparmiati, e molti sguardi seguivano le sue mani.

Finita questa canzone il buon re lo fece pregare di suonare ancora:

"Mu voluntiers", rispose Tristano; e intonò una canzone ancor più nostalgica della prima, di Tisbe, la curtoise dell'antica Babilonia.

Egli toccò l'arpa così abilmente, seguendo le note con tanta maestria che l'arpista ne restò stupito e quando il virtuoso fanciullo accompagnò la sua canzone con le parole, e cantò i versi in brettone e in gallese, latino e francese così soavemente, nessuno avrebbe saputo dire che cosa fosse più bello e più da lodare, se il suo canto o il suo arpeggiare. Furono fatti grandi discorsi di lui e della sua bravura, dicendo che in tutto il regno non si era mai riscontrata tanta abilità in un uomo. Chi diceva una cosa e chi un'altra; questi parlava in un modo, quegli in un altro:

"Che fanciullo è mai questo? chi abbiamo per compagno? Di tutti i giovinetti che esistono nessuno vale un soffio accanto al nostro Tristano".

Quando Tristano ebbe terminato la canzone secondo il suo desiderio, Marco disse:

"Tristano, vieni qui; benedetto sia colui che ti ha istruito e sii tu benedetto con lui: era veramente bella la tua canzone. La riudirò volontieri questa sera, prima che tu vada a dormire; farai questo per me e per te, non è vero?".

"Sì, Sire, volontieri."

"Ora dimmi, conosci anche qualche altro strumento?"

"No, mio signore", replicò egli.

"Ma te lo chiedo in nome dell'amore che hai per me."

"Sire - disse allora subito Tristano - non importava così alta sollecitazione; avrei risposto alla vostra domanda poiché voi volete saperlo e io devo dirvelo. Signore, io mi sono applicato a ogni genere di strumenti, ma a nessuno abbastanza da non desiderare di saperne di più. Inoltre non mi sono dato a questo studio per molto tempo, in verità forse per sette anni o poco più. In Parmenia mi hanno insegnato a suonare il violino, la sinfonia; l'arpa e la rotta me l'hanno insegnata dei galeotti, due maestri gallesi e dei Brettoni della città di Lut, la lira e la sambuca".

"Sambuca? che cosa è questa, fanciullo mio?".

"E' lo strumento a corde più bello che io conosca".

"Vedete - dicevano i cortigiani -, Dio ha dato a questo fanciullo tutte le grazie per una vita felice".

Marco gli chiese ancora:

"Tristano, ti ho udito cantare in gallese, in buon latino e in francese: conosci tu queste lingue?".

"Sì, Sire, abbastanza bene".

Allora gli si affollarono intorno e chi conosceva una lingua straniera di un qualsiasi paese vicino lo mise alla prova in tutti i modi. Egli a tutti diede cortesemente risposta nella stessa lingua: norvegese, irlandese, alemanno, scozzese, danese. Molti cuori presero a desiderare di avere l'abilità di Tristano e avrebbero bramato di assomigliargli; molti, nel desiderio del loro cuore, gli si rivolsero dolcemente e amabilmente:
"Ah, Tristano, fossi io come te! tu puoi vivere felice, porti la palma di ogni arte che il mondo conosca".

Tutti ne parlavano facendone le meraviglie:
"Udite - diceva l'uno -, udite - diceva l'altro -, il mondo intero ascolti: un fanciullo quattordicenne conosce tutte le arti che esistono".

Il re disse:

"Tristano, ascolta, in te trovo tutto quello che amo, tu sai fare tutto quello che mi aggrada: caccia, lingue, musica. Ora dobbiamo anche essere amici, tu mio e io tuo. Di giorno andremo a cavallo a caccia, la sera ci diletteremo con giochi cortesi; tu suoni bene l'arpa e il violino, e sai cantare e lo farai per me; io pure conosco qualche gioco e farò per te quanto il tuo cuore desidera; ti darò cavalli e belle vesti, quanti ne vorrai. E con questo saremo pari. Ora, ecco la mia spada e i miei speroni, la mia corazza e il mio corno d'oro; ragazzo mio, io te li affido, tu abbine cura e sii sempre cortese di animo e felice".

Così l'esule venne a far parte della corte più vicina al re. Mai in fanciullo fu vista tale grazia quanta si manifestava in lui; qualunque cosa facesse o dicesse appariva, e anche lo era, tanto buona che tutti gli volevano bene e gli erano devoti di cuore. E con questo basta, dobbiamo abbandonare questa storia e rivolgerci di nuovo a quella di suo padre il mariscalco - Dan Rual li Foitenant et li leal - e a ciò che egli fece quando ebbe perduto il figliolo.

Dan Rual li Foitenant si era messo subito in mare, con grande abbondanza e ricchezza di provvigioni, poiché aveva in mente di non ritornare finché non avesse avuto notizie del suo giovane figlio; si diresse verso la Norvegia, colà errò giorno e notte per tutto il paese chiedendo del suo diletto Tristano: ma a che serviva? questi non c'era. Tutte le ricerche furono vane e non potendolo trovare Rual volse verso l'Irlanda. Ma, vedete, anche là non poté saperne di più di prima. Allora egli cominciò a trascurarsi e le sue ricchezze cominciarono a scemare finché si ridusse ad andare a piedi e ordinò di vendere il suo cavallo e rimandò tutto il suo seguito in patria con tutti i suoi beni. Egli stesso rimase in miseria e andò mendicando il suo pane di paese in paese, pellegrinando senza posa per tre anni e più alla ricerca del suo Tristano, tanto che la bellezza della sua persona andò decadendo e così pure il suo bel colorito: chi l'avesse visto non avrebbe mai detto che avrebbe potuto riprendere la sua dignità. E questo fardello di vergogna, il degno Dan Rual lo portava come se fosse stato un ribaldo e senza che la sua povertà gli facesse perdere, come troppo spesso avviene, nulla della sua buona volontà.

Verso il quarto anno egli si trovava in Danimarca dove pure andava chiedendo di Tristano di città in città. Come Dio volle si imbatté in quei due pellegrini che il giovane Tristano aveva incontrato sulla via del bosco. Interrogò anche questi ed essi gli raccontarono come e quanto tempo prima avessero veduto un fanciullo proprio quale egli diceva e come lo avessero preso in loro compagnia; dissero quale era il suo aspetto, il volto, i capelli, il modo di esprimersi e di comportarsi, la persona, il vestire e quante lingue e quante arti conosceva. Immediatamente egli riconobbe il suo Tristano e pregò i pellegrini di dirgli, per amor di Dio, dove l'avevano lasciato e se si ricordavano la città gliela nominassero. Così essi dissero a Rual che era la città di Tintajoel in Cornovaglia. Egli li pregò di ripetergli il nome della città più volte e disse loro:

"Dov'è la Cornovaglia?".

"Essa confina - dissero essi -, con la terra al di là della Britannia".

"Ah! - pensò egli - Signore Iddio, questa può essere davvero una tua grazia: se, come sento, Tristano è giunto in Cornovaglia, allora è proprio arrivato in casa sua, perché Marco è suo zio. Guidami a lui, o Dio di misericordia! Ah, Signore! nella tua potenza dammi ancora tanta grazia che io lo possa rivedere. La notizia che ne ho avuto è veramente buona e mi dà grande gioia; mi ha sollevato dalla mia tristezza e fatto felice".

"Brava gente - disse egli allora - il Figlio della Vergine vi protegga; me ne andrò per la mia via e vedrò se trovo il mio figliolo".

"Bene, rivolgetevi al Bambino che ha tutto il mondo in suo potere."

"Grazie - disse Rual - con vostra licenza non posso attardarmi di più."

"Amico - dissero quelli - "â dê, â dê!".

Rual si mise in cammino senza lasciare neppure una mezza giornata di riposo al suo corpo finché non arrivò al mare, dove suo malgrado dovette fermarsi poiché non vi erano navi pronte; appena trovò un battello partì subito per la Britannia, che attraversò tutta con tanta premura che nessuna giornata gli sembrava abbastanza lunga da impedirgli di camminare fin tardi nella notte; ma la notizia ricevuta gli aveva dato coraggio e forza e gli rendeva leggera e dolce la fatica. Giunto in Cornovaglia chiese dove fosse Tintajoel che gli fu subito indicata. Così continuò la sua via e vi giunse un sabato mattina all'ora della messa; si mise accanto alla porta della chiesa; la gente passava avanti e indietro ed egli guardava da tutte le parti e scrutava di qua e di là per trovare qualcheduno che desse giusta risposta alla sua domanda; poiché pensava fra sé: questa gente è da più di me e se ne interpello uno, temo che mi disprezzi e non mi risponda, dato che sono così male in arnese. Consigliami tu, Signore Iddio, quello che devo fare.

Intanto re Marco stesso veniva avanti con un brillante seguito in mezzo al quale Rual non vide colui che cercava e quando il re doveva passare ritornando dalla messa, Rual si trasse un po' in disparte e si accostò a un vecchio cortigiano:

"Signore, per vostra bontà, ditemi, sapete se ci sia a corte un fanciullo? Si dice che sia addetto al re e abbia nome Tristano".

"Un fanciullo- rispose prontamente quegli - non so niente di fanciulli; c'è uno scudiere che deve presto essere armato cavaliere ed è molto caro al re perché ha grande virtù e grande cortesia e conosce tante arti. E' un forte garzone dai capelli d'un castano chiaro e un bel portamento; viene da paesi stranieri e qui lo chiamano Tristano".

"Signore - disse Rual appartenete voi alla corte?"

"Sì."

"Allora, per l'onor vostro, fatemi ancora una grazia, che ne avrete grande merito: ditegli che c'è un pover'uomo che vorrebbe vederlo e parlargli; potete pure fargli sapere che sono del suo paese".

Quegli dunque avvertì Tristano che era venuto uno della sua terra.

Tristano accorse subito e appena lo ebbe scorto esclamò con le labbra e col cuore:

"Sia benedetto Iddio nostro Signore perché ti rivedo, padre mio!".

Questo fu il suo primo saluto; poi gli corse gioioso incontro e baciò il fedelissimo guardiano come un figlio il padre. E questo era giusto e bene poiché egli era suo figlio e quegli era suo padre: e di tutti i padri che ci sono e che mai vi furono al mondo nessuno agì verso il figlio più paternamente che lui verso Tristano, il quale in lui ritrovò padre, madre, parenti, vassalli e tutti gli amici che mai avesse avuto.

Con grande affetto gli parlò:

"Mio buon padre, ditemi, la mia dolce madre, i miei fratelli vivono ancora?".

"Non lo so, figlio caro - rispose quegli -; vivevano ancora quando li vidi l'ultima volta, soltanto erano in pena per causa tua. Che cosa abbiano fatto di poi non te lo posso dire perché da molto non ho incontrato alcuno che conoscessi, e non sono più stato a casa dal malaugurato momento in cui mi colse in te la sventura".

"Ah, padre mio - replicò l'altro - che cosa mi dici mai! Come è ridotto il tuo aspetto!".

"Figlio mio, sei tu che me l'hai fatto perdere".

"E io te lo renderò".

"Figliolo, anche questo può darsi".

"Ora, padre mio, vieni con me a corte."

"No figliolo, con te non posso andare; vedi bene che non sono in tenuta conveniente per la corte".

"No, padre, dobbiamo andarci; è necessario che il re, mio signore, ti veda".

Rual, cortese e buono, pensò tra sé: "la mia nudità non guasta; anche se il re mi vede ora come pellegrino, sarà ben contento di vedermi quando gli dirò che Tristano è suo nipote. Quando gli avrò raccontato tutto fin dal principio, qualunque cosa indossi gli sembrerà bella".

Tristano lo prese per mano: il suo aspetto e le sue vesti erano quali potevano essere: portava una povera tunica scolorita e consunta e qua e là anche lacera e non aveva mantello. Gli abiti sotto la tunica erano ben miseri, sciupati e infangati. Capelli e barba erano tanto negletti da farlo apparire un selvaggio. Inoltre il degno uomo non aveva ai piedi né calze né scarpe e per di più era malconcio dalle intemperie come tutti coloro che sono stati esposti al freddo, al sole, al vento, alle privazioni e hanno perduto colore e robustezza.

In questo stato si presentò davanti a Marco. Questi, guardandolo negli occhi chiese a Tristano:

"Dimmi, Tristano: chi è quest'uomo?".

"Mio padre, sire", rispose Tristano.

"Dici il vero?".

"Sì, mio Signore".

"Sia dunque il benvenuto", disse il degno re. Rual si inchinò cortesemente. Accorsero allora tutti i cavalieri e con loro tutta la corte e insieme esclamavano tutti:

"Sire, sire, dê us sal".

Ora sappiate che Rual, per quanto miseramente vestito, pure era di bell'aspetto e di nobile portamento. Di persona e di membra era simile a un Unno, lunghe le braccia e le gambe, bello e signorile l'incedere e tutto il corpo ben fatto. Non era né troppo giovane né troppo vecchio, ma negli anni migliori, quando la giovinezza e l'età matura danno alla vita il maggior vigore. Per signorilità di tratto sembrava un imperatore; la sua voce era armoniosa come quella del corno, il suo favellare ben tornito. Così, con fare dignitoso, come sempre era solito avere, se ne stava davanti al re e alla nobiltà.

Si levò un gran mormorio fra i cavalieri e i baroni che parlavano fra loro chiedendosi:

"E' lui? E' questo il mercante cortese del quale suo figlio Tristano ci ha tanto decantato le virtù? Abbiamo udito parlare tanto della sua bontà e del suo valore: come mai è venuto a corte in questo arnese?".

Questo e molto altro dicevano. Il buon re comandò che fosse condotto nella kemenate, e fornito di ricche vesti. Tristano lo assisté a fare il bagno e a rivestirsi di begli abiti. Vi era anche un cappello che si mise in capo e che gli stava a meraviglia, poiché egli stesso era bello di volto e avvenente di figura.

Tristano lo prese per mano cortesemente, come era uso e lo condusse di nuovo a re Marco e ora tutti ne furono ammirati e si dicevano l'un l'altro:

"Vedete come il nobile abbigliamento sta bene a quest'uomo e come le ricche vesti si adattano bene al mercante; anche egli stesso però è bellissimo. Deve invero possedere delle grandi qualità e ne appare ben dotato. Vedete che nobile incesso, quale signorile portamento egli ha nei begli abiti. E basta vedere Tristano per riconoscere le sue virtù. Come avrebbe un mercante potuto allevare così bene un figliolo, se non fosse mosso da nobiltà di cuore?".

L'acqua era già stata data e il re era venuto alla mensa; egli fece sedere Rual, il suo ospite, alla sua stessa tavola e ordinò di servirlo bene e con ogni cura, come si addice a un cavaliere.

"Tristano - disse - va' e servi tu stesso tuo padre".

E vi dico che invero così fu fatto e gli vennero resi tutti gli onori e tutte le possibili attenzioni.
Così Rual mangiò con piacere, poiché era felice per Tristano; Tristano era per lui il miglior festino e guardarlo era tutta la sua gioia.

Quando le mense furono levate, il re si trattenne in discorso con il suo ospite e gli fece tante domande sul suo paese e intorno al suo viaggio e mentre il re lo interrogava i cavalieri intorno stavano ad ascoltare le parole di Rual.

"Sire - disse questi -, sono invero quattro anni e mezzo che ho abbandonato la patria e da allora, dovunque sia capitato, non ho pensato ad altro se non allo scopo per il quale sono venuto qui".

"E quale è questo scopo?".

"E' Tristano che qui vedete. Io ho invero anche altri figli che mi sono stati dati da Dio e li amo come un padre ama i suoi figlioli: tre figli, che, se fossi rimasto presso di loro, l'uno o l'altro sarebbe già cavaliere. Se avessi sofferto per tutti e tre insieme metà delle pene e dei tormenti che ho sofferto per Tristano, che pure mi è estraneo, sarebbe già stato moltissimo".

"Estraneo? - esclamò il re -. Dite, che nuova è questa? non è dunque vostro figlio come dice di essere?"

"No, sire, egli non mi appartiene se non in quanto io sono suo vassallo".

Tristano trasalì e lo guardò spaventato. Di nuovo il re parlò:

"Ora dunque raccontateci per quale colpa o per quale ragione avete per lui sopportato tante fatiche e come dite, avete per così lungo tempo abbandonato moglie e figlioli, se non è figlio vostro?".

"Signore, questo lo sappiamo solamente Iddio e io".

"Orsù, amico, fatelo sapere anche a me - disse re Marco -, che ciò mi stupisce non poco".

"Se sapessi - replicò il fido Rual che non me ne abbia poi a rincrescere e che sia cosa conveniente richiamare il passato, vi potrei narrare meraviglie di questa ventura di Tristano, di come ciò è accaduto e di come è stato disposto per lui".

Marco e i suoi baroni subito a una voce lo pregarono:
"Dite, sant'uomo, diteci: chi è Tristano?".

Il buon Rual parlò allora e disse:

"Signore, come ben sapete e come sanno coloro che erano presenti in quel tempo, avvenne che il mio signore Riwalin di cui io ero vassallo - e ancora dovrei esserlo, se Dio avesse voluto che egli ancora vivesse - udì tanto magnificare la vostra virtù e il vostro valore che affidò alla mia custodia le sue terre e la sua gente e, desiderando conoscervi, venne qui in questo paese e vi prese dimora. Sapete pure come andò la sua avventura con la bella Blancheflur e come ne ottenne l'amicizia e come ella fuggì con lui. Quando giunsero in patria si sposarono e questo avvenne in casa mia e ne fummo testimoni io e molti altri; poi egli la affidò alla mia protezione e io ne ebbi cura in tutti i modi con tutto il cuore. Poco tempo dopo egli preparò una spedizione nel suo paese con tutti i suoi, e partì e fu ucciso in battaglia come avrete udito. Quando ci giunse questa notizia e la bella dama l'apprese, un dolore mortale la colpì così profondamente che mise al mondo con grande fatica Tristano che qui vedete e lei stessa ne morì".

Con questo il fedele vassallo fu sopraffatto da un cordoglio che a tutti fu palese poiché piangeva come un fanciullo. A questo racconto anche agli altri si inumidirono gli occhi. A re Marco, il buono, la notizia andò talmente al cuore che il dolore gli fluiva in lacrime dagli occhi tanto che gote e vesti ne erano inondati. Tristano se ne rattristò profondamente, ma non per altro se non perché così perdeva nel suo fedele guardiano il padre e l'illusione d'avere un padre.

Così Rual il buono raccontò alla compagnia con grande tristezza, la storia del povero bambino; come egli aveva fortemente raccomandato di prenderne cura quando sua madre lo aveva messo al mondo e come l'aveva nascosto segretamente in luogo sicuro e fatto diffondere in mezzo al popolo la notizia che era morto insieme alla madre. Quindi narrò come avesse ordinato a sua moglie, come già vi dissi, di mettersi a letto come donna in travaglio e a suo tempo avesse annunziato di aver messo al mondo il bambino che poi avevano portato in chiesa, dove era stato battezzato e spiegò perché era stato chiamato Tristano; l'aveva fatto poi viaggiare in paesi stranieri affinché si addestrasse con la lingua e con le mani nelle arti che gli faceva apprendere; lo aveva lasciato poi sulla nave dov'era stato rapito ed egli stesso era venuto a cercarlo con grandi fatiche.

Così raccontò la storia dal principio alla fine e Marco pianse ed egli stesso piangeva e piangevano tutti, meno il solo Tristano il quale non poteva dolersi di ciò che udiva perché la notizia gli era giunta troppo improvvisa. Quello però che il fido Rual narrò ai cortigiani delle pene dei due innamorati Kanele e Blancheflur e tutta la loro avventura non li commosse quanto la fedeltà dimostrata dopo la loro morte verso il loro figliolo. Questa agli occhi della corte era la maggior prova di devozione che un uomo potesse dare al suo Signore.

Terminato questo discorso re Marco disse agli ospiti:

"Signori, questa storia è poi vera?".

Rual, il buono, gli mostrò un anellino che aveva al dito:
"Ora, Sire - disse - ecco la testimonianza delle mie parole e della mia storia".

Re Marco, buono e sincero, prese l'anello e lo guardò, ma gliene venne un dolore ancor più acerbo.
"Ah! - disse - mia dolce sorella, io ti donai questo anellino che mio padre mi diede sul suo letto di morte. Devo ben prestar fede a questo racconto. Tristano, vieni qui e abbracciami; se Dio dà vita a entrambi noi, io sarò tuo padre e tu mio figlio ed erede. Iddio dia pace all'anima di tua madre Blancheflur e di tuo padre Kanele e voglia concedere ad ambedue la vita eterna. Poiché è stato così disposto che tu mi venissi da mia sorella, io sarò, a Dio piacendo, sempre felice".

All'ospite allora egli disse:

"Ora, amico caro, ditemi chi siete e come vi chiamate?"

"Rual, sire."

"Rual?".

"Sì".

Allora Marco si rammentò di avere, a suo tempo, udito parlare di lui e di come fosse saggio e onorevole e leale e disse:

"Rual li Foitenant?"

"Così mi chiamano, signore".

Allora il buon Marco andò a lui e lo baciò e abbracciò rendendogli onore come si meritava. I cavalieri si fecero pure avanti e lo baciarono tutti con gioia, uno a uno; lo abbracciarono e salutarono con cortesi parole:
"Benvenuto, degno Rual, specchio di virtù al mondo".

Rual fu dunque così il benvenuto. Quindi il re lo prese per mano e se lo fece amorevolmente sedere a lato; riandarono insieme la loro storia e riparlarono di tutto, tanto di Tristano che di Blancheflur e di tutta l'avventura e della lotta fra Kanele e Morgan e di come era finita: ben presto il re venne a narrare a Rual con quale avvedutezza Tristano fosse venuto colà e come avesse detto che suo padre era un mercante. Rual guardò Tristano:

"Amico - disse - per lungo tempo ho portato su e giù la mia faticosa mercanzia con grande angustia e in povertà per amor tuo; ma tutto questo è ora giunto a buon fine. Perciò io sempre leverò le mie mani a Dio in azioni di grazia".

Tristano disse:

"Vedo bene che la storia si sta svolgendo in modo da non potermene rallegrare. Strane parole mi sono giunte se ho compreso bene: sento mio padre dire che mio padre è stato ucciso molto tempo addietro; con ciò egli mi si sottrae e così dei due padri che avevo acquistato ora resto senza padre. Come mi siete stati rapiti, voi, padre mio, e l'illusione di possedere un padre! E colui nel quale credevo di aver ritrovato il padre me ne fa perdere due: lui stesso e quello che non ho mai veduto".

Ma il buon mariscalco così parlò:

"Orsù, amico Tristano, lascia questo discorso che non ha fondamento. La mia venuta ti rende più ricco e ti fa crescere sempre più in onore; inoltre hai due padri come prima, qui il mio Signore e me. Egli è tuo padre e lo sono io pure. Segui bene il mio dire e sempre più per nobiltà e onore sii pari a tutti i re. Lascia tutti i discorsi e prega tuo zio, il re mio signore, che ti dia il suo aiuto per ritornare nel tuo paese e ti armi qui cavaliere, perché allora potrai tu stesso prendere cura delle cose tue. Voi tutti, signori, intercedete per lui affinché al re così piaccia".

Tutti allora esclamarono:

"Sire, questo è giusto; Tristano è forte abbastanza ed è ormai fatto uomo".

Il re disse:

"Tristano, nipote mio, che cosa ne pensi nell'animo tuo? Sei contento che così si faccia?".

"Mio buon signore, vi dirò l'animo mio: se possedessi beni così grandi da poter esercitare la cavalleria secondo il mio talento, in modo che non dovessi vergognarmi del nome di cavaliere, né esso vergognarsi, né che in me venisse offuscato l'onore cavalleresco, allora ben volontieri sarei cavaliere e vorrei esercitare questa mia inesperta giovinezza e volgerla agli onori mondani, poiché si dice che la cavalleria debba iniziare fino dalla prima età, altrimenti raramente acquisterà valore. E' gran male che io abbia così di rado esercitata questa mia oziosa giovinezza nel valore e nella virtù e me ne rimorde. Ora da molto tempo so che la vita agiata e il valore cavalleresco in nessun modo si accordano e male possono stare insieme. E ho pure letto che l'onore esige austerità di vita. La vita molle è la morte dell'onore se vi si cede in gioventù oppure troppo a lungo. Vi dico invero che se un anno addietro, o anche prima, avessi saputo quello che ora ho appreso, non mi sarei risparmiato fino a questo momento. Ma poiché questo è stato finora trascurato, è giusto che riacquisti il tempo. Io sono sanissimo di corpo e di spirito. Iddio mi dia buon consiglio, che io possa agire secondo l'animo mio".

Marco disse:

"Nipote mio, vedi tu stesso quello che vuoi scegliere, e se desideri di essere re e signore su tutta la Cornovaglia. Qui c'è tuo padre Rual che ti è interamente devoto: sia egli tuo consigliere e tuo aiuto; segua egli la tua causa in modo che risulti secondo la tua volontà. Tristano, caro nipote, non ti dar pensiero della povertà, poiché la Parmenia ti appartiene e sarà sempre tua finché viviamo io e tuo padre Rual; inoltre, altri doni ho in mente di farti: la mia terra e la mia gente e tutto quello che posseggo, caro nipote, tutto è in mano tua. Se il tuo cuore è incline agli onori principeschi e se tale è la tua volontà, come ho udito da te, non risparmiare i miei averi: la Cornovaglia sia tuo patrimonio e la mia corona tua tributaria. Se vuoi guadagnarti fama e onore nel mondo, curati pure soltanto di arricchire il tuo spirito, ché di grandi beni ti provvederò io. Vedi, tu già possiedi regali domini e ricchezze, quindi non ti far mancare nulla. Constaterò ben presto se sai perseguire il tuo proprio vantaggio e se hai animo pronto e deciso quale devi avere e come mi hai promesso. Ecco, se io riscontrerò in te vera e regale nobiltà d'animo, troverai sempre presso di me scrigni aperti a tua disposizione; Tintajoel sarà sempre il tuo forziere e il tuo tesoro; per quanto tu mi preceda con animo generoso, io sempre ti seguirò con le mie ricchezze e se così non fosse vorrebbe dire che tutto quanto in Cornovaglia chiamo mio è andato perduto".

Ci furono allora grandi inchini; tutti i presenti fecero riverenza e diedero a gran voce onore e lode.

"Re Marco dicevano, tu parli da vero sovrano, e le tue parole ben si addicono alla corona. Possano il tuo cuore, la tua lingua e la tua mano sempre comandare su questo paese. Sii sempre re della Cornovaglia".

Il fido mariscalco Dan Rual e il suo giovane signore Tristano si misero all'opera per conto loro, usando le ricchezze che il re aveva loro largito e nella misura a loro concessa.

Ora mi sforzerò di spiegare la vita di questi due, padre e figlio, poiché (dato che raramente la gioventù e la vecchiaia si accordano in una medesima virtù e la gioventù disprezza la ricchezza, mentre l'età matura la ricerca) qualcuno mi domanderà come mai poterono questi due mettersi d'accordo fra loro, così che ciascuno di essi ottenesse il suo intento e mantenesse il suo diritto, in modo che Rual tenesse la giusta misura degli averi e Tristano seguisse pienamente lo slancio dell'animo suo. Ora senza indugio ve lo proverò: Rual e Tristano nutrivano l'uno per l'altro lo stesso affetto, sì che ciascuno non proponeva né voleva consigliare in bene o in male se non quello che l'altro desiderava. Rual, noto per saggezza, aveva fiducia in Tristano e ne considerava la giovane età; così pure Tristano cedeva all'esperienza di Rual; ciò li conduceva ugualmente a un'unica meta di comune desiderio e l'uno desiderava ciò che l'altro voleva e così in ambedue vi era un solo volere e un animo solo, donde avveniva che gioventù e vecchiaia fossero unite in un'unica virtù e l'impulso generoso cedeva al senno. Così venivano a mantenere, Tristano il diritto al suo sentimento e Rual il controllo sui beni, senza che ad alcuno di essi fosse fatta cosa contro il suo diritto.

Così Rual e Tristano si misero all'opera dopo matura riflessione come era loro consuetudine. Entro trenta giorni si procurarono le corazze e gli abiti che dovevano indossare i trenta cavalieri che Tristano, il cortese, voleva prendersi per compagni. E se taluno mi interrogasse intorno alla magnificenza e alla foggia degli abbigliamenti e a come fossero confezionati, non avrei da pensarci a lungo e non farei che ripetere quello che ne dice la fama; se poi gli dicessi qualche cosa di diverso, egli mi contraddica pure e ne parli meglio lui stesso.

I vestiti erano di quattro diverse ricche qualità di stoffe e ognuna delle quattro preziosa secondo il suo tipo. L'una era la magnanimità, l'altra l'abbondanza, la saggezza la terza, di cui ho letto che regolava le altre due con giusta misura; la quarta era la cortesia che tutte le univa cucendole insieme. Tutte e quattro operavano molto bene nella loro guisa: la magnanimità comandava, l'abbondanza concedeva, la saggezza dirigeva e tagliava, la cortesia cuciva e completava gli abiti e gli altri tessuti, le bandiere, le gualdrappe e tutto il resto dell'attrezzatura che costituisce la cavalleria; l'apparato di uomini e di destrieri, che distinguono il cavaliere, era così ricco che anche un re avrebbe convenientemente potuto prendervi la spada.

Ora che il seguito è pronto con adeguata magnificenza, come posso io trovare parole per descrivere come fu preparato Tristano, il degno loro capo, per la cerimonia della consegna della spada? e per dirlo in modo che si addica alla mia storia e riesca piacevole a chi mi ascolta? Io non so come parlarne in modo che vi piaccia e vi aggradi e stia bene in questo racconto; poiché ai miei giorni e anche prima, è già stato narrato così bene di ornamenti mondani, di ricche attrezzature, che se anche avessi dodici sensi di cui servirmi - mentre invece uno solo ne ho - e se mi fosse possibile avere dodici lingue in questa mia unica bocca e sapessi con ognuna di esse parlare come nella mia, non saprei da dove cominciare per dire di quella magnificenza e di quello splendore cosa che non fosse stata detta meglio già prima. L'ornamento della cavalleria è stato descritto tante volte e in forme così ricercate, che io non sono capace di discorrerne in modo da dare gioia al cuore.

Herr Hartmann von der Aue, egli sì che sa colorire le sue storie e ornarle internamente ed esternamente con parole e con massime. Come sa cogliere con i suoi versi il senso delle avventure! Come sono chiare e cristalline (e tali possano sempre rimanere) le sue similitudini! Esse avvincono l'uomo con la loro grazia; si stringono a lui e ispirano sincerità.

Colui che sa apprezzare e rettamente comprendere le buone massime deve riconoscere che il cavaliere von Aue è meritevole della sua corona e del suo ramo di alloro. Chiunque voglia correre con la lepre e pascolare al largo nei vasti lontani pascoli della poesia, giocare a dadi con le parole, e pretendere senza discriminazione alla corona di alloro, rimanga pure con l'illusione: all'elezione saremo presenti anche noi; noi che aiutiamo a scegliere i fiori di cui è intrecciato questo stesso serto, noi vogliamo sapere a che cosa egli aspiri! poiché chiunque egli sia, si faccia avanti e presenti i suoi fiori: da questi noi giudicheremo se si adattino tanto bene al serto da togliere il ramo di alloro a Hartmann von der Aue per darlo a lui. Ma poiché nessuno si è presentato che ne sia maggiormente degno, così con l'aiuto di Dio, lo lasciamo dov'è. Quel serto deve portarlo soltanto colui che usi una lingua pura e parole semplici e piane in modo che chi cammina con passo sicuro e dritto senno non abbia a inciampare.

I narratori di strane fole, i cacciatori di novelle, che con i viluppi delle loro frasi mentono e ingannano le menti semplici, che ai bambini fanno apparire oro le futili cose, che agitano e scuotono scatole magiche e ne fanno cadere polvere invece di perle, tutti questi tali ci fanno ombra con i tronchi e non con le verdi foglie del tiglio, non con le fronde né coi rami. Difficilmente la loro ombra è benefica agli occhi dei pellegrini. Se dobbiamo dire la verità nulla di buono ne deriva, né al cuore ne viene gioia alcuna. Il loro dire non è abbastanza colorito da infondere serenità al nobile cuore. Questi stessi cacciatori devono mandare dei commentatori insieme alle loro storie: non si possono altrimenti capire udendole o leggendole; e neppure abbiamo il tempo di ricercare le glosse nei libri neri.

Vi sono ancora altri maestri del colore: Bliker von Steinach ha versi graziosi; le dame li hanno ricamati su bordi d'oro e di seta, si potrebbe intrecciarli con galloni greci. Egli ha il primato delle parole, il loro senso è così chiaro e limpido che si direbbe lo abbiano meravigliosamente filato le fate, chiarificandolo e purificandolo nella loro magica fonte: è veramente fatato. La sua lingua che è eco di arpa, ha duplice perfezione: di parole e di senso e ambedue fondono la loro voce a sua lode in una unica armonia. Vedete come questo maestro della parola opera meraviglie intorno al suo Umbhehang con sagace discorso; come lancia agilmente le rime qual gioco di coltelli, e come sa fonderle quasi fossero insieme cresciute. E' anche mia convinzione che sia libri che lettere aderiscano a lui come fossero penne, poiché, se ben osservate, le sue parole alate si librano in alto come l'aquila.

Chi ancora posso nominare? molti ve ne sono e molti ve ne sono stati ricchi di parole e di senno. Enrico di Veldeke poetò dalla piena dell'animo suo. Come cantò bene d'amore! come bellamente cesellò il suo dire! Io credo che la sua sapienza derivasse dal Pegaso donde ogni sapere ha origine. Non l'ho conosciuto io stesso, ma dai migliori maestri di allora e di poi, che tanto lo lodano, ho udito dire come egli abbia innestato nella lingua tedesca il primo germoglio da cui sono poi venuti i rami che portarono i fiori dai quali i maestri stessi derivarono le loro magistrali invenzioni. La fama ne è tanto diffusa e così variamente indirizzata che tutti coloro che adesso poetano ne colgono il meglio di fiori e di fronde in parole e in canzoni.

Ci sono molti usignoli dei quali ora non voglio parlare: essi non appartengono a questa schiera, perciò altro non dico, ma ripeterò sempre che essi ben conoscono l'ufficio loro e cantano lodevolmente la loro dolce canzone primaverile; la loro voce è chiara e bella; danno coraggio al mondo e fanno bene al cuore. Il mondo sarebbe triste e sconfortato se fosse privo del loro soave gorgheggio; questo risveglia amabili affetti e sovente rammenta a chi abbia provato amoroso impulso, la gioia, il bene e tutti i vari sentimenti che confortano i nobili cuori. Quando il dolce canto degli uccelli comunica al mondo la sua letizia ne nasce l'amoroso impulso.

Parlate ora degli usignoli: essi sono pronti al loro ufficio e sanno tanto bene dire e cantare delle loro pene. Chi fra questi porterà il vessillo, ora che il capo di tutta la schiera, l'usignolo di Hagenau, è ammutolito al mondo? egli che portava sulla lingua il segno di questa somma arte. Penso sovente a lui e ai suoi versi e immagino donde ha preso i tanti e bei dolci toni e donde gli è venuto il miracolo di tante variazioni. Io credo che la lingua di Orfeo, il quale conosceva tutti i toni musicali, risuoni dalla sua bocca.

Poiché dunque questi non sono più, dateci ora un consiglio (un saggio lo proponga): chi condurrà ora questa schiera? chi guiderà la bella compagnia? credo che facilmente troverò chi dovrà portare il vessillo: il loro maestro von der Vogelweide ne è ben capace. Ah, come alta risuona la sua voce nella campagna! quali meraviglie opera! con quanta abilità sa modulare il suo canto, nel tono cioè del cavaliere di Zitherone, ove la dea Minne impera e comanda. Egli è in servizio a corte e deve essere duce agli altri; e a guidarli perfettamente egli ben sa dove deve cercare le amorose melodie. Egli e la sua schiera cantino in modo da volgere in gioia la loro tristezza ed i loro nostalgici lamenti e possa questo accadere ancora ai giorni miei!

Ora però ho abbastanza parlato a persone competenti delle fortune di tanta buona gente e intanto Tristano non è ancora pronto per l'investitura della spada e io non so come prepararvelo; la mente non ne vuol sapere e la lingua sola e senza il consiglio di quella, da cui deriva ogni suo officio, non sa quello che fa. Ma quello che ambedue le confonde ve lo spiegherò ora: le ha ingannate ciò che induce in errore anche altri mille: quando un uomo che non sa parlare si presenta a un uomo eloquente la lingua gli diventa muta anche su quello che prima sapeva.

Mi pare che lo stesso sia accaduto anche a me: vedo e ho udito finora tanti eccellenti parlatori, mentre io non so fare discorsi simili ai loro e i miei non varrebbero un soffio al confronto; si dice adesso giustamente che dovrei curare la mia lingua e coltivare la mia mente e procurare di renderle tali quali le vorrei nei poemi altrui e come le riconosco e le giudico io in un estraneo.

Ora non so come cominciare: lingua e sensi non mi vogliono venire in aiuto, il timore mi toglie di bocca anche quello che sapevo. Qui non so più che cosa fare se non cosa che non ho mai fatto finora, innalzerò cioè il mio cuore e le mie mani in preghiera e in invocazioni verso l'Elicona, donde sgorgano le sorgenti che conferiscono il dono della parola e dei concetti. L'Anfitrione e le sue nove compagne, Apollo e le Camene, le nove sirene dell'orecchio che colà alla corte hanno in consegna i doni, li distribuiscono giudicando come debbano concederli al mondo. A certuni hanno dato la piena dei concetti con tale larghezza, che ora non possono, per l'onore loro, negarne una goccia a me, e se riesco a ottenerla potrò mantenere il mio posto come si addice a cantore. Quella unica goccia non è tanto piccola che non basti a mettermi sulla giusta via, chiarendo intanto e lingua e concetto, là dove mi sono così smarrito.

E dovrà anche far passare le mie parole attraverso i lucenti crogiuoli dei sensi cananei, e là fonderle in strane e meravigliose forme, e foggiarle con somma abilità come oro di Arabia. Vogliano esse, - questi divini doni della vera Elicona e del trono supremo donde sgorgano le parole che risuonano all'orecchio e ridono nel cuore e rendono la lingua smagliante come una gemma preziosa, - degnarsi di ascoltare la mia voce e la mia preghiera secondo i miei voti lassù nei loro cori celesti.

Anche se tutto questo si avverasse e mi fossero concesse le parole che ho chieste, e avessi tale tesoro che il mio poetare fosse dolce a ogni orecchio e desse ombra a tutti i cuori con la sua verde foglia di tiglio, e fosse intonato ai miei versi in modo da sgombrare loro la via a ogni passo senza lasciare neppure un granellino di polvere così che possano incedere su verdi erbette e variopinti fiori; pure, nonostante tutto questo, io non rivolgerei mai o quasi mai la mia mente - vedete come sono poco assennato - a quello che altri hanno già tentato e trovato. In verità io devo seguire il miglior consiglio e rivolgere tutta la mia perizia all'equipaggiamento di un cavaliere, come Dio sa che molti hanno fatto: potrei narrarvi che Vulcano, il saggio, il celebre artista, fabbricò per Tristano con le proprie mani e con grande maestria usbergo, spada e schiniere e altri accessori necessari a un cavaliere, e che egli stesso, sempre pronto a ogni ardire, scolpì il cinghiale sullo scudo dell'eroe e l'elmo sul quale pose gli strali infuocati a raffigurare i tormenti d'amore, e poi preparò separatamente ogni pezzo con grande arte e perfezione. Potrei dirvi che Cassandra la mia signora, la saggia Troiana, aveva impegnato tutta la sua arte e tutto il suo ingegno per approntare le vesti di Tristano con ogni perizia e quanto meglio sapeva escogitare la sua mente, la quale, secondo quanto ho letto, era dotata dagli Dei di magico potere. Ma quale valore avrebbe tutto questo se prima non avessi preparato il seguito di Tristano per la cerimonia? Questa è col vostro beneplacito la mia opinione e so bene che se allo spirito e alla ricchezza si aggiungono la saggezza e la cortesia, questi quattro operano fra loro meglio di chiunque. Infatti neppure Vulcano e Cassandra hanno mai saputo meglio di questi attrezzare un cavaliere.

Ora poiché queste quattro virtù sanno così bene allestire la cerimonia della consegna della spada, così noi affidiamo loro il nostro amico Tristano, esse lo prendono per mano e lo rivestono (poiché nulla di meglio vi può essere) delle stesse stoffe e nelle stesse fogge con cui sono così bene rivestiti i suoi compagni. Così Tristano viene condotto a corte e quindi all'assemblea. In tutto il suo apparato è, per ornamento e ricchezza, pari ai suoi compagni; pari, intendo solo nelle vesti confezionate da mano d'uomo, non nella veste innata che si chiama nobiltà d'animo e viene dai recessi del cuore rendendo l'uomo amabile e nobilitando la sua persona e la sua vita: vestimento che al signore era stato elargito in modo ben diverso che ai suoi compagni. Iddio sa che il degno e virtuoso Tristano portava tale speciale abbigliamento, ricco oltre misura d'aspetto e di foggia. Egli infatti li sorpassava tutti per virtù e per buoni costumi, ma negli abiti lavorati da mano d'uomo non vi era differenza alcuna; il degno capitano vestiva in tutto simile agli altri.

Così il magnanimo signore della Parmenia e tutta la sua schiera di cavalieri erano giunti alla chiesa, avevano assistito alla Messa e anche ricevuto la benedizione secondo l'uso: Marco allora prese per mano Tristano suo nipote e gli cinse spada e speroni:

"Ecco, nipote Tristano - disse - ora che questa tua spada è stata benedetta e che tu sei armato cavaliere, apprezza questa dignità e considera anche te stesso e vedi chi sei; la tua nascita e la tua nobiltà ti siano sempre presenti, sii umile e onesto, sii sincero e gentile, verso i poveri sempre buono e verso i ricchi sempre altero; orna e tieni di conto il tuo corpo, onora e servi ogni donna; sii generoso e fedele, rinnovandoti sempre in queste virtù poiché sul mio onore ti dico che né oro né preziosi zibellini si convengono alla spada e allo scudo meglio che la liberalità e la fedeltà".

Con ciò gli porse lo scudo, lo baciò e gli disse:

"Ora va, nipote mio, e Dio, nella sua potenza, ti conceda grazia per la tua cavalleria. Sii sempre cortese e sempre felice!".

Tristano allora armò i suoi cavalieri di spada speroni e scudo, proprio come suo zio aveva fatto con lui. A ognuno dei presenti raccomandò con sagge parole l'umiltà, la fedeltà, la liberalità. Non indugiarono colà più a lungo: non dubito che vi furono grandi tornei e cavalcate. Quale lancio di giavellotti vi fu al ritorno dall'assemblea! e quanti se ne spezzarono ve lo potranno attestare gli scudieri che aiutavano a raccoglierli. Io non so descrivere tutto il loro torneare e giostrare, pure un solo omaggio offro loro, e auguro loro vivamente che possano sempre crescere in onore e che Dio conceda loro vita cortese e agio per la cavalleria. Se mai mortale soffrì ininterrotta pena pur in mezzo a continuo gaudio, questi fu Tristano che portò continuo dolore pur in mezzo a ininterrotta felicità, come ora vi dirò: a lui fu dato un destino di dolore e di gioia, poiché tutto quello che intraprendeva gli riusciva pienamente, eppure accanto al successo stava sempre il dolore. Per quanto contrastanti l'uno all'altro questi due opposti, continua pena e gioia ininterrotta, si trovavano riuniti nella sua sola persona.

In nome di Dio, spiegatevi: Tristano è ora stato armato ed è giunto a grande fortuna con la dignità di cavaliere: ora sentiamo quale è l'afflizione che si accompagna a questa felicità. Una cosa, Dio lo sa, ha sempre rattristato tutti i cuori e anche il suo: che, come gli aveva detto Rual, il padre fosse stato ucciso, questo formava il tormento dell'animo suo. Così c'era il male accanto al bene, accanto al piacere la pena, nella gioia il dolore. Questo è il destino di tutti i cuori. Dicono tutti quelli che ne soffrono, che l'odio in un giovane cuore è più violento che in un uomo attempato e Tristano, nonostante tutta la sua magnificenza, nutriva sempre in segreto il corruccio per la morte di Riwalin, mentre Morgan era invece ancora in vita; questo pensiero lo angustiava. Egli allora, il saggio Tristano, insieme al virtuoso Foitenant che porta questo nome per la sua leale fede, allestirono sollecitamente una magnifica nave con la più ricca attrezzatura che si potesse imaginare, poi si presentarono a re Marco.

Tristano cominciò:

"Mio diletto Signore, col vostro beneplacito io vorrei partire per la Parmenia e vedere come stanno le cose colà, sia per la gente, sia per il paese che voi dite mio".

Il re disse:

"Nipote, così sia. Per quanto a malincuore io mi privi di te, pure ti accordo quanto mi chiedi. Parti pure per la Parmenia, tu e la tua compagnia e se ti occorre maggior seguito prendi chi meglio ti aggrada; prendi cavalli, argento oro e tutto quello che ti può abbisognare, anche se vuoi usarne per offrirlo fraternamente in cortese dono a chi ti accompagna, in modo che questi stia volentieri al tuo servizio e fedelmente ti assista. Diletto nipote, agisci e vivi secondo l'esempio di tuo padre come te lo ha trasmesso il fedele Rual qui presente, il quale ti ha sempre fino a questa ora dimostrato grande onore e fedeltà. E se Dio ti concede di riordinare tutto e regolare le tue cose con tuo onore e vantaggio, allora torna a me. Una cosa ti prometto e sia la mia fede in mano tua, cioè che io dividerò con te in parti uguali il mio regno e i miei averi; e se per il bene tuo tu mi dovessi sopravvivere, tutto ti sarà dato in proprietà; io per amore tuo mai condurrò moglie finché viva. Nipote, tu hai ben compreso la mia preghiera e la mia intenzione; se mi vuoi bene come io te ne voglio e mi porti affetto come io ne porto a te, a Dio piacendo trascorreremo felicemente insieme i nostri giorni. Con questo ti do licenza. Il Figlio della Vergine ti protegga, a Lui raccomando la tua sorte e il tuo onore".

Tristano e il suo amico Rual non indugiarono oltre e fecero vela dalla Cornovaglia per la Parmenia, essi e la loro compagnia.
E se foste vaghi di udire come furono ricevuti colà questi nobili signori vi dirò quello che ho udito raccontare delle accoglienze che furono loro fatte.

Il loro duce e compagno, il fido Rual, si avanzò per primo e scese a terra, si tolse cappello e mantello secondo l'uso cortese, si volse a Tristano con volto sorridente, lo abbracciò e disse:

"Mio signore, vi do il benvenuto in nome di Dio, in nome della vostra patria e di me stesso. Guardate ora signore, vedete qui presso questo mare? Fortezze, città, forti opere di difesa e molte belle castella: tutto questo vostro padre Kanele ve lo ha dato e lasciato in eredità. Ora se voi farete ben attenzione nulla di tutto quanto vedete fin dove giunge il vostro sguardo vi sfuggirà di mano: di questo vi sarò sempre garante".

Con queste parole si volse e con lieto animo e affabilmente ricevette i cavalieri a uno a uno e con cortesi parole cominciò a salutarli e riverirli. Quindi li condusse a Kanoel; le città e le castella che sin dagli anni di Kaneles erano sotto la sua cura le consegnò tutte a Tristano secondo la tradizione della lealtà feudale e anche le terre sue proprie che aveva ereditato egli stesso dai suoi antenati. Che bisogno abbiamo più di discorsi? Egli aveva senno e onore, perciò offrì consiglio al suo signore e a tutti gli altri come colui che senno e onore possiede. Occhio umano mai vide tale zelo e sollecitudine quanta egli ne dimostrò in loro favore.

Ma come? che cosa mi è accaduto? sono proprio smemorato! Dove ho lasciato il senno? La degna mariscalca, la pura, la fida madonna Florete, non è cortese in verità che io ne abbia taciuto finora. Ma io debbo compensarne la dolce signora e farne penitenza. Essa, cortese e buona, la migliore e la più degna, così soavemente femminile, so che accolse gli ospiti non solo con le parole, poiché come queste uscivano dalla sua bocca sempre la dolce volontà le precedeva; il suo cuore si librava in alto come se avesse le ali; parole e volere sempre si accordavano con la sincera intenzione e sono certo che ambedue traboccavano ricevendo gli ospiti. Quale fu la gioia della santa mariscalca Floreta nel rivedere il suo sposo e il figliolo suo, il figliolo di cui parla questa novella, intendo suo figlio Tristano!

Secondo quanto ho letto, io riconosco in verità gli onesti costumi di questa donna benedetta e le sue grandi virtù; e come queste non fossero scarse lo dimostrò come meglio deve dimostrarlo una donna, poiché procurò al suo figliolo e al seguito di lui tutti gli onori e gli agi che mai cavaliere abbia goduto. E io sono anche sicuramente convinto, quanto meglio non potrei esserlo, che al cortese Kurwenal in quel momento Tristano fu grandemente benvenuto, di ciò non ho alcun dubbio.

Quindi furono convocati in tutta la Parmenia i signori e le autorità che avevano il comando nelle città e nelle castella; e quando furono riuniti a Kanoel e videro e appresero la verità, come di Tristano narra la storia e come voi stessi l'avete udita, migliaia di saluti di benvenuto gli volarono incontro da ogni bocca. La gente e il paese cominciarono a riaversi dal lungo patire e si prepararono a grande gioia e a meravigliosa allegrezza; riceverono ognuno dalla mano del loro signore Tristano i loro feudi, la loro gente e le loro terre; gli giurarono fede e divennero suoi vassalli.

Intanto Tristano portava sempre nascosto nel cuore il suo segreto rammarico a causa di Morgan e questo rammarico non lo abbandonava mai, in alcun momento. Così prese consiglio con i famigliari e i sudditi e disse che voleva andare in Bretagna a ricevere il feudo dalla mano stessa del suo nemico al fine di poter tenere con maggior diritto la terra di suo padre. Questo egli disse e questo fece. Partirono dalla Parmenia egli e la sua compagnia, bene armati e preparati come giustamente suole chi ha serio intento di imprese pericolose.

Quando Tristano giunse in Bretagna, per caso apprese e udì affermare che il duca Morgan era a caccia nella foresta. Diede ordine allora ai cavalieri di affrettarsi, di prepararsi e di mettere sotto la veste le corazze in modo che neppure un anello di queste si scorgesse dall'abito. Così fu fatto: e inoltre ognuno indossò l'ampio mantello da viaggio e così stettero in arcioni tutti sui loro destrieri. Alla truppa poi fu comandato di ritornarsene e di non indugiare in nessun luogo: i cavalieri divisero le loro forze e ne misero la maggior parte alla retroguardia per coprire la truppa finché questa si trovava in cammino. Restarono allora soltanto trenta uomini con Tristano mentre quelli della retroguardia erano ben sessanta e più.

Ben presto Tristano cominciò a vedere cani e cacciatori e chiese loro notizie di dove si trovasse il duca: essi subito risposero e infatti egli non tardò a scorgere molti cavalieri brettoni sui prati ai margini del bosco. Colà erano stati eretti anche molti padiglioni e molte tende con grande dovizia di foglie e di fronde internamente e al di fuori. Avevano anche pronti i cani e i falconi. Salutarono Tristano e il suo seguito cortesemente secondo l'uso della cavalleria e gli dissero che il loro signore Morgan cavalcava là presso nel bosco. Tristano e i suoi si affrettarono colà e trovarono infatti Morgan con molti cavalieri brettoni montati su destrieri castigliani.

Si avvicinarono mettendo i cavalli al passo. Morgan accolse i forestieri di cui non conosceva le intenzioni molto cortesemente come è dovere verso gli ospiti e la sua gente fece altrettanto, accorrendo ognuno col proprio omaggio. Terminati i saluti e cessata l'agitazione Tristano si rivolse liberamente a Morgan:

"Signore, io sono qui venuto per il mio feudo e chiedo che me lo concediate e non mi neghiate ciò a cui io ho diritto; farete così azione buona e cortese".

Morgan disse:

"Signore, ditemi da dove venite e chi siete".

Tristano gli rispose:
"Signore, io sono nativo della Parmenia e mio padre si chiamava Riwalin. Io, sire, devo essere suo erede. Il mio nome è Tristano".

Morgan replicò:

"Messere, voi mi venite con delle vane novelle che sarebbero meglio taciute che narrate. Ho già deciso che qualora esigeste da me qualche cosa, vi sarebbe facilmente data soddisfazione senza che nulla lo impedisca, purché foste uomo da bene e poteste comunque volgerla a onore: ma noi tutti sappiamo (ed è la favola di tutto il paese) in quale maniera vostra madre Blancheflur abbandonò la sua terra con vostro padre e quale onore gliene venne e come finì quella relazione".

"Relazione? che cosa intendete?".

"Non intendo altro che quello che dico: è così come affermo".

"Signore - replicò Tristano -, le vostre parole mi fanno supporre che voi crediate che io non sia nato da matrimonio legittimo e quindi dovrei perdere il mio feudo e il mio buon diritto".

"Dite il vero, buon cavaliere, così crediamo io e molti altri".

"Voi parlate male - disse Tristano -: io pensavo che fosse giusto e conveniente che chi offende una persona riflettesse a quello che dice e usasse senno e cortesia nelle sue parole. Se aveste tanta cortesia o senno per quanto mi avete offeso, mi avreste risparmiato questo discorso che risveglia recente dolore e fa rivivere vecchie colpe. Voi mi avete ucciso il padre e con questo non vi sembra ancora colma la misura del mio soffrire e dite che la madre che mi portò mi abbia generato in concubinaggio. Iddio misericordioso mi aiuti! Io so che tanti nobili cavalieri che qui non posso nominare hanno giurato fede nelle mie mani. Se avessero riconosciuto in me questa macchia nessuno di essi avrebbe messo la sua mano nella mia. Questi ben conoscono la verità che mio padre Riwalin fino alla sua morte ha avuto mia madre per legittima sposa. Questo lo dimostrerò in verità sulla vostra persona".

"Avanti, dunque - gridò Morgan - in maledizione! a che servono le vostre testimonianze, nessuno che abbia diritto a corte è colpito dalle vostre parole".

"Questo si vedrà", gli rispose Tristano e sguainò la spada e lo attaccò spaccandogli il cranio dall'alto in basso fino alla lingua. Quindi gli immerse la spada nel cuore. Così fu dimostrata la verità del proverbio il quale dice che le colpe giacciono ma non si consumano.

I compagni di Morgan, i baldi Brettoni, non poterono assisterlo né venirgli in aiuto prima che cadesse; tuttavia furono sulla difesa appena poterono e divennero presto un grande esercito. Essi pur impreparati, con virile coraggio attaccarono i nemici; nessuno cercò scampo o salvezza; si avanzarono in massa e li rigettarono con violenza fuori dal campo nella foresta. Si levò allora un grande rumore, alti pianti e lai. Come se avesse le ali la notizia della morte di Morgan si diffuse rapida con grande lamento per città e villaggi. Una sola parola volò subito attraverso tutto il paese:A noster sires, il est mort! Che sarà ormai della nostra terra? Su, prodi guerrieri, uscite dalle città e dalle fortezze e vendicate l'offesa che ci ha fatto quest'oste nemica".

Essi allora si levarono tutti in grande battaglia ma anche negli stranieri trovarono sempre forte resistenza: questi ritornavano di volta in volta con un intero drappello, gettando a terra molti cavalieri che attiravano fuggendo là dove sapevano trovarsi il resto delle loro forze. Colà ritrovarono le loro schiere di cavalieri e si accamparono su di un monte e vi trascorsero la notte. Ma durante questa le forze brettoni si accrebbero tanto che appena fu giorno attaccarono gli odiati nemici ricacciandoli con violenza, uccidendone molti e irrompendo nelle schiere con spade e lance che però ressero solo per breve tempo. Invero spade e lance furono di ben poca difesa, molte si spezzarono nell'attacco. Il piccolo esercito si difendeva con tanto valore che quando si scontrarono la mischia fu grande. Ambedue le parti vennero volta a volta sopraffatte con grandi perdite; molte e gravi ferite furono date e ricevute. Così continuarono gli uni contro gli altri finché la difesa cominciò a indebolirsi poiché la sua resistenza scemava e quella dei Brettoni aumentava: questi crescevano continuamente di numero e di forze, così che prima di notte ricacciarono i nemici in una piazzaforte circondata da un fossato: da dove questi si difesero rifugiandovisi per la notte. La fortezza fu stretta da presso e circondata come da una fitta siepe di uomini. Che potevano fare i campioni stranieri, Tristano e i suoi uomini oppressi così? Vi dirò ora come andarono le loro fortune e come si risolse la loro sorte, come uscirono da quella situazione e conseguirono la vittoria sui loro nemici.

Fin da quando Tristano era partito secondo il consiglio di Rual per andare a ricevere il suo feudo e quindi ritornarsene, si agitava nel cuore del fido Rual il presentimento di quello che in realtà accadde; però non aveva indovinato la sconfitta di Morgan. Egli chiamò cento cavalieri e seguì le tracce del suo signore Tristano. Ben presto arrivò in Bretagna e subito vi apprese quel che era accaduto e, secondo quanto si diceva nel paese, si diresse dove i Brettoni erano all'assedio. Quando si avvicinarono e videro i nemici non vi fu alcuno che si traesse indietro; tutti insieme attaccarono con bandiera al vento. Vi furono alte grida di guerra fra le loro schiere:

"Chevalier, Parmenie! Parmenie, Chevalier!".

Uno dopo l'altro passavano con vessilli e stendardi attraverso l'attendamento producendo rovine e devastazioni; inflissero ai Brettoni nelle loro tende delle ferite mortali.
Quando gli assediati scorsero i vessilli del loro paese e udirono il loro grido di battaglia irruppero cavalcando fra i nemici. Tristano fece attaccare con impeto. Grande strage fu fatta tra le truppe locali, uccidendo e facendo prigionieri, abbattendo e trafiggendo; così si fecero strada da ambo le parti nelle schiere nemiche; anche l'udir gridare in due punti così frequentemente e tanto forte

"Chevalier, Parmenie", le disanimò: non ci fu più tra loro né resistenza, né contrattacco, né forza per combattere, ma un fuggire e un nascondersi e sospingersi e correre verso i monti e le foreste: il combattimento fu generale, la fuga fu la loro maggior difesa e la loro migliore salvezza dalla morte.

Terminato questo scontro, i cavalieri si riposarono e si accamparono in quel luogo; diedero sepoltura a quelli dei loro compagni che giacevano uccisi e riportarono a casa loro su barelle coloro che erano feriti. Così Tristano ottenne dalla propria mano il suo feudo e le altre terre; divenne signore e padrone di ciò che suo padre non aveva mai goduto. Così ebbe provveduto alle cose sue e messovi ordine: provveduto agli averi e appagato l'animo; il torto fattogli era stato raddrizzato e la sua tristezza alleviata e placata. Egli aveva ora in propria mano l'eredità di suo padre e tutta la terra incontrastata e tale che nessuno mai né ovunque aveva diritto alcuno sui suoi possedimenti. Così rivolse nuovamente il pensiero alla Cornovaglia, secondo l'ordine e il consiglio di suo zio, quando da lui era partito. Al tempo stesso non poteva stornare il pensiero da Rual, che con paterna costanza gli aveva dimostrato tanta bontà. Il suo cuore era fortemente attaccato tanto a Rual che a Marco: a loro due era rivolto tutto il suo affetto e oscillava fra l'uno e l'altro. Ora un santo stesso ci dica: come potrà il buon Tristano riuscire a rendere giustizia ad ambedue e compensare ognuno come è suo dovere? Chiunque comprende bene che non potrà evitare di abbandonare l'uno per rimanere presso l'altro. Diteci che cosa deve risolvere? Se ritorna in Cornovaglia allora la Parmenia va in rovina, perde ogni valore e anche Rual rimane senza gioia nell'animo suo e privo di tutti i beni che dovevano formare la sua fortuna; se invece decide di rimanere non potrà aspirare a più alti onori e annullerà anche il progetto di Marco al quale questi onori sono legati. Come dunque dovrà contenersi? Sa Iddio che è necessario che parta; in questo bisogna approvarlo: è suo dovere crescere in onori e anche elevarsi di spirito se vuol conseguire il bene e anche la felicità; è giusto che desideri e brami tutti gli onori. Se la fortuna glieli concede ne ha ben ragione, perché tutto l'animo di lui a quelli è rivolto.

Il saggio Tristano molto assennatamente decise di dividersi ugualmente fra i suoi due padri, come se dovesse essere spartito. Egli si divise, proprio come si divide un uovo, in due parti uguali e diede a ognuno ciò che sapeva essere più vantaggioso a lui e a tutte le sue imprese. A chi non ha mai saputo come si possa fare questa divisione pur serbando intero il corpo, io racconterò come lo si compia. Non c'è dubbio: due cose fanno l'uomo, voglio dire il corpo e gli averi. Da questi due viene il nobile sentire e vengono molti onori mondani. Se uno però vuole separare questi due elementi, la ricchezza diventa povertà, il corpo a cui non si fa giustizia viene meno al suo nome e l'uomo diventa un mezzo uomo anche col corpo intero. Lo stesso è per la donna. Si tratti di uomo o donna, beni e corpo devono formare un unico essere, unito in tutto; se li volete separare è finita per ambedue.

Tristano compì questa separazione con magnificenza e buona volontà e la eseguì con saggezza: ordinò di acquistare bei destrieri e nobili vesti, cibi e altre provviste come si suole fare nelle feste e diede un gran banchetto; mandò a chiamare e invitò i migliori del paese, quelli che ne facevano la forza; questi agirono da buoni amici e vennero appena furono chiamati. Anche Tristano era pronto con i suoi preparativi. Egli armò cavalieri i due giovani figli di Rual, perché desiderava che fossero i propri eredi e vassalli dopo Rual loro padre; e quindi non risparmiò nulla di quanto poteva riuscire a loro onore e a loro dignità e se ne preoccupò sempre e continuamente e con tale buonvolere come se fossero stati figli suoi.

Ecco ora erano fatti cavalieri e altri dodici con loro due e uno dei dodici era Kurvenal il cortese. Tristano il virtuoso, esperto degli usi cavallereschi, prese i suoi fratelli per mano e li condusse con sé. I suoi parenti e i suoi fidi e tutti quelli che per senno o per età, o anche per ambo le qualità, ne erano degni furono tutti invitati a corte.

Ora, signore, sono tutti presenti: Tristano si levò e stette davanti a essi:

"Signori - disse - per quanto è in mio potere, sono pronto a rendervi servizio con ogni fedeltà e lealtà, miei cari amici e vassalli, per la gratitudine che vi debbo, poiché quanto di onore Dio mi ha concesso e il mio cuore desiderava l'ho potuto compiere grazie al vostro aiuto. Per quanto tutto ciò sia stato donato da Dio, pure io so che l'ho ottenuto col vostro valore. Che cosa posso dirvi di più? In questi pochi giorni mi avete in vari modi procurato tanto onore e tanta benedizione, che sono sicuro che il mondo potrà anche finire prima che voi in alcuna maniera vi opponiate alla mia volontà. Amici, vassalli, e tutti voi che siete qui convenuti per mio volere e per vostra propria virtù, non vi dispiaccia il mio dire: io annunzio e comunico a tutti che mio padre Rual, qui presente, ha visto e udito come mio zio ha posto in mano mia il suo regno e per amor mio non vuol prendere donna, affinché io sia suo erede, e vuole che io stia sempre presso di lui, ovunque vada o dimori. Ora io mi sono deciso e ho risoluto dentro di me di fare la sua volontà e di ritornare da lui. I miei possedimenti e la potestà che ho in questa terra io li lascio e li do in feudo a mio padre Rual e qualora in Cornovaglia non dovessi incontrare buona ventura, sia che io venga a morire o che io rimanga colà, voglio che siano suo feudo ereditario. Ecco qui due figli suoi, insieme agli altri suoi figlioli; questi saranno d'ora innanzi suoi eredi con ogni diritto. Vassalli miei e uomini ligi, i feudi in tutto il paese li terrò in mano mia per tutti i miei giorni, finché avrò vita".

Si levò allora gran pianto e grande lamento fra i cavalieri; tutti si rattristarono e si persero d'animo poiché il loro conforto se ne andava.

"Ah, Dio! - dicevano fra loro - meglio sarebbe stato per noi non averlo mai veduto, non avremmo allora questo dispiacere di separarci da lui. Signore, in voi avevamo riposto ogni nostra consolazione e ogni nostra speranza, come se in voi ci fosse stata data una nuova vita per nostra gioia, che adesso è morta e sepolta se voi ve ne andate via da noi: così, Signore, avete aumentato, non lenito, il nostro soffrire. Le nostre fortune si erano alquanto rialzate e ora sono ricadute a terra".

Io sono sicuro come della morte che per quanto grande fosse il loro dolore e profonda la loro pena, il più dolente di tutti a questa notizia fu Rual, sebbene gliene venisse grande vantaggio e profitto di onore e di ricchezza. Egli riceveva infatti un feudo, ma sa Iddio se mai ne aveva accettato uno con maggior rammarico. Ora che Rual e i suoi figli avevano avuto feudo e retaggio dalla mano del loro signore Tristano, questi raccomandò la sua terra e i suoi sudditi a Dio e se ne partì da quel paese. Con lui ritornò anche Kurvenal, suo maestro. Ma fu forse piccola pena e lieve dolore quello di Rual e degli altri suoi vassalli, e del popolo in generale per il loro amato signore? In fede mia, vi so dire che la Parmenia fu piena di pianti e lamenti; il loro affanno era straordinario.

La mariscalca Florete, piena di fedeltà e di onore, soffrì un vero martirio, come in tutta giustizia è naturale in una donna cui Dio ha dato una vita ricca di femminile virtù.

Ma a che scopo trattenervi più oltre su questo? Quando Tristano, senza terre ormai, giunse in Cornovaglia, apprese subito la sgradita novella, che dall'Irlanda era giunto il potente Morolt che a mano armata esigeva da Marco il tributo di ambedue le terre, la Cornovaglia e l'Inghilterra.

Per quanto riguarda il tributo, la questione era la seguente: secondo quanto ho letto nelle storie e come dice la vera tradizione, il re d'Irlanda era in quel tempo Gurmun Gemuotheit, nativo dell'Africa dove suo padre era re. Alla morte di questi il regno passò a lui e a suo fratello che era erede al pari di Gurmun, ma così avido e superbo che non voleva dividere il regno con altri. Il suo cuore non gli lasciava requie se non era egli solo signore. Cominciò a scegliere e a eleggere i più forti e più coraggiosi fra i cavalieri e vassalli e i migliori in caso di bisogno, che poté guadagnare con ricchi doni oppure con opere cortesi e abbandonò al fratello tutte le sue terre.

Quindi subito partì e si recò dai celebri potentati romani e da loro ricevette licenza di tenere in proprietà quello che avrebbe conquistato con la spada e con la propria forza, mentre in cambio avrebbe dato loro alcuni diritti e privilegi. Non indugiò a lungo colà, ma per mari e monti venne con una forte armata e giunse in Irlanda, la conquistò e con la forza delle armi obbligò gli abitanti a riconoscerlo, loro malgrado, per signore e re, e a impegnarsi ad aiutarlo sempre nelle guerre per sottomettere i paesi vicini.

In questo modo ridusse sotto al suo dominio anche la Cornovaglia e l'Inghilterra. In quel tempo Marco era ancora fanciullo e come tale imbelle: perse quindi il potere e divenne tributario di Gurmun. Per Gurmun poi fu di grande aiuto e vantaggio l'avere preso in moglie la sorella di Morolt, donde più si accrebbe anche il timore di lui. Morolt era duca in quella terra, ma avrebbe voluto avere un dominio suo proprio poiché era assai prepotente, di grande robustezza e virile coraggio e possedeva terre e molte ricchezze. Egli era capo delle schiere di Gurmun.

Quanto al tributo che da ogni paese veniva mandato in Irlanda, ve ne posso dare sicura notizia: il primo anno furono inviati trecento marchi di metallo, il secondo anno di argento, il terzo di oro. Il quarto anno Morolt venne in Irlanda in persona, pronto a combattere e a far guerra. Dalla Cornovaglia e dall'Inghilterra furono mandati baroni e loro pari che venivano a sorteggiare in sua presenza chi dovesse dargli i propri figli che fossero adatti al servizio di corte, belli e avvenenti come a corte si conveniva: non fanciulle, ma solo giovinetti, e dovevano essere trenta per ciascuno dei due paesi. E a questa onta non potevano sottrarsi che con la guerra oppure in singolar tenzone.

Ora questi due regni non potevano riacquistare il loro buon diritto in guerra aperta perché le terre erano immiserite e inoltre Morolt era così forte e tanto crudele e cattivo che nessuno, se soltanto lo guardava negli occhi, osava misurarsi con lui, non più di quanto avrebbe osato una donna. Ora quando al quinto anno il tributo fu mandato in Irlanda, i due regni dovevano nell'estate inviare a Roma dei messi che a Roma fossero graditi, per sentire colà quali ordini e quali disposizioni il potente Senato decretava per ogni singolo paese che fosse suddito di Roma, poiché tutto l'anno si leggeva e si inculcava loro in tutti i modi come dovessero osservarne le leggi e gli ordinamenti e come essi dovessero vivere secondo quanto questi prescrivevano. Questo tributo e questi doni i due regni li mandavano ogni cinque anni a Roma, loro nobile signora. Ma le tributavano questo onore non tanto per diritto né per amor di Dio, quanto per ordine di Morolt.

Riprendiamo ora la nostra storia. Tristano aveva già udito di questo sopruso subìto dalla Cornovaglia e fino a quel tempo conosceva come venisse corrisposto il tributo. Pure, ovunque andasse, per città o castella, sentiva tutti i giorni e ovunque lamentare dalla gente del paese questa disgrazia e questa mala sorte della loro patria; e quando arrivò a Tintajoel e giunse alla corte, udì dappertutto nelle vie e nelle piazze, tale duolo e tali lamenti che ne fu fortemente commosso. Marco e i suoi ebbero presto notizia del ritorno di Tristano e tutti ne furono lieti. Lieti, intendo, quanto era compatibile col loro affanno; poiché i migliori cavalieri che si trovassero in tutta la Cornovaglia erano allora convenuti a corte in quei giorni a causa di quel sopruso di cui avete udito. I nobili della città venivano colà a sorteggiare i loro figlioli per questa taglia e così Tristano li trovò tutti prostrati in preghiera che ciascuno faceva apertamente e senza vergogna con calde lacrime e con intimo dolore d'anima e corpo, affinché Dio onnipotente proteggesse e salvasse la sua dignità e anche il suo figliolo.

Mentre erano tutti in preghiera sopraggiunse Tristano. Ma come fu ricevuto? è facile dirlo: in verità egli non fu accolto in quella compagnia da alcun figlio di donna e neppure da Marco con sì dolce saluto come lo sarebbe stato senza quella sventura; di ciò egli fece però poco caso, ma si presentò arditamente là dove si faceva il sorteggio e dove stavano anche Morolt e Marco.

"Signori - disse egli - voi tutti qualunque sia il vostro nome, che siete qui convenuti per vendere i vostri figlioli, non vi vergognate di subire quest'onta fatta a voi e al vostro paese? Prodi come siete e sempre siete stati in ogni circostanza, sarebbe giusto che cercaste di procurare stima e maggior onore a voi stessi e alla vostra patria. Ora invece avete messo la vostra libertà ai piedi del vostro nemico e l'avete posta in mano sua con vergognoso tributo; i vostri nobili figli, che dovrebbero essere la vostra gioia, la vostra consolazione e la vostra vita, li date e li avete dati in servitù e non potete giustificare quest'obbligo né dire quale altra necessità ve lo imponga, ma soltanto un duello e un uomo. Non avete altra difficoltà che di trovare fra tutti voi uno che voglia azzardare la propria vita contro un singolo avversario, sia per vincere o per cadere. Anche se dovesse restare sul terreno, in verità questo breve morire e questa lunga pena vivente hanno in cielo e in terra ben diverso valore; se però accade invece che egli resti vincitore e che quindi l'ingiustizia sia tolta, avrà sempre lassù maggior ricompensa da Dio e quaggiù onore maggiore. I padri devono dare la propria vita per i figli perché sono una vita stessa con essi; questa è la volontà divina, ma agisce contro il comandamento di Dio chi aliena la libertà dei suoi figli e li dà in servitù, così che essi sono fatti servi mentre egli vive in libertà. Se devo darvi un consiglio per la vostra vita e per il vostro onore è quello di scegliervi un uomo come potrete trovarlo tra questa vostra gente, formato alle armi e che voglia tentare la fortuna per la vita e per la morte e soprattutto pregate tutti per l'amor di Dio che lo Spirito Santo gli dia fortuna e onore e che non gli incuta timore l'aspetto di Morolt e la sua forza; abbia invece fiducia in Dio che non ha mai abbandonato chi agisce rettamente. Consigliatevi sollecitamente come stornare da voi quest'onta e difendervi da un uomo e non disonorate più oltre la vostra nobile nascita e la vostra dignità".

"Ah, signore - dissero allora tutti - con quest'uomo è un'altra cosa; nessuno può vincerlo".

Tristano rispose:

"Lasciate questi discorsi, in nome di Dio, riflettete ancora! Voi siete per nascita uguali a tutti i re e pari a tutti gli imperatori e volete vendere e negoziare i vostri nobili figlioli che sono pari a voi in nobiltà e renderli schiavi. E qualora non vi sia alcuno che possiate muovere a considerare il vostro affanno e la sventura di questo paese e che osi combattere per la giustizia nel nome di Dio contro quest'unico uomo, allora vogliate lasciare tutto a Dio e a me. In verità, signori, io impegnerò in questa avventura la mia giovinezza e la mia vita in nome di Dio e sosterrò per voi il combattimento: Dio faccia che risulti in vostro bene e vi renda il vostro diritto! E anche se il conflitto non dovesse essermi favorevole questo non vi porterà danno. Se io muoio nel duello non avrete perduto né guadagnato niente, la vostra miseria non ne risulterà né diminuita, né più grave né più leggera. Se invece accada che io ritorni salvo in vostra salute, questo sarà per volere di Dio e ringraziatene Lui solo: poiché, come ho sentito dire, colui che devo affrontare da solo è uomo di valore e di grande forza e da lungo tempo temprato alle armi: io invece comincio adesso e per animo e per forze non sono così pratico di cavalleria come sarebbe ora necessario.

Senonché io ho in Dio e nel nostro buon diritto due potenti aiuti per la lotta che combatteranno con me. Inoltre ho pure buona volontà e anche questa è utile nel combattere; se questi tre mi assistono, per quanto inesperto io possa essere nel resto, ho buona speranza di salvarmi da questo unico avversario".

"Signore - dissero allora i cavalieri - la sacra potenza di Dio che ha creato tutto il mondo vi compensi del vostro conforto e del suggerimento che ci date e della beata speranza che avete ispirato in noi tutti. Signore, ora però lasciate che vi diciamo tutto; nel nostro consiglio non siamo mai riusciti a nulla. Se la fortuna ci avesse favorito ogniqualvolta l'abbiamo tentata non avremmo atteso fino a questo momento. Più di una volta ci siamo riuniti in consiglio qui in Cornovaglia per questa nostra iattura: abbiamo molto e variamente discusso, ma non abbiamo mai potuto trovarne uno fra noi che non preferisse dare il proprio figlio in servitù piuttosto che perdere lui stesso la vita contro questo essere diabolico".

"Come potete parlare così - disse Tristano -; molte cose sono avvenute e abbiamo veduto operare dei miracoli in cui l'ingiusta superbia è stata annientata da deboli forze. Questo potrebbe ben avvenire anche ora se uno osasse azzardarcisi".

Ora Morolt stava ad ascoltare e molto lo indispettiva che Tristano, così giovane di aspetto, insistesse tanto per il duello e nel suo cuore gli portava odio. Ma Tristano soggiunse:

"Voi dunque, signori, tutti parlate e dite quello che desiderate che io faccia".

"Signore - risposero allora quelli - così sia. Sarebbe tutta la nostra speranza che si avverasse quello che ci avete prospettato".

"Siete così d'accordo - riprese egli. Poiché dunque oramai questo è riserbato a me, col permesso di Dio voglio tentare se per mezzo mio Egli voglia concedervi grazia e se possa trovare grazia io stesso".

Allora Marco cominciò a dissuaderlo con tutte le sue forze e pensava che ordinandogli di desistere, Tristano per amor suo vi rinuncerebbe, ma Dio sa che non fu così: né con comandi né con preghiere poté far sì che per amor suo si ritirasse, anzi andò e si presentò davanti a Morolt e gli disse:

"Signore, così vi aiuti Iddio, che cosa chiedete?".

"Amico - replicò senza indugio Morolt - a che scopo mi fate questa domanda? Vi è ben noto quello che chiedo e quello che voglio".

"Voi tutti, signori, ascoltatemi - disse allora il saggio Tristano - voi Sire, mio re, e voi suoi ligi. Sire Morolt, voi dite il vero, lo so e riconosco quale sia il nostro disdoro; è cosa che nessuno può ignorare: per molti anni il tributo è stato ingiustamente mandato in Irlanda da qui e dall'Inghilterra e per questo ci è voluto assai tempo e sforzi e fatica dopo che nel paese erano state distrutte città e villaggi e che anche le persone avevano subìto tanti e così gravi danni finché furono sopraffatte dalla violenza e dalla ingiustizia; quindi i buoni sudditi che erano scampati dovettero sottostare a tutto ciò che veniva loro comandato, perché temevano la morte e, ridotti come erano, non avevano modo, per allora, di migliorare la loro condizione. Questo è il grande torto che ancora oggi sussiste e che da allora in poi è stato sopportato. Già da molto tempo questa vergognosa servitù avrebbe dovuto essere rifiutata con le armi, poiché ormai i paesi sono progrediti ed è aumentato il numero dei cittadini e anche dei forestieri delle città e delle fortezze che sono cresciute in ricchezza e in fama. Dobbiamo ora raddrizzare i torti che ci sono stati fatti, poiché la nostra salvezza deve venire solo dalla forza; se vogliamo essere salvi dobbiamo procurarcelo con lotta e battaglia.

Noi siamo in vantaggio quanto a uomini: i due regni sono ben popolati. Ci deve venir reso quello che durante tutta la nostra vita ci è stato tolto; dobbiamo noi stessi riconquistarci, appena Dio ce ne dia il tempo, quanto è nostro, sia molto o poco; secondo il mio consiglio e la mia volontà dev'essere restituito tutto, fino all'ultimo anellino.

Il nostro metallo può ancora convertirsi in rosso oro; sono accadute sulla terra molte cose strane che non si erano mai prevedute e i nobili figli di questi cavalieri, che sono stati ridotti in servitù, potrebbero ancora ritornare liberi, per quanto impensabile questo possa sembrare. Dio mi conceda quello di cui lo prego nel Suo nome, che io possa con questa mia mano e insieme a questi miei compagni rovesciare le bandiere d'Irlanda e così umiliare quel paese e quella terra".

Morolt replicò:

"Ser Tristano, se voi vi incaricaste meno di queste cose e di questa questione, credo che sarebbe bene per voi poiché, per quanti discorsi facciate qui, noi non rinunceremo per ciò a quanto per diritto ci spetta".

Mettendosi quindi di fronte a Marco,
"Re Marco - disse -, parlate e fateci sapere, voi e quelli che sono qui presenti per discutere con me dei loro figlioli e chiariteci meglio questa questione: è questo il vostro volere e siete tutti d'accordo secondo quanto ha detto qui il vostro delegato Ser Tristano?".

"Sì, signore, quello che egli fa o dice è nostro consiglio, nostra volontà e opinione di noi tutti".

Morolt replicò:

"Allora rompete la fede al mio signore e a me e mancate al vostro giuramento e a tutte le promesse che sono corse fra noi".

Tristano, il cortese, però rispose:

"No, vi sbagliate, signore: suona male parlare in detrimento della lealtà di qualcuno; nessuno di noi rompe la fede o il giuramento. Un giuramento e un patto furono fatti una volta tra voi e questi devono essere mantenuti, cioè ogni anno si deve mandare come di dovere in Irlanda dalla Cornovaglia e dall'Inghilterra il tributo fissato oppure, altrimenti, ricorrere alle armi in singolar tenzone o in battaglia. Se questi ora sono disposti a riprendere la loro fede e sciogliere il giuramento con tributo o con combattimento, ne hanno tutto il diritto. Signore, decidete: riflettete e ditemi che cosa preferite e se scegliete il duello oppure la guerra. Di questo siate oggi e sempre sicuro e garantito da parte nostra. Spada e lancia devono decidere fra noi: ora scegliete e dateci la risposta. Altra soluzione per il tributo non c'è".

Morolt disse:

"Ser Tristano, sono già giunto alla decisione; so bene quello che voglio. Non ho qui uomini in numero sufficiente da potere armare per la battaglia. Io venni qui dal mio paese oltre il mare con piccolo seguito e venni pacificamente in questo regno come ho fatto altre volte. Non pensavo che mi dovesse accadere questo; non prevedevo tale questione con questi grandi feudatari: credevo di ritornarmene col mio buon diritto e anche con benvolere. Ora mi avete cimentato a combattimenti e a questo io sono ancora impreparato".

Tristano riprese:

"Signore, se siete disposto a una guerra ritornate subito indietro, andate di nuovo nel vostro paese, chiamate i vostri cavalieri, riunite tutte le forze e ritornate qui e vediamo quello che accadrà; e se non fate questo entro i prossimi sei mesi, siate pur certo che allora verremo noi. Ci hanno detto già in antico che contro la forza bisogna usare la forza e la violenza contro la violenza. Poiché con le armi è lecito disonorare il paese e il buon diritto e ridurre i nobili in servitù, se c'è ancora giustizia noi confidiamo nella grazia di Dio che faccia valere contro di voi la debolezza nostra".

"Sa Iddio - disse Morolt - Ser Tristano, che io odo cose tali e tali novelle che angustierebbero e preoccuperebbero chi mai udì simili parole, né mai soffrì simili minacce: spero però di uscirne salvo. Mi sono trovato anche sovente dove si facevano tali vanterie e gran discorsi ed è ancora mia convinzione che Gurmun può stare senza preoccupazioni riguardo alla sua gente e al suo paese, nonostante la vostra potenza e le vostre bandiere. E anche questa vostra prepotenza, se ci rompete la fede e il giuramento, non resterà invendicata in Irlanda; dobbiamo ora decidere fra noi con le armi in singolar tenzone chi di noi due ha ragione, io o voi".

Tristano replicò:

"Questo lo compirò con l'aiuto di Dio e possa perire quello di noi che ha torto".

Egli si tolse allora il guanto e lo porse a Morolt:

"Signori, - disse egli - voi tutti qui presenti e voi pure Sire, mio signore, ascoltate come io dichiari che in questo io non ledo il diritto; che né Ser Morolt qui presente, né colui che lo ha mandato qui, né alcun altro conquistò con la forza il diritto al tributo, né in Cornovaglia né in Inghilterra; questo lo affermo e lo dimostrerò davanti a Dio e davanti al mondo contro questo signore che ci sta dinanzi e che in ambo i nostri paesi ci ha procurato questo malanno e questa vergogna".

Allora subito molte nobili bocche invocarono Dio con le parole e col cuore, affinché Egli, nella sua giustizia togliesse quel loro vilipendio e quell'afflizione e li liberasse dalla servitù.

Per quanto grande fosse la loro sofferenza, questa non importava a Morolt ne punto né poco e non ne fu affatto impietosito. Da uomo esperto non lasciò a terra il pegno della sfida, ma egli pure a sua volta glielo offrì con piglio rude e sicuro; questa occasione gli andava molto a genio e aveva gran fiducia di uscirne salvo.

Quando tutto fu combinato, il duello dei due cavalieri fu fissato per il terzo giorno e quando questo spuntò vennero tutti i feudatari e i vassalli e anche grande ressa di popolo, così che tutta la riva fino al mare era affollata.

Morolt procedette allora ad armarsi. Ora io non voglio forzare l'attenzione del mio cuore e offuscare l'acutezza dei miei sensi parlando troppo lungamente delle sue armi e della sua robustezza, quando già tanto è stato detto della sua prestanza. La sua fama è vasta, così che per coraggio e per grandezza la sua lode come perfetto cavaliere era diffusa in tutti i regni. E con questo sia detto abbastanza in sua lode. So bene che egli avrebbe potuto affermarsi con onore allora come in ogni altro momento, in schermaglie secondo le leggi cavalleresche e molte volte lo aveva fatto.

Il buon re Marco era tanto angustiato nel suo cuore a causa di questo duello, che mai neppure una donna ebbe tanto dolore per un uomo. Non trovava conforto alcuno, non vedeva che la morte di Tristano e avrebbe volontieri sopportato sempre il danno del tributo, se il duello si fosse potuto evitare. Invece andò tutto per il meglio tanto per una cosa quanto per l'altra, tanto per il tributo quanto per la persona.

L'inesperto Tristano in questo frangente cominciò subito a esercitarsi a combattere quanto meglio poté. Ricoprì bene, per difenderli, il corpo e le gambe e li rivestì di usbergo e di uose di nobile fattura, chiari e lucenti in cui il maestro artigiano aveva fatto prova di tutta la sua abilità e della sua diligenza. Re Marco, suo fedele amico, con cuore afflitto gli mise due sproni belli e forti e gli allacciò con le proprie mani le cinghie delle armi. Fu recata allora una cotta d'armi, tessuta e ricamata, per quanto ne ho udito, da mani di donna in guisa straniera, ricca e rara e perfetta in ogni particolare, meravigliosamente disegnata e ancor più mirabilmente eseguita.

Oh! quando la indossò come fu bello e piacevole a vedersi! molto vi sarebbe da dirne, se non fosse che non voglio troppo dilungarmi; sarebbe un discorso troppo lungo se volessi riferire su tutto, come dovrei: sappiate però che l'uomo meglio si addiceva al vestito e gli faceva più onore che non il vestito all'uomo; per quanto bella e lodevole fosse la sopraveste pure era a mala pena degna del valore di colui che la indossava. Sopra a questa Marco gli cinse una spada che fu la sua vita e il suo cuore, che lo salvò da Morolt e molte altre volte di poi. Questa gli pendeva allato al giusto posto, né troppo alta né troppo bassa, ma nella posizione voluta.

Gli fu preparato anche un elmo lucente come cristallo e altrettanto puro e solido, il migliore e il più bello che mai cavaliere abbia portato. Credo che mai elmo così buono sia entrato nel paese di Cornovaglia.

In cima vi stava uno strale, profetico della Minne, come poi con l'amore ben si avverò in lui, sebbene riservato a più tardi. Marco glielo impose dicendo:

"Ah, nipote mio, non ti avessi mai conosciuto! Se ti dovesse accadere sventura io me ne appellerei a Dio e rinnegherei tutto quello che forma la gioia dell'uomo".

Portarono allora uno scudo per fare il quale una mano esperta aveva messo tutto il suo impegno; era bianco come l'argento per armonizzare con l'elmo e con la corazza ed era brunito e splendente di luce come uno specchio nuovo. Sopra vi era scolpito molto maestrevolmente un cinghiale di zibellino nero come il carbone. Suo zio glielo cinse; si adattava al suo regale aspetto e aderiva perfettamente alla sua persona allora e in ogni tempo.

Ora Tristano, il mirabile e gentile cavaliere aveva ricevuto scudo, usbergo, elmo e gambali, e questi quattro rilucevano specchiandosi uno nell'altro così bene come se l'artista avesse disposto le cose in modo che ogni arma nel suo splendore desse bellezza all'altra e bellezza ne ricevesse; così il loro quadruplice splendore non poteva essere ne più luminoso né più chiaro. Ma la nuova meraviglia che era nascosta in questa armatura per danno e malanno dei nemici, non aveva dunque potere contro questa maestria strana che di fuori vi era raffigurata? Io ben so, ed è evidente come il giorno che per quanto abile apparisse l'artefice della parte esteriore, colui che aveva formato l'immagine interna, lo superava in maestria ed era meglio dotato per formare la figura del cavaliere che non l'esterna fattura. L'opera vi era mirabilmente condotta come esecuzione e come concetto. La saggezza dell'artefice, ah, come vi era ben palese! Petto, braccia e gambe, tutto era bellissimo e nobilmente formato. L'armatura lo rivestiva in modo mirabile. Uno scudiero teneva il suo destriero e mai né in Spagna né altrove ve ne fu uno più bello, non manchevole in alcuna parte: era largo di pettorale e di collo, forte nei due fianchi e perfetto in tutto, anche le gambe si accordavano col resto per forma e regolarità, gli zoccoli erano rotondi e le gambe snelle e tutte quattro dritte come in un animale brado, era anche di razza pura e alla sella e al petto appariva così nobile come addice ad un vero destriero. Portava sul dorso una gualdrappa bianca chiara come il giorno e splendente come il resto dell'armatura e lunga e ricca tanto che scendeva giù sino ai garetti.

Ora che Tristano era bene e perfettamente equipaggiato per il combattimento secondo la legge cavalleresca e la consuetudine delle armi, ben si potevano lodare tanto l'uomo come l'armatura e tutti erano d'accordo che tanto questo come quella mai fecero miglior figura. Sebbene questo fosse anche qui palese, molto di più lo fu quando Tristano montò in sella e prese in mano la lancia: l'apparizione fu mirabile tanto del cavaliere sopra la sella quanto del cavallo sotto di questa. Egli aveva braccia e spalle ampie e in sella sapeva stare e muoversi come si conviene; lungo i fianchi del cavallo fremevano le formose gambe, dritte e snelle come una spada.

Cavaliere e destriero armonizzavano così perfettamente come se fin dalla nascita fossero insieme fusi. Il comportamento di Tristano in sella era perfetto, sicuro e dignitoso. E con ciò come eletto era il suo aspetto esteriore, altrettanto eletto era internamente l'animo suo, così buono e retto che mai elmo coprì mente più pura e spirito più nobile.

Ai due campioni fu assegnata per il duello una piccola isola nel mare, abbastanza vicina perché dalla riva si potesse scorgere quello che sull'isola accadeva ed era anche stato convenuto che all'infuori dei due guerrieri nessuno vi dovesse mettere piede prima che avesse termine la tenzone. Questo fu strettamente osservato. Furono quindi preparate per i due combattenti due piccole navicelle ognuna delle quali poteva portare un cavallo e un uomo armati. Quando i battelli furono pronti Morolt entrò in uno di essi, prese i remi e navigò verso la sponda opposta e giunto a terra legò il battellino alla riva e saltò subito sul suo cavallo; prese in mano la spada e se ne andò in giro per tutta l'isola giostrando e facendo finte e giochi d'arme, pure in quel grave momento, così spensierati e leggeri come se fosse là per divertimento.

Ora anche Tristano entrò nella navicella e portò con sé armi e bagagli, il suo destriero e anche la lancia e, ritto sulla prua,

"Sire - disse - Re Marco, non vi preoccupate troppo per la mia persona e per la mia vita, ma affidiamo tutto a Dio. Angustiarci non serve a nulla. Forse avremo miglior sorte di quanto ci sia stato pronosticato.

La nostra vittoria e la nostra salvezza non dipendono dalla nostra maestrìa nell'uso delle armi, ma solamente dalla potenza di Dio.

Lasciate ogni timore, poiché è ben possibile che io ne esca salvo. Io vado a questo scontro con animo leggero e lieto: siate così voi pure e state sano; niente accade che non debba accadere; e comunque vada per me e qualunque sia l'esito, affidate fin da ora il vostro paese e il vostro popolo a Colui al quale io pure mi sono affidato: Iddio stesso che sarà con me nella pugna e nel combattimento farà giustizia al buon diritto. Dio in verità deve vincere con me oppure con me cadere sconfitto: è Lui che deve provvedere e disporre".

Con ciò gli diede la sua benedizione, salpò con la sua barchetta e si allontanò nel nome di Dio. Da molte bocche allora la sua vita e la sua persona furono raccomandate a Dio e da molte nobili mani gli furono inviate dolci benedizioni. Quando approdò lasciò andare il suo battello alla deriva e inforcò subito il suo cavallo.

Anche Morolt si trovò subito sul luogo:

"Dimmi - diss'egli - che cosa significa e per quale arte o quale ragione hai lasciato andare così il tuo battello?".

"L'ho fatto per questo: ecco qui una navicella e due uomini e non c'è dubbio che se non restano ambedue sul terreno, l'uno rimarrà certamente morto su quest'isola; quindi per colui che avrà vinto sarà sufficiente questo solo battello che ti portò qui nell'isola".

Morolt replicò:

"Vedo bene che oramai è inevitabile che il duello abbia luogo. Se tu te ne lasciassi distogliere e noi potessimo separarci in buona armonia sul contratto di prima, cioè che mi venga corrisposto regolarmente il tributo da questi due paesi, penso che ciò sarebbe per il tuo bene; poiché invero molto mi addolora doverti uccidere. Mai ho veduto cavaliere che mi piacesse più di te".

Ma il valoroso Tristano rispose:
"Il tributo deve essere abolito se ci deve essere pace tra noi".

"In verità - disse l'altro - in questo modo non giungeremo a un accordo, non così verrà fatta la pace: il mio tributo deve venire con me nella mia terra".

"Quando è così - disse Tristano - noi stiamo qui facendo una discussione molto inutile. Morolt, poiché sei tanto sicuro di uccidermi, difenditi se ti vuoi salvare: qui altro modo non vi è".

Voltò allora il cavallo e gli fece fare un giro; poi nella curva lo lanciò dritto avanti con tutto l'impeto del suo animo; venne avanti come volando, con la lancia abbassata, incitando il cavallo su ambo i fianchi con gli speroni e con le ginocchia. Come poteva ora l'altro ancora indugiare, quando ne andava della vita? Fece come tutti coloro che con tutti i sensi tendono al vero valore: fece egli pure una voltata, come glielo suggeriva l'animo, ora avanti ora indietro, agitando la lancia in alto e in basso. Così avanzò di carriera, come portato dal diavolo. Cavallo e cavaliere arrivarono di volo addosso a Tristano, più rapidi di un falco: uguale ardore animava anche Tristano. Essi incalzavano con lo stesso impeto e venivano ugualmente volando, così che spezzarono le lance e infersero agli scudi migliaia di tagli. Sfoderarono allora le spade, lottando a cavallo. Dio stesso lo avrebbe veduto con compiacenza .

Ora sento come voce generale e anche nella storia sta scritto che questo fu un duello e si dice che i cavalieri fossero soltanto due. Io invece vi proverò qui che fu un combattimento aperto di due intere schiere: quantunque non lo abbia mai letto nella storia di Tristano, vi dimostrerò come sia vero. Morolt, come secondo verità si è sempre detto e si dice ancora oggi, possedeva forza per quattro uomini e questa era quindi una schiera di quattro uomini d'arme ed ecco una delle parti. Dall'altra parte i campioni erano: l'uno Dio, l'altro il diritto, il terzo il servitore di ambedue e loro sincero vassallo, il prode Tristano; il quarto era la pronta volontà che nel bisogno opera miracoli. Con questi quattro e quegli altri quattro, per male che le possa formare, faccio subito due compagnie, cioè otto uomini.

Altrimenti vi sarebbe sembrato strano che due eserciti potessero venire a battaglia su soli due cavalli: ora avete compreso che qui da ognuna delle parti si trovavano quattro cavalieri o le forze combattenti di quattro cavalieri riuniti sotto un medesimo elmo e questi lottavano aspramente gli uni contro gli altri. Quindi Morolt con una compagnia di quattro uomini caricò Tristano come un fulmine, e quello sciagurato e diabolico uomo lo attaccò con tale violenza che con i suoi colpi gli avrebbe tolto i sensi e la forza se non lo avesse difeso lo scudo, sotto il quale poté proteggersi e salvarsi. Né elmo né usbergo né alcun altro pezzo di armatura gli avrebbe portato aiuto, poiché Morolt lo avrebbe trafitto attraverso le anella; non gli lasciava neppure il tempo di alzare lo sguardo.

Così continuò a colpirlo finché ottenne che Tristano per la furia dell'assalto allontanasse troppo lo scudo e lo tenesse troppo alto e Morolt gli inferse nella coscia una ferita così terribile che fu quasi mortale e che attraverso le uose e l'usbergo apparvero la carne e l'osso e il sangue sprizzò e bagnò il terreno.

"Or dunque, - disse Morolt - ti vuoi arrendere? Devi ben vedere da te stesso come non sia lecito agire ingiustamente; il tuo torto è qui palese: rifletti ancora, se vuoi salvarti, in quale modo tu possa farlo, poiché in verità, Tristano, questa ventura ti porta a sicura morte se io non la storno da te; né uomo né donna ti potranno mai guarire: tu sei ferito da una spada che è mortifera e avvelenata. Né medico né arte medica ti salveranno in questo frangente, se non sola mia sorella Isotta, regina d'Irlanda, che conosce ogni sorta di spezie e la virtù di tutte le erbe e ogni arte di medicina. Essa sola e nessun altro possiede questa scienza e se non ti guarisce lei sei perduto. Se ora mi vuoi dare ascolto e accordarmi il tributo, mia sorella stessa, la regina, ti risanerà e io dividerò con te quanto possiedo e non ti negherò nulla di quello che tu possa desiderare".

Tristano rispose:

"Il mio diritto e il mio onore non li cedo né per tua sorella né per te. Ho portato qui nella mia libera mano due libere terre e tali se ne devono ritornare con me, altrimenti ne avrei danno ancor maggiore e perfino la morte. E anche non sono per questa unica ferita ancora ridotto a tal punto che tutto debba essere risolto qui. Il combattimento fra noi due è ancora molto indeciso. Il tributo è la tua morte o la mia; altra alternativa non ci può essere".

Con ciò nuovamente lo attaccò. Ora forse qualcuno dirà, e lo dico io pure, dove sono adesso Dio e il diritto, i due compagni d'arme di Tristano? Molto mi meraviglia che non lo vogliano aiutare e troppo indugino in questo momento; la loro fazione e la loro compagnia sono certamente in molto cattivo arnese; se non si affrettano arriveranno troppo tardi, per cui vengano dunque presto. Qui sono due che combattono contro quattro e ne va della vita e questa è già in dubbio e in pericolo. Se essi devono essere liberati bisogna che ciò sia subito.

Ecco Dio e il buon diritto che si avanzano con giusto giudizio in soccorso della loro fazione e per la rovina dei loro nemici. Ora cominciarono a lottare da pari a pari, quattro contro quattro. Combattevano così schiera contro schiera e Tristano, scorgendo i suoi compagni d'arme prese nuovo coraggio e nuove forze: la loro compagnia lo rincuorò e gli diede nuovo vigore. Diede di sprone al cavallo e lo lanciò avanti urtando il nemico nello slancio, col pettorale, stordendolo e rovesciandolo a terra insieme al cavallo. E quando questi, riavutosi un poco dalla caduta, volle rialzarsi e rimettersi in sella, anche Tristano fu pronto e con un colpo gli buttò giù l'elmo che volò via per il piano. Allora Morolt lo assalì e attraverso la gualdrappa colpì il destriero di Tristano al petto, in modo che questi cadde sotto a esso e non fece né bene né male, ma saltò via dalla parte opposta.

Morolt, da guerriero esperto, si coprì le spalle con lo scudo, come gli insegnava l'esperienza, e sotto a quello andava con la mano cercando il suo elmo e lo riprese, divisando, nella sua astuzia, di rimetterselo quando fosse nuovamente in sella e di assalire un'altra volta Tristano. Recuperato l'elmo, si volse verso il suo cavallo e gli si appressò tanto da mettergli la mano sulla briglia e il piede sinistro saldamente nella staffa; aveva già afferrato la sella con la mano quando anche Tristano lo raggiunse e colpì sulla sella la spada e anche la mano destra, così che ambedue caddero a terra ancora con tutte le anella e prima che si rialzasse lo colpì di nuovo con tanta forza proprio in cima all'elmo che quando ritirò la spada una scheggia di questa rimase conficcata nel cranio, il che procurò poi a Tristano grande travaglio e grandi tribolazioni che lo avrebbero quasi condotto a morte.

Mentre il misero Morolt vacillava ormai senza forza e senza difesa e si lasciava cadere a terra,

"Come mai? - disse Tristano - Dio ti aiuti, Morolt, di' dunque, che te ne pare di questa storia? Mi sembra che tu sia gravemente ferito e che tu stia molto male. Comunque possa andare la ferita mia, sei tu ora che avresti bisogno di buoni medicamenti; tutto quello che tua sorella ha imparato di arte medica occorre ora a te se vuoi guarire. Dio giusto e veritiero e il divino comandamento hanno ben giudicato il tuo sopruso e rettamente hanno reso giustizia al mio diritto. Così voglia Egli sempre proteggermi. La tua superbia è ora abbattuta".

Quindi si fece innanzi, prese la spada e afferrandola con tutte e due le mani tagliò al suo nemico la testa con tutta la cuffia.

Ritornò quindi alla baia; vi trovò il battello di Morolt, vi entrò e si diresse subito a riva verso le schiere del suo popolo. Già dal mare udì grande giubilo e grandi lamenti; lamenti e giubilo, come vi dico: il giubilo era per la vittoria; fu un giorno felice per gli uni che fecero grande festa, battendo le mani, lodando Dio a voce alta, levando al cielo alti canti di vittoria: ma invece per gli altri, gli stranieri, gli afflitti messi dell'Irlanda fu giorno di grande duolo; tanto quelli cantavano, quanto questi gemevano e si lamentavano e torcendosi le mani sfogavano il loro dolore.

Quando i miseri stranieri, gli afflitti Irlandesi, stavano per imbarcarsi, Tristano li seguì, li raggiunse sul lido.

"Signori - disse - ritornatevene e prendetevi quel tributo che vedrete là sull'isola e portatelo al vostro signore a casa vostra e ditegli che mio zio, re Marco, gli manda l'omaggio dei suoi due regni e gli fa dire che se avesse voglia e desiderio di rimandare qui i suoi messi per un simile tributo, noi non li lasceremo mai ritornare a mani vuote, ma li rimanderemo via con i medesimi onori, per quanto ci possa costare".

E mentre così parlava nascondeva con lo scudo il sangue e la ferita davanti a essi che ne erano ignari. E ciò gli tornò poi a fortuna poiché quelli se ne ritornarono via senza che alcuno ne avesse notizia, poiché ripartirono subito e si recarono sull'isola dove trovarono il loro signore fatto a pezzi e se lo portarono via.

Quando giunsero in patria, presero il lamentevole presente, mandato colà per loro mezzo: voglio dire tutti e tre i pezzi; li riunirono perché non ne andasse perduto alcuno; li portarono al loro signore e gli dissero tutto quello che era accaduto, come io ho già narrato. Io credo e ritengo per certo che re Gurmun Gemuotheit ne ebbe grande cordoglio e ben con ragione: in questo solo uomo perdeva il cuore e l'animo, il conforto, e il valore e la cavalleria di molti uomini; il disco sul quale posava il suo onore e che Morolt soleva lanciare liberamente in tutti i paesi all'intorno, era ora a terra.

Ma per la regina, sua sorella, il rammarico e il duolo e le lamentazioni furono ancor maggiori: essa e sua figlia Isotta afflissero il loro corpo in varie guise, come sapete che si tormentano le donne quando il dolore va loro al cuore. Esse guardavano questo morto solo per soffrirne di più, affinché la loro afflizione divenisse ancor più grande. Baciavano quel capo e quella mano che aveva conquistato terre e popoli, come già ho detto prima; osservavano con angoscia le ferite della testa in tutti i sensi. Ora la saggia ed esperta regina vi scoprì la scheggia; prese allora una piccola pinza e con questa frugò nel cranio e la estrasse. Ella e sua figlia la considerarono con dolore e tristezza, la presero e insieme la posero in uno scrigno. Questo medesimo frammento fu più tardi a Tristano causa di grande tribolazione.

Or dunque Ser Morolt è morto. Se io ora raccontassi una lunga storia sulla loro passione e il loro cordoglio a che cosa servirebbe? Non ne avremmo vantaggio alcuno. Chi potrebbe biasimare la loro afflizione? Morolt fu portato al sepolcro, seppellito come un qualunque altro uomo. Gurmun fece grande lutto ed emanò l'ordine per tutta l'Irlanda che si prendesse nota accuratamente di qualunque persona venisse dalla Cornovaglia, fosse uomo o donna, e la si mettesse a morte. E questo bando e questo ordine fu così strettamente osservato che nessuno del popolo di Cornovaglia si azzardava ad andarvi, poiché neppure offrendo o dando qualsiasi compenso si salvava la vita; così che molti figli di mamma ne patirono innocentemente. E tutto questo era cosa inutile perché ormai come di giusto, Morolt era morto: egli aveva contato soltanto sulla propria forza e non sulla giustizia di Dio e sempre in tutte le sue battaglie aveva dimostrato violenza ed orgoglio e perciò era stato abbattuto. Ora riprendo il mio racconto là dove l'ho lasciato. Quando Tristano giunse alla riva senza destriero e senza lancia, mille schiere a cavallo e a piedi gli si affollarono intorno per dargli il loro saluto. Mai il re e il suo regno videro giorno più felice e lo possiamo ben credere, poiché per mezzo di lui era in questo giorno venuto loro grande onore: egli aveva sanato per sempre ogni loro male e ogni loro vergogna. Ma essi si preoccuparono molto della ferita che aveva ricevuto e se ne afflissero grandemente: quando però credettero che da questo male avrebbe potuto presto guarire, non vi posero più mente e lo condussero subito fra loro al palazzo; gli tolsero in fretta l'armatura e gli prodigarono tutte quelle cure e quel conforto che egli o altro cavaliere avrebbe potuto richiedere.

Furono chiamati medici, i migliori che si poterono trovare nelle città e nel paese, ed essi riuniti vi misero tutto il loro impegno, tutta la loro arte medica, ma a che pro? A nulla potevano giovargli, il tossico era tale che nessuna scienza poteva sottrarlo dalla ferita, finché tutto il suo corpo prese un così orribile colore che a mala pena lo si poteva riconoscere. Inoltre la stessa ferita emanava un fetore così terribile che la vita gli era di peso e il suo proprio corpo odioso. Per di più, il suo maggior dispiacere era di vedere che cominciava a far ribrezzo a quelli che prima erano suoi amici e poco a poco rammentò le parole di Morolt; anche prima aveva udito dire quanto bella e perfetta fosse Isotta, la sorella di lui, poiché tanto se ne parlava in tutti i paesi vicini ove si diceva la saggia Isotta, la bella Isotta splende come l'aurora.

Tristano nella sua angoscia pensava continuamente a lei e sapeva bene che se voleva guarire ciò non poteva essere che per le arti di lei, della saggia regina, che in queste era esperta. In che modo però ciò si potesse fare non poteva immaginarlo. Ora cominciò a riflettere: dato che doveva morire era lo stesso per lui rischiare la vita o la morte piuttosto che questa mortale agonia. Così risolse in mente sua di recarsi colà, comunque dovesse o non dovesse guarire, gli andasse pure come Dio voleva.

Convocò suo zio Marco e gli confidò tutto fin dal principio, il suo segreto e il suo desiderio, come l'amico suol fare con l'amico, e anche quello che aveva in animo di fare, secondo le parole di Morolt.

Al re questo fece piacere e dispiacere, allo stesso modo che nella necessità si sopporta il male come meglio si può: fra due mali si sceglie il minore, questo è un utile accorgimento. Quindi si misero d'accordo fra loro due su tutto come poi fu fatto: sul come avrebbe fatto il viaggio, e se si dovesse tenere segreto che egli intendesse di andare in Irlanda o se si dovesse invece dire che andava a Salerno per curarsi. Stabilito tutto, fu chiamato anche Kurvenal per informarlo della loro intenzione e del loro desiderio. Kurvenal li approvò e disse che sarebbe andato anch'egli con Tristano per vivere o morire con lui.

E quando si fece sera, prepararono per il viaggio una barca e un battello e vi misero gran copia di cibi e provviste e tutto quanto è necessario a bordo di una nave. Con grandi lamenti vi trasportarono il povero Tristano in gran segreto, in modo che nessuno si accorse che si imbarcasse, se non gli uomini che partivano con lui. Egli raccomandò caldamente a suo zio Marco la propria gente e i suoi beni, affinché nulla di questi, neppure un anellino, ne fosse alienato fino a che non si avessero notizie di lui. Della sua roba prese con sé soltanto l'arpa e null'altro.

Così salparono, con otto uomini in tutto, che avevano dato la loro vita in pegno e malleveria e dichiarato con giuramento di non allontanarsi di un passo dagli ordini dei due capi. Quando ebbero preso il mare re Marco seguì Tristano con gli occhi e vi so dire che ne aveva scarsa gioia e poca tranquillità; questa separazione gli trapassava il cuore, però essa risultò per il bene e la gioia loro.

Quando il popolo apprese per guarire di quale malattia Tristano fosse partito per Salerno, il dolore di tutti fu tale che non sarebbe stato maggiore per il proprio figliolo; e tanto più che egli pativa tutto questo in servizio loro e ciò li affliggeva maggiormente.

Tristano navigò giorno e notte oltre stati e regni diretto verso l'Irlanda, come meglio sapeva guidarli la mano del pilota. E quando la nave fu abbastanza vicina da scorgere la terra, Tristano pregò il pilota di volgersi verso la capitale Develin poiché pensava che la saggia regina dovesse tenere là la sua corte. Il pilota si diresse dunque da quella parte, avvicinandosi abbastanza da poterla scorgere:

"Guardate, signore, - disse egli allora a Tristano - io vedo la città; che cosa consigliate di fare?".

Tristano rispose:
"Gettiamo qui le ancore e sostiamo questa sera e anche una parte della notte".

Così gettarono l'ancora e per quella sera riposarono e nella notte egli ordinò di navigare verso la riva e quando furono giunti a mezzo miglio dalla città Tristano si fece dare il vestito più povero che si trovasse a bordo e quando glielo ebbero messo si fece trasportare fuori della nave e adagiare nel battello e vi fece mettere anche la sua arpa e anche abbastanza provviste che durassero tre o quattro giorni.

Tutto questo fu fatto secondo il suo comando. Egli chiamò allora Kurvenal e anche i marinai:

"Amico Kurvenal - disse - prendi questo battello e questi uomini e per amor mio abbine cura sempre e continuamente; e quando sarete giunti a casa ricompensali molto largamente affinché tengano fedelmente il nostro segreto e non ne facciano parola ad alcuno. Ritorna presto in patria; saluta mio zio e digli che io sono vivo e con la grazia di Dio intendo vivere ancora e star bene; egli non deve stare in pensiero per me. Digli pure che nel caso che guarisca farò ritorno entro quest'anno: se la mia impresa riesce egli ne avrà subito notizia. Alla Corte e al paese di' che io sono morto del mio male durante il viaggio. Non congedare però i miei uomini che ho ancora colà e fa' che mi attendano fino all'epoca che ti ho indicata. E se dovesse avvenire che entro quest'anno la fortuna non mi assistesse, allora potete rinunciare a me; lasciate a Dio la cura dell'anima mia e pensate a voi stessi. Tu allora, prendi la mia gente e ritornate in Parmenia e prendi dimora in casa di Rual; di' al mio diletto padre che ti ricompensi della tua fedeltà verso di me con la fedeltà sua e che ti accolga bene e degnamente come egli sa e digli inoltre anche questo: che per quelli che mi hanno servito finora mi conceda una sola preghiera e niente altro: ringrazi e ricompensi ciascuno di loro secondo il servizio. Ora, miei fidicontinuò egli - Dio vi guardi; andate per la vostra via e lasciatemi in balìa dei flutti; io devo aspettare adesso la grazia di Dio; per voi è ora che partiate e salviate la vostra vita; già spunta il giorno".

Così con grande dolore e molte lamentazioni essi se ne ritornarono via con molte lacrime e lo lasciarono ondeggiante sul mare deserto. Mai separazione riuscì loro più dolorosa. Chiunque abbia avuto un amico sincero, e sappia come si deve apprezzarlo, potrà intendere veramente il rammarico di Kurvenal; ma per quanto il cuore e tutto l'animo gli dolessero, pure se ne partirono. Tristano rimase solo in grande angoscia sbattuto in tutti i sensi fino a giorno chiaro; e quando quelli di Develin scorsero la navicella vagare senza guida, mandarono a vedere che cosa fosse quella barchetta. I messi si diressero subito a quella volta.

Quando si avvicinarono non videro ancora alcuno, ma udirono venire da quella parte un suono di arpa e con questo un così dolce canto che lo credettero un saluto o un prodigio e non si mossero dal posto finché durarono il suono e il canto. Però la gioia che ne provarono fu breve perché la musica e il canto non sgorgavano a Tristano dal fondo del cuore, il quale non vi aveva parte. Poiché non è un vero melodiare se è fatto senza che il cuore vi sia disposto e se spesso questo accade, non può chiamarsi vero melodiare quello che si fa esteriormente senza metterci il cuore e il sentimento. Era soltanto l'animo giovanile di Tristano che lo spingeva a cercare qualche svago nel muovere le labbra o le mani suonando o cantando; ma per il martire era un tormento e un martirio.

Quando il canto si tacque, quelli dell'altro battello si avvicinarono e afferrarono la barchetta guardandovi a gara; ma quando scorsero il suo mortale pallore e lo videro così male in arnese rimasero delusi che fosse lui a saper fare tale miracolo con la voce e con le dita; pure lo salutarono con il gesto, con la parola e con la mano come uno che è degno di cortese saluto, e lo pregarono di narrare loro quello che gli era accaduto.

"Ve lo dirò"

disse Tristano.

"Io ero un giullare di corte e conoscevo bene gli usi e i costumi cortesi: parlare e tacere, suonare la lira e il violino, l'arpa e la rotta, fare scherzi e giochi; in tutto ciò io ero ben esperto come si addice a tali persone. Con questo guadagnavo abbastanza, se non che la fortuna mi rese presuntuoso e volli avere più di quanto giustamente mi spettava. Così mi diedi al commercio che mi ha rovinato la vita. Mi presi per compagno un ricco mercante e fra noi due, là in Spagna, caricammo una nave con tutta la mercanzia che ci parve e salpammo verso la Britannia. Ma in alto mare ci imbattemmo in una nave di pirati che ci portarono via tutti i nostri averi, dal maggiore ai più piccoli e uccisero il mio compagno e tutti gli altri; e se io mi salvai pur con le ferite che qui vedete, lo devo all'arpa dalla quale ognuno poteva riconoscere in me un giullare, come dichiaravo di essere. Così con grande stento ho ottenuto questa barchetta e quel tanto di viveri di cui sono campato fin qui. Da allora sono rimasto in balìa del mare con grande male e tormento per ben quaranta giorni e quaranta notti, ovunque mi sbattessero i venti o mi portassero le onde, or qua, or là, in modo che ora non so dove sono e ancora meno dove andare. Ora, Signori, fate la carità che Dio nostro Signore ve la compensi e aiutatemi ad andare dove ci sia della gente".

"Amico - dissero allora i messi - tu potrai godere qui delle tue dolci note e del tuo canto; non vagherai più sulle onde senza direzione e senza conforto. Chiunque sia colui che qui ti ha portato, Iddio, acqua o vento, noi ti condurremo dove troverai gente".

Così infatti fecero: lo condussero con la barca fino alla città, come li aveva pregati; legarono il battellino alla riva e gli dissero:

"Ecco, menestrello, guarda questo forte e questa bella città qui vicino: sai tu quale luogo sia questo?".

"No, miei signori, non lo so."

"Allora te lo diremo noi: sei a Develin in Irlanda".

"Sia lodato il Redentore che io sono finalmente giunto fra cristiani, poiché fra questi vi sarà certamente qualcuno che userà di carità verso di me e mi darà consiglio medico".

Con questo i messi se ne ritornarono e raccontarono grandi meraviglie di lui e riferirono l'avventura occorsa loro con un uomo che all'aspetto non l'avrebbe fatta supporre. Dissero come, prima ancora di avvicinarsi, avevano udito suonare così dolcemente e insieme all'arpa un canto che Dio stesso avrebbe ascoltato con piacere nei suoi cori celesti e che c'era là dentro un povero menestrello ammalato e vicino a morte:

"Gli si vede al viso, morirà domani o magari ancora oggi; pure nel suo tormento conserva ancora tanta freschezza di spirito che in tutti i regni della terra non si troverebbe un cuore che sopportasse una così grande sventura con tanta tranquillità".

Gli abitanti del luogo vennero allora e si intrattennero con Tristano in ogni sorta di discorsi domandandogli e questo e quello: ma egli rispose a tutti nello stesso modo come ai messi. Lo pregarono allora di suonare ed egli mise tutto il suo impegno per soddisfare la loro richiesta e la loro preghiera e lo fece con tutto il cuore; far loro piacere come poteva sia con le labbra che con le mani, era tutto il suo desiderio; a questo si applicava e lo attuava.

E quando il povero cantore nonostante le sue sofferenze cominciò così dolcemente a toccare l'arpa e cantare, ne ebbero tutti pietà: portarono il poveretto fuori dalla barca e chiamarono un medico che lo ospitasse presso di sé e facesse tutto quello che poteva con grande premura, e a spese loro gli procurasse aiuto e sollievo. Questo fu fatto ed eseguito; ma anche portato a casa e curato con le arti migliori del medico, tutto ciò gli risultò di ben poco giovamento.

La novella si sparse per tutta la città di Develin: la gente giungeva a gruppi, uno andava e uno veniva e tutti lo commiseravano per i suoi patimenti. Intanto sopraggiunse un sacerdote che aveva udito della sua perizia sia con le mani sia col canto e che si intendeva di molte scienze e arti, era esperto in ogni genere di strumento e conosceva anche molte lingue straniere. Questi aveva sempre rivolto i suoi pensieri e dedicato i suoi giorni alle arti cortesi ed era stato il maestro e precettore della regina e l'aveva istruita sin da bambina in molte buone discipline; molte nozioni straniere ella aveva appreso da lui. Egli aveva anche istruito con molto zelo la figlia di lei, Isotta la bellissima, la fanciulla celebre nel mondo intero e della quale dice anche questa nostra storia. Era essa figlia unica e la regina aveva fin dal principio rivolto ogni sua cura ad addestrarla in tutte le arti sia delle mani come della parola. Il precettore aveva avuto anche lei per pupilla e la istruiva ognora tanto nella scienza dei libri quanto in quella della musica.

Quando egli osservò in Tristano tanto sapere e tanta abilità sentì profonda compassione del suo male e senza indugiare si recò dalla regina e le disse che c'era nella città un giullare, malato grave, e morto pur essendo ancora in vita e che mai da donna era nato uno spirito più eletto né più eminente nell'arte sua:

"Ah - concluse egli - nobile regina, se si potesse provvedere a trasportarlo dove voi convenientemente poteste venire e vedere il miracolo di un uomo morente che riesce a suonare e cantare così dolcemente mentre non vi può essere per lui né aiuto né salvezza, perché non potrà mai guarire! Il maestro e suo medico che lo ha avuto in cura vi ha rinunciato perché non riesce a nulla con qualsiasi escogitazione".

"Ecco - rispose la regina -, io dirò ai servitori che se può sopportare d'essere toccato e sollevato con le mani, lo portino qui da noi, se mai gli possa giovare qualche aiuto o io lo possa salvare".

Questo fu fatto. Or quando la regina constatò il pericolo, le sue ferite e il loro colore, riconobbe il tossico:

"Ah! - gli disse - povero menestrello, sei stato ferito da armi avvelenate".

"Non lo so - rispose pronto Tristano - non posso giudicare che cosa sia, dato che nessuna scienza medica mi può salvare né guarire; non posso fare altro che rassegnarmi a Dio e vivere finché mi è dato vivere. Ma Dio ricompensi chi mi usa misericordia, poiché sto tanto male e ho bisogno di aiuto, sono morto pur essendo ancora in vita".

Ma la saggia regina così gli parlò:

"Cantore, di', come ti chiami?".

"Madonna, mi chiamo Tantris."

"Ora, Tantris, sappi sicuramente che io ti guarirò; sta' di buon animo e tranquillo, ché io stessa sarò il tuo medico".

"Grazie a te, dolce regina, possa la tua lingua sempre prosperare e il tuo cuore mai morire, la tua sapienza viva sempre per soccorrere i meschini e il tuo nome sia sempre benedetto sulla terra!".

"Tantris, - disse la regina - se il tuo stato te lo permette, poiché sei tanto indebolito, - cosa che non fa meraviglia - io ti udrei volontieri suonare l'arpa, come, a quanto dicono, sai fare tanto bene".

"Madonna, non dite così, la mia infermità non toglie che io faccia e ami fare tutto quello che possa servirvi".

Fu quindi portata la sua arpa e venne anche chiamata la giovane regina, il vero sigillo dell'amore, col quale il cuore gli fu poi sigillato e chiuso al mondo intero, fuorché a lei sola. La bella Isotta venne dunque e ascoltò Tristano all'arpa. Ora egli suonò meglio ancora di quanto avesse fatto prima, poiché sperava di essere al termine dei suoi mali; quindi cantò non come uomo stanco della vita, ma cominciò subito in tono gaio come chi è di umore sereno. Si adoprò sì bene con le mani e con la voce che in breve si guadagnò il loro favore, tanto bene tutto gli riuscì. Ma mentre suonava, in quel luogo come altrove, la maledetta ferita dava odore e diffondeva un così orribile fetore che nessuno poteva resistere un'ora presso di lui.

Di nuovo la regina gli parlò:

"Tantris, se così è destinato e se le cose vanno in modo che questo fetore svanisca e che si possa rimanerti vicino, ti affiderò mia figlia Isotta; essa ha già studiato con diligenza sui libri e appreso a suonare ed è già abbastanza esperta per il breve tempo in cui vi si è dedicata. Se tu conosci altre arti e hai maggior dottrina del suo maestro e di me, istruiscila in queste per amor mio. Io ti darò in cambio vita e salute e renderò il tuo corpo sano e bello: ho potere di farlo o non farlo poiché le due alternative sono in mano mia".

"Se è destino - rispose l'infermo - che io debba ritornare sano e che suonando guarisca, allora se Dio vorrà, certamente risanerò. Madonna regina, se la vostra intenzione è quale voi dite riguardo alla fanciulla vostra figlia, spero fermamente di guarire. Ho anche letto libri in gran numero e in tale misura che ho fiducia di potermi per suo mezzo dimostrare riconoscente. Inoltre posso dire di me stesso che non c'è uomo al mondo che alla mia età sappia suonare tanti nobili strumenti. Per quanto sta in me, quello che desiderate e che da me volete è già compiuto".

Così gli fu assegnata una cameretta e gli vennero prodigate tutte le cure ogni giorno e procurate tutte le comodità che potesse desiderare. Ora soltanto si ebbe la prova della saggezza usata nascondendo con lo scudo la ferita che aveva al fianco e non facendone parola alle genti di Irlanda quando era salpato dalla Cornovaglia. Quindi nulla ne sapevano e ignoravano che fosse ferito. Poiché se avessero avuto notizia della sua piaga, dato che conoscevano quali erano le ferite della spada che Morolt usava in tutti i combattimenti, la ventura di Tristano non sarebbe mai stata quella che fu. Ora la sua previdenza gli tornò a salvezza. Donde si riconosce e si apprende come spesso la prudente riflessione porti a buon fine colui che è giudizioso e preveggente.

La saggia regina mise tutto il suo impegno e tutta la sua arte per guarire quell'uomo per la vita del quale avrebbe dato la propria e tutti i suoi onori. Essa lo odiava ancor più di quanto amasse sé stessa, eppure giorno e notte si preoccupava e affaccendava per quello che poteva riuscirgli salutare. E ciò non fa meraviglia poiché non conosceva in lui un nemico: e se avesse saputo per chi si prodigava e chi era colui che cercava di strappare alla morte, se ci fosse stato qualche cosa di peggiore di questa, gliela avrebbe certamente data più volentieri che la vita. Ma di lui sapeva soltanto il bene e non aveva verso di lui che benevolenza.

Ora a che servirebbe e quale scopo avrebbe il fare lunghi discorsi sull'abilità della regina e dire quale forza meravigliosa vi fosse nella sua medicina e quanto bene facesse a quell'infermo? A un nobile orecchio è maggiormente gradita una parola che suoni cortesia piuttosto di quelle che sono conservate negli scaffali. Per quanto sta in me mi guarderò bene dal dire una parola che possa dispiacere al vostro orecchio o che contrasti al vostro cuore. Preferirei parlare molto meno, anziché rendervi spiacevole e sgradita la mia storia con discorsi che non siano cortesi.

Dirò brevemente della perizia nell'arte medica della regina e della guarigione del suo infermo; in venti giorni essa lo curò in modo che tutti gli stavano volentieri vicino e nessuno di quelli che desideravano stargli accanto lo sfuggiva più a causa delle ferite.

Da allora la giovane regina divenne sua allieva e a lei egli rivolse tutto il suo impegno e dedicò il suo tempo. Tutto il meglio delle sue cognizioni, sia di scienza come di musica che non starò qui a enumerare, tutto egli le pose dinanzi così che essa stessa potesse scegliere quello che più le piaceva di imparare.

Isotta la bella fece come segue: fra tutte le sue varie arti si dedicò a quanto trovò di migliore e si applicò con zelo a tutto quello che aveva intrapreso. Le fu anche di grande aiuto ciò che prima aveva già imparato: essa si applicava con la mano e con le parole a molte arti cortesi; la bella conosceva la lingua materna di Develin, il francese e il latino, sapeva suonare mirabilmente il violino alla maniera italiana; le sue dita erano esperte nel toccare la lira e nel trarre dall'arpa suoni potenti e nello scorrere agilmente sulle corde. Inoltre la creatura benedetta cantava bene con dolce voce. Pure, per quanto brava fosse, il menestrello, suo maestro, le fu sempre di grande vantaggio e l'aiutò a perfezionarsi.

Oltre tutte queste dottrine una nuova gliene insegnò che è chiamata moralità. E' l'arte che insegna i buoni costumi: ogni donna dovrebbe applicarvisi fin dalla giovinezza: moralità, la dolce virtù beata e pura, le sue leggi riguardano il mondo e Dio e ci insegnano a piacere a Dio ed al mondo: essa è data come nutrice a tutti i nobili cuori che cercano nei suoi insegnamenti il nutrimento e la vita, poiché non possono avere né onore né bene se essa non li guida. Questo fu il compito maggiore della giovane principessa; in questo si dilettavano spesso i suoi pensieri e la sua mente e così divenne onesta e pura di animo, gentile e soave nelle maniere. In quei sei mesi la dolce fanciulla giunse a tale perfezione di comportamento e di sapere che tutto il paese ne parlava e il re, suo padre, ne aveva grande soddisfazione e sua madre ne era oltremodo lieta.

Ora accadeva spesso quando suo padre era di lieto umore, o quando c'erano cavalieri stranieri dal re a corte, che Isotta fosse chiamata a palazzo da suo padre e allora con le arti cortesi e le belle costumanze che possedeva dilettava lui e con lui molti invitati. Nello stesso modo che rallegrava il padre dava gioia anche a tutti ugualmente: per poveri e ricchi era un piacere degli occhi, dell'orecchio e del cuore e la loro gioia era tanto esteriore quanto profonda nel petto. La dolce, la pura Isotta cantava, leggeva o scriveva o faceva quanto altri desiderassero e questo era per lei un sollazzo. Essa suonava le sue stampenie, i lai e le canzoni straniere, che non avrebbero potuto essere più meravigliose, nella guisa di Francia, di Sanze e di San Dionigi: di queste ne conosceva un gran numero. Con mani bianche come l'ermellino toccava stupendamente la lira e l'arpa. Né in Lut né in Thamise da mani di donna le corde furono toccate più dolcemente che in questo luogo. La duze Isot la bele cantava le sue pastorelles, le sue rotrouanges, i suoi rondò, le canzoni, i refloit e le folate, con tale maestria che molti cuori ne furono pieni di nostalgia, e varia stima e lode ne fu fatta e molto di lei fu narrato, cosa che, come ben sapete, suole accadere allorché si vede un tale miracolo di bellezza e di cortesia quale si manifestava in Isotta.

A chi posso paragonare la bella e benedetta donna se non a una delle Sirene che con la pietra magnetica attirano a sé le navi? Nello stesso modo mi sembra che Isotta attirasse molti pensieri e molti cuori che si credevano al sicuro dal turbamento d'amore. Ma queste due cose, navi senza ancora e animo innamorato, si somigliano e sono ambedue raramente sulla giusta via. Spesso navigano qua e là nell'incertezza barcollando e ondeggiando su e giù. Parimenti senza guida ondeggia il desiderio, l'incerto animo innamorato, proprio come fa la nave disancorata. Così, la leggiadra Isotta, la saggia, la dolce giovane regina, attraeva i pensieri dall'alveo dei cuori come la calamita attira le barche col canto delle sirene. Il canto di lei penetrava nei cuori per gli occhi e per gli orecchi, sia esternamente che in segreto. Il suo canto che si espandeva apertamente tanto in casa che fuori, era la dolce armonia, il soave tocco delle corde che apertamente risuonava in fondo al cuore attraverso il dominio delle orecchie: invece la musica segreta era la sua meravigliosa bellezza che con il piacevole suono si insinuava nascostamente in molti nobili cuori e vi introduceva la malìa che afferrava e tratteneva i pensieri con il desiderio e la pena d'amore. Sotto la guida di Tristano, era dolce di animo e garbata di costumi e di modi, sapeva molto ben suonare con grande abilità, era capace di comporre lettere e canzoni, di ben limare le sue poesie e di scrivere e leggere.

Intanto anche Tristano era guarito e interamente risanato, così che la pelle e il colorito riprendevano la loro tinta chiara. Ora egli era in continuo timore che qualcuno della corte o nel paese lo riconoscesse e stava sempre riflettendo come prendere congedo in maniera conveniente e togliersi dalle preoccupazioni, poiché sapeva bene che, nel caso, nessuna delle due regine gli avrebbe mai dato licenza. Pensava che la sua vita era quindi sempre malsicura. Si recò dunque dalla regina e cominciò con bella maniera il suo discorso, come soleva fare sempre e in ogni luogo; piegò il ginocchio davanti a lei e così parlò:

"Madonna, che Dio vi renda nella vita eterna, la grazia, il bene e il soccorso che mi avete dato! Voi avete agito verso di me in modo così buono e santo che Dio ve ne deve ricompensare; io cercherò di meritarlo sino alla fine della mia vita in qualunque modo, da povero uomo quale sono, possa promuovere la vostra lode. Mia nobile regina, col vostro favore, devo tornare al mio paese perché la mia situazione è tale che non posso trattenermi più a lungo".

La dama rise :

"La tua adulazione - disse -, non ti serve a nulla: io non ti do licenza; non te ne potrai andare prima della fine dell'anno".

"Non così, nobile regina; ripensate nell'animo vostro quale sia la legge di Dio nel matrimonio e che cosa sia l'amore del cuore. Io ho a casa mia una moglie che amo come la mia stessa vita e sono sicuro che certamente mi crede morto. Ora è mio pensiero e mio timore che essa possa venir data a un altro e io perda così il mio conforto e la mia vita e sia perduta ogni gioia che spero e attendo e non possa esser felice mai più".

"In verità - disse la saggia regina -, se è così, il tuo motivo è legittimo. Nessuno, che abbia animo onesto, deve sciogliere una simile unione. Dio conceda la sua grazia ad ambedue, te e la tua donna; per quanto a malincuore io rinunci a te, pure me ne priverò per amor di Dio. Ti concederò licenza e ti manterrò il mio favore e la mia benevolenza. Io e mia figlia Isotta ti diamo due marchi di rosso oro per il viaggio e il tuo mantenimento; li riceverai da Isotta".

Egli allora giunse le mani, tanto con lo spirito come col corpo, davanti alle due regine, alla madre e alla fanciulla:
"Ad ambedue voi - disse -, Dio conceda grazia e onore!".

E senza più indugiare partì per l'Inghilterra e dall'Inghilterra subito per la Cornovaglia.
Allorché suo zio Marco e il popolo appresero che Tristano ritornava guarito, furono tutti, in tutto il regno, felici dal fondo del cuore.

Il suo amico, il re, gli chiese come ciò fosse avvenuto ed egli raccontò la sua storia dal principio alla fine, come meglio sapeva e si fece fra tutti un gran ridere e scherzare sul suo viaggio in Irlanda e su come lo avesse guarito proprio la mano della sua nemica e su tutto quello che era accaduto colà. Dicevano di non avere mai udito storia così straordinaria.

Terminato questo e finito che ebbero di ridere sulla sua guarigione e sul suo viaggio, subito si informarono della fanciulla Isotta.

"Isotta - rispose egli -, è tale fanciulla che tutto quanto il mondo dice di lei non è che un soffio di vento; la bionda Isotta è una creatura quale mai ne nacque da donna di altrettanto bella ed eletta di persona e di maniere, né mai ne nascerà. La bella, chiara Isotta è più pura dell'oro d'Arabia. Leggendo i libri scritti in lode della figlia di Aurora, l'inclita Tindaride, io pensavo che in lei sola, come in un unico fiore, fosse raccolta la bellezza di tutte le donne, ma mi sono ricreduto: Isotta mi ha tolto questa illusione; non crederò più che il sole sorga da Micene; la perfetta bellezza non nacque mai in Grecia: è nata qui. I pensieri di tutti sono rivolti all'Irlanda: là gli occhi si deliziano e vedono come il nuovo sole si levi dopo la sua aurora, Isotta dopo Isotta, e risplenda da Develin in tutti i cuori; la bella, chiara Isotta illumina tutti i regni della terra. Tutto quanto è stato detto in lode della donna, quello che le storie narrano in suo onore, tutto è nulla. Chi guarda Isotta negli occhi purifica con quello sguardo il cuore e l'animo come fa il fuoco con l'oro: ama meglio la vita. Pure nessun'altra donna viene offuscata o sminuita per causa di lei, come spesso si sente dire: ma la sua bellezza orna, abbellisce e corona la donna e il nome stesso di donna, quindi nessuna ha da sentirsi umiliata".

Tristano il gentile aveva parlato della sua signora, la fanciulla, la meraviglia d'Irlanda. A coloro che erano stati presenti e l'avevano ascoltato, il suo racconto aveva addolcito l'animo come fa la rugiada di maggio col fiore: tutti gli animi ne furono rasserenati. Tristano riprese lietamente la sua vita, una nuova vita che gli era stata largita: era come un uomo rinato per cui questa cominciasse adesso e ne era felice e giulivo. Il re e la corte erano pronti a ogni sua volontà, finché la rovinosa discordia, l'invidia maledetta che non riposa mai, cominciarono a insinuarsi in molti dei cavalieri e a turbarli nell'animo e nelle azioni, poiché erano gelosi degli onori e della stima che gli tributavano la corte e gli abitanti tutti del paese. Cominciarono ben presto a parlare delle cose sue e a spargere la voce che fosse un mago e che tutta la sua fortuna, l'avere ucciso il loro nemico Morolt e il suo soggiorno alla corte d'Irlanda fosse stato eletto di magia.
"Vedete - dicevano -, osservate e spiegate come si salvò dal fortissimo Morolt! Come ingannò Isotta, la saggia regina, sua nemica mortale, che si prese tanta cura di lui fino a guarirlo di sua mano? Osservate il prodigio e ascoltate: come può questo ciurmatore abbacinare occhi così veggenti e fare tutto questo?".

Quelli che facevano parte del consiglio di Marco si misero d'accordo per insistere continuamente presso di lui col consiglio di prendere moglie, per poterne avere un figlio o una figlia come erede. Marco disse:

"Dio ci ha già dato un buon erede; Dio faccia che viva. Sappiate che finché Tristano vive non ci sarà qui a corte né regina né signora".

Ma con ciò l'invidia che portavano a Tristano si accrebbe sempre più e cominciò a manifestarsi in modo che essi non poterono più tenerla nascosta e a volte le parole e gli atti erano tali che egli temeva che lo uccidessero ed era sempre preoccupato che essi in qualche modo e in qualche momento si mettessero d'accordo per colpirlo mortalmente. Egli pregò suo zio che esaudisse il desiderio dei suoi vassalli e che per amor di Dio considerasse la tribolazione e l'angustia di lui stesso che non sapeva quando e quale sarebbe stata la sua morte e la sua fine.
Suo zio da uomo veritiero così parlò:

"Taci, Tristano, nipote mio, giammai acconsentirò: non desidero per erede altri che te. E non devi stare in pensiero per la tua vita: io ti darò buona protezione. Tutta la loro invidia e il loro odio, se Dio è con te, come ti possono nuocere? L'uomo probo e onesto deve saper sopportare l'odio e l'invidia; l'uomo cresce in dignità finché è invidiato. Dignità e invidia sono unite come madre e figlia, la dignità genera sempre e porta con sé odio e invidia. E contro chi si dirige l'odio se non contro un santo uomo? La santità che non ha mai incontrato odio è debole e povera; anche se vivi sempre in modo da non destare odio e fai ogni sforzo a questo fine non riuscirai mai a non essere odiato. Ma se vuoi non avere male dai malvagi, canta le loro lodi e sii malvagio con loro, allora non ti odieranno. Tristano, qualunque cosa facciano gli altri, tu fa' sempre in modo da tenere alto il cuore. Abbi sempre in mente il tuo vantaggio e il tuo onore e non mi suggerire più cosa dalla quale possa venirti danno. Qualunque discorso facciano a questo riguardo io non li ascolterò, come non ascolto neppure te".

"Signore, se mi date licenza io voglio lasciare la corte e non posso più guardarmi da loro. Se devo vivere in mezzo a questo odio non potrò mai essere felice; piuttosto che avere in mano mia tutti i regni in mezzo a simile angustia preferirei non avere regno alcuno".

Quando re Marco comprese che diceva sul serio lo fece tacere e disse:

"Nipote mio, per quanto volentieri io ti terrei ora e sempre fede costante, tu però non me lo permetti. Di tutto quello che può derivarne io non ho colpa. In qualunque modo io ti possa favorire sono pronto a farlo. Parla, cosa desideri che io faccia?".

"Riunite allora il vostro consiglio di corte che vi ha portato a questo e sondate l'animo di ognuno; domandate loro come dovreste agire e studiate l'animo loro affinché ciò possa farsi con onore".

Così fu subito fatto e tutti furono chiamati e non per altro che per dispetto a Tristano essi sugerirono che se fosse possibile, la bella Isotta sarebbe stata adatta per sposa del re, sia per nascita come per virtù e bellezza. E su questo conclusero il consiglio. Si presentarono tutti a re Marco e uno di loro, che sapeva parlare, manifestò per bocca propria il desiderio e la volontà di tutti.

"Sire - disse egli -, ecco quello che ci sembra bene: la bella Isotta d'Irlanda è, come ovunque è noto, vicino e lontano, una creatura in cui la virtù femminile ha messo tutta la perfezione possibile, come voi stesso avete sovente udito di lei, che è perfetta e mirabile di persona e di costumi. Se essa diventa vostra moglie e nostra signora, non potremo avere miglior fortuna su questa terra con alcuna altra donna".

Il re rispose:

"Vediamo, signori, come ciò potrebbe farsi anche se io lo volessi? Riflettete quali da lungo tempo siano i rapporti fra noi e loro: paese e abitanti ci odiano. Gurmun mi ha in avversione dal fondo del cuore e con ragione, perché altrettanto faccio io. Chi potrebbe far nascere una così grande amicizia fra noi due?".

"Signore - ripresero essi -, accade sovente che fra un paese e l'altro corrano offese. Le due parti devono cercare e trovare consiglio, essi e i loro figlioli. Da opere di odio nasce sovente grande amicizia, rifletteteci bene. Potreste ancora vedere il giorno in cui l'Irlanda diventasse vostra. L'Irlanda dipende soltanto da loro tre: il re la regina e Isotta, loro sola erede; essa è la loro unica figlia".

A questo re Marco rispose:

"Tristano mi ha già fatto molto riflettere e ho molto pensato a lei quando egli ne cantava le lodi al mio cospetto. La mia mente si volgeva a lei, più che a ogni altra, tanto che qualora ella non diventi mia, non avrò figli da alcun'altra donna. Lo giuro davanti a Dio sulla mia vita".

Questo giuramento non lo fece perché il suo animo inclinasse più da una parte che dall'altra; ma lo fece per astuzia, sembrandogli impossibile che una tale cosa potesse riuscire.
Ma il real Consiglio disse allora:

"Sire, ordinate che ser Tristano, qui presente, il quale conosce la corte, porti la vostra ambasciata, ché in questo modo si raggiungerà lo scopo e la sicura meta. Egli è saggio e giudizioso, e abile in ogni cosa; egli può portare a termine l'impresa. Egli conosce la loro lingua e può compiere tutto quello che è necessario".

"Mal consiglio è il vostro - disse re Marco - troppo ricercate il male di Tristano e il suo danno. Egli già una volta è morto per voi e per i vostri eredi: ora volete farlo morire una seconda volta. No, Signori di Cornovaglia, dovete voi stessi recarvi colà. Mai più proponetemi lui".

"Sire, - disse però Tristano - non parlano male. E' conveniente che io sia, più di chiunque altro, ardito e pronto a eseguire ciò che avete in animo ed è anche giusto che io lo faccia. Signore, sono io la persona adatta, nessuno può servirvi meglio di me. Ora, comandate che essi vengano e ritornino con me e che con me proteggano il vostro onore e promuovano la vostra causa".

"No, non voglio che tu venga più mai in loro potere e in mano loro, dopo che Dio ti ha ridonato a me".

"Sire, in verità, bisogna che sia così: sia che questi altri debbano morire colà o salvarsi, uguale sorte deve essere la mia e la loro. Voglio che, se il paese dovesse rimanere senza erede, vedano essi stessi se ciò sarà per colpa mia. Comandate che si preparino. Io stesso guiderò la nave e li condurrò con la mia propria mano nella felice Irlanda e di nuovo a Develin, verso il sole splendente che forma la gioia di molti cuori. Chissà che l'impresa non ci riesca? che non riusciamo presso la bella? E se la bella Isotta diviene vostra, sarebbe piccolo danno anche se dovessimo tutti noi morire".

Quando i consiglieri di Marco compresero dove mirava il discorso, furono a quelle parole così rattristati come mai lo erano stati in tutta la loro vita. Ma ormai la cosa era decisa e così doveva essere.

Tristano scelse a corte, fra i più fidi del re, venti cavalieri fra i migliori e i più provati alle fatiche e assoldò sessanta uomini fra gente del paese e stranieri; ottenne dal consiglio, senza compenso, venti baroni del regno. Così furono in tutto una compagnia di cento e non più. Con essi Tristano traversò il mare; questi formarono tutta la sua scorta. Aveva procurato grande quantità di viveri e di vesti e vari strumenti di navigazione, così che mai nave fu meglio attrezzata per un viaggio di tanta gente.

Si legge nelle storie di Tristano che una rondine era volata dalla Cornovaglia verso l'Irlanda, vi aveva preso un capello di donna per fabbricarsi il nido (non so dove lo avesse trovato) e lo aveva riportato al di là del mare. Vi fu mai rondine che facesse il suo nido più faticosamente, mentre poteva trovare nel suo paese tanto materiale per costruirlo e invece migrò in paese straniero oltre il mare per cercarlo? Dio sa che la canzone qui si perde nel fiabesco e il racconto balbetta. Anche è sciocco chi dice che Tristano navigasse per il mare con la sua scorta, alla ventura, senza essersi ben reso conto di dove andasse e per quanto tempo e non sapesse neppure chi doveva cercare. Come punire colui che nei libri fece leggere e scrivere tali cose? Sarebbero stati tutti pazzi e stolti, il re che mandò i suoi consiglieri lontano dal paese, e gli stessi messi a questo inviati.

Tristano era ora in viaggio e navigava sempre avanti, egli e i suoi compagni, una parte dei quali era in grande apprensione, cioè i baroni, i venti compagni del Consiglio di Cornovaglia; essi tutti avevano grande angoscia e timore: si vedevano già tutti morti. Maledicevano col cuore e con le parole l'ora in cui mai avevano divisato il viaggio in Irlanda. Non sapevano che cosa decidere per la loro vita, proponevano ora una cosa ora un'altra, si consultavano su questo e su quello e non sapevano a quale partito attenersi che sembrasse loro sicuro; e ciò non fa meraviglia: da qualsiasi parte si volgessero, non c'era da scegliere che fra due vie, una delle quali doveva costar loro la vita: la fortuna o l'astuzia. Ma l'astuzia era difficile e anche la fortuna era molto incerta; erano quindi privi di ambedue. Però vari fra essi dicevano:

"Veramente in quest'uomo abbondano saggezza e valore. Se Dio ci dà fortuna potremo bene salvarci con lui, se soltanto volesse moderare alquanto il cieco ardire di cui è troppo fornito; egli è troppo temerario e impetuoso e non considera ora quello che fa; non darebbe un mezzo pane per la vita o la morte nostra, né per la sua; pure la nostra miglior speranza è legata alla sua salvezza. La sua scaltrezza ci deve insegnare come salvare la nostra vita".

Allorché giunsero in Irlanda e vi furono sbarcati udirono la notizia che il re era a Weisefort davanti alla città; Tristano fece gettare l'ancora a tale distanza dal porto che prendendolo di mira con l'arco non si sarebbe potuto colpirlo. I suoi baroni lo supplicarono di dir loro per l'amor di Dio in qual modo volesse chiedere in sposa la fanciulla; ne andava della loro vita e sembrava loro giusto, e lo era, che egli dicesse loro la sua intenzione. Tristano replico:

"Non dite altro, badate che nessuno di voi si faccia scorgere dagli abitanti; rimanete tutti nascosti, meno i marinai e i servi. Questi si informino sul ponte e all'entrata del porto, ma nessuno di voi venga fuori; tacete, state nascosti; io stesso starò all'ingresso perché conosco la lingua del paese. Verranno certo presto dalla città con cattive intenzioni contro di noi. Io dovrò in questo giorno mentire quanto mai sia possibile. Nascondetevi dentro, perché se vi scorgono avremo subito battaglia e tutto il paese contro. Domani mentre sarò via (poiché voglio uscire di buon'ora a cavallo andando in giro alla ventura, mi debba o no riuscire), Kurvenal stia alla porta con altri che conoscano la lingua del paese; e a questo ponete bene attenzione: se io starò via quattro giorni o anche tre soli, non mi aspettate più, ma fuggite di nuovo oltre il mare e mettete in salvo la vostra vita. Così io sarò solo a scontare con la vita mia l'impresa per questa donna; allora consigliate il re vostro signore che prenda donna come meglio vi pare. Questo è il mio consiglio e la mia volontà".

Il mariscalco del re d'Irlanda che aveva in sua mano e sotto il suo potere la città e il porto, venne in gran fretta, armato e in pieno assetto di battaglia, con una numerosa schiera di cittadini e di messi, poiché gli era stato comandato dalla corte- come narra la storia e come sa chi della storia si è occupatoche chiunque approdasse alla riva fosse tenuto prigioniero fino a che non si conoscesse se veniva dal paese di Marco e se fosse della sua gente.

Questi malvagi assassini e carnefici che avevano sparso tanto sangue inglese innocente in omaggio al loro signore, arrivarono al porto con archi e balestre ed altre armi come una masnada di predoni.

Tristano, il capitano della nave, indossò un mantello da viaggio non per altro che per meglio occultarsi e ordinò che gli portassero una coppa di rosso oro, lavorato e cesellato con arte straniera alla maniera anglica. Così entrò in una barchetta assieme a Kurvenal e si diresse verso il porto inviando il suo saluto coi gesti e con la bocca quanto più cortesemente sapeva, ma ciò nonostante molti degli abitanti correvano ai loro battelli e dalla riva gridavano ripetutamente:

"Approdate! venite a terra!".

Tristano entrò subito in porto:

"Signori disse- ditemi a che scopo venite in questo arnese e che cosa volete in questo malo modo? Il vostro comportamento pare ostile; io non so da che cosa debba difendermi. Per amor di Dio fate che se c'è qualcuno tra voi che abbia potestà nel paese, questi mi ascolti e mi interroghi".

"Eccomi - disse il mariscalco - sono qua io: il mio modo di fare e di agire vi riuscirà sgradito poiché io voglio sapere esattamente i vostri scopi e le vostre intenzioni".

"In verità signore - rispose Tristano - io sono dispostissimo a ciò; vorrei pregarvi di ordinare di far silenzio e di lasciarmi parlare ascoltandomi benevolmente secondo il buon uso del paese".

Si fece allora silenzio:

"Signori - cominciò Tristano - per quanto riguarda la nostra vita, la nostra nascita, la nostra patria, le cose stanno come vi dirò: noi siamo mercanti e non ce ne vergognamo. Io e i miei compagni ci chiamiamo negozianti e siamo della Normandia dove sono rimaste le nostre mogli e i nostri figlioli. Noi stessi andiamo un po' qua e un po' là, di paese in paese comprando ogni sorta di mercanzie e guadagnandoci da vivere. Circa trenta giorni or sono partimmo dal nostro paese io e due altri mercanti; noi tre volevamo venire insieme in Ibernia e circa otto giorni fa un mattino di buon'ora un vento violentissimo ci assalì, come fanno spesso i venti, e ci separò noi tre, me solo dai miei due compagni, e non so che cosa sia accaduto di essi se Dio non li ha protetti o se siano vivi o morti. Io con grande travaglio sono stato malamente sballottato in questi otto duri giorni finché ieri verso il meriggio, il vento e la bufera essendosi calmati vidi monti e terra. Gettai l'ancora per riposarmi e mi sono riposato fino a oggi. Questa mattina allo spuntar del giorno mi sono diretto verso Weisefort, ma trovo qui uguale sfortuna; a quel che sembra sono ancora nella tribolazione. Pure speravo di essere in salvo qui, perché conosco la città e vi sono già stato due volte con dei mercanti; tanto più quindi credevo di trovarvi salvezza e favore. Ora sono invece caduto in mezzo a una bufera peggiore, ma Dio mi può ancora proteggere: poiché non trovo tra questa gente né pace né riposo, me ne ritorno in mare. Là ho ogni modo di difendermi e forza per la lotta nella navigazione. Se invece mi volete usare cortesia e onore, io dividerò volentieri con voi quanto possiedo di beni per un solo piccolo favore: che cioè mi concediate di restarmene tranquillo in questo porto con la mia mercanzia finché io possa cercare e vedere se ho la fortuna di trovare i miei compagni o di averne notizie. Se mi volete concedere questo favore, ordinate anche che mi diano pace quelli che si stanno avvicinando rapidamente da laggiù (non so chi o quali siano) in piccole barchette; altrimenti me ne ritorno fra i miei senza curarmi affatto di voi".

Allora il mariscalco ordinò a tutti di ritornarsene a terra. Allo straniero egli parlò come segue:

"Che pegno darete al re perché io vi conservi vita e beni in questo regno?".

"Signore - rispose subito lo straniero -, io vi darò ogni giorno un marco di rosso oro, sia che io lo guadagni o me lo procuri con la caccia; e voi, se a voi posso affidarmi, avrete per compenso e ringraziamento questo calice."

"Sì - dissero tutti subito -, egli è il mariscalco e comanda su questo paese".

Il mariscalco prese il suo dono che trovò bello e lodevole e permise a Tristano di ancorarsi nel porto e offrì pace e grazia per lui e per i suoi averi.

Erano ben ricchi e lucenti tanto il dono quanto il pegno: ricco e rosso l'oro del re, rosso e ricco il dono al messaggero: ambedue erano di grande valore; e questo lo aiutò molto a ottenere favore e pace.

Ora Tristano ha avuto pace ma che cosa intenda fare ancora nessuno lo sa; a voi però lo diremo perché la novella non vi venga a noia. La nostra storia dice e racconta d'un serpente che c'era allora in quella terra. Questo terribile demonio aveva fatto nel paese tale sterminato sterminio che il sovrano aveva giurato con parola di re che avrebbe dato la sua propria figlia a chi lo avesse ucciso, purché fosse nobile cavaliere. E questa parola e la dilettosa donna costarono la vita a migliaia di cavalieri che vennero al cimento e vi trovarono la morte; di questa novella il paese era pieno. Anche Tristano la conosceva e questa sola ragione lo aveva spinto a intraprendere il viaggio; questa era la sua miglior speranza, altro conforto non aveva. E con questo è ormai tempo che riprendiamo il racconto.

Il giorno seguente molto di buon'ora egli si armò completamente come si conviene a chi deve affrontare il pericolo e inforcò un robusto destriero; si fece dare una lancia, la migliore e la più forte che si trovasse nella nave. Così si avviò a cavallo attraverso campi e praterie e si addentrò nei boschi per molte vie e molti sentieri. E sul meriggio diresse arditamente il cavallo verso la valle di Anfergynânt dove era l'antro del drago come si legge nella geste. Là egli vide fuggire galoppando in gran fretta, per dritto e per traverso anziché sul sentiero, quattro uomini armati. E uno dei quattro era il siniscalco della regina che era e si era messo in mente di essere l'amis della giovane principessa, pur a dispetto di lei. E quando qualcuno scendeva in campo, fosse per tentare la sorte oppure per far mostra della propria forza, anche il siniscalco si trovava sempre e dovunque presente, soltanto perché si potesse dire che lo si vedeva ovunque vi fosse un azzardo: così e non altrimenti era da intendere la cosa, poiché egli mai vide il drago senza fuggirsene subito.

Ora, da questa masnada in fuga, Tristano comprese che il drago non doveva essere lontano; si diresse dunque da quella parte e non cavalcò a lungo prima di scorgere il ripugnante mostro, l'orrore dei suoi occhi: questi, da vero figlio del diavolo, soffiando fumo e fuoco dalle fauci, gli si rivoltò subito contro. Tristano abbassò la lancia, diede di sprone al cavallo e gli fu addosso con tale impeto che gli conficcò la lancia nella gola trapassandola e giungendo sino al cuore; ed egli stesso si lanciò così violentemente sul serpente che il cavallo ne rimase morto e lui stesso a mala pena si salvò. Il drago si gettò col suo alito infuocato sul destriero di cui presto non rimase che la sella. Però la lancia che lo feriva gli causava tale dolore che lasciò il cavallo e si diresse verso una frana di pietre. Il suo rivale Tristano lo inseguì mentre il mostro avanzava strisciando e ruggendo di rabbia così che tutta la foresta risuonava di quella orribile voce e molti cespugli ardevano in quel fuoco rovinoso e venivano sradicati dalla terra; così continuò a divincolarsi finché il dolore lo vinse ed esso si trascinò sotto una roccia vicina. Tristano impugnò la spada credendo di trovarlo stremato di forze, ma invece fu lotta più aspra di prima e mai ve ne fu di così dura. Tristano attaccò il drago, questo attaccò l'uomo e lo ridusse a tale estremo che egli si credette morto. Non gli lasciava modo di battersi, gli impediva i colpi e la difesa. Il mostro aveva con sé un grande esercito: portava con sé nel cimento fumo e vapore e altri aiuti di zanne, di fuoco e di colpi, di artigli così aguzzi e più affilati di un rasoio; con questi lo trascinò su e giù per molti tormentosi giri da un albero e da un cespuglio all'altro. Tristano era obbligato a nascondersi e a salvarsi come poteva perché il combattere non gli serviva a nulla per quanto si sforzasse, tanto che lo scudo in mano sua era bruciato e quasi carbonizzato poiché il mostro lo investiva col fuoco in modo che a mala pena poteva sfuggirgli.

Pure, tutto ciò non durò a lungo, e il serpente maligno ben presto cominciò a cedere e a vacillare, la lancia lo feriva tanto profondamente che giacque contorcendosi di continuo. Tristano fu svelto ad accorrere e gli immerse la spada nel cuore fino all'elsa come aveva fatto con la lancia. Allora il mostro emise dalla sua orrida gola un urlo così terribile come se cielo e terra sprofondassero e il pauroso rumore risuonò lungi nel piano e molto spaventò Tristano. Quando questi vide il drago che giaceva morto gli aprì le fauci con grande fatica e con la spada tagliò della lingua quel tanto che gli parve, se la nascose in seno e gli chiuse di nuovo la gola.

Quindi se ne ritornò nel bosco e ciò fece perché aveva intenzione di nascondersi colà e riposare alquanto per rimettersi in forze e ritornare poi di notte dai suoi compagni. Ma lo vinse il caldo e anche la fatica per la lotta sostenuta contro il drago ed era tanto abbattuto che non aveva quasi più forze e voglia di vivere. Scorse allora un laghetto non grande né largo nel quale scorreva da una roccia una piccola fresca sorgente. Vi si lasciò cadere con tutta l'armatura immergendosi sino in fondo e non lasciando fuori che la bocca. Là giacque tutto il giorno e tutta la notte perché la malaugurata lingua che portava addosso gli toglieva ogni forza. Il fetore che da questa saliva lo privava di energia e di colore ed egli non si mosse di là finché non lo portò via la regina.

Il siniscalco che, come ho detto, voleva essere l'amico e il cavaliere della fanciulla gentile, cominciò a darsi molto pensiero del ruggito del drago che così alto e terribile aveva echeggiato nel bosco e nella campagna. Si rese conto fra sé di come le cose fossero andate e pensò: "Colui è certamente morto o ridotto in tale stato che con poca fatica lo potrò vincere". Si allontanò dagli altri tre compagni, scese giù dal pendio, e cavalcò poi verso il luogo da cui era venuto l'urlo.

Giunto al cavallo si fermò per riposarsi e si trattenne a lungo riflettendo con timore e angustia; il breve viaggio gli faceva gran paura e spavento.

Pure finalmente si fece coraggio e cavalcò contro voglia spaventato e timoroso nella direzione dove scorgeva erbe e foglie bruciate. E giunse in breve senza avvedersene proprio là dove giaceva il drago. Il siniscalco prese un tale spavento per trovarglisi così vicino che quasi cadde a terra. Fu così pronto a volgere il cavallo con tanta furia che precipitò insieme a questo. Quando si rialzò non fu neppure in grado dalla paura che aveva di rimettersi in sella; il vile siniscalco lasciò là il cavallo e fuggì. Ma poiché nessuno lo inseguiva si fermò e strisciando si avvicinò di nuovo, afferrò la lancia, prese il cavallo per la briglia e giunto a un tronco rimontò in sella, dimenticò il suo spavento e osservò da lontano il drago semmai desse segni di essere vivo o morto. Quando lo vide immobile "Evviva, se Dio vuole! - esclamò - ecco una fortuna trovata, sono arrivato giusto in tempo e in buon'ora". Con ciò egli abbassò la lancia, sciolse la briglia, menò di gran colpi galoppando come all'assalto con alte grida di guerra:

"Schevaliers, daimoisele, ma blunde Isot, ma bele".

Colpiva con tanta forza che la robusta asta di frassino gli scivolò dalla mano. Ma se si arrestò lo fece soltanto perché gli venne il pensiero: se chi ha ucciso questo drago è ancora in vita quello che voglio fare non mi porterà alcun vantaggio. Quindi volgendo il cavallo si mise a cercare qua e là nella speranza che, trovandolo in qualche luogo stanco e ferito, si sarebbe azzardato a sfidarlo, lo avrebbe combattuto e ucciso e dopo ucciso seppellito. Ma non trovandolo, "lasciamo stare - pensò che sia vivo o morto sono io il primo qui; nessuno può testimoniare contro di me; possiedo amici e uomini fidi, sono amato e tenuto in conto tanto che chi vi si azzardasse perderebbe senz'altro". Spronò il cavallo e ritornò verso il suo avversario il drago; smontò e ricominciò le finte come poc'anzi, con la spada che portava punse e colpì il nemico da tutte le parti e lo scorticò in vari punti. Si provò a tagliare il collo che avrebbe volentieri staccato ma era così duro e grosso che la fatica lo respinse. Spezzò allora la spada su di un ceppo e infisse la punta nella gola del drago come se vi fosse stata una lotta. Quindi rimontò sul suo destriero spagnolo e se ne ritornò allegramente a Weisefort e subito fece apprestare quattro cavalli e un carro che dovevano riportare la testa del mostro e raccontò a tutti come tutto ciò gli fosse riuscito e quante pene e fatica gli fosse costato.
"Sì - disse - Signori, tutti prestino orecchio e considerino questo miracolo e vedano quello che per la donna amata può compiere un uomo di coraggio e un animo risoluto. Sempre più mi stupisce e mi fa meraviglia che io sia sfuggito al pericolo nel quale ero incorso e mi sia salvato; sono anche convinto che se fossi stato debole come un qualunque altro uomo non ne sarei uscito sano. Un avventuriero, che non so chi fosse, andando in cerca di avventure era giunto per sua mala sorte colà prima che vi arrivassi io e vi aveva trovato la morte; sono stati divorati ambedue, uomo e cavallo, e sono morti; Dio li ha dimenticati. Il cavallo giace ancora là dimezzato e bruciato. Che bisogno c'è più di parole? io ho sofferto il travaglio più grande che mai abbia sofferto creatura nata di donna".

Radunò poi i suoi fidi e con essi ritornò là dove era il serpente e mostrò loro la sua gloriosa impresa. Li pregò ancora uno per uno di testimoniare della verità di ciò che avevano veduto. Quindi fece portare via la testa. Chiamò parenti e amici e corse dal re e gli rammentò la sua promessa. Fu per questo fissato un giorno a Weisefort e vi fu invitato tutto il paese, intendo i baroni del regno; questi si prepararono tutti e furono pronti a corte per il giorno stabilito.

Anche le dame furono informate e mai si vide in donne maggior dolore e passione di quanto ne ebbero tutte. La dolce fanciulla, la bella Isotta, aveva la morte nel cuore; mai aveva veduto più triste giorno. Sua madre Isotta così le parlò:

"Mia bella figliola, lascia andare, non ti affliggere così, perché in qualunque modo, sia con la verità, sia con la menzogna sapremo ben trovare rimedio e Dio stesso ci difenderà. Non piangere, figlia mia, i tuoi limpidi occhi non devono arrossarsi per così misera causa".

"Ah, madonna, e madre mia - disse la bella - non vogliate avvilire la vostra nascita e la mia. Piuttosto che obbedire mi pianto un coltello dritto nel cuore: prima che egli faccia di me la sua volontà mi tolgo io stessa la vita. Egli non avrà mai in Isotta donna o dama; non mi avrà che morta".

"No, mia bella figliola, non temere; checché egli o altri possano dire, sarà tutto inutile, e se anche il mondo intero lo avesse giurato, egli non sarà mai tuo marito".

Al cadere della notte la saggia dama consultò la sua segreta scienza in cui era ben esperta, intorno a questa pena di sua figlia e vide in sogno che non era vero quello che si veniva raccontando in giro.

E appena si fece giorno chiamò Isotta e le disse:

"Sei sveglia, mia dolce figliola?".

"Sì, madre mia, lo sono".

"Cessa dunque di angustiarti; ti devo dare una buona novella: non egli ha ucciso il drago. Qualunque sia l'avventura che qui lo ha condotto, è stato uno straniero a ucciderlo. Alzati dunque, dobbiamo andare in fretta a sincerarcene noi stesse. Brangaene, levati in silenzio e di' da parte nostra a Paraneis che prepari in fretta le nostre cavalcature: dobbiamo andare fuori noi quattro, io, mia figlia Isotta, tu e lui: conduca i cavalli al più presto possibile davanti alla porta segreta, là dove il verziere si apre sulla campagna".

Allorché tutto fu pronto, la comitiva montò in sella e si diresse là dove aveva udito che il drago giaceva morto. Quando trovarono il cavallo si misero a osservarne la bardatura e pensarono che mai in Irlanda se ne era veduta di quel genere e ne conclusero che chiunque fosse il cavaliere che quel cavallo aveva portato, era quello stesso che aveva ucciso il drago. Continuando ad avanzare trovarono il serpente.

Questo figlio del diavolo era così grosso e mostruoso che alla sua vista la chiara comitiva femminile divenne del pallore della morte, ma la regina disse alla figlia:

"Ora sono sicura che il siniscalco non è mai stato capace di vincerlo! Possiamo abbandonare ogni timore e in verità, Isotta, figlia mia, io ho idea che l'uomo vivo o morto debba essere nascosto in qualche luogo qui vicino: me lo dice il mio animo profetico. Su, dunque, se sei d'accordo mettiamoci alla ricerca e vediamo se Dio ci concede di trovarlo in qualche luogo e con questo di vincere la vana angoscia che ci opprime come la morte".

Si consultarono subito e tutti e quattro si misero in cammino cavalcando separatamente e cercando l'uno di qua l'altro di là.
Ora accadde come doveva succedere, come era giusto, che la giovane regina Isotta fosse la prima a scorgere colui che doveva essere la sua vita e la sua morte, la sua gioia e il suo dolore. Dall'elmo di lui veniva un chiarore che ne annunciava la presenza.

Appena ebbe scorto l'elmo ella si volse indietro e chiamò la madre:

"Madonna, affrettatevi, avvicinatevi, io vedo luccicare qualche cosa e non so che cosa sia. Sembrerebbe un elmo, mi pare di aver visto bene".

"In verità - disse la madre -, anche a me pare così. Dio ci vuole proteggere; io credo che abbiamo già trovato colui che cerchiamo".

Così esse chiamarono gli altri due compagni e tutt'e quattro cavalcarono a quella volta.

Quando si avvicinarono e lo videro giacere là, credettero tutti che fosse morto.

"E' morto - esclamò ciascuna delle due Isotte tutta la nostra speranza è svanita, il siniscalco lo ha vilmente assassinato e lo ha portato in questa palude".

Tutti e quattro scesero da cavallo e lo ebbero presto tratto a terra, gli tolsero l'elmo, e sciolsero la cuffia.
La saggia Isotta lo guardò e vide che sì viveva, ma che la sua vita pendeva da un capello:

"In verità - disse -, egli vive. Ora toglietegli l'armatura e se avrò la fortuna che egli non muoia tutto si può accomodare".

La chiara compagnia delle tre belle donne cominciò a disarmare con le bianchissime mani lo straniero e allora esse trovarono la lingua:

"Aspetta, guarda, - disse la regina -, che cosa è mai questo? Brangaene, cara nipote, parla".

"E' una lingua mi sembra."

"Dici il vero, Brangaene? Anche a me sembra e io prego che sia quella del drago: la nostra fortuna veglia, figlia del mio cuore, o bella Isotta, io sono sicura come della morte che siamo sulla giusta via. E questa lingua gli ha tolto la forza e i sensi".

Lo disarmarono allora e poiché non trovarono su di lui lesioni o ferite ne ebbero grande gioia. Presero allora del theriacum e la saggia regina glielo introdusse in bocca così che egli cominciò a sudare.
"Guarirà - disse -; il veleno che ha assorbito dalla lingua sta già uscendo; ora potrà vedere e parlare.

Così accadde infatti: egli non rimase a lungo a giacere, ma incominciò ad aprire gli occhi e a guardarsi intorno.

Quando ebbe scorto intorno a sé la dilettosa schiera, disse nell'animo suo:

"Ah, Signore, non mi hai dimenticato, Dio buono! tre luci, le più belle che il mondo abbia, mi assistono, esse, beatitudine e conforto di molti cuori e gioia degli occhi per gli uomini: Isotta il chiaro sole e anche Isotta sua madre, la gaudiosa aurora e la fiera Brangaene, come raggio di luna piena".

Così si riebbe e chiese con debole voce:
"Ah, chi siete e dove sono?".

"Oh! cavaliere, puoi parlare? parla dunque e noi ti soccorreremo nella tua necessità", disse la saggia Isotta.

"Così sia, dolce madonna, benedetta signora; io non so come il mio corpo e tutte le mie forze siano in breve volgere di tempo indeboliti e fiaccati".

La giovane Isotta lo guardò:
"Questo è Tantris, il menestrello - disse -, tale come io lo ho veduto".

Ognuna delle altre disse pure:
"Anche a me pare in verità che sia così".

La saggia regina riprese:

"Sei tu Tantris?".

"Sì, madonna."

"Dimmi - continuò ella -, da dove sei venuto e come? e che cosa cerchi qui?".

"O tu fra le donne la più benedetta, io non sono ancora abbastanza in forze da potervi raccontare la mia storia nei particolari. Per amor di Dio fatemi condurre o portare in un luogo dove qualcuno si prenda cura di me per oggi e per questa notte, e quando sarò rinvigorito è giusto e doveroso che io faccia e dica ciò che vi piace e vi aggrada".

Fra loro quattro sollevarono Tristano e lo posero su di un cavallo e lo condussero via, riportandolo attraverso la porticina segreta, così silenziosamente che nessuno si accorse della loro andata né del loro ritorno; gli prodigarono poi cure e aiuto. Della lingua di cui abbiamo detto sopra, delle sue armi e di tutta la sua attrezzatura non rimase là né un filo né un anello; tutto fu portato al castello, tanto l'armatura quanto il cavaliere.

Il giorno seguente la saggia regina lo prese in disparte:

"Orsù, Tantris, per il favore che ti ho dimostrato adesso e in passato quando per ben due volte ti risanai e ti fui benevola e soccorrevole quando dovesti andare da tua moglie, dimmi quando sei venuto in Irlanda e come hai ucciso il serpente?".

"Madonna, ora ve lo dirò: io sono giunto a questo porto solo da poco tempo, sono oggi tre giorni, in un battello con altri mercanti; allora, non so per quale destino vennero dei pirati che, se non avessi rimediato con i miei averi, ci avrebbero tolto, oltre i beni, anche la vita. Ci accadde perciò di doverci trattenere ed essere ospiti in vari paesi stranieri, non sapendo di chi fidarci, perché ci viene fatta spesso violenza. Sapevo quindi che avrei fatto bene a farmi notare nel paese con qualche impresa; poiché essere noto in paese straniero avvantaggia il mercante. Vedete, madonna, era questo che io pensavo, poiché da lungo tempo sapevo la storia del serpente e solo per questa ragione lo ho ucciso. Spero che così troverò più facilmente pace e grazia presso la gente di questo luogo".

"Pace e grazia - disse Isotta -, ti accompagneranno fino alla morte con quell'onore che mai ti verrà meno. Sei qui giunto in buon'ora tua e nostra. Ora pensa quello che il tuo cuore desidera e questo sarà fatto e te lo otterrò dal re mio signore e da me stessa".

"Grazie, madonna, allora io affido la mia barca e me medesimo interamente alla vostra protezione. Procurate che non mi debba mai pentire di avervi dato in custodia beni e vita".

"No, Tantris, in verità ciò non sarà mai; non avere più pensiero per la tua vita e per i tuoi averi; il mio onore e la mia fede, prendile qui in mano tua, che mai in Irlanda ti accadrà alcun male. Ora non mi rifiutare una preghiera e dammi consiglio e assistenza in una questione da cui dipendono il mio onore e tutta la mia felicità".

E gli narrò come il siniscalco si vantasse di questa impresa e come sùbito egli facesse valere il suo diritto su Isotta e come pronto fosse a difendere la falsità e la menzogna in campo aperto, se si trovasse qualcuno che vi si azzardasse:
"Madonna - rispose Tristano - non vi prendete pensiero alcuno per questo: mi avete ben due volte, con l'aiuto di Dio, reso vita e salute e giustamente debbono ambedue essere al vostro servizio per questa tenzone e in ogni altra necessità finché mi dura la salute".

"Dio te lo rimeriti, caro Tantris; di te sono sicura e voglio anche confidarti che se questo malanno dovesse veramente aver luogo, saremmo tutte e due morte, Isotta e io, anche se il corpo fosse ancora vivente.".

"No, madonna, non dite così: poiché sono sotto la vostra guarentigia e la mia persona e tutto quello che posseggo resta ancora affidato al vostro onore, devo io pure darvi sicuro affidamento; quindi, madonna, state tranquilla. Aiutatemi soltanto a guarire e rimetterò io tutto a posto. E ditemi, madonna, sapete se la lingua che fu trovata su di me sia rimasta colà? o dove l'abbiano messa?".

"In verità, io la ho qui con tutto il resto che ti appartiene; io e la mia bella figliola, Isotta, abbiamo portato via tutto".

"Buon per noi - replicò Tristano -; ora, nobile regina, lasciate ogni preoccupazione e aiutatemi a riprendere le forze e tutto sarà presto risolto".

Le due regine lo presero in cura, ambedue insieme e separatamente. La loro maggior preoccupazione era di conoscere quello che meglio potesse servire alla guarigione di lui e al suo benessere.

Intanto sul battello i suoi compagni erano in grande angustia perché temevano di essere perduti e, dopo due giorni non avendo avute notizie di lui, nessuno di essi credeva ancora di potersi salvare. Avevano anche udito l'urlo del drago ed era pure molto diffusa la voce che un cavaliere fosse rimasto ucciso e che metà del cavallo giacesse ancora sul luogo. Essi pensarono subito:

"Chi potrebbe essere se non Tristano?", poiché non dubitavano che se la morte non lo avesse colto, egli sarebbe già ritornato.

Così si consultarono fra loro e mandarono Kurvenal a riconoscere il destriero; egli andò, lo vide e lo riconobbe per quello di Tristano e, avanzando, trovò anche il drago; ma non rinvenendo null'altro di suo, né vesti né armatura, venne in grande dubbio.

"Ah - pensava - ser Tristano, sei vivo o morto? ahimè, ahimè! Isotta, la tua fama e le tue lodi non fossero mai giunte in Cornovaglia! poiché la tua bellezza e la tua virtù hanno condotto a perdizione e a rovina una delle più nobili nature che mai siano state insignite dell'onore della spada; tu troppo gli sei piaciuta!".

Così egli ritornò alla loro nave piangendo e lamentandosi e raccontò quello che aveva veduto. La notizia addolorò molti, ma pure non tutti; la stessa triste novella non fu triste per ognuno: più di uno la sopportò assai bene; ma in molti altri, ed erano i più numerosi della compagnia, si vedeva che cagionava loro grande rammarico. Così l'affetto e l'animo loro erano divisi fra bene e male. E in questo dissidio parlavano e mormoravano fra loro discordi. I venti baroni non erano sinceramente dolenti di questo dubbio che era stato loro manifestato; speravano di ritornarsene indietro e pregavano che non si indugiasse più a lungo; e tutti (intendo i venti baroni) volevano far vela la notte stessa. Altri però consigliavano diversamente, che si rimanesse cioè, aspettando di sapere meglio quello che fosse avvenuto. C'era dunque discordia fra loro, gli uni volevano partire, gli altri restare, finalmente fu deciso di restare ancora almeno due giorni, informandosi e domandando notizie, poiché la sua morte non era certa e palese. I baroni di ciò si lagnarono.

Intanto a Weisefort era giunto il giorno da Gurmun fissato per l'incontro della fanciulla sua figlia e il siniscalco. I vicini, i fidi e i parenti che Gurmun aveva convocato a consiglio erano tutti presenti. Egli li prese a parte uno per uno e li interrogò stringentemente come uno cui ne vada del proprio onore e a cui null'altro prema. Mandò anche a invitare al consiglio la sua diletta sposa, la regina. Ben poteva ella essergli cara poiché in lei trovava riunite due qualità benedette, le migliori che si possano trovare nella donna amata, bellezza e saggezza; essa le possedeva in tale misura che poteva davvero essergli cara. La bella e saggia regina era dunque presente. Il re suo sposo la prese in disparte dall'assemblea:

"Che cosa mi consigli tu? dimmelo! - le chiese - per me questa questione è dura come la morte".

"State di buon animo - replicò la regina Isotta sapremo ben liberarcene; io ho scoperto tutto".

"Come? donna del mio cuore, dillo anche a me, in modo che io possa rallegrarmene con te".

"Vedete, per quanto il nostro siniscalco lo affermi, non è lui che ha ucciso il drago e io so bene chi è stato e lo proverò quando sarà necessario. Lasciate dunque ogni timore, ritornate alla vostra assemblea e annunziate che quando avrete constatato la sincerità del siniscalco manterrete il giuramento che avete fatto al paese. Comandate che tutti vengano con voi e sedete a giudizio. Non temete di nulla: lasciate che il siniscalco parli e dica quello che vuole; quando sarà il momento verremo io e Isotta e quando me lo comanderete parlerò io per lei, per voi e per me. Rimaniamo d'accordo così. Ora vado da mia figlia e presto ritorneremo ambedue".

Essa si recò dalla figliola e il re ritornò nel palazzo, sedette a giudizio e con lui molti baroni, giudici nel paese. Vi era grande raduno di cavalleria, venuta non solo e non tanto per fare onore al re, ma anche perché tutti volevano vedere che cosa sarebbe risultato da questa storia di cui tutto il paese parlava.
Quando le due gentili Isotte entrarono nel palazzo salutarono i signori ognuno separatamente e ne ricevettero il saluto. Fra questi ci fu un gran parlare e molti discorsi sulla bellezza di ambedue le regine e ancor più si diceva della fortuna del siniscalco.

"Ecco - pensavano e dicevano - osservate come a questo sciagurato che non ha mai meritato bene, debba essere data questa meravigliosa fanciulla; egli così otterrà la maggiore felicità che chiunque possa trovare in una donna".

Esse giunsero così fino al re. Questi si levò e andò loro incontro e cortesemente le fece sedere accanto a sé.

"Ora - disse egli - siniscalco, parla: chiedi, che cosa vuoi?".

"Molto volentieri, o re - disse egli; - io esigo e chiedo che non violate in me la parola di re data al paese. Se volete confermarla, voi diceste e giuraste, con parola e con giuramento, che qualora un cavaliere avesse ucciso di propria mano il drago, gli avreste dato per ricompensa vostra figlia Isotta. Questo voto fu la rovina di molti; ma io non vi posi mente perché amavo la fanciulla e rischiai la vita più pericolosamente di quanto mai uomo abbia fatto, sinché alla fine mi riuscì di uccidere il mostro. Questo vi basti: ecco qui la testa; guardatela; l'ho portata per testimonianza; ora sciogliete il vostro impegno: parola di re e giuramento di re devono essere veritieri e mantenuti".

"Siniscalco - disse la regina - colui che pretende una così ricca ricompensa come mia figlia Isotta, senza averla veramente meritata, ha in verità troppo ardire".

"Ah - disse allora il siniscalco - madonna, voi fate male a parlare così, il re mio signore, che deve decidere, può ben parlare egli stesso. Parli dunque egli e mi risponda".

Il re disse:
"Madonna, parlate voi per conto vostro, per Isotta e per me".

"Grazie a voi, sire; così farò".

La regina riprese:

"Siniscalco, il tuo amore è puro e giusto e tu possiedi anche virile coraggio: sei dunque ben degno di una buona sposa. Chi però chiede una così alta ricompensa quando non l'abbia meritata, commette in verità un delitto. Tu ti sei attribuito un'impresa e un atto di valore, come mi è stato detto, in cui non hai avuto parte".

"Madonna, non so come parlate; ho pur portato qui la prova".

"Tu hai portato qui una testa, questo lo potrebbe facilmente fare chiunque volesse ottenere Isotta. Essa però non sarà guadagnata con così poca fatica."

"No, invero disse la giovane Isotta - io non voglio essere acquistata così a buon mercato".

"Ahimè, mia giovane signora - replicò allora il siniscalco ahimè, che nei miei riguardi possiate parlare così sprezzantemente della fatica che ho tante volte sofferta per amor vostro e portata a buon fine".

"Se anche voi mi amate - disse Isotta - io non ho mai avuto per voi né amore né amicizia, né, in verità, mai ne avrò".

"Già - replicò l'altro - lo so bene, voi fate proprio come tutte le donne: siete tutte uguali di modi e di animo; a voi il male sembra sempre bene, il bene sempre male; questa tendenza è molto forte in voi tutte; sbagliate in ogni senso: gli sciocchi sono tutti saggi per voi e i saggi sciocchi, i dritti li fate storti e gli storti a loro volta dritti; avete preso il vostro filo alla rovescia, amate chi vi odia e odiate colui che vi ama. Come avviene che siete così fatta che, come si vede, tanto vi piace la contraddizione delle cose? Ciò che vi vuole non lo volete e volete invece quello che non vuole voi. Voi siete il gioco più pazzesco che mai si sia veduto su di uno scacchiere. E' ben insensato colui che mette a repentaglio la propria vita per una donna! eppure, nonostante tutto quello che voi dite e che madonna afferma, avrò ben altro responso: altrimenti vorrà dire che il giuramento sarà stato infranto".

La regina riprese:

"Siniscalco, la tua mente è salda e acuta; chiunque abbia senno perspicace si accorge che la tua saggezza sembra si sia maturata nella "kemenate" (2) e ti venga dai conversari con donne. Ti sei dimostrato un vero cavaliere di dame.

Conosci troppo bene il costume femminile e ne sei troppo esperto e ciò ti ha fatto perdere il tuo virile carattere. Anche tu ami troppo la contradizione delle cose, anzi mi pare che in questa ti trovi a tuo agio. Hai preso per tua norma lo stesso sistema femminile: ami chi ti odia, vuoi chi non ti vuole; questo è il gioco di noi donne: come te lo permetti anche tu? Dio ti aiuti, tu sei un uomo, lasciaci dunque il nostro uso donnesco; questo non ti giova; tienti il tuo senno da uomo e ama chi ti ama e brama chi ti vuole, così avrai fortuna nel gioco. Tu affermi e insisti che vuoi Isotta ed essa non ti vuole: questo è il suo temperamento: chi può farci nulla? Essa ha già tralasciato molte cose che avrebbe potuto avere; ha in avversione quelli che pur l'avrebbero molto cara, fra i quali tu sei ora il primo. Questa tendenza l'ha ereditata da me: io stessa non ho mai avuto per te simpatia alcuna e così, lo so, è di Isotta, lo ha preso da me. Tu sprechi per lei molto amore: la bella, la pura fanciulla sarebbe davvero un bene troppo comune se dovesse subito volere colui che la vuole. Siniscalco, come tu hai detto, il mio Signore deve mantenere il suo giuramento: vedi tu che nel tuo dire e nel tuo racconto nulla manchi o venga tralasciato. Pérora la tua causa. Io sento dire che il drago è stato ucciso da altri che da te: vedi che cosa puoi dircene tu".

"Chi sarebbe costui?".

"Io ben lo conosco e lo posso produrre quando occorra".

"Madonna, non c'è uomo che tanto osi e che voglia con la menzogna togliermi l'onore, e che non mi dia il modo e il diritto di arrischiare la mia vita e la mia persona, secondo il giudizio della Corte, in singolar tenzone prima che io mi allontani di un passo".

"Di questo ti do lode - disse la regina - e sarò io stessa garante che ti accorderà la tua domanda e ti condurrò qui per il duello, fra tre giorni da oggi (poiché non mi è possibile farlo in questo momento), colui che uccise il drago".

"Basta così"- disse il re e anche tutti i cavalieri dichiararono:

"Siniscalco, va bene così; questo è un breve indugio, va', accetta l'impegno e lo stesso faccia madonna la regina".

Il re prese allora da ambedue promessa e sicura garanzia che questa finale tenzone sarebbe stata tenuta al terzo giorno. E così terminò la questione.

Ambedue le regine si ritirarono e presero in diligentissima cura il loro menestrello. Il loro pensiero era sempre rivolto con dolce preoccupazione a tutto ciò che potesse giovargli. Ora egli era ben guarito, agile di corpo e ben colorito in volto. Isotta stava sovente a guardarlo e ne osservava con grande attenzione l'aspetto e i modi; considerava di nascosto le sue mani e il suo volto, guardava le braccia e le gambe che rivelavano ciò che egli così segretamente celava. Essa lo considerava da capo a piede e tutto quello che a una fanciulla è lecito guardare in un uomo, tutto le piaceva e tutto lodava in cuor suo.

Ora la bella, la buona fanciulla, vedendo e considerando la nobile prestanza e le signorili maniere di lui, disse segretamente in cuor suo:

"Signore Iddio onnipotente, se ci può essere qualche difetto in ciò che creasti, allora invero lo sbaglio è proprio qui in questo nobilissimo uomo, nel quale hai profuso tanta bellezza di corpo e che è costretto a errare di paese in paese cercando il suo sostentamento: sarebbe giusto che un regno o un paese gli obbedissero; così dovrebbe essere! Il mondo è ben strano. Tanti regni sono governati da mani deboli e invece nessuno di questi è toccato a lui. Una così regale figura, ricca di tante virtù, dovrebbe possedere beni e onori; grande torto gli è stato fatto. Signore Iddio, gli hai dato una vita troppo in disaccordo con la sua persona".

Così spesso diceva la fanciulla. Intanto anche sua madre aveva parlato al re del mercante e narrato tutto fino dal principio, come già avete udito, e aveva detto come egli fosse venuto e non chiedesse se non più ampia protezione qualora dovesse ritornare in questo regno. Tutto ciò ella aveva narrato in segreto al re con ogni particolare.

Intanto la fanciulla aveva ordinato al suo scudiero Paranise di ripulire e lustrare bene l'armatura e le armi di Tristano e di prendere diligente cura di tutta la sua roba; così fu fatto: tutto era bello e pronto e disposto in bell'ordine, un pezzo sull'altro. Quindi Isotta venne in segreto e osservò tutto particolarmente; ma sfortuna volle che essa vi trovasse, come l'altra volta era accaduto, nuovo tormento per il cuore. Il suo cuore era intento e il suo occhio rivolto all'armatura che le giaceva davanti; ora non so come accadde che ella prese in mano la spada, così come per gioco sogliono sovente fare fanciulli e fanciulle e, come Dio sa, anche più di un uomo adulto; la sguainò e la guardò osservandola da tutte le parti e scorse anche la falla; considerò a lungo la malaugurata scheggiatura e pensò fra sé:

"Dio mi aiuti! io credo di avere il frammento che qui si adatta, anzi voglio andare a prenderlo".

Lo trovò dunque e ve lo intromise; ora la falla e il pezzo mancante combinavano perfettamente come se fossero una cosa sola, quali infatti erano stati due anni prima.
Le si gelò il cuore per l'antica pena. Dall'ira e dal dolore il suo volto passava da un pallore di morte al rossore del fuoco:

"Ahimè - diceva - sventurata Isotta! guai a me e anche a voi o armi! Chi ha portato qui dalla Cornovaglia quest'arma sciagurata? Con essa venne ucciso mio zio e colui che lo uccise si chiamava Tristano; chi l'ha donata a questo menestrello il cui nome è Tantris?".

Essa cominciò allora tra sé a mettere a raffronto i due nomi e a pronunciarli a voce alta:
"Oh, Signoredisse di nuovo -, questi due nomi mi tormentano; non posso capire come sia, ma suonano molto simili fra loro. Tantris pronunziò - e Tristan! qui c'è davvero un mistero".

Ora quando cominciò a ripetere e a ridire i due nomi, le avvenne di por mente alle lettere di cui ambedue erano formati e trovò che erano le medesime nell'uno e nell'altro. Prese allora a dividerle in sillabe e le spostò avanti e indietro: rintracciò così il nome vero. In un senso leggeva Tristan, nell'altro leggeva Tantris; così fu sicura del nome.

"Già - disse la bellaallora, se così stanno le cose, il mio cuore mi aveva ben predetto questo inganno e questa falsità. Come sin da quando in lui scorsi la persona e le maniere e osservai nel mio cuore tutto il suo comportamento, compresi che egli doveva essere di nobili natali! Chi, se non lui, avrebbe osato questo, di venire dalla Cornovaglia fin qui, presso il suo mortale nemico? E noi per due volte lo abbiamo salvato. Salvato? Ora egli è tutt'altro che salvo. Questa spada segnerà la sua fine. Ora affrèttati, Isotta, vendica il tuo dolore! Allorché egli giacerà trafitto da questa spada con la quale uccise mio zio, allora vendetta sarà stata fatta".

Ella afferrò la spada e si recò da Tristano che stava nel bagno:

"Dimmi - domandò - sei tu Tristano?".

"Madonna, io sono Tantris."

"Tu sei ambedue, Tristano e Tantris, ne sono sicura; tutti e due sono l'unico medesimo tristo uomo. Quello che mi ha fatto Tristano me lo pagherà Tantris; tu sconterai per mio zio".

"No, mia dolce signora, no! per amor di Dio, che cosa fate? pensate al vostro buon nome. Voi siete donna e fanciulla: quando si saprà che mi avete ucciso, la bellissima Isotta sarà per sempre morta all'onore. Il sole che splende sull'Irlanda e che ha rallegrato tanti cuori, ahimè, sarà allora spento! Ahimè, come male si addice la spada a quelle bianche mani!".

In quel momento entrò nella torre la madre di lei, la regina.

"Come! - esclamò - come! che cosa significa questo? Figlia, che cosa fai? E' questo il buon costume per una dama? Hai perduto il senno o agisci per collera o per scherzo? Che cosa significa quella spada in mano tua?".

"Ah! madre mia; ricorda il nostro dolore, tuo e mio: questi è Tristano che uccise tuo fratello. Ora abbiamo il modo di vendicarci e di trafiggerlo con questa spada; non troveremo mai momento più propizio".

"Questi è Tristano? come lo sai?"

"Lo so sicuro, è Tristano: questa è la sua spada; guardala e guarda la scheggia e vedi se non è lui. Io ho introdotto la scheggia in questa malaugurata intaccatura e, ahimè, mi avvidi che vi si adattava come a formare un solo pezzo."

"Ahi! - disse allora la madre - che cosa mi ricordi, Isotta! Non fossi mai vissuta! E se questi è Tristano, come mi sono ingannata su di lui!".

Isotta aveva levata la spada e si avanzava verso di lui; ma sua madre si rivolse a lei:

"Lascia, Isotta, lascia andare! non sai che cosa ho giurato?"

"Non me ne importa, deve morire!".

"Merzî, bele Isôt!" - disse Tristano.

"Come, o perfido uomo esclamò Isotta - ancora chiedi merzî? Merzî non è per te: devi dire addio alla vita".

"No, figliola - disse allora la madre le cose non stanno, purtroppo, in tal modo che noi possiamo vendicarci senza rompere la nostra fede e mancare al nostro onore: non avere troppa fretta: egli è sotto la mia protezione per la persona e per gli averi. Comunque ciò sia avvenuto io l'ho preso interamente nella mia custodia".

"Grazia, madonna - disse Tristano - pensate, madonna, che io mi sono affidato al vostro onore e che voi su questo mi riceveste".

"Tu menti - disse la giovane - so ben io come fu il discorso; essa non promise mai pace e protezione per la vita e per gli averi a Tristano".

Con ciò gli si fece nuovamente contro, mentre Tristano esclamava di nuovo:

"Ah, bêle Isôt, merzî, merzî!".

Ma sempre si interponeva la madre, la pia regina: egli poteva stare senza preoccupazioni. Anche se fosse stato là legato nel bagno e sola Isotta presente, si sarebbe ugualmente salvato: la dolce, la buona fanciulla che mai aveva accolto nel suo animo di donna asprezza o amarezza di cuore, come avrebbe potuto uccidere un uomo, anche se per il dolore e per l'ira poteva sembrarvi disposta? E lo avrebbe anche fatto, in quel momento, se ne avesse avuto il cuore: questo però si rifiutava a una tale crudeltà.
Pure, per buono che fosse il suo cuore, essa non poteva impedirsi di sentire sdegno e tristezza guardando colui il quale le aveva cagionato tanto male. Udiva il suo nemico e lo vedeva eppure non lo poteva uccidere: la sua dolce femminilità le si imponeva e la ritraeva indietro. In lei lottavano due sentimenti opposti: collera e femminilità che male stanno insieme quando si vogliono dare la mano. Quando in Isotta l'ira avrebbe voluto uccidere il nemico, sopraggiungeva la mite femminilità e "no - diceva dolcemente, - non farlo!".

Così il suo cuore era diviso in due ed era insieme buono e cattivo. La bella abbassava la spada e subito la levava di nuovo; non sapeva nell'animo suo da quale parte volgersi fra il bene e il male: voleva e non voleva, desiderava farlo e tralasciarlo. Così continuò nell'alternativa finché la dolce femminilità vinse l'ira; quindi il nemico mortale fu salvo e Morolt rimase invendicato.
Allora essa gettò via la spada e piangendo disse:

"Ahi me misera, non avessi mai veduto questo giorno".

La saggia sua madre così le parlò:
"Figlia del mio cuore, le tue pene sono purtroppo anche le mie e queste sono maggiori e più dolorose delle tue, le quali, per grazia di Dio, non ti colpiscono tanto profondamente come me. Purtroppo, mio fratello è morto: questa era finora la mia pena maggiore; ora per te, mia cara figliola, ne temo inoltre una ancor peggiore che mi va ancor più profondamente al cuore. Nessuno al mondo mi è più caro di te: piuttosto che ti debba accadere qualche cosa di male, rinunzio volentieri a questa vendetta e sopporto meglio e più facilmente un solo dolore anziché due. Ora piuttosto pensiamo a quello sciagurato che ci ha sfidato: se non ci guardiamo da lui col massimo impegno, il re tuo padre, io e tu saremo per sempre disonorati e per sempre infelici".

Tristano, nel bagno, disse allora:

"Nobili dame, io vi ho cagionato, è vero, grande afflizione, ma è stato per estrema necessità. Se però vorrete riflettervi, come pur dovete fare, saprete bene che questa estremità non era altro che la morte, che nessuno soffre volentieri se può salvarsene. Comunque ciò sia stato, è ora di rivolgere il vostro pensiero al siniscalco; per quanto lo riguarda, gli procurerò io una buona fine, s'intende se mi lasciate la vita e se la morte non me lo impedisce. Madonna, e anche voi Isotta, so bene che voi siete sempre piene di bontà e di discernimento: se osassi contare su di una tregua con voi e se voleste rinunciare a ostilità contro di me e all'odio che per tanto tempo avete nutrito contro Tristano, vi potrò dare una buona novella".

Isotta, madre di Isotta, lo contemplò a lungo e divenne rossa, i suoi chiari occhi si riempirono di lacrime:

"Ahimè - disse ellaora sento bene e so per certo che siete voi; fino a questo momento ne dubitavo. Ora, non richiesto, mi avete detto la verità. Ahimè, ahimè, ser Tristano, che io abbia acquistato potere su di voi come adesso lo possiedo e che non lo possa usare come mi sarebbe facile e giusto! Il potere però è così molteplice e io credo che mi sia lecito usarlo verso il mio nemico ledendo il diritto, trattandosi di un uomo malvagio. Dimmi, Signore Iddio, lo farò io? In verità credo di sì".

In quella sopraggiunse Brangaene, saggia, altera e sorridente, bella e cortese, entrando con passo leggero. Vista in terra la spada e le due dame turbate:

"Come - disse - che cosa fate qui voi tre? che sistemi sono questi? Perché sono umidi e offuscati gli occhi delle mie signore? E che cosa fa qui in terra questa spada?".

"Brangaene, mia diletta nipote, vedi come siamo stati tutti ingannati: abbiamo ciecamente allevato il serpente invece dell'usignolo e messo dinanzi al corvo i granelli che dovevano essere per la colomba. Signore Iddio, noi abbiamo con le nostre mani nutrito il nemico come se fosse amico e due volte strappato alla morte il nostro mortale nemico Tristano. Guarda colui che sta là: è Tristano. Ora io sono in dubbio su quello che debbo fare, se vendicarmi o no. Dimmi tu, nipote mia, che cosa mi consigli?".

"No, madonna, lasciate questo discorso; avete troppo senno e troppa bontà perché possiate trovare il coraggio per una simile mala azione e per comportarvi così insensatamente e perché possiate pensare di dare la morte a un uomo e per di più a uno cui avete promesso tregua e protezione; spero in Dio che non abbiate mai avuto in animo di farlo. Dovete anche riflettere quale contratto avete concluso con lui, e come il vostro onore ne dipenda. Vorreste rinunciarvi per la vita di un qualsiasi nemico?".

"Che cosa vuoi dunque che io faccia?".

"Madonna, vedete voi stessa; lasciatelo andare per ora; intanto potrete prendere consiglio su quanto sarà più conveniente fare".

Si recarono quindi tutte e tre nelle loro stanze per consultarsi.

Isotta la saggia regina disse:

"Ecco, parlate: che cosa può aver voluto dire quest'uomo? Egli ha affermato davanti a noi due che, se volevamo recedere da questo nostro rancore che per tanto tempo abbiamo nutrito, ci avrebbe dato una buona novella. Quale può mai essere? me lo domando".

Brangaene disse:

"Io consiglio che nessuno gli faccia alcun male finché non scopriamo le sue intenzioni. L'animo suo è forse buono e volto all'onore di ambedue voi. Bisogna voltare il mantello secondo il vento. Chissà che non sia venuto in Irlanda per il vostro bene? Tenetelo dunque qui per questo tempo e ringraziate Iddio sempre che, per mezzo suo, si sia chiarito questo inganno e la falsità del siniscalco. Dio ci ha protette nella nostra ricerca perché se allora non lo avessimo subito trovato, forse sa Iddio che sarebbe già morto; e allora, lo sa Cristo o mia giovane signora Isotta, staremmo ancora peggio. Non dimostrategli alcuna ostilità, poiché se si accorge di qualche cosa e trova il modo di fuggire ha ragione di farlo. Perciò pensateci ambedue, mostratevi cortesi come è uso e dovere. Questo è quanto vi consiglio. Datemi ascolto. Tristano è nobile quanto voi ed è cortese e saggio e perfetto in tutto. Comunque vi sentiate disposte verso di lui in cuor vostro, usategli cortesia: in verità qualunque cosa abbia in mente è venuto qui per seri motivi; il suo modo di agire e i suoi sforzi sono rivolti al bene".

Così allora si levarono e si recarono dove Tristano stava ritirato, seduto sul suo letto. Egli non venne meno a se stesso: si levò subito in piedi, andò loro incontro e si prostrò davanti a loro e giacque ai piedi delle belle donne cortesi in atto supplichevole, mentre diceva:

"Grazia, o voi dolci Signore, concedetemi grazia affinché io possa compiere, per vostro onore e per vostro bene, quello per cui sono venuto in questo regno".

L'inclita compagnia, le tre chiare donne distolsero lo sguardo da lui e si guardarono tra loro. Esse erano in piedi ed egli ancora stava prostrato.
"Madonna - disse Brangaene - è troppo tempo che il cavaliere giace così".

La regina replicò:
"Che cosa vuoi che gli faccia? Il mio cuore non è disposto a divenirgli amico; non so che cosa fare che sia giusto".

Brangaene rispose:
"Mia diletta Signora, voi e la mia giovane signora Isotta: so bene ed è cosa certa come la morte che, per l'antica vostra afflizione, difficilmente lo potete amare; ma ambedue voi fatelo sicuro della vita e allora probabilmente per suo proprio vantaggio vi dirà qualche cosa".

"Così sia fatto", dissero le dame e con questo gli ordinarono di alzarsi.

Dopo questa promessa tutti e quattro sedettero e Tristano cominciò il suo discorso:

"Vedete, Madonna regina, se voi volete ora essermi amica, avverrà ancora entro questi due giorni (e invero senza inganno né astuzia) che la vostra figliola diletta sposerà un nobile re, a lei bene adatto come sposo perché è bello e generoso con la spada e con lo scudo, un cavaliere nobile ed eletto, nato di stirpe reale e oltre a tutto questo anche molto più ricco del padre di lei".

"In verità - disse la regina -, se siete sicuro di quello che dite, io acconsentirei e farei quello che mi si chiede".

"Madonna - riprese Tristano - vi voglio subito rassicurare. Se non ve lo provo ora finché dura questa tregua, che io sia escluso da questa pace e mai più salvo".

La saggia regina disse:

"Brangaene, parla, che cosa consigli? che cosa te ne pare?".

"Il suo discorso mi sembra giusto e vi consiglio di fare come egli dice. Lasciate ogni dubbio, levatevi ambedue e dategli il bacio. E sebbene io non sia regina, pure voglio io pure prendere parte alla tregua, poiché Morolt era mio parente, sebbene io sia povera".

Allora tutte e tre lo baciarono, ma Isotta la giovane lo fece con grande contrarietà.

Conclusa questa riconciliazione, Tristano disse alle dame:

"Or sa il buon Dio, che mai fui felice nell'animo come lo sono adesso; dovevo finora sempre guardarmi da tutti i mali che aspettavo e che mi potevano accadere, per potermene difendere. Ora, lo so bene, non spero di essere nella vostra grazia; ma lasciate ogni timore: io sono venuto dalla Cornovaglia in Irlanda per vostro onore e per vostro bene. Fin dal mio primo viaggio, quando qui fui risanato, ho sempre parlato in vostro onore e in vostra lode a Marco mio signore finché con i miei discorsi inclinai così fortemente l'animo suo verso di voi che egli si fece ardito, sebbene fosse esitante, e vi dico perché: egli temeva l'inimicizia vostra e inoltre non voleva prendere donna per amor mio, affinché io fossi suo erede dopo la sua morte. Ma da questo io seppi distoglierlo, finché cominciò a darmi ascolto. Così ci accordammo noi due per questo viaggio: perciò io venni in Irlanda e perciò uccisi il serpente; voi mi avete prestato le vostre cure con felice risultato. Così la mia giovane signora sarà regina e signora di Cornovaglia e d'Inghilterra. Adesso lo scopo del mio viaggio vi è noto. Però, mie nobili dame, piene di grazia tutte e tre, tenete ancora tutto segreto".

"Dimmi ora - chiese la regina - farei male se lo dicessi al mio signore e lo facessi entrare nel patto?".

"No, Madonna - rispose Tristano - anzi è giusto che egli ne sia informato. Voi abbiate cura che da tutto ciò a me non venga danno."

"No, ser Tristano, non abbiate timore alcuno; non vi è più luogo a preoccupazioni".

Le dame tutte si ritirarono nelle loro stanze e con grande ammirazione considerarono la ventura di lui e il buon successo di tutte le sue imprese. La madre in un modo, Brangaene in un altro, ognuna aveva da dire della saggezza di lui.

"Vedi, madredisse la figlia -, come mirabilmente io scoprii che si chiamava Tristano: quando presi in mano la spada e cominciai a maneggiarla ripensai anche ai nomi Tantris e Tristan e quando presi a studiarli mi sembrò che avessero qualche cosa di comune; allora lo considerai attentamente e trovai che le lettere erano le stesse per ambedue i nomi; per qualunque verso le leggessi, altro non trovavo che Tantris o Tristan e sempre in tutti e due un solo nome. Ora, madre mia, dividi questo nome in un Tan e in un Tris e pronunzia il Tris prima del Tan e avrai Tristan: metti il Tan davanti al Tris e dirai Tantris".

La madre si segnò:

"Dio mi benedica! - disse - donde ti è venuta in mente questa idea?".

Dopo che tra loro ebbero variamente discusso intorno a lui, la regina mandò per il re, il quale venne.

"Ecco, Sire - disse ella- ascoltate, voi dovete esaudire una preghiera per cosa che noi tre desideriamo ardentemente; se lo farete ne verrà bene a noi tutti."

"Io vi obbedirò in qualsiasi cosa desideriate. Sia fatto tutto quello che volete."

"Lo lasciate dunque in mio arbitrio?" - insisté la buona regina.

"Sì, sarà fatto quello che voi volete".

"Grazie, Signore, questo basta: sire, colui che uccise mio fratello, Tristano, lo ho qui presso di noi; a lui dovete concedere la vostra grazia e il vostro affetto; le sue opere sono tali che la riconciliazione è giustificata".

Il re rispose:

"In verità, mi è facile lasciarti questa decisione; essa riguarda più te che me. Morolt, tuo fratello, era più prossimo parente tuo che mio: se tu rinunci alla vendetta, per me va bene, io sono d'accordo".

Quindi ella gli narrò la storia di Tristano, come lui stesso l'aveva raccontata a lei; il re ne fu soddisfatto e le disse:

"Ora sta' attenta che egli agisca lealmente".

Allora la regina mandò Brangaene a chiamare Tristano: questi, entrando, piegò il ginocchio dinanzi al re:

"Grazia, Sire", disse.

"Alzatevi, ser Tristano e venite qui - disse Gurmun -, e abbracciatemi: a malincuore vi rinunzio, pure rinunzio a questa vendetta, poiché le dame hanno perdonato".

"Sire - soggiunse Tristano -, in questa pace sono compresi anche il mio sovrano e ambedue i suoi regni?".

"Certamente", rispose pronto Gurmun.

Compiuta questa riconciliazione, la regina fece sedere Tristano accanto a sua figlia e lo pregò di narrare di nuovo al loro signore la sua storia fin dal principio e dirgli in qual modo tutto si fosse svolto, tanto per quanto riguardava il drago che per la domanda del re Marco: tutto questo Tristano ripeté dal principio alla fine. Ma il re osservò:

"Ser Tristano, come posso assicurarmi che tutto questo sia la verità?".

"Molto bene, sire; qui nelle vicinanze ho tutti i principi del mio sovrano: domandate per garanzia quello che vi piace e lo avrete sinché l'ultimo di essi sia qui".

Dopodiché il re si ritirò e le donne rimasero sole con Tristano. Questi chiamò Paranise da parte e gli disse:

"Va' subito giù al porto, là c'è un battello; avvicìnati di nascosto e chiedi chi di loro si chiami Kurvenal. A lui di' sottovoce che venga subito dal suo signore e non dire altro ad alcuno, ma conducilo qui in segreto, quanto più cortesemente sai".

Ora, Signore Iddio, Paranise così fece e lo condusse tanto in silenzio che nessuno se ne accorse. Quando entrarono nella "kemenate" davanti alle dame, la regina sola lo salutò e nessun'altra badò a lui, non ritenendolo cavaliere.
Allorquando Kurvenal vide Tristano stare fra le dame così sano e contento gli disse in lingua francese:

"A, bêâ dûz sir, in nome di Dio, che cosa fate mai standovene così al sicuro in questo paradiso e lasciando noi in pena? Ci credevamo tutti perduti e fino a questo momento avrei giurato che voi non foste più in vita. Quanta preoccupazione ci avete dato! La vostra nave e la vostra gente ancora oggi giurava e riteneva per certo che foste morto e solo con grande fatica sono rimasti fino a questa sera; avevano già stabilito di partire questa stessa notte".

"Invece disse la regina -, egli è vivo, sano contento".

E Tristano, parlandogli in brettone, cominciò:

"Kurvenal, va' subito giù e di' che sono salvo e che va tutto bene e che porterò a compimento tutto quello per cui ci hanno mandati qui".

E con ciò gli raccontò fino dal principio le sue avventure come meglio seppe. Quando gli ebbe narrato le sue fortune e il suo travaglio,
"Ora - disse - va' in fretta giù e di' ai miei vassalli e anche ai cavalieri che per domani mattina ognuno si tenga pronto, ben lustrato e ben vestito con gli abiti migliori che possiede e che attendano tutti un mio messaggero e quando io lo invierò vengano tutti a cavallo qui da me a corte. Inoltre io spedirò qualcuno domani mattina da te e tu mandami il piccolo scrigno nel quale sono i miei gioielli e anche mandami degli abiti, quelli di foggia più bella. Tu pure abbìgliati riccamente come si addice a cortese cavaliere".

Kurvenal si inchinò e uscì. Brangaene domandò:

"Chi è quell'uomo? quando è entrato qui gli è sembrato di entrare in un paradiso; è egli cavaliere o servo?".

"Madonna, sebbene non appaia, non abbiate alcun dubbio; egli è tale cavaliere e tale uomo che il sole mai illuminò cuore più nobile".

"Ah, possa egli essere sempre benedetto!" esclamò la regina e con lei Brangaene la donna cortese e gentile.

Giunto al battello, Kurneval cominciò subito il suo discorso, secondo quanto gli era stato ordinato e raccontò anche come aveva trovato Tristano. Allora si rallegrarono tutti tanto, così come se fosse risuscitato un morto. Molti però erano lieti più per la pace conchiusa che per l'onore di Tristano. I baroni invidiosi ricominciarono come prima a parlare e a mormorare tra loro, imputando ancor più a magia questa grande ventura di Tristano; l'uno diceva all'altro:

"Osservate le meraviglie e i miracoli che quest'uomo compie! Signore! quale potere ha mai, sì da riuscire in tutto quello che intraprende?".

Intanto era anche giunto il giorno stabilito per il combattimento e nella sala, alla presenza del re c'era gran numero di cavalieri e di signori del paese. Anche fra i fedeli vassalli non pochi si domandavano chi si sarebbe offerto a combattere col siniscalco per la donzella Isotta. E le domande si incrociavano, ma non c'era alcuno tra loro che ne avesse sentore. Intanto erano arrivati gli abiti di Tristano e lo scrigno e da questo egli aveva scelto per le tre dame tre cinture tali che mai regina o imperatrice ne ebbe di più belle. Il cofanetto era colmo di diademi e anelli, fibbie e pendenti e tutti tanto belli che nessun cuore avrebbe potuto desiderare o imaginare qualche cosa che meglio valesse. E da tutto questo non fu detratto che quel tanto che Tristano ne tolse per se stesso: una cintura che assai bene gli si adattava, un diadema e una piccola fibbia che dovevano servirgli per suo proprio ornamento.

"Belle dame - disse egli - tutte e tre voi, fate e disponete a vostro talento di questo cofanetto e di tutto ciò che contiene".

Con queste parole si ritirò: si rivestì con i suoi abiti mettendovi ogni cura e ogni attenzione, sì da figurarvi così bene come si conviene a perfetto cavaliere; infatti gli si adattavano mirabilmente. Ritornò allora dalle dame ed esse cominciarono a guardarlo e a ripensare fra sé quanto apparisse bello e amabile. Le tre nobili donne ebbero simultaneamente la stessa impressione: in verità questi è l'ideale di una creatura umana, la sua persona e insieme il suo abito formano in lui l'uomo egregio, tanto bene si completano l'uno con l'altro; tutto in lui e in tutto quello che lo riguarda è perfetto.

Ora Tristano aveva mandato per il suo seguito; i suoi compagni erano venuti e avevano preso posto l'uno accanto all'altro nella sala. Gran folla di gente veniva ad ammirare la meraviglia degli abiti che essi tutti portavano e fra la gente molti dicevano che non si era mai veduto così gran numero di uomini tanto sfarzosamente abbigliati. Se restavano tutti in silenzio, senza parlare con le persone del paese, era soltanto perché non ne conoscevano la lingua.

Il re mandò un messo alla regina che venisse alla corte e conducesse con sé la figliola.

"Isotta - disse la regina andiamo: voi, ser Tristano, resterete qui intanto; quando vi farò chiamare vi prenderà per mano Brangaene e così farete il vostro ingresso voi due dopo di noi."

"Volontieri, Madonna regina".

Così la regina Isotta, la bella aurora, venne conducendo per mano il suo sole, la meraviglia d'Irlanda, la chiara donzella Isotta che seguiva da vicino la sua aurora, aleggiandole intorno leggera e pur dignitosa, bella e soave di aspetto, alta, slanciata e snella nella veste aderente: pareva che la stessa Minne l'avesse acconciata per il gioco del falco e modellata come meta insuperabile di ogni desiderio.

Essa portava veste e manto di velluto bruno alla moda di Francia, e la veste, la dove scende verso i fianchi, era d'ambo i lati ornata di frange e stretta alla vita da una cintura al punto giusto, dove la cintura deve stare. La veste si adattava e aderiva perfettamente alla persona modellandola, senza mai staccarsene e cadendo in pieghe sino ai piedi, come si conveniva secondo la moda di allora. Il mantello era all'interno bellamente foderato di bianco ermellino, coi bordi sciolti ondeggianti e non era né troppo lungo né troppo corto, non toccando terra né rimanendone troppo discosto.

Aveva un orlo di prezioso zibellino di giusta misura, né troppo stretto né troppo largo, picchiettato di nero e di grigio: il nero e il grigio erano distribuiti in modo che ognuno risaltava separatamente. Questo bordo girava tutto intorno all'ermellino con quella morbidezza che ha lo zibellino e che figura tanto bene. Al posto dei tasselli vi era una piccola striscia ricamata di bianche perle e la bella vi aveva infilato il pollice della mano sinistra; con la destra teneva raccolto il mantello più in basso, dove, come ben sapete esso deve stare chiuso e, secondo la moda cortese, lo teneva accostato con due dita, quindi esso cadeva libero e scendeva in belle pieghe sino in basso, lasciando intravedere questa e quello, intendo dire la seta e la leggera pelliccia. Si vedeva brillare dentro e fuori l'imagine che la Minne aveva così ben modellata nel corpo e nell'anima, ma tanto modellatura che foggia mai seppero formare imagine vivente più bella. Fitti come fiocchi di neve volavano in tutte le direzioni sguardi alati pieni di desiderio e credo che più di un uomo fu rapito fuori di sé.

Sul capo essa portava un cerchio d'oro sottile come si conviene, lavorato con grande arte; vi erano incastonate gemme e pietre preziose, splendide e pur piccole, le più belle del regno, smeraldi e giacinti zaffiri e calcedonie, così ben disposte che nessuna perizia di artefice, per quanto perfetta, mai poté meglio combinarle. L'oro si confondeva con l'oro; il diadema e Isotta facevano a gara l'uno con l'altra, poiché nessuno per quanto esperto, se non fosse stato per le pietre, avrebbe creduto che vi fosse un cerchio, tanto simili all'oro erano i suoi capelli.

Così avanzava Isotta con Isolde, la figlia con la madre, lieta e a cuor leggero, con passi misurati, né brevi né lunghi ma di giusta misura. Ella incedeva a testa alta, dritta e franca come uno sparviero, morbida e liscia come un pappagallo. Quale falco sul ramo lasciava errare gli sguardi qua e là in modo che, né troppo timidi né troppo arditi, trovavano la loro pastura. I suoi occhi si posavano intorno così tranquilli e lievi e tanto soavemente che non c'era altro occhio per il quale quei due chiari specchi non costituissero una meraviglia e un gaudio. Quel giocondo sole diffondeva in ogni luogo il suo splendore, rallegrando la sala e gli ospiti mentre ella incedeva leggera accanto alla madre. Ambedue erano dolcemente occupate in due diverse maniere: salutando e inchinandosi, parlando e tacendo, in questi due modi il giusto uso era prescritto e stabilito: l'una salutava, l'altra si inchinava, la madre parlava, la figlia taceva. Così facevano le ben costumate dame, questo era il compito loro.

Ora, quando Isotta e l'altra Isotta, il sole e la sua aurora, si furono accomodate e sedute accanto al re, il siniscalco osservò tutto attentamente e si informò qua e là dove fosse il valoroso campione delle dame; ma non riuscì a saperlo. Riunì allora i suoi uomini, di cui vi era una grande schiera intorno a lui e andò davanti al re e si presentò alla giurìa:

"Ecco, Sire disse, sono qui e domando il mio diritto di combattimento. Dov'è dunque il prode garzone che pretende privarmi del mio onore? Io possiedo ancora amici e uomini ligi e il mio diritto è ben saldo; se la legge del paese mi rende giustizia, come deve, non temo violenza a meno che non siate voi a esercitarla".

"Siniscalco - disse la regina - se questa tenzone è inevitabile, io non so bene che cosa fare, vi sono impreparata e in verità se tu volessi rinunziarvi lasciando andare tale questione, così che Isotta fosse libera, siniscalco, in verità, ne verrebbe a te altrettanto vantaggio quanto a noi".

"Libera? - esclamò l'altro. Già, Madonna, fareste proprio così anche voi: lascereste il gioco che avete già vinto! Qualunque cosa diciate, io voglio risolvere questo gioco con profitto e onore; avrei sprecato tanta fatica ben insensatamente se adesso mi ritirassi. Madonna, io voglio vostra figlia: questa è la fine del discorso. Voi conoscete così bene colui che ha ucciso il drago: conducetelo dunque qui ora e non si facciano più altre parole".

"Siniscalco - disse la regina -, vedo bene che così deve essere: ora devo badare a me".

Essa fece un cenno a Paranise:
"Va' disse- e conduci qui quell'uomo".

Tutti, cavalieri e baroni si guardarono l'un l'altro e ci fu tra loro un gran mormorio, un gran domandare e molto discorrere su chi potesse essere il campione: nessuno di essi lo sapeva. Allora si avanzò l'altera Brangaene, come luna nel suo pieno splendore, conducendo per mano il suo compagno Tristano. Ella, dignitosa e garbata, gli camminava allato con nobile contegno, mirabile d'aspetto e di modi libera e disinvolta. Anche il suo compagno le incedeva accanto con passo fiero. Il suo abbigliamento era pure combinato con tutta la perfezione che deve distinguere il cavaliere e gli si adattava stupendamente; figura e vesti armonizzavano fra loro facendo di lui un cavaliere perfetto. Egli portava abiti di ciclade oltremodo ricchi e belli e di foggia straniera. Non erano stati forniti dalla corte: l'oro non vi era intessuto come in questa corte si usava, la seta si scorgeva appena, tanto era dappertutto coperta dall'oro e nell'oro affondata che quasi non si vedeva. Sopra la seta si stendeva una rete di piccole perle con le maglie discoste per la larghezza di una spanna. Attraverso questa il ciclade risplendeva come un carbone acceso. La fodera interna era di velluto, più scuro di una violetta, bruno come una foglia di aglaia. Lo stesso serico tessuto scendeva in pieghe e in drappeggi come quel tessuto suole, adattandosi alla figura, e si addiceva mirabilmente al mirabile uomo come meglio poteva desiderare. Sul capo portava un diadema di raro splendore che riluceva come una face: come stelle vi brillavano topazi e sardoni, crisoliti e rubini, era chiaro e lucente e gli cingeva il capo e la chioma di vivo splendore.
Tale si avanzava, ricco e dignitoso: il suo portamento era bello e signorile, tutto l'insieme sfarzoso ed egli stesso nobile in tutto il suo essere. Gli fecero subito largo al suo ingresso nel palazzo. Allora anche i compagni di Kurvenal lo scorsero, lieti balzarono in piedi, lo salutarono e fecero grandi accoglienze a lui e a Brangaene, che si avanzavano; li presero per mano ambedue e fra loro con grande cortesia li condussero davanti al trono. Il re e le due regine manifestarono la loro amabilità, si alzarono e lo salutarono: Tristano si inchinò a tutti e tre e questi salutarono quindi il seguito di Tristano con ogni onore come si conviene a cavalieri.

Allora tutti i nobili del paese si affollarono intorno a loro e salutarono gli ospiti pur non sapendo nulla del loro viaggio. Ma quelli che anni prima erano stati mandati dalla Cornovaglia in Irlanda riconobbero i loro padri e i loro parenti e piangendo di gioia padri e parenti si corsero incontro: vi fu grande giubilo e anche grande dolore su cui però non mi voglio soffermare. Quando Tristano si avvicinò, il re lo prese per mano e lo fece sedere vicino a sé tra lui e Brangaene; a suo lato stavano le due regine. I cavalieri e i baroni compagni di Tristano erano seduti più in basso nella sala, in modo da avere la giurìa di fronte e di poter vedere, ognuno di loro, quello che accadeva.

Tra i presenti si era levato intanto un mormorìo e si faceva un gran parlare in lode di Tristano. Mi consta che da molte bocche sgorgavano fonti di lode per tutto quello che lo riguardava: gli tributavano ogni genere di onore e di lode in vari modi:

"Quando mai - dicevano molti fra loro - Dio creò figura che meglio si convenisse alla dignità di cavaliere? Vedete com'è adatto a ogni tenzone e a ogni gioco d'armi! e di che ricca foggia sono gli abiti che indossa! Non si è mai visto in Irlanda abbigliamento così regale. Anche il suo seguito è vestito con grande magnificenza. In verità, chiunque egli sia, animo e averi in lui sono liberi".

E si facevano molti discorsi simili. Il siniscalco si guardava intorno con occhio torvo: questa è la vera parola.
Fu allora ordinato di far silenzio nella sala e così fu fatto e nessuno pronunziò più una mezza parola. Il re disse:

"Siniscalco, parla! di che cosa ti vanti?".

"Signore, io ho ucciso il drago".

L'ospite si levò e replicò subito:

"Messere, non è vero."

"Messere, lo feci e ve lo proverò qui sul luogo".

"Con quale prova?", chiese Tristano.

"Con questa testa che vedete, che ho portato qui".

"Sire - disse Tristano - poiché egli porta la testa come testimonianza, ordinate di guardarvi dentro: se vi si trova la lingua io rinuncio subito al mio diritto e ritiro la mia sfida".

Quindi fu aperta la testa e nulla vi si trovò; Tristano ordinò di portare la lingua e così fu fatto.

"Signori - disse egli osservate e vedete se è quella del drago".

Tutti gli si affollarono intorno e tutti insieme lo ammisero, meno il siniscalco che avrebbe voluto negarlo, ma non sapeva come; cominciò a esitare e a balbettare con la lingua e con la bocca, con le parole e con i pensieri, non sapendo né parlare né tacere, né come comportarsi.
"Tutti voi signori - disse Tristano - osservate questo miracolo e vedete come dopo che io ebbi ucciso il drago e con leggera fatica gli ebbi tagliata dalle morte fauci e asportata la lingua, questo signore poi lo abbia ammazzato".

I cavalieri e tutti gli astanti dissero:
"Tutto questo gli fa poco onore e qualunque cosa si possa dire o raccontare, ognuno di noi sa bene che chi per primo giunse e tagliò la lingua uccise anche il drago".

In ciò furono subito tutti d'accordo.

Ora che il mentitore era stato smascherato e dalla corte era stata resa giustizia all'ospite veritiero, Tristano riprese:

"Sire, ora vogliate ricordarvi della promessa: vostra figlia è in mia mano".

Il re rispose:
"Signor cavaliere, lo riconosco così come me lo avete dichiarato".

"No, sire - disse il falso siniscalco - per amor di Dio non parlate così! Comunque sia andata, qui c'è dell'imbroglio ed egli è giunto a questo con ingiusti mezzi. Però, piuttosto che mi sia ingiustamente interamente tolto l'onore, preferisco perderlo in combattimento, con le armi".

"Siniscalco - disse allora la saggia Isotta - tu discuti inutilmente; contro chi vuoi fare giusta tenzone? Questo cavaliere non ci tiene a combattere: egli ha già ottenuto con Isotta tutto quello che desiderava. Sarebbe più sciocco di un bambino se combattesse con te per un soffio di vento".

"Perché, Madonna? - disse Tristano -. Piuttosto che egli possa dire che qui viene usata prepotenza e ingiustizia, preferisco combattere con lui. Voi sire, voi madonna, parlate e ordinategli di andare ad armarsi e di prepararsi come faccio io pure".

Ora che il siniscalco comprese che si addiveniva al duello, radunò tutti i suoi fidi e si fece da parte a parlare e a consigliarsi con loro. Ma a questi la cosa sembrava così disonorevole che poca soddisfazione ne ebbe. Essi tutti gli dissero:

"Siniscalco, la tua causa è cominciata male ed è anche giunta a mala fine. In quale impresa ti sei messo? Se ti offri a combattere ingiustamente ne va della tua vita. Quale consiglio possiamo darti? Qui sei senza consiglio e senza onore e se oltre ad aver perduto l'onore perdi anche la vita non ne avrai che maggior danno. A noi sembra, e tutti lo vediamo, che quegli che vuole combattere con te è uomo di grande valore nelle armi; se ti misuri con lui sei un uomo morto. Ora, poiché il suggerimento del diavolo ti ha tradito nell'onore, conserva almeno la vita. Vedi se qualcuno non possa con qualche buona parola rimediare a questa onta e a questa menzogna".

Il bugiardo siniscalco rispose:

"Che cosa volete che faccia?".

"In una parola, ti consigliamo di entrare di nuovo nella sala e dichiarare che i tuoi amici sono d'avviso che tu desista da questa sfida e che tu vi rinunci".

Così fece il siniscalco: rientrò e disse che i suoi amici e i suoi fidi lo avevano persuaso ed egli pure aveva cambiato idea e ritirava la sfida.

"Siniscalco - disse la regina - non mi sarei mai aspettata di vederti rinunciare a un gioco che avevi vinto così bene".

Tutti si fecero beffe di lui nel palazzo; il povero siniscalco divenne lo zimbello di tutti. Se lo gettavano come una palla fra uno scherno e l'altro e vi fu gran chiasso di motteggi. Così finì quel mentitore con pubblica vergogna.
Dopo di ciò, il re annunziò a tutto il palazzo, ai cavalieri e ai baroni e a tutta l'assemblea che quel campione era Tristano e narrò loro la storia come egli stesso l'aveva appresa: il motivo per il quale Tristano era venuto in Irlanda e come egli stesso, Gurmun, avesse giurato di concludere alleanza con i principi di Marco in tutte le questioni di cui aveva fatto parola con loro.

Gli Irlandesi furono ben contenti di ciò, i grandi vassalli dichiararono che questa pace era conveniente e a loro gradita, poiché una lunga inimicizia fa perdere tempo e procura danno.

Il re ordinò e chiese che Tristano gli desse garanzia della sua parola. Così fecero Tristano e tutto il suo seguito; essi giurarono e assicurarono a Isotta il paese di Cornovaglia come dono del mattino e promisero che sarebbe signora su tutta l'Inghilterra. Così Gurmun immantinente diede Isotta in mano a Tristano suo nemico. Lo chiamo nemico, perché essa ancora gli portava rancore.

Tristano la prese per mano:

"Sire, - disse - Sovrano d'Irlanda, vi preghiamo, la mia regina e io, che per lei e anche per me lasciate liberi coloro che furono dati come tributo dall'Inghilterra o dalla Cornovaglia, siano essi cavalieri o paggi; che vengano ora legalmente consegnati in mano alla mia signora Isotta, poiché essa è la sovrana del regno".

"Molto volentieri - disse il re - così sia fatto con il mio beneplacito, partano pure tutti con voi".

Questa notizia rallegrò molti cuori. Allora Tristano ordinò di allestire, oltre alla propria, un'altra nave a disposizione sua e d'Isotta e inoltre di chi altro egli volesse scegliere.

Mentre questa veniva allestita, egli stesso si preparò al viaggio. Fu subito mandato per gli ostaggi, a corte e in tutto il paese, dovunque si trovassero.

Intanto mentre Tristano e i suoi compagni si preparavano e predisponevano tutto, Isotta, la saggia regina, apprestava in una piccola ampolla di cristallo un filtro d'amore, pensato e composto con tale sottile senno e così combinato con virtù magiche che se due ne bevevano insieme, dovevano, anche senza loro volere, amarsi l'un l'altro sopra ogni altra cosa; veniva loro insieme largita una sola vita e una sola morte, un'unica felicità e infelicità, uno stesso dolore e una stessa gioia.

La saggia regina prese il filtro e disse piano a Brangaene:

"Brangaene, nipote mia, non ti dispiacciano le mie parole: disponi in questo senso la tua mente e ascolta quello che ti dico: prendi questa ampolla e questo filtro e tienili ben custoditi, e abbine cura sopra ogni cosa. Guarda che nessuno al mondo lo sappia e bada bene che nessuno ne assaggi. Veglia con grande diligenza e quando Isotta e Marco saranno soli, mesci loro questa bevanda come se fosse vino e fa' che ne bevano ambedue. Guarda anche che all'infuori di loro due nessun altro ne assaggi. Tu stessa non bere con loro: è un filtro d'amore, tieni questo ben in mente. Ti raccomando con ogni premura e ogni cura Isotta; essa è la parte migliore della mia vita: io stessa e lei siamo affidate alla tua vigile bontà: e questo basti".

"Madonna diletta - disse Brangaene - se questa è la volontà di ambedue voi, partirò volentieri con lei e veglierò sul suo onore e su tutto ciò che la riguarda come meglio posso".

Tristano prese allora congedo e con lui tutto il suo seguito. Partirono da Weisefort con grande fasto. Il re e la regina con il loro seguito li accompagnarono al porto per amore d'Isotta. Al lato di Tristano camminava piangente la sua ancora insospettata amica, il suo ancora ignoto futuro travaglio di cuore, la chiara, la bella Isotta; per il padre e la madre di lei quelle brevi ore trascorsero con grande duolo. Molti occhi cominciarono a inumidirsi e ad arrossarsi. Isotta cagionò duolo a molti cuori e a molti cuori portò segreta pena. Essi rimpiangevano intensamente Isotta, la gioia degli occhi loro. Il pianto era generale: piangevano insieme molti occhi e molti cuori, tanto apertamente quanto in segreto e quando Isotta e l'altra Isotta dovettero separarsi, il sole e la sua aurora, e anche il pieno chiaro di luna, la bella Brangaene, ci fu gran lamento e gran duolo. La cara intimità familiare s'infranse con grande tristezza; Isotta baciò ambedue ripetutamente.

Ora che quelli di Cornovaglia e anche gli Irlandesi al seguito di Isotta erano tutti imbarcati e avevano preso congedo, Tristano salì per ultimo a bordo: la bella giovane regina, il fiore d'Irlanda lo seguiva per mano, triste e a malincuore. Essi si inchinarono sino a terra e invocarono la benedizione di Dio sul paese e sul popolo.

Quindi salparono e levando la voce cominciarono a cantare ripetendo:

"Partiamo nel nome di Dio".

E così si allontanarono.

Per consiglio di Tristano era stata allestita una cabina appartata per comodità delle donne; vi stavano la regina e le sue damigelle e raramente c'era con loro un uomo, all'infuori del solo Tristano: egli vi entrava di tempo in tempo e confortava la regina che sedeva piangendo. Questa si doleva e si rammaricava di essersi separata dal suo paese, dove conosceva tutti, e dai suoi amici e di andare con gente a lei estranea, senza sapere dove e come. Tristano la consolava, come più dolcemente poteva, ogni volta che veniva da lei nella sua tristezza: la teneva tra le braccia lievemente e solo come lo comporta il dovere di un suddito verso la sua signora.

Il fedele cavaliere non pensava ad altro che a essere per la bella un conforto per la sua afflizione. E ogni qualvolta accadeva che egli la circondasse col suo braccio, la bella Isotta pensava alla morte di suo zio e gli si rivolgeva contro.

"Lasciatemi stare, maestro, andatevene, togliete le vostre braccia, voi siete ben molesto, perché mi toccate?"

"Ah, bella signora, faccio forse male?"

"Sì, perché vi porto rancore".

"Madonna mia dolce, per quale motivo?".

"Voi uccideste mio zio."

"Ma questo mi è già stato perdonato".

"Fa lo stesso, voi mi siete egualmente odioso, perché se non fosse per voi io vivrei senza affanni e senza cure; voi solo mi avete procurato questa pena con inganno e con astuzia. Che cosa vi ha spinto a venire, per mia disgrazia, dalla Cornovaglia in Irlanda? Quelli che mi hanno allevato fin dall'infanzia li avete ingannati nei miei riguardi e ora mi conducete chissà dove. Io non so come sia stata venduta né che cosa sarà di me".

"No, mia bella Isotta, tranquillizzatevi. Sarete molto più felice come regina in paese straniero, che povera e umile in casa vostra; avere onori e piaceri, oppure vivere in umile posizione nel regno paterno sono due cose ben diverse".

"Va bene, maestro Tristano - disse la fanciulla - ma per quanto voi diciate, io accetterei uno stato più modesto ove fossero amore e pace, piuttosto che grande magnificenza e ricchezza con travaglio e scontento".

"Voi dite bene - replicò Tristano - ma se si può avere l'uno e l'altro, piacere e magnificenza, queste due buone cose unite sono migliori che ognuna da sola. Ora dite, se per avventura aveste dovuto prendervi per sposo il siniscalco, come stareste? Sono sicuro che allora sareste contenta dello stato presente. E in questo modo dunque mi ringraziate per avervi liberata da lui?".

"Di ciò ben tardi vi sarò grata - disse la fanciulla - perché se pure mi avete allora liberata da lui, mi avete procurato poi tale malanno che preferirei ancora aver preso per marito il siniscalco piuttosto che essere venuta via con voi; poiché per quanto egli fosse privo di ogni virtù, vivendo un certo tempo presso di me avrebbe per amor mio lasciato i suoi vizi. E forse, chissà, da questo avrei riconosciuto quanto mi amasse".

"Questo discorso - disse Tristano - mi sembra una favola: ci vuole grande fatica perché un cuore possa attirarne un altro alla virtù contro la sua natura. Tutti al mondo sanno che è un'illusione che il male possa mai mutarsi in bene. Consolatevi, bella regina; fra breve io vi darò per sposo e signore un re presso il quale avrete sempre gioia e vita bella, ricchezze, virtù e onori".

Intanto le navi continuavano ad avanzare: avevano vento favorevole e viaggio buono; soltanto, la gentile schiera delle damigelle, Isotta e il suo seguito, non erano abituate al faticoso viaggio fra vento e mare e presto provarono un malessere sconosciuto. Tristano, il maestro, ordinò allora di dirigersi verso terra per riposare alquanto. Entrarono in una baia e tutto l'equipaggio scese per cercare un ristoro. Tristano si recò a salutare la sua degna signora e mentre sedeva accanto a lei parlando di questo e di quello e delle cose loro, pregò che portassero da bere. Ora non c'erano a bordo, oltre la regina, che alcune fanciullette. Una di queste disse:

"Ecco, qui c'è del vino, in questa ampolla".

No, non era vino sebbene tale sembrasse, ma era la pena continua e l'infinito dolore del loro cuore di cui ambedue morirono. Questo però era loro ancora ignoto. Isotta si levò e andò là dove l'ampolla con la bevanda era conservata; ne offrì a Tristano, suo maestro: egli prima lo porse a Isotta che lo bevve di malavoglia e lentamente e lo diede a Tristano. Egli pure bevve, ambedue pensando che fosse vino.

Intanto rientrò Brangaene e riconobbe l'ampolla e vide bene di che cosa si trattava: ne ebbe un tale spavento che le forze l'abbandonarono e rimase come morta. Con la morte nel cuore andò e prese la malaugurata fiala, la portò via e la gettò nel mare agitato e tempestoso.

"Guai a me, misera - disse ella - ahimè che io mai venni in questo mondo! Misera me, che ho perduto il mio onore e tradito la mia fedeltà. Dio volesse che la morte mi avesse colta quando fui destinata ad accompagnare Isotta in questa malaugurata avventura! Ahimè, Isotta e Tristano, questa bevanda sarà la morte di ambedue voi".

Ora che la fanciulla e il giovane, Isotta e Tristano, avevano tutti e due bevuto il filtro, immantinente giunse la Minne, l'inquietudine del mondo intero, la cacciatrice dei cuori e si insinuò in quelli di ambedue. Prima che se ne accorgessero essa vi aveva piantato il suo vessillo vittorioso e li aveva presi in suo potere.

Essi che prima erano due esseri discordi divennero una cosa sola in un solo accordo: non furono più avversi l'uno all'altro: l'odio di Isotta era svanito. La Minne conciliante aveva purificato il loro spirito dall'odio e li aveva uniti nell'amore, talmente che ognuno di essi era per l'altro trasparente come un cristallo. Avevano ambedue un unico cuore, la pena di lei era il dolore di lui, e il dolore di questi era la pena di lei e tutti e due avevano in comune l'amore e il dolore, eppure si nascondevano per dubbio e pudore: essa si vergognava e lui pure, lei dubitava di lui e lui di lei. Per quanto cieca fosse la brama del loro cuore avevano un'unica volontà, pure era loro difficile cominciare e dire la prima parola. Così celavano uno all'altro la propria inclinazione.

Quando Tristano avvertì l'impulso d'amore, pensò subito alla fedeltà e all'onore e voleva fuggire.

"No - pensava tra sé rifletti Tristano, e distogline la mente".

Ma il cuore voleva sempre ritornarvi. Egli combatteva continuamente contro il suo desiderio e bramava contro la propria brama: ora voleva una cosa ora un'altra, trascinato ora dall'una ora dall'altra parte. Smarrito e in lotta continua, resistette a lungo: il leale cavaliere aveva due profondi travagli: quando la guardava negli occhi, la dolce Minne prendeva a devastare il suo cuore e i suoi sensi e allora egli pensava all'onore che da quello lo distoglieva; ma ben presto la Minne, sua signora, lo riprendeva ed egli doveva essere obbediente a lei. La sua fedeltà e il suo onore molto lo tormentavano, ma ancor più lo tormentava la Minne che gli faceva più male ancora: essa lo affliggeva più che la fedeltà e l'onore.
Guardandola, il suo cuore si rallegrava, ma lo sguardo se ne distoglieva: se però non la vedeva, questo diveniva la sua maggior sofferenza. Sovente, come fa il prigioniero, rifletteva fra sé come potesse sfuggirle e spesso pensava:

"Volgiti da un'altra parte, muta questa tua brama, cerca e ama altrove".

Ma sempre lo serrava questo laccio. Egli esaminava il suo cuore e la sua mente e vi cercava un qualche cambiamento, ma in essi non vi era che Isotta e Minne.
Lo stesso accadeva a Isotta, essa pure resisteva strenuamente e la vita le era a dispetto riconoscendo la pania della magica Minne e vedendo che i suoi sensi vi erano impigliati. Essa voleva difendersi, voleva uscirne e liberarsene, ma sempre il vischio le aderiva addosso e la sopraffaceva. La bella lottava e resisteva: muoveva ogni passo con ripugnanza facendo ogni sorta di sforzo; con le mani e con i piedi si difendeva e si rivoltava, ma sempre più con le mani e coi piedi affondava nella cieca dolcezza dell'uomo e della Minne. I suoi sensi invischiati non potevano districarsene né trovare via o ponte senza che a ogni movimento e a ogni passo la Minne non fosse con lei.

Qualunque cosa Isotta pensasse, qualunque idea le venisse, altro non vi era mai che Minne e Tristano; e tutto ciò rimaneva segreto. Il cuore e gli occhi erano tra loro in disaccordo, il pudore ne distoglieva lo sguardo, la Minne vi attirava il cuore, e queste schiere avverse, la fanciulla e l'uomo, Minne e il pudore, erano in lei contrastanti. La fanciulla desiderava l'uomo e ne distoglieva lo sguardo: il pudore voleva amare e non lo lasciava vedere. E a che cosa serviva tutto ciò?

Pudore e fanciulla, a quanto dice generalmente il mondo, sono cosa tanto caduca, hanno così breve durata che non resistono a lungo.

Isotta si arrese alla sua inclinazione; vinta, abbandonò il suo corpo e i suoi sensi all'uomo e alla Minne.

Di tanto in tanto lo guardava e lo osservava in segreto; i chiari suoi occhi e il suo spirito vivevano ora in buon accordo fra loro. Il suo cuore e i suoi occhi di frequente si volgevano furtivi, di nascosto e amorosamente, verso l'uomo. Questi a sua volta la guardava con profonda dolcezza. Egli pure cominciava a cedere alla Minne che non lo abbandonava. Sempre e a ogni ora, appena potevano farlo con discrezione, si scambiavano dolci sguardi. A ognuno degli amanti l'altro appariva più bello di prima: questo è il diritto dell'amore, questa è la legge della Minne, così oggi come negli anni passati e sempre sarà finché dura l'amore: tutti gli innamorati si piacciono sempre di più, man mano che l'amore in essi cresce e porta fiori e frutti di maggior dolcezza che non al principio. La feconda Minne va sempre crescendo in bellezza. Questa è la semente che essa semina per cui non potrà mai finire. Appare più bella dopo che prima. Così si afferma il diritto della Minne: se questa apparisse uguale dopo come prima, presto la legge della Minne avrebbe fine.

Le navi salparono nuovamente e seguirono allegramente la loro rotta, senonché là dentro la Minne aveva portato due cuori fuori di strada. I due amanti erano pensierosi, oppressi dal mal d'amore, il quale opera tali miracoli, mette fiele dentro il miele e rende aspra la dolcezza, infiamma ciò che si è intiepidito, turba la tranquillità, svuota ogni cuore e sconvolge il mondo intero. Così Tristano e Isotta ne erano stati colpiti e li opprimeva una continua strana pena: non riuscivano ad avere pace né riposo se non si vedevano. Ma quando si guardavano cominciava per essi una nuova sofferenza, perché non potevano appagare il loro desiderio; e ciò faceva il ritegno e il pudore che impedivano loro il piacere; ogni volta che volevano scambiarsi in segreto furtivi sguardi innamorati il loro volto diveniva del colore stesso del cuore e dei sensi: Minne, la bella pittrice, non si contentava che il nobile cuore conservasse in segreto il potere di lei, ma voleva che fosse apertamente rivelato agli occhi di tutti. E questo si manifestò nei due amanti: il colore del loro volto non rimaneva a lungo della medesima tinta, ma mutava sempre dal pallido al rosso; essi arrossivano e impallidivano secondo come li tingeva la Minne. Così ognuno di essi riconobbe, come a questi segni si suole, che chi li attirava l'uno verso l'altro era la Minne e allora cominciarono a mirarsi amorosamente, a spiare il tempo e il luogo per parlarsi segretamente. I cacciatori della Minne si tendevano frequentemente l'un l'altro le reti e i lacci, le imboscate e gli agguati, e con risposte e con domande molti racconti si scambiavano tra loro.

Il modo di fare e di parlare di Isotta era quale suole essere quello di una fanciulla: cominciava da lontano pian piano a farsi intorno al suo diletto e amico: da principio gli ricordò come egli fosse venuto a Develin solo e ammalato in una navicella e come la madre di lei lo avesse accolto presso di sé e anche guarito, e tutto quello che poi avvenne, e come lei stessa sotto la direzione di lui avesse imparato il latino e a scrivere e a suonare ogni sorta di strumenti. Con molti discorsi lo intratteneva sul suo virile coraggio e anche intorno al serpente e sul come per ben due volte lo avesse riconosciuto: nel laghetto e nel bagno. Il discorso si alternava tra loro: egli parlava a lei ed essa a lui.

"Ah - diceva Isotta - che fortuna che non ti abbia ucciso nel bagno! Signore Iddio, come mai potevo agire così. Se allora avessi saputo quello che ora so, certamente sarebbe stata la vostra morte".

"Perché, bella Isotta - disse egli - che cosa vi tormenta? e che cosa è che sapete?".

"Mi tormenta quello che so, quello che vedo mi dà dolore: ho a noia cielo e mare, la vita stessa mi è di peso".

Essa si appoggiò a lui, sostenendosi sui gomiti: questo fu il principio dell'ardire. I chiari occhi lucenti si riempirono furtivamente di lacrime, il cuore cominciò a battere, la dolce bocca a protendersi, la testa si chinò. Il suo amico prese allora a circondarla con le braccia, però tenendosi né troppo vicino né troppo discosto, ma come può permettersi di fare un estraneo. A bassa voce e dolcemente le diceva:

"Oh bella, dolce signora, ditemi, che cosa avete? che cosa vi turba?".

Isotta, zimbello della Minne,

"L'ameir" - rispose - questo è il mio tormento; "l'ameir" mi opprime l'animo, "l'ameir" mi fa dolere il cuore".

Poiché essa pronunziava così sovente l'ameir egli si mise a pensare e ricercare accuratamente e ansiosamente il significato di questa parola e così si ricordò che "ameir" vuol dire amare, "amer" amaro, la "meir" il mare. Di significati gli parve che ce ne fosse tutta una fila. Dei tre ne tralasciò uno e chiese degli altri due: tacque della Minne, loro signora e padrona di ambedue, loro consolazione e loro desiderio e parlò invece del mare e di amarezza:
"Io credo - disse - bella Isotta, che il mare e la sua asprezza siano causa del vostro male; voi sentite il sapore del mare e del vento e penso che questi due vi siano amari".

"No, messere, no! che dite mai! né l'uno né l'altro mi danno disturbo; non mi dispiace né il mare né l'aria: "l'ameir" solo mi fa soffrire".

Quando egli ebbe compresa quella parola e riconosciutavi la Minne, le disse in segreto:

"In verità, bella Isotta, lo stesso accade a me; "l'ameir" e voi siete il mio tormento. Amata mia, mia diletta Isotta, voi sola e il vostro amore mi avete rapito e travolto il cuore e il senno; sono tanto fuor di strada che mai più mi ritroverò! Tutto quello che il mio occhio vede mi duole e mi opprime, mi affatica e mi dispiace; nulla al mondo è caro al mio cuore se non voi".

E Isotta replicò:
"E così voi a me".

Quando gli innamorati ebbero riconosciuto in se stessi un unico cuore, un solo animo, un'unica volontà, la loro pena cominciò a calmarsi e al tempo stesso a divenir palese. Ognuno guardava l'altro e gli parlava più arditamente, l'uomo alla fanciulla, la fanciulla all'uomo. Fra loro il ritegno era finito: egli la baciava e lei baciava lui dolcemente e amorosamente; questo era il pegno della Minne, il suo inizio beato: ognuno mesceva e ognuno beveva la dolcezza che dai loro cuori fluiva. Sempre, quando ne trovavano l'occasione favorevole, riprendevano fra loro nascostamente lo scambio con tanto mistero che nessuno al mondo penetrava l'animo loro e il loro intento, se non colei che già ne era a conoscenza.

La saggia Brangaene osservava sovente in silenzio e di nascosto il loro segreto comportamento e pensava tra sé:

"Ohimè! lo vedo bene, l'amore comicnia fra loro".

Ben presto cominciò a comprenderne e a constatarne in loro la gravità e a indovinare dall'esterno l'intima sofferenza del loro cuore e della loro anima. La loro pena le faceva compassione, vedendoli a ogni momento ameire e amare, sospirare e rattristarsi, meditare, languire e mutar colore. Dal dolore non prendevano più alcun nutrimento, finché la mancanza di cibo e il dolore li vinsero al punto che Brangaene se ne angustiò temendo fosse giunta la loro fine e pensò:
"Suvvia, coraggio, va' e scopri che cosa vi sia".

Sedette un giorno accanto a loro, pianamente e raccolta:

"Non c'è nessuno qui - disse la saggia e nobile donzella all'infuori di noi tre; ora ditemi voi che cosa c'è che vi turba? Vi vedo continuamente assorti in pensieri, sospirare, lamentarvi e rattristarvi".

"Cortese Signora, se mi fosse lecito dirvelo lo farei", disse Tristano.

"Bene dunque, parlate, ditemi quello che volete dirmi".

"Siate benedetta, voi buona - rispose egli - io non oso parlare se prima non mi assicurate con promessa e giuramento che sarete benigna verso noi due poveretti: altrimenti siamo perduti".

Brangaene diede loro la sua parola, promise e li assicurò sulla sua fede e davanti a Dio che avrebbe fatto ciò che essi volevano.

"Buona e fedele amica - disse Tristano - ora pensate prima a Dio, poi considerate la vostra stessa salvezza; riflettete alla nostra afflizione e alla nostra angoscia. Io, meschino, e la misera Isotta, non so come ciò abbia potuto accadere, abbiamo in breve tempo perduto il senno tutt'e due per uno strano male: moriamo di amore e non ne possiamo trovare né il tempo né il luogo, ché a tutte le ore voi ci disturbate e certamente noi ne moriremo e la colpa non sarà d'altri che di voi. La nostra morte e la nostra vita sono in mano vostra. Con questo tutto è detto. Brangaene, dolce fanciulla, ora aiutateci e fate grazia alla vostra signora e a me".

Brangaene domandò a Isotta:

"Madonna, il vostro male è davvero così grave come egli dice?".

"Sì, cugina del mio cuore", rispose Isotta.

"Dio abbia misericordia - disse Brangaene - ché il diavolo si è preso gioco di noi! Vedo bene che non c'è scampo e per amor vostro devo agire in modo che ne verrà dolore a me e vergogna a voi; ma piuttosto che lasciarvi morire, vi do libertà. Non rinunciate per me a quello che intendete fare e che neppure per il vostro onore non potete tralasciare; se però potete trattenervi e astenervi da questa azione, astenetevene: questo è il mio consiglio; fate che questa onta rimanga segreta e nascosta tra noi tre. Se la palesate, tanto più ne va del vostro onore; se qualcuno l'apprende all'infuori di noi, siete perduti e io pure con voi. Mia diletta signora, bella Isotta, la vostra vita e la vostra morte sono in mano vostra: ora disponete della morte e della vita secondo il vostro talento. Da ora in poi siate senza alcun timore di me: fate quello che vi aggrada".

La notte, mentre la bella giaceva tristemente, ammalata e languente per il suo

"amis", Tristano e la Minne, cioè l'"amis" e la risanatrice, si insinuarono pian piano in camera sua. Minne, la medichessa, conduceva per mano il suo paziente e trovò là anche Isotta, la sua ammalata; prese allora i suoi due pazienti e li diede l'uno all'altra come medicina. Che cosa avrebbe potuto liberarli ambedue dal comune male se non la loro unione, il vincolo dei loro sensi? Minne, la seduttrice allacciò i due cuori col suo dolce vincolo con tale grande maestria e tale meravigliosa potenza che non si sciolsero più per tutta la vita loro.

Un lungo discorso sulla Minne annoia lo spirito cortese: un discorso breve sulla Minne si addice, invece, all'animo buono.

Per quanto poco a mio tempo io abbia sofferto del mal d'amore, del dolce dolore di cuore che lo fa così deliziosamente dolere dentro di noi, pure l'animo mi dice, e devo pur crederlo, che ai due amanti fu molto caro di avere rimosso dalla loro via l'odiata sorveglianza, questa peste dell'amore, la nemica della Minne. Ho pensato molto a essi e ancora tutti i giorni vi penso: quando rifletto all'amore e alla passione di amore e ne considero nel mio cuore le vicissitudini, allora tutto il mio spirito si innalza, e il mio coraggio, mio compagno d'armi, si slancia come se volesse raggiungere le nuvole. Quando particolarmente medito sul miracolo della felicità, che nell'amore trova chi ve la sa cercare, e alle gioie che l'amore procura a colui che con fedeltà lo coltiva, allora il mio cuore si fa più grande del mondo intero e ho compassione con tutta l'anima della Minne, perché il maggior numero dei viventi a lei si attacca, eppure nessuno le fa giustizia. Tutti noi vogliamo farci animo e percorrere le vie della Minne, ma no, la Minne non è tale come noi falsamente ce la rappresentiamo. Noi facciamo le cose alla rovescia, seminiamo giusquiamo e vogliamo che porti rose e gigli, e questo in verità non è possibile; dobbiamo raccogliere quello che è stato piantato e mietere quello che la semente produce; dobbiamo falciare e tagliare quello che seminammo. Noi coltiviamo la Minne con l'amarezza nell'animo, con falsità e inganno e poi vi cerchiamo la gioia dei sensi e del cuore. E così essa ci porta soltanto dolore, mali frutti e sventura, secondo quanto è stato piantato; e quando poi ne nasce rammarico e ci ulcera il cuore e ci uccide dentro, allora accusiamo la Minne e diamo la colpa a lei che mai ebbe colpa alcuna. Seminiamo ogni falsità e mietiamo male e malanno. Se l'onta molto ci dispiace, riflettiamoci prima e seminiamo meglio, ché così anche meglio mieteremo. Noi che l'animo, buono o cattivo che sia, teniamo rivolto al mondo, che cosa facciamo dei nostri giorni che passiamo e sprechiamo in nome della Minne, e poi non vi troviamo nulla se non gli stessi travagli che vi abbiamo già riconosciuti, insuccesso e disgrazia? Non vi troviamo nulla di quel bene che desideriamo e che mai ci viene concesso. Questo bene è l'amicizia costante, che costantemente consola, che accanto alle spine porta le rose e dopo il travaglio dà la pace, nella quale, anche in mezzo alle cure, sta ascosa la Minne e che infine produce sempre gioia, sia pure nell'affanno: questo bene raramente si trova e quindi è per questo che lavoriamo. E' pur vero quello che dicono: la Minne è scacciata e bandita nei luoghi più remoti. Non ne abbiamo più che la parola, il nome solo ci è rimasto e anche questo lo abbiamo bandito: lo abbiamo sciupato e consunto e distrutto finché lei stessa, stanca, si vergogna del suo nome e se ne duole; si trascina debole, disonorata e misera sulla terra, va mendicando di casa in casa e porta un variopinto sacco di mali costumi nel quale versa tutto quello che ha rubato e mendicato e che si toglie dalla propria bocca per andarlo a vendere per le strade. Ohimè, questo mercato lo facciamo noi che con lei pratichiamo questo strano costume e ancora vogliamo ritenerci innocenti. La Minne, la regina di tutti i cuori, la libera, l'unica Minne è mercanteggiata. In lei abbiamo resa tributaria la nostra regalità. Portiamo al dito una falsa imitazione invece del vero anello e con questo ci inganniamo. E' un triste privilegio della menzogna che colui che rinnega così l'amico inganni se stesso. Noi che con falso amore siamo traditori della Minne, in che modo passiamo i nostri giorni, noi che così raramente sappiamo dare lieto fine alla nostra lamentela? Come sprechiamo la nostra vita, senza amore e senza bene! Eppure anche quello che non ci riguarda vale a darci buon animo: quello che le belle storie raccontano di amabili avventure, quello che si narra di gente vissuta secoli addietro, tutto ci fa bene al cuore ed è pieno di tali pregi, che se qualcuno fosse soltanto fedele e costante e senza malizia verso l'amico, potrebbe procacciarsi per proprio conto tale gioia nel cuore, mentre teniamo sotto i piedi ciò da cui tutto questo proviene, vale a dire la fedeltà che viene dal cuore; invano essa si stringe a noi, noi ne distogliamo lo sguardo indifferenti; l'abbiamo calpestata con dispregio fin sotto terra e se la vogliamo, non sappiamo più dove cercarla. Sarebbe così buona e profittevole la fedeltà fra amanti! perché dunque non l'amiamo? Uno sguardo, un cenno benevolo degli occhi amati estingue senza fallo centomila martiri del corpo e del cuore. Un bacio sulla cara bocca che venga dal profondo del cuore ah! come farebbe svanire ogni nostalgica cura e ogni dolore!

So bene che le pene di Tristano e Isotta, la coppia impaziente, furono assai alleviate per l'uno e per l'altro allorché compresero di avere il medesimo intento. Era finita quella brama che affanna e opprime la mente; ora quello che tutti gli amanti desiderano lo compivano fra loro. Allorquando il tempo e il luogo erano propizi a trovarsi insieme, davano e prendevano con animo fiducioso dolce tributo da se stessi e dalla Minne. Ora era a loro ben gradito il viaggio e il navigare; da quando fra loro era partita l'estraneità, la loro vita comune era felice e beata e in ciò era saggezza e senno, poiché coloro che si evitano e si nascondono il loro amore, dopo esserselo rivelato, e vogliono ancora mantenere il ritegno e si estraniano all'amore stesso, sono ladri di se medesimi. Quanto più si celano tanto più rubano a se stessi e mescolano la gioia col dolore. Questi due amanti non si nascondevano l'uno dall'altro, ma con cenni e con parole erano sempre uniti tra loro.

Così, si compiva il viaggio in gaudio di vita eppure non interamente felice; un timore li turbava: temevano quello che più tardi si avverò e che poi rapì loro ogni gioia e portò loro tante tribolazioni; cioè che la bella Isotta doveva andare sposa all'uomo cui non voleva appartenere. Anche un altro pensiero li affliggeva: Isotta ormai non era più fanciulla. Questa era la preoccupazione di cui soffrivano ambedue; però questa sofferenza era lieve e sopportabile perché fra loro erano liberi di fare la volontà loro come e quanto volevano.

Ora che andavano avvicinandosi alla Cornovaglia tanto da vedere già la terra, tutti se ne rallegravano e ognuno era lieto, salvo Tristano e Isotta che stavano in angustia e nel timore; se avessero potuto fare secondo il loro desiderio non avrebbero mai toccato terra. Li rattristava ambedue il timore per l'onor loro; non sapevano come e che cosa fare perché al re rimanesse celata la condizione di Isotta. Pure, per quanto irragionevoli siano gli amanti ingenui nella loro semplicità, pure fu la giovinetta che trovò il miglior consiglio. Così, come la Minne ama trastullarsi con i bimbi irragionevoli, così nei fanciulli possiamo trovare spirito e astuzia.

Evitiamo i lunghi giri di parole: Isotta nella sua ingenuità trovò un artifizio e un'astuzia che migliore non poteva essere in quel frangente: cioè di pregare Brangaene di giacere per quella prima notte in silenzio e senza rumore con Marco loro signore e in compagnia di lui. Egli non se ne sarebbe accorto, essendo essa fanciulla e bella. Così la Minne volge a falsità la mente pura e retta che dovrebbe ignorare tutto quello che si riferisce a inganno.

Gli amanti fecero in questo modo, pregarono tanto a lungo e con tanta insistenza Brangaene finché conseguirono lo scopo ed essa accettò e promise con giuramento, sebbene molto a malincuore. Essa si faceva volta a volta rossa e di nuovo pallida e le dava grande pena questa richiesta che veramente era strana abbastanza.

"Diletta signora - disse Brangaene - vostra madre, la regina mia signora, vi ha dato in mia custodia e io stessa avrei dovuto guardarvi da tale malanno durante questo malaugurato viaggio. Ora voi avete vergogna e dolore a causa della mia disattenzione; perciò ora non mi devo troppo lamentare e devo sopportare con voi la vergogna; anzi sarebbe giusto che la portassi io sola: poteste esserne così liberata voi! Signore Iddio di misericordia, perché mi avete così abbandonata?".

Isotta disse a Brangaene:

"Mia nobile cugina, dimmi che cosa ti tormenta? Non capisco il tuo rammarico".

"Madonna, l'altro giorno io gettai dalla nave una fiala di cristallo".

"Infatti, che cosa significa questo?".

"Ohimè, questo cristallo e il filtro che esso conteneva saranno la morte di voi due".

"Perché, cugina? - chiese Isotta - che novella è questa?"

"Così è"; e Brangaene narrò ad ambedue tutto dal principio alla fine.

"In nome di Dio - esclamò Tristano - si tratti pure di vita o di morte, per me è stato un dolce veleno. Non so come sarà quella morte, ma questa mi è di gioia. Se pure la mia diletta Isotta dovesse portarmi tale morte, sceglierei volentieri un eterno morire".

Lasciamo i vani discorsi: se si vuol godere l'amore non si può pretendere che tutto rimanga sempre immutato, ma si deve sopportare anche il dolore.

Per quanto dolce sia l'amore dobbiamo pur pensare anche all'onore ed è un perdere questo il volgersi soltanto ai piaceri della carne. Per quanto cara fosse a Tristano la vita che conduceva, pure l'onore ne lo distoglieva e la sua lealtà lo obbligava a riflettere che doveva condurre a Marco la sua sposa. Tanto la lealtà che l'onore gli torturavano il cuore e la mente che poco prima dalla Minne erano stati vinti, quando a loro egli aveva preferito la Minne: ora essi, onore e lealtà, vincevano sulla Minne.

Tristano mandò dei messi a terra con due battelli per informare Marco e dargli notizie della bella d'Irlanda. E Marco mandò subito tutti quelli dei suoi che poté, più di mille messi, a invitare tutta la nobiltà: ospiti e amici furono ricevuti con grande festa; quegli stessi due amanti dai quali gli venne poi il male peggiore e il maggior bene, che anche a lui come a loro costò la vita, egli li accolse con tutto l'onore col quale un uomo suole accogliere ciò che sopra ogni cosa gli è caro.

Intanto Marco fece dire a tutti i baroni di venire a corte entro diciotto giorni, nel modo più conveniente, per le sue nozze.

Tutti risposero volontieri all'appello e vennero in gran numero.

Giunse più di una bella schiera di cavalieri e dame per contemplare la gioia degli occhi, la chiara Isotta. Essa fu molto ammirata e si udiva dire soltanto:

"Isôt, Isôt la blunde, marveil de tu le munde,( Isotta la bionda è la meraviglia del mondo). E' tutto vero quello che si dice di questa benedetta fanciulla: essa dà gioia al mondo come fa il sole. Mai vi fu in alcun paese una così splendida fanciulla".

Ora che il matrimonio era stato celebrato e riconosciuto il suo diritto sulla Cornovaglia e l'Inghilterra e queste garantite in mano di lei, fu stabilito che se non vi fossero eredi, l'erede sarebbe stato Tristano; e dopo che a lei fu fatto omaggio, venne la sera ed essa doveva andare a dormire col suo signore Marco; Tristano e Brangaene si erano ben premuniti e messi d'accordo con lei sul modo e sul luogo. Nella stanza di Marco non c'erano che loro quattro, il re stesso e loro tre. Ora anche Marco era coricato. Brangaene aveva indossato la veste di Isotta: fra loro due si erano scambiate gli abiti.

Tristano accompagnò Brangaene a soffrire il martirio e la pena, madonna Isotta spense i lumi. Marco strinse Brangaene a sé; non so come le sia piaciuto il principio di questa storia, essa sopportò così pianamente che tutto rimase in silenzio: quello che il suo compagno richiedeva ella glielo concedeva, ottone o oro, come egli voleva. Io posso assicurare che ben raramente era accaduto che così bell'ottone fosse pagato per oro come tributo nuziale. Veramente scommetterei la mia vita che dal tempo di Adamo in poi mai fu coniato sì nobile metallo falso, né mai moneta falsa così gradita fu posta a lato di un uomo.

Intanto che quei due erano occupati nel gioco d'amore, Isotta stava sempre in pena e angustia e pensava tra sé:

"Signore Iddio salvami e aiutami e fa' che la mia cuginetta mi serbi la fede; se essa continua troppo a lungo il gioco d'amore temo che finisca col piacerle tanto che facilmente può sorprenderla il giorno: allora saremmo zimbello e ludibrio a tutti".

Ma no, i pensieri e l'animo di quella erano buoni e onesti: quando ebbe fatto tutto ciò che doveva per Isotta e assolto il suo compito, scivolò via dal letto; Isotta fu pronta subito a sedersi sull'orlo del giaciglio come se fosse la stessa di prima. Allora il re ordinò di portare il vino: egli seguiva in ciò l'uso di allora, perché era costume del tempo che così si facesse: che, quando uno era giaciuto con una fanciulla, ottenuto il fiore del suo amore, venisse qualcuno con del vino e ne facesse bere ad ambedue, insieme e senza distinzione. Anche qui fu osservata questa costumanza. Suo nipote Tristano portò subito lumi e vino; il re bevve e la regina pure. Alcune storie vogliono che fosse lo stesso filtro che causò tanto dolore di cuore a Tristano e a Isotta: ma no, di quella bevanda nulla più ne restava: Brangaene l'aveva gettata in mare.

Ora che secondo l'usanza avevano ambedue bevuto, la giovane regina Isotta con grande fatica e segreto dolore dell'animo e del cuore si stese accanto al re suo signore. Egli ricominciò le sue delizie; la strinse a sé, prese una donna per l'altra: trovò anche questa docile e l'una gli valse l'altra. In ognuna trovò oro e ottone. Anche esse gli resero il loro tributo in modo che egli di nulla si accorse.

Madonna Isotta fu allora grandemente onorata e amata dal suo signore Marco e tenuta in grande considerazione, tutto il popolo e il paese la onorava e lodava, poiché in lei si vedevano tante virtù e tanta grazia. Chiunque era capace di lodare parlava a sua gloria e in suo onore. In tutto questo tempo essa e il suo amis prendevano il loro piacere e la loro gioia in molti modi a tutte le ore; poiché nessuno vi trovava da ridire e né uomo alcuno né donna pensava a qualche cosa di male. Essa era in custodia di lui sempre e dappertutto e viveva secondo il proprio talento.

Intanto però lei ripassava in cuor suo e rifletteva a tutte queste cose; e che del suo segreto e del suo inganno nessuno sapeva nulla, all'infuori della sola Brangaene e che se non ci fosse stata questa, lei non avrebbe avuto nulla da temere per il suo onore. Era anche molto preoccupata per il timore che Brangaene potesse nutrire amore per Marco e gli rivelasse la sua onta e tutto quello che era avvenuto. Così, con la sua preoccupazione, la regina dimostrò che, più ancora che Dio, si teme il dileggio e la vergogna.

Essa fece chiamare due servi stranieri, venuti dall'Inghilterra; prese da ambedue giuramento su giuramento e assicurazione di fedeltà. Poi ordinò loro, pena la vita, di fare subito quanto avrebbe comandato, mantenendolo segreto. Così disse loro:

"Ora state bene attenti a quello che intendo: io manderò con voi una giovane, prendetela e cavalcate con lei rapidamente e di nascosto tutti e tre in qualche foresta, sia vicina o lontana come più vi piace, dove non ci sia nessuno, e tagliatele la testa: e fate bene attenzione a quello che essa dirà e ditelo a me. Portatemi anche la sua lingua e siate certi che io nel giorno di domani con gli usi cavallereschi vi farò ambedue cavalieri e vi darò beni e doni finché avrò vita".

La cosa fu così stabilita. Isotta chiamò allora Brangaene:

"Brangaene - disse - non sono molto pallida? Non so quello che ho, mi duole tanto la testa: procurami delle erbe, bisogna che troviamo rimedio a questo male altrimenti ne va della mia vita".

La fedele Brangaene rispose:

"Madonna, il vostro male molto mi addolora, non dite altro, comandate soltanto che mi indichino un luogo dove possa trovare qualche cosa che vi sollevi".

"Ecco, qui ci sono due servi con i cavalli, essi ti guideranno".

"Volentieri madonna, così sarà fatto".

Saltò in sella e si avviò con loro.
Giunti nella foresta in cui vi era dovizia di quelle erbe che essa desiderava, Brangaene voleva scendere da cavallo, ma essi la condussero più profondamente nella solitaria boscaglia. Quando furono lontano nell'aperta campagna, presero la fedele, la cortese e buona donzella e la posarono a terra con tristezza e rammarico e levarono le spade. Brangaene ne ebbe tale spavento che giacque a terra e vi rimase distesa; il cuore le tremava e così tutte le membra, alzò gli occhi spaventata:

"Grazia, messeri - disse per amor di Dio che cosa volete fare?"

"Voi dovete morire".

"Ohimè, perché?, ditemelo".

Uno di essi le chiese:
"Che cosa avete fatto contro la regina? E' lei che ci ha ordinato di uccidervi e così deve essere: la nostra e vostra signora Isotta ha lei stessa ordinato la vostra morte".

Brangaene giunse le mani e piangendo parlò:

"Messeri, per vostra bontà e per l'amor di Dio ritardate questo ordine e lasciatemi vivere finché io vi possa rispondere; dopo farete presto a uccidermi. Dovete dire alla mia signora e sapere voi stessi che io mai ho mancato verso di lei né commesso cosa che potesse recarle dispiacere, se non sia questo a cui però non voglio credere. Quando partimmo dall'Irlanda avevamo ambedue due vesti che ci eravamo scelte e messe da parte dalle altre vestimenta; ci eravamo portate via dalla nostra terra queste due camicie bianche come la neve. Quando fummo in mare, durante la traversata, il sole dava un tale calore che la regina in quei giorni non poteva sopportare altro che la sola camicia bianca e pulita. Questa le dava tanto piacere e tanto essa la portò che cominciò a sciuparsi e anche il suo biancore cominciò ad alterarsi. Intanto io avevo ben nascosta e conservata nell'armadio la mia in belle pieghe bianche. E quando la mia signora giunse qui e prese il re per suo signore e doveva andare a dormire con lui, la sua camicia non era così bella come avrebbe dovuto essere e lei desiderava che le prestassi la mia e io in principio mi rifiutai e in questo mancai al mio dovere.

Se non è per questa ragione, Dio sa che io mai feci nulla contro il suo desiderio e il suo comando. Ora vi prego per l'amor di Dio, salutatela da parte mia come da ancella si addice salutare la sua signora; e Dio nella sua bontà la guardi e protegga il suo onore, la sua persona e la sua vita! E le sia perdonata la mia morte. Raccomando l'anima mia a Dio e il mio corpo al comando vostro".

I due uomini si guardarono impietositi; faceva loro compassione quella gentile fanciulla e il suo pianto desolato: si pentivano e si dolevano assai di aver promesso di ucciderla poiché non trovavano nulla in lei né potevano scoprire cosa che comportasse la morte o la meritasse. Si consigliarono fra loro e si accordarono che, andasse pure come poteva, l'avrebbero lasciata vivere. Legarono la fedele ancella su di un alto albero affinché i lupi non la prendessero prima che essi non fossero di ritorno e tagliarono la lingua a un cane e si allontanarono sui loro cavalli.

I due uomini dichiararono a Isotta, l'omicida, che l'avevano uccisa con rammarico e a malincuore e assicurarono che la lingua era quella di lei. Isotta domandò:

"Ora ditemi, che cosa vi ha raccontato la fanciulla?".

Essi riferirono tutto quanto questa aveva detto loro dal principio alla fine e non tacquero nulla".
"Ma - chiese la regina - non vi ha detto altro?"

"No, madonna".

"Ohimè - esclamò Isotta - guai a voi per questo delitto! Sciagurati assassini, che cosa avete fatto? Sarete tutti e due impiccati".

"Signore Iddio, che discorso è questo? O, strana regina Isotta, voi ci avete con grande insistenza pregati e costretti d ucciderla".

"Io non so di che preghiera parlate, io ho affidato la mia ancella alle vostre cure affinché la guardaste per la via, perché doveva portarmi qualche cosa per mio uso. Dovete rendermela o ne va della vostra vita: voi, vili serpenti velenosi, sarete impiccati o bruciati sulla graticola".

"In verità - replicarono quelli - madonna, il vostro cuore e l'animo vostro non sono né puri né buoni, la vostra parola è molto mutevole.

Ora, madonna, vogliate ritardare la vostra condanna: piuttosto che perdere la nostra vita vogliamo rendervi la vostra ancella bella e in buona salute".

Isotta parlò piangendo forte:

"Ora non mentitemi più: Brangaene è viva o morta?"

"Essa è ancora viva, o strana Isotta".

"Oh portatemela qui e quello che vi ho promesso ve lo darò."

"Sarà fatto, madonna Isotta".

Isotta trattenne uno di loro, l'altro cavalcò fino al luogo dove avevano lasciato Brangaene e la riportò alla sua signora Isotta. Questa la prese fra le sue braccia e la baciò sulle gote e sulla bocca tante e tante volte. Ai due servi diede per compenso ben venti marchi d'oro a condizione che di tutto questo tacessero sempre.

Isotta aveva ormai riconosciuto Brangaene fedele e costante fin alla morte, di animo sincero in ogni cosa, provata nel crogiuolo e pura come l'oro; da allora in poi Brangaene e Isotta furono così unite e affezionate col cuore e con l'animo che nulla poteva più separarle; erano sempre insieme, liete di spirito e di cuore. Brangaene era ben vista a corte e la corte era piena delle sue lodi; era amata da tutti e non portava rancore ad alcuno, né internamente né fuori; era lei la consigliera del re e della regina. Nulla accadeva nel loro appartamento che essa non ne fosse informata. Sempre era assidua al servizio di Isotta e l'aiutava secondo il desiderio di lei con Tristano, il suo amis.

In tutto questo si comportavano con tanta segretezza che nessuno aveva concepito il minimo sospetto: nessuno badava ai loro discorsi o ai loro gesti o a quanto li riguardasse, o imaginava qualche cosa; essi vivevano tranquilli e felici come due amanti che hanno il tempo e il luogo propizi e a loro disposizione.

L'"amie" e l'"amis" erano sempre e a ogni ora preda della Minne, si scambiavano sovente con gli occhi di giorno e pubblicamente e fra la gente amorosi sguardi che esprimevano gli scambievoli detti che servono a unire in ogni diletto di amore. E giorno e notte lo facevano senza pericolo: erano liberi e disinvolti nel loro comportamento e nelle loro parole, sia che stessero in piedi o seduti o passeggiando.

Cominciarono a intrecciare i loro aperti discorsi con segrete parole, cosa che sapevano fare a meraviglia, così che nel loro parlare l'opera della Minne si insinuava come un filo d'oro in un tessuto. Ma a nessuno veniva in mente che in parole e in opere si trattasse di altro amore se non di quello dovuto alla parentela stretta che vi era fra Marco e Tristano ed essi la sfruttarono e ne approfittarono per il loro gioco amoroso. Così la Minne ingannava il senno e il cuore di molti e nessuno mai si accorse della natura del loro amore. Questo era chiaro e buono: la mente e l'animo loro erano uniti tanto da formare una sola cosa: si corrispondevano l'uno e l'altro, sì e sì, no e no; in verità non si udiva mai dire sì a un no, oppure no a un sì; in nulla erano separati, ma vivevano ambedue l'uno nell'altro.

Così passavano piacevolmente le ore, ora in un modo ora nell'altro, ed erano a volta a volta allegri e tristi, così come suol fare l'amore negli innamorati; nel loro cuore palpitava la dolcezza accanto alla malinconia e accanto alla gioia c'era pena e grave cura. Così Tristano e Isotta non potevano sempre giungere alla meta dei loro desideri e questo era il loro male e questo li rendeva ora tristi ora allegri.

Neppure mancava fra loro la collera, nonostante tutto il loro amore, intendo collera senza odio; e se qualcuno nega che la collera sia possibile fra due tali amanti, in verità vi dico che questi non ha mai conosciuto vero amore, poiché tale è il costume della Minne di accendere così gli amanti e infuocarne l'anima; ché, come la collera ferisce il cuore, altrettanto il fedele affetto lo risana: e così l'amore si rinnova e l'affetto è maggiore di prima. Ma come nasca la collera e come poi giunga da se stessa alla riconciliazione, questo certamente lo avete già molte volte udito.

Sovente gli amanti che stanno sempre insieme si immaginano che un'altra persona sia più cara all'amato e a lui più diletta e da piccola causa nasce grande baruffa e da lieve dolore grande riconciliazione e anche questo è un bene e non si deve risparmiarlo loro, perché da questo l'amore deve crescere, rinnovarsi, ringiovanire e condurre a vero fedele affetto. L'amore immiserisce e si raffredda se privo di questo fuoco, perché, come passa la collera, anche esso subito appassisce. Quando fra amici sorge qualche piccola disputa, allora il fedele affetto ne è il conciliatore sempre nuovo e fresco. Così si rinnova la fedeltà, e così come si purifica l'oro, si purifica l'amore.

Così Tristano e Isotta passavano le ore fra il piacere e la pena: la gioia e la pena mai si dipartivano da loro; intendo, la gioia priva del dolore di cuore. Nessuno di loro due aveva ancora sentore del duolo e della passione che minacciavano i loro cuori. Essi nascondevano amore e pena e custodivano il loro segreto con arte e con cura e così continuarono per lungo tempo. Erano entrambi liberi e lieti e di buon animo: la regina Isotta era amata in tutto il paese e da tutto il popolo e anche di Tristano si facevano lodi dal popolo e nel paese: egli era celebre e stimato e molto temuto in tutto il regno.

Ora Tristano, pieno di slancio, passava molte delle sue ore in esercizi cavallereschi e nei giorni di ozio si divertiva col falco e andava a caccia a tempo opportuno.

In quell'epoca una nave giunse in Cornovaglia, nel porto di re Marco: ne scese un gagliardo cavaliere, un nobile barone d'Irlanda chiamato Gandin, cortese, bello, ricco e nobile, così aitante della persona che la fama del suo valore era diffusa in tutta l'Irlanda.

Questi venne solo, a cavallo, alla corte di Marco, sfarzosamente abbigliato con cavalleresca magnificenza. Non portava né spada né scudo, sulle spalle aveva una piccola rotta ornata di oro e di gemme e bene accordata. Quando smontò dal cavallo entrò nel palazzo e salutò cortesemente Marco e Isotta della quale era già in molte occasioni stato amico e cavaliere e per amore di lei era ora venuto dall'Irlanda in Cornovaglia. Ora anche la regina lo riconobbe:

"Dêussal, messire Gandin!", disse ella doverosamente.

"Merzî - rispose Gandin - bele Isôt, ancor più bella dell'oro agli occhi di Gandin".

La regina spiegò allora in segreto al re chi egli fosse; il re stupì e gli sembrò anche strano che quegli portasse la rotta in spalla. Di ciò tutti intorno si meravigliavano e lo osservavano stupiti. Tuttavia Marco si sforzò a fargli onore, tanto per la sua propria dignità quanto per la preghiera di Isotta, che lo supplicava istantemente di fargli buona accoglienza come conterraneo di lei, e il re volontieri aderì: lo fece sedere accanto a sé e gli rivolse ogni sorta di domande sul paese e sul popolo, sulle dame e i cavalieri.

All'ora del pranzo, quando fu data l'acqua e portata anche a lui, egli fu pregato e ripregato di deporre il suo strumento, ma nessuno lo poté persuadere. Il re e la regina benignamente lo lasciarono fare, ma a molti ciò apparve cosa tanto scortese e sconveniente che non passò senz'altro inosservata, ma cominciò fra di essi un gran ridere e motteggiare; ma il cavaliere con la rotta, il signore pur con quel vile peso (3) non se ne occupò affatto; stava seduto al banchetto accanto a Marco e mangiava e beveva a suo piacimento.

Quando furono levate le mense, egli si alzò e andò a sedersi fra gli uomini di Marco che gli tennero compagnia e si occuparono di lui con molti cortesi discorsi. Il cortese sovrano, Marco il virtuoso, lo pregò pubblicamente, qualora sapesse suonare la cetra, di concedere loro di ascoltarlo. L'ospite rispose:

"Sire, lo farò soltanto se prima ne conoscerò il compenso".

"Messere, che cosa intendete dire? - chiese il re -. Se desiderate qualche cosa che io ho, è presto fatto: dateci prova della vostra arte e vi darò quello che vi piaccia".

"Così sia"

disse l'Irlandese, ed eseguì uno dei suoi lai che commosse tutti. Il re lo pregò di suonare ancora; quel traditore sorrise fra sé:

"Il compenso - disse - mi incita a suonarvi quello che so", e suonò ancora bene come prima.

Terminato il secondo pezzo, Gandin si presentò al re con la sua rotta in mano:

"Ora, Sire, ricordatevi della vostra promessa".

Il re rispose:

"Volontieri, ditemi che cosa volete?"

"Datemi Isotta", disse quegli.

"Amico - replicò il re - qualunque cosa comandiate, all'infuori di questa, è ai vostri ordini, ma questa non può essere, in alcun modo."

"Davvero, Sire - rispose Gandin, io non voglio cosa né piccola né grande se non solo Isotta".

Il re dichiarò:
"In fede mia questo non sarà mai!".

"Allora, sire riprese l'altro - voi non volete mantenere la vostra fede? Quando si saprà che non mantenete la parola non potrete più essere re in nessun paese. Essere re significa saper leggere correttamente: se non trovate scritto questo, io rinuncio al mio diritto. E se voi andate a dire o qualcun altro dice che voi non me lo avete giurato, io perseguo la mia giusta causa contro di voi e contro di lui, secondo quanto giudicherà la corte; io metto la mia vita a disposizione per tenzone o per combattimento finché non rientri nel mio diritto. Chi fra voi lo desidera venga a misurarsi con me; io dimostrerò allora come Isotta la bella mi appartenga".

Il re si guardò intorno da tutte le parti per vedere se ci fosse qualcuno che volesse cimentarsi, ma nessuno era disposto ad azzardare la propria vita sulla bilancia, né Marco stesso voleva combattere contro Gandin che era di tale forza e così robusto e ardito che nessuno osava misurarsi con lui.

Ora, ser Tristano stava intanto cacciando nella foresta, ma mentre ritornava a corte apprese per via la triste novella che Isotta era stata venduta all'incanto. E infatti era proprio così. Gandin condusse la bella che piangeva dirottamente e levava alti lamenti, dalla corte alla riva del mare; là era alzata una tenda molto ricca e bella. Egli vi entrò e sedette con la regina attendendo che la marea ritornasse e la nave potesse prendere il mare, poiché era arenata sulla spiaggia.

Allorché Tristano ritornato a casa, intese meglio tutta la storia della rotta, saltò subito a cavallo, prese la sua arpa e di gran carriera giunse al porto. Legò il suo destriero in un boschetto un po' discosto, a un albero, e vi appese accanto anche la spada, prese l'arpa e giunse in tutta fretta alla tenda dove trovò il barone seduto con la povera Isotta piangente fra le braccia, che si sforzava di consolarla, ma ciò a nulla serviva, finché essa non vide avanzare colui che era il suo vero arpista.

Gandin lo salutò:

"Dê te saut, bêas harpers!".

"Merzî, gentil schevaliers. Signore - continuò Tristano - mi sono affrettato a venire qui perché mi hanno detto che voi siete irlandese. Io pure vengo di là. Per l'onor vostro, riconducetemi a casa mia in Irlanda".

L'Irlandese rispose subito:

"Amico, te lo prometto. Ora siedi e suonami qualche cosa sull'arpa: se riesci a consolare la mia dama, ti darò come ricompensa la più bella veste che ci sia in questa tenda".

"Bene, signore, accetto disse Tristano - e ho pure fiducia che anche se nessuna musica di arpista potrà calmare il suo pianto, essa ne ritrarrà almeno qualche conforto".

Egli allora si mise all'opera e suonò così dolcemente una canzone che penetrò fin nel cuore di Isotta e occupò i pensieri di lei tanto che interruppe il suo pianto e non pensò più che al suo amis.
Terminata la canzone, la marea era salita e la nave galleggiava. E quelli della nave gridavano verso la riva:

"Signore, Signore, affrettatevi! Se arriva ser Tristano mentre voi siete ancora a terra, passeremo dei brutti momenti. Egli ha in mano il paese e il popolo e si dice che sia di così grande ardire e tanto coraggioso e intrepido che facilmente vi vincerà".

Questo discorso non piacque a Gandin che molto indignato esclamò:

"Che Iddio mi mandi in maledizione se io per questo mi imbarcherò una sola ora più presto! Amico, fammi ancora sentire il laio di Didone; tu suoni così bene che devo mostrarmiti riconoscente. Ora suona per la mia dama. Per ricompensa ti condurrò via con me e con lei e ti darò anche subito quello che ti ho promesso, la migliore veste che io abbia".

Tristano rispose:

"Signore, così sia fatto".

Il menestrello ricominciò e toccò lo strumento con tale dolcezza che Gandin gli porse orecchio attentamente e vide che anche Isotta era tutta intenta all'arpa. Quando la canzone fu terminata, Gandin prese per mano la regina e volle salire con lei sulla nave, ma la corrente e le onde erano così alte davanti al ponte, che nessuno poteva giungervi se non con un cavallo molto grande.

"Come faremo? - chiese Gandin - come potrà entrarvi la mia dama?".

"Ecco, signore - disse il menestrello visto che so di sicuro che mi conducete con voi, poco o nulla della mia roba deve rimanere in Cornovaglia. Io ho qui vicino un cavallo assai alto e credo che sia abbastanza grande perché io possa condurre a bordo la mia signora e vostra amica senza che l'acqua la tocchi".

Gandin disse:
"Mio caro musico, affrèttati, conduci qui il tuo cavallo e porta poi anche i tuoi abiti".

Tristano condusse il cavallo e appena ritornato si mise l'arpa in spalla:

"Ora, signor Irlandese - disse - datemi la mia signora, che la faccia salire davanti a me".

"No, musico - disse Gandin - tu non la devi toccare; la condurrò io stesso."

"No, signore - replicò la bella Isotta - questa storia di non dovermi toccare non ha senso: sappiate sicuramente che io mai salirò a bordo se non mi ci conduce questo musico".

Gandin allora gli consegnò Isotta:

"Ragazzo - disse egli - abbi cura di lei e guidala bene, così che io possa ricompensarti".

Quando Tristano ebbe Isotta con sé, saltò da parte e Gandin vedendo ciò esclamò incollerito: -
"Olà, imbroglione, che cosa significa questo?".

"No - rispose Tristano - non io ma voi ciurmatore Gandin, avete ormai, amico, quello che merita il vostro imbroglio, poiché come voi avete ingannato re Marco col suono della rotta, lo stesso faccio ora io con l'arpa: voi ingannaste, e ora siete ingannato. Tristano vi ha teso un'insidia e vi ha giocato. Amico, voi mi date assai ricca ricompensa: io ho la veste più bella che trovai nella tenda".

Tristano se ne andò per la sua strada. Gandin era oltremodo arrabbiato e triste. Il danno e la vergogna lo affliggevano profondamente. Egli se ne ritornò oltre il mare con smacco e con dolore.

Quegli altri due, Tristano e Isotta, se ne ritornarono indietro. Se per via abbiano in qualche luogo trovato fra loro diletto, o preso riposo tra i fiori, di questo nulla voglio pensare; per conto mio lascerò stare ogni sospetto o supposizione. Tristano riportò Isotta a suo zio Marco e molto lo rimproverò:

"Sire gli disse - sa Cristo quanto cara avete la regina: è quindi una grande stoltezza darla via così leggermente per arpa o per rotta; il mondo potrà ben deridervi: quando mai si vide regina essere ceduta per musica di rotta? Da ora in poi ricordatevene e custodite meglio la mia signora".

La fama e le lodi di Tristano vieppiù crebbero a corte e nel paese. Si lodavano in lui le maniere e il senno. Egli e la regina erano di nuovo felici e tranquilli, si facevano animo l'un l'altro come meglio potevano.

In quel tempo Tristano aveva un compagno che era un nobile barone, feudatario del re e primo siniscalco, chiamato Mariodo; questi dimostrava a Tristano amicizia e affetto causa la dolce regina per la quale nutriva un segreto amore come fanno molti uomini per molte donne le quali non se ne curano. Il siniscalco e Tristano avevano una stanza in comune e stavano volontieri insieme; anzi, quando Tristano raccontava delle belle favole, il siniscalco soleva giacere accanto a lui perché egli potesse più comodamente parlargli.

Una notte avvenne che, dopo aver discorso a lungo con Tristano di svariati argomenti, si era addormentato. L'innamorato Tristano si allontanò allora per andare a caccia della sua selvaggina, e ciò per grande sventura sua e della regina. Mentre egli si credeva insospettato e sicuro delle cose sue, la mala sorte aveva teso i propri lacci, il tradimento e il travaglio sulla stessa via che egli percorreva contento e giulivo per andare da Isotta. Ora quella notte aveva nevicato e adesso la luna splendeva limpida e chiara. Tristano non aveva timore né prendeva alcuna precauzione, ma si recò in fretta e segretamente al luogo che gli avevano indicato e stabilito. Brangaene prese una scacchiera e la mise dritta davanti al lume, poi non so come fu, dimenticò di chiudere la porta e andò di nuovo a dormire.

Intanto avvenne che il siniscalco dormendo vide in sogno un cinghiale terribile e spaventoso che si precipitava fuori dal bosco e arrotando le zanne e coperto di schiuma giungeva fino alla corte del re, pronto ad assalire qualunque cosa trovasse. Veniva allora la gente della corte e molti cavalieri si precipitavano verso il cinghiale senza tuttavia che alcuno osasse affrontarlo. Così esso corse attraverso tutto il palazzo giungendo fino alla stanza del re; ne sfondò la porta e scompigliò quello che pareva fosse il letto, imbrattando con la bava il letto stesso e le coltri regali. I fidi di Marco vedevano tutto questo, ma nessuno se ne faceva carico.

Mariodo svegliatosi prese a considerare fra sé e sé il sogno da cui era rimasto molto turbato. Chiamò allora Tristano per raccontargli quello che aveva sognato, ma nessuno gli rispose. Lo chiamò e richiamò e anche allungò la mano, ma non udendo nulla e non trovando nessuno nel letto intuì subito qualche segreta relazione. Ma non gli passò neppure per la mente alcun sospetto di una di lui relazione con la regina. Ebbe tuttavia un senso di amichevole rammarico perché Tristano, pur volendogli tanto bene non gli avesse detto nulla del suo segreto.

Mariodo si levò, si vestì in fretta e scivolò pian piano fuori dalla porta dove si fermò scorgendo le orme di Tristano. Seguì questa traccia e arrivò a un piccolo verziere; il chiaro di luna lo guidava sulla neve e sull'erba, là dove l'altro era passato, fino alla porta della kemenate. Qui si fermò esitante, molto sorpreso di trovare aperta la porta. Rifletté a lungo intorno al caso di Tristano, pensando di lui bene e male. Gli venne in mente allora che Tristano si fosse recato colà per una qualche donzelletta, ma avuto questo sospetto gliene venne subito un altro; che, cioè, fosse entrato dalla regina; questo pensiero gli tornava continuamente.

Finalmente si fece animo ed entrò cautamente non vedendo né chiaro di luna né altra luce se non quella della candela che ardeva e dava poco chiarore: davanti a questa una scacchiera faceva schermo. Andò avanti a tentoni lungo i muri e le pareti finché giunse al letto dove vide gli amanti giacere insieme e udì tutto quello che dicevano. Ne fu profondamente turbato e addolorato in fondo al cuore perché fino ad ora aveva nutrito affetto e venerazione per Isotta: ora questo si mutò in odio e dolore. Egli ne aveva pena e odio, odio e pena; ora pensava una cosa, ora un'altra e non sapeva come contenersi in questo frangente e che cosa fosse conveniente fare. Ira e dolore lo incitavano alla bassa e scortese azione di rivelare e rendere pubblica la loro relazione; ma lo tratteneva il pensiero di Tristano e la paura che aveva di lui e del male che questi avrebbe potuto fargli. Così si volse indietro e se ne ritornò via e si mise di nuovo a giacere assai contristato.

Poco dopo ritornò anche Tristano e scivolò pian piano nel suo letto. L'uno taceva e l'altro pure taceva; accadeva raramente che alcuno di loro due non dicesse parola e questo non era solito in loro; da questa novità Tristano comprese che l'altro covava nell'animo qualche sospetto, perciò fu più guardingo nelle parole e negli atteggiamenti di quanto prima non usasse. Ma oramai era troppo tardi: il suo segreto era svelato e il suo sotterfugio scoperto.

Mariodo, geloso, prese il re in disparte e gli disse che a corte era sorta una chiacchiera su Isotta e Tristano donde al paese e al popolo veniva gran disdoro e che conveniva che il re vi ponesse mente e si consigliasse sul da fare; ne andava e della dignità di lui e dell'onore del suo matrimonio. Però non gli disse altro di tutto ciò che era a sua conoscenza. Marco, leale e buono e alieno dai raggiri, molto stupì e si rammaricò di dover sospettare di alcun male Isotta, la stella polare di ogni sua gioia; pure portò questa pena dolorosamente chiusa nel suo cuore e stette vigile ogni giorno e a ogni ora per avere alcuna prova. Osservò i loro discorsi e i loro atti e non poté scoprirvi nulla, poiché Tristano aveva messo in guardia Isotta e l'aveva informata del sospetto del siniscalco.

Tuttavia Marco continuava a vigilare angosciosamente e con ogni cura e li spiava giorno e notte. Una notte mentre giaceva accanto alla regina e fra loro discorrevano del più e del meno, egli le tese con astuzia un tranello e ve la fece cadere:

"Ecco, madonna - diss'egli - ditemi che cosa pensate e che cosa mi consigliate; io intendo fra breve intraprendere un pellegrinaggio e stare assente forse molto tempo: chi volete che intanto lasci a guardia e protezione vostra?".

"Dio mio rispose la regina - per quale motivo mi chiedete questo? In mano di chi potremmo meglio stare io e il vostro paese e il vostro popolo se non in quella di vostro nipote che può ben prendere cura di noi? Ser Tristano, il figlio di vostra sorella è baldo e saggio e ben esperto in ogni cosa".

Queste parole dispiacquero a Marco e lo misero in sospetto. Strinse ancor più la sorveglianza e li osservò sempre più attentamente e disse anche al siniscalco quello che aveva saputo. Questi subito replicò:

"In verità, sire, così è: da questo potete vedere voi stesso che essa non può nascondere il grande amore che gli porta ed è grande stoltezza in voi che lo soffriate accanto a lei. Per quanto vi sono cari l'onore e la donna non vogliate più permetterlo".

Questo fu per Marco un tormento: dover nutrire sospetto e dubbio verso suo nipote era per lui una morte di tutte le ore, tanto più che lo trovava sempre senza colpa e libero da qualsiasi falsità.

La illusa Isotta era tutta lieta e con gran gioia raccontò a Brangaene ridendo giuliva, del pellegrinaggio del suo signore e anche di come egli le avesse domandato chi voleva per custode. Brangaene disse:

"Mia signora, non mi mentite e ditemi in nome di Dio, chi avete indicato?".

Isotta le disse la verità, proprio come le cose erano andate.

"O stolta! - esclamò Brangaene - perché mai avete detto così? Tutta questa storia, se ben mi appongo, è un'astuzia e sono certa che questo tranello lo ha combinato il siniscalco. Essi vogliono così spiare l'animo vostro e voi dovete stare meglio in guardia contro di ciò. Se egli ve ne riaccennasse fate come vi dico io e rispondete così e così".

Ed essa insegnò alla sua signora come conveniva rispondere a quell'astuzia.
Intanto Marco era afflitto da due diversi affanni: lo tormentavano il dubbio e il sospetto che nutriva e doveva nutrire in sé; sospettava della sua diletta Isotta e dubitava di Tristano in cui pure non poteva riconoscere falso comportamento o altro che fosse contrario alla lealtà. Il suo amico Tristano e la sua donna Isotta formavano la sua maggior sofferenza e il tormento del suo spirito e del suo cuore; sospettava di lui e di lei e dubitava di entrambi; perseguiva la sua duplice pena proprio nel modo che è solito in chi dubita, poiché quando voleva ricercare amore presso Isotta il sospetto ve lo distoglieva ed egli allora voleva trovare la verità e quando questa gli si sottraeva allora il dubbio lo tormentava e così rimaneva sempre allo stesso punto. Che cosa può esservi di più penoso per l'amore che non il dubbio e il sospetto? Che cosa angustia l'animo desideroso di amore quanto il dubbio? La mente non sa dove rivolgersi, poiché talvolta e per qualche indizio che abbia osservato o di cui abbia udito, giurerebbe che tutto fosse finito, ma in un volger di mano tutto cambia e se vede cosa che faccia rinascere in lui il dubbio egli ne è nuovamente afferrato e quindi confuso. Sebbene tutti facciano così, è tuttavia cosa assai poco saggia e grande stoltezza il dubitare dell'amore poiché nessuno è felice in un amore intorno al quale debba avere dei dubbi; però fa ancora peggio chi persegue il sospetto e il dubbio fino alla certezza, poiché se uno riesce a vedere che quello è fondato, la fatica durata finora di correre dietro alla verità gli procura adesso una pena di cuore maggiore assai di qualunque altra. I due precedenti mali che lo opprimevano prima gli sembrano ora essere leggeri: se potesse riaverli accetterebbe il dubbio e il sospetto pur di non trovare la vera realtà.

Così avviene che il male genera un altro male finché non giunge il peggiore di tutti, e poiché questo duole maggiormente, il primo appare lieve. Per quanto penoso all'amore sia il dubbio, non lo è mai tanto da non farglielo sopportare più volontieri che non la positiva certezza. E nessuno vi si può sottrarre: l'amore deve produrre il dubbio; questo deve sussistere accanto all'amore e da lui l'amore deve derivare vita: fintanto che dura il dubbio, l'amore può ancora trovare buon consiglio, ma appena conosce la verità allora subito è tutto finito.

Inoltre l'amore ha una usanza in cui spesso si impiglia e si confonde: anche quando tutto va secondo la sua volontà, non per questo si dà pace e lascia facilmente andare le cose; e dove vede il dubbio da questo non si diparte, questo è il suo male al quale corre e lo ricerca ancor più per risentirne dolore al cuore che per il piacere che potrebbe trovarvi o derivarne. Anche Marco seguiva questo stolto costume; egli ripensava giorno e notte come avrebbe voluto liberarsi dal dubbio e dal sospetto e come la verità avrebbe posto fine al suo dolore; questo era il suo costante pensiero.

Avvenne dunque che una sera egli e Mariodo avevano escogitato insieme come prendere Isotta con astuzia e meglio scoprire la verità. Ma tutto si rivolse contro di loro e nel laccio che le avevano teso cercando il danno della regina essa vi prese il re suo signore, secondo il consiglio di Brangaene. In questo, Brangaene fu loro molto utile e di grande aiuto, usando astuzia contro astuzia. Il re si strinse al cuore la regina e la baciò molte e molte volte sugli occhi e sulla bocca.

"Bellezza mia le disse egli - nulla al mondo ho più caro di voi e devo separarmene. Sa Iddio in cielo come questo mi faccia perdere il senno".

La regina, bene istruita, usò artifizio contro artifizio e sospirando rispose:

"Ahimè, misera, ahimè che finora ho creduto tutta questa storia fosse uno scherzo e ora sento e conosco che deve veramente sul serio realizzarsi!".

Ed essa cominciò a mostrare gran cordoglio con le parole e con gli occhi, a piangere così pietosamente chè l'ingenuo marito vinse tutti i suoi dubbi e avrebbe giurato che ciò le venisse realmente dal cuore; poiché in tutte le donne altro fiele non vi è, né hanno altra falsità o inganno - se stiamo a quanto esse stesse ne dicono - se non questo: di saper piangere senza motivo e senza voglia ogni volta che a loro conviene.

Isotta piangeva dirottamente.

"Bella - disse l'ingenuo Marco che cosa vi turba? perché piangete?".

"Ho ben ragione di piangere rispose Isotta - e se mi lamento ne ho ben donde. Sono una misera donna e altro non ho che questo corpo e quel tanto di senno che mi è stato concesso e tutto questo lo ho abbandonato a voi e al vostro amore, così che la mia mente non può pensare né amare altro che voi solo. Nulla mi è tanto caro quanto voi e ora mi avvedo che voi non mi portate tutto quell'affetto che dimostrate e dite; che voi ve ne partiate e che ora mi vogliate lasciare in questo paese straniero mi fa chiaramente comprendere che vi sono molto indifferente; il mio cuore e l'anima mia non se ne consoleranno mai".

"Perché, bella? - disse egli allora -; avete pur in mano vostra il paese e il popolo che sono vostri quanto miei: voi ne siete la sovrana, essi obbediscono ai vostri ordini e quello che comandate sarà fatto. Intanto che io sarò lontano si prenderà cura di voi uno che saprà ben custodirvi, mio nipote Tristano, che è cortese, saggio e prudente e cercherà in ogni modo di farvi onore e procurarvi piaceri e agi sempre maggiori; di lui a buon diritto mi fido; voi gli siete cara come gli sono caro io: egli farà tutto per voi e anche per me".

"Ser Tristano? - esclamò la bella Isotta - davvero, vorrei prima essere morta e preferirei essere sepolta piuttosto che trovarmi, me volente, in sua custodia. Questo ipocrita che mi sta sempre accanto strisciando e adulandomi e ripete che mi vuol bene. Pure Iddio solo conosce l'animo suo e sa con quanta sincerità egli parli; e anche io stessa ne so abbastanza, perché egli mi ha ucciso mio zio e ora teme la mia ira e l'odio mio; perciò ha paura e sta sempre a lisciarmi, infingendosi e blandendomi ipocritamente e si illude con questo di ottenere la mia amicizia. Ma ciò a poco gli vale e la sua adulazione a nulla serve. E sa Iddio che soltanto per voi e più per amor vostro che per il mio stesso onore io gli dimostro amicizia; altrimenti non lo guarderei davvero con occhio benevolo. E poiché non posso evitare di vederlo e udirlo, mi avviene allora di mettervi poca sincerità e poco cuore. E' vero che io spesso mi rivolgevo a lui con bocca che mentiva e occhi privi di affetto, ma era soltanto per disprezzo. Si dice delle donne che esse odiano gli amici dei loro mariti: per questa ragione io spesso ingannavo il tempo con lui con molti falsi sguardi e con vuote parole, in modo che egli avrebbe giurato che mi venissero dal cuore. Signore, non ci contate. Vostro nipote, ser Tristano, non mi avrà neppure un giorno in sua custodia; se posso pregarvene mi dovete intanto con vostro beneplacito custodire voi stesso; dove andate voi voglio andare io pure, se non me lo proibite voi e se non me lo impedisce la morte".

Così, simulatrice, parlava Isotta col suo sposo e signore, finché a forza di blandirlo gli tolse ogni dubbio e ogni risentimento ed egli avrebbe giurato che era sincera. Marco il dubbioso era ritornato sulla retta via. La sua compagna aveva dissipato ogni suo dubbio e timore; ora tutto quello che lei diceva o faceva andava bene.

Il re riferì subito al siniscalco, così come meglio seppe, le parole e la risposta di lei, dicendogli come non ci fosse in lei alcun genere di falsità. Il siniscalco se ne dispiacque assai e se ne rattristò nel suo cuore; pure insegnò al re come poteva mettere Isotta ancor meglio alla prova.

La notte, mentre Marco giaceva con lei, egli con altre domande le tese nuovamente i suoi lacci e ve la impigliò.

"Vedete, mia regina - disse egli - mi pare che dobbiamo ancora pensarci bene. Ora bisogna vedere e riflettere se le donne possano governare il paese. Madonna, io devo partire e voi dovrete rimanere qui con i miei fidi. Chi mi dimostra fedeltà e affetto, sia egli parente o vassallo, questi dovrà tributarvi onore e servirvi come voi comandiate. Coloro che non vi piacessero o non fossero cari ai vostri occhi, siano essi cavalieri o vassalli, rimandateli pure. Non dovete vedere né udire, contro il vostro desiderio, persone né cose che vi possano dispiacere; io stesso non terrò in alcun modo caro colui verso il quale voi nutrite avversione: questo vi sia detto in verità. State tranquilla e lieta e vivete come meglio vi aggrada. Questa è la mia volontà. E poiché mio nipote Tristano non è gradito al vostro cuore, tra breve io lo allontanerò dalla corte e dalla compagnia dei cortigiani; appena ne trovo l'occasione egli andrà in Parmenia a badare alle cose sue. Questo sarà un vantaggio tanto per lui come per il paese".

"Grazie, sire - disse Isotta - voi parlate bene e saggiamente, poiché ora conosco che volontieri rinunciate a quello che al mio cuore dispiace; mi pare quindi giusto che io pure mi adatti a ciò che piace ai vostri occhi e aggrada al vostro animo, come meglio posso, e che io contribuisca giorno e notte col consiglio e con l'aiuto a quello che al vostro onore si addice. Ma badate, signore, a quello che fate: non sia mai che per mio consiglio e mio volere vostro nipote venga allontanato dalla vostra corte, né oggi né mai, altrimenti ne verrebbe disonore a me: si direbbe subito nel paese e fra la gente che ve lo ho consigliato io a causa del mio rancore per la sua colpa di avere ucciso mio zio. Se ne farebbero tanti discorsi che porterebbero a me disdoro e non farebbero onore a voi. Non sia mai che per causa mia voi diffamiate il vostro amico o abbiate malanimo contro qualcuno che dovreste proteggere. Riflettete anche: quando ve ne andrete chi custodirà i vostri due regni? In mano a una donna non starebbero né bene né in pace: colui che deve prendersi cura bene e con onore di due regni deve avere senno e cuore e in questi due paesi non c'è nessuno all'infuori di ser Tristano, se egli non rimane qui per il bene del paese. Senza di lui non c'è alcun altro che possa permettere o vietare qualche cosa. Se sopravviene una guerra, cosa che può capitare ogni giorno e che sempre si deve prevedere, allora potremmo aver disgrazia e mi si rinfaccerebbe sempre malignamente la partenza di Tristano; allora si direbbe continuamente: "Se fosse stato qui ser Tristano in questo frangente, non avremmo avuto questa disgrazia"; e tutti a una voce mi darebbero la colpa di avergli fatto perdere il vostro favore a danno vostro e loro. Sire, è meglio rinunciarvi; ripensateci meglio e riflettete tanto all'uno che all'altro partito: o mi lasciate venire con voi, o gli ordinate di aver cura del paese. Comunque il mio cuore possa essere disposto verso di lui, preferisco mi sia daccanto piuttosto che un altro debba venire qui a rovinare e danneggiare tutto".

Il re comprese subito che tutto il cuore di lei era rivolto al bene di Tristano e in lui ricominciò più di prima il dubbio e l'incertezza; così era più che mai ricaduto e sprofondato nell'amarezza della collera.

Isotta informò minutamente Brangaene del colloquio e le narrò ogni cosa senza omettere una parola. A Brangaene dispiacque molto che essa avesse parlato così e che il discorso fosse andato in questo modo, e le tenne un altro sermone su come dovesse parlare e comportarsi in seguito.

Alla notte, quando la regina andò di nuovo a dormire col suo sposo, essa lo riprese fra le braccia, lo abbracciò e baciò, lo strinse al suo dolce seno e ricominciò a irretirlo coi suoi discorsi, con le domande e le risposte:

"Ditemi, signore cominciò -, ditemi per amor mio se avete parlato sul serio quando mi diceste di ser Tristano e che volevate per causa mia rimandarlo al suo paese? Se fossi sicura delle vostre parole vorrei rendervene grazie oggi e tutti i giorni della mia vita. Signore, io mi fido bensì di voi, come debbo e come mi è caro fare; pure temo che si tratti solo di un tranello; e se sapessi con certezza, come mi avete indotta a credere, che volevate solo bandire e tenermi lontano colui che mi è sgradito, allora riconoscerei da questo che mi volete bene. Già da tempo vi avrei rivolta questa preghiera se non fosse che lo facevo malvolentieri, poiché mi è troppo ben noto ciò che per colpa sua mi potrebbe accadere se egli dovesse restarmi a lungo dappresso. Ora, signore, considerate bene tutto senza badare alla mia antipatia: se egli deve governare il paese durante la vostra assenza e se intanto dovesse accadere che qualche cosa sopravvenga a voi, come facilmente potrebbe darsi in viaggio, allora egli mi toglierebbe regno e onore. Ora avete ben compreso il male che mi può fare: rifletteteci dunque con animo benevolo come può fare un amico e liberatemi da ser Tristano e farete bene, sia rimandandolo al paese suo, sia conducendolo con voi e lasciandomi intanto sotto la protezione del siniscalco Mariodo. Se invece voleste che io venissi con voi, per conto mio lascerei governare i paesi da chi vuole, purché io potessi essere con voi. In tutto questo, dei vostri regni e di me stessa, fate voi come meglio vi sembra: questa è la mia volontà e il mio desiderio. Se con questo io penso che faccio la vostra volontà rinuncio subito al paese e al popolo".

Così continuò ad adulare il suo sposo finché riuscì a ottenere che egli vincesse il dubbio e abbandonasse il sospetto sulla sincerità e sull'amore di lei e di nuovo la ritenesse innocente di tutto e di qualsiasi cattiva azione. Quanto al siniscalco Mariodo, lo ritenne allora per mentitore, mentre invece gli aveva dato vere notizie e detto la verità.

Quando il siniscalco si accorse che la sua volontà non era seguita cercò nuovamente altri mezzi. C'era a corte un nano chiamato Melot petit d'Aquitaine, che sapeva scoprire, come si suol dire, cose segrete negli astri della notte. Non voglio però affermare nulla in proposito se non quello che ho letto nel libro; ora io non vi trovo detto altro se non che egli era abile, astuto e buon argomentatore.

Egli godeva della piena fiducia del re e della kemenate. Con lui si accordò Mariodo in modo che quando si recasse dalle donne stesse bene a osservare Tristano e la regina. Se gli riuscisse di scoprire la verità sul loro amore, ne avrebbe avuto sempre onore e ricompensa da re Marco.

Egli quindi vi mise tutta la sua arte e tutta la sua scienza e continuamente tese i suoi lacci con le parole e con i gesti ed ebbe presto scoperto l'amore dei due amanti; essi avevano fra di loro tali dolci atteggiamenti che Melot vi scorse immediatamente i segni della Minne e disse a Marco che senza dubbio là vi era l'amore. Allora, fra loro tre, Melot, Marco e Mariodo si consultarono e furono d'accordo sulla decisione che allontanando Tristano dalla corte si scoprirebbe la verità.

Così fu fatto, giusto quanto era stato proposto: il re pregò il nipote che per il proprio onore non frequentasse più la kemenate né altro luogo dove potesse incontrare alcuna delle dame, poiché a corte correva una diceria e bisognava guardarsene altrimenti ne poteva venire grande danno e disdoro a lui e alla regina. Così fu fatto secondo la sua preghiera e il suo comandamento. Tristano evitò ogni luogo che fosse frequentato dalle donne, non entrò più nella kemenate né nel palazzo. I familiari si meravigliarono di lui e di questa stranezza; ne parlavano alcuni dicendo bene di lui, altri dicendone male; il suo orecchio era continuamente afflitto da qualche nuovo tormento.

Tanto egli che Isotta passavano le loro giornate in gran pena; facevano tra loro lamento continuo e grande doglianza. Due diversi tormenti avevano: dolore per il sospetto di Marco e dolore per non avere un luogo dove poter stare soli a discorrere. Ognuno di essi poco a poco perdeva forza e coraggio e il loro colorito cominciò a impallidire e la persona a indebolirsi, l'uomo impallidiva per la donna, la donna per l'uomo, per Isotta Tristano, per Tristano Isotta. Ambedue erano afflitti da profonda pena. Non mi stupisce che questa loro pena fosse comune a tutt'e due e il loro dolore indiviso: non avevano fra tutti e due che un solo cuore e un solo animo; il bene e il male di entrambi, la morte e la vita loro erano come insieme intessute: di quello che contrariava l'uno anche l'altro se ne accorgeva, ciò che all'uno piaceva subito l'altro lo sentiva. Avevano fra loro due un animo solo sia per il bene che per il male: la comune sofferenza era così palese nel loro aspetto stesso che esso mal dissimulava l'amore.

E ben presto Marco se ne accorse e vide che ad ambedue la separazione e l'assenza andavano fino al cuore con grande comune pena e quale era la loro brama di rivedersi se avessero saputo come e dove. Egli inventò allora un'altra astuzia e ordinò ai cacciatori di prepararsi con i cani per una battuta di caccia. A corte fece dire che sarebbe andato a caccia per una ventina di giorni: chi fosse pratico di arte venatoria e chi gradisse questo passatempo si preparasse. Prese congedo dalla regina e le raccomandò di stare allegra e contenta come più le piacesse. In segreto però incaricò Melot di stare attento e tendere insidie sui segreti passi di Tristano e Isotta; egli gliene avrebbe sempre reso merito. Così se ne andò poi a caccia con grande clamore.

Il suo compagno di caccia Tristano rimase a casa e fece dire allo zio che era ammalato. L'infermo cacciatore desiderava egli pure la sua selvaggina. Ambedue, egli e Isotta, rimasero a languire cercando con affannoso intento buona ventura e un modo come potersi vedere. Ma non ci riuscivano mai.

Frattanto Brangaene si recò da Tristano poiché aveva riconosciuto che la ferita del cuore di lui era molto profonda. Essa gli confidò il suo affanno ed egli confidò il proprio a lei.

"Ah - disse egli - mia dolce signora, ditemi, che cosa consigliate in questo frangente? Che cosa dobbiamo fare per non morire? Non sappiamo come contenerci per poter rimanere in vita".

"Che consiglio posso darvi? - rispose la fedele amica - Dio volesse che non fossimo mai nati! Noi tre abbiamo perduto felicità e onore; non riacquisteremo giammai la nostra serenità di spirito. Ahimè, Isotta! Tristano, ahimè! Mai questi occhi vi avessero veduti, voi e tutta l'infelicità di cui sono stata la causa! E ora non ho consiglio né arte con cui vi possa giovare; non so trovare nulla che vi aiuti e sono sicura come della morte che verrete in grande afflizione se resterete ancora a lungo così sorvegliati e costretti. Dunque, poiché non si può fare di meglio, seguite il mio consiglio questo tempo in cui dovete stare lontano da noi: quando troverete il momento adatto prendete un ramo di olivo e tagliate delle schegge in lunghezza e segnatele da una parte con una T dall'altra con una I, in modo che sia la prima lettera dei vostri nomi; non vi aggiungete altro e andate in giardino; là conoscete il ruscelletto che scorre dalla fonte verso la kemenate: orbene gettatevi dentro la bacchettina e lasciatela galleggiare e andare verso la porta della kemenate; la dolente Isotta e io vi passiamo sovente piangendo la nostra sventura. Vedendo la bacchettina sapremo che voi siete presso la fonte, là dove l'ulivo getta la sua ombra. Là aspettate e state bene attento: la desiosa mia signora, l'amica vostra verrà allora a voi e io pure, se sarà possibile e se tale è il vostro volere. Signore, questo breve tempo che ancora mi rimane da vivere deve da ora in poi esser tutto dedicato a voi due, in modo che io viva per voi e vi dia consiglio perché possiate vivere. Se potessi procurarvi gioia anche per una sola ora e per questo darne mille delle mie, venderei tutti i miei giorni per mitigare la vostra pena".

"Grazie, mia bella - disse Tristano - io non ho dubbio alcuno che in voi non siano onore e fedeltà quali mai di maggiori furono racchiuse in cuore alcuno. Dovessi ancora trovare grazia per me, la volgerei in vostro onore e per la vostra felicità. Per quanto mala sia ora la mia sorte e per male che per me giri la ruota, pure se sapessi come poter dare i miei giorni e le mie ore per la vostra gioia, rinuncerei anche a parte della mia vita; credetelo e siatene certa".

Piangendo egli soggiunse poi:
"O beata fedele donna!", e con ciò se la strinse al petto, l'abbracciò stretta e le baciò angosciosamente più e più volte le gote e gli occhi.

"Bella - disse - ora agite da fedele amica, a voi raccomando me stesso e la dolente desiosa Isotta; ricordatevi sempre di noi due, di lei e di me."

"Lo farò volontieri, signore; ora datemi licenza, ché devo andare. Fate secondo il mio consiglio e non vi preoccupate troppo".

"Dio stesso conservi il vostro onore e la vostra bella persona".

Brangaene si inchinò piangendo e se ne andò tristemente.
Tristano, sempre mesto, tagliò e gettò il fuscello come gli aveva insegnato la sua consigliera Brangaene. Così per ben otto volte in otto giorni egli e madonna Isotta vennero alla fonte segretamente e sicuramente all'ombra dell'albero, senza che alcuno se ne accorgesse né alcun occhio li vedesse; senonché una notte accadde che mentre Tristano andava colà, non so come, Melot, il malaugurato Nano, lo strumento del diavolo, per disgrazia lo scorse, lo seguì di soppiatto e lo vide andare verso l'albero ed essere poco dopo raggiunto da una donna che egli strinse a sé. Chi fosse però la donna Melot non lo sapeva.

Il giorno seguente Melot ritornò di nascosto per quella via un poco prima del meriggio, essendosi riempito il petto di false accuse e di maligne astuzie e si avvicinò a Tristano:

"Invero, signore - disse egli - io sono venuto qui in grande preoccupazione; voi siete tanto sorvegliato e spiato che mi sono recato qui di nascosto e con grande fatica, perché nel mio cuore sento grande compassione per la fedele Isotta, la virtuosa regina, che in questo momento è in gran pensiero per voi. Essa mi ha mandato e pregato molto di venire da voi, non avendo alcun altro adatto a questa mansione. Essa mi pregò e mi ordinò di salutarvi di cuore per lei e di chiedervi di parlarle oggi stesso, dove non lo so, ma lo saprete voi che siete stato ultimamente con lei; vi prega di mantenere l'ora solita e il tempo in cui solete venire. Non so contro quale cosa voglia mettervi in guardia. Credetemi pure, nulla di quanto mai accadde a me stesso mi ha dato maggior dispiacere che il suo dolore e il vostro cruccio. Ora, mio signore, ser Tristano, devo andare, datemi licenza; le dirò quello che volete, ma non posso rimanere più a lungo. Se la gente mi vedesse qui, me ne verrebbe danno. Già tutti dicono e pensano che quello che a voi due fu fatto sia stato per mio suggerimento; di questo dichiaro davanti a Dio e a voi che nulla mai accadde per mio consiglio".

"Amico, sognate disse Tristano -. Che storia mi andate mai raccontando? Che cosa sospettano i cortigiani? e che cosa abbiamo fatto io e la nostra signora? Via! andatevene immediatamente in maledizione di Dio e sappiate per certo che qualunque cosa si dica o si supponga, voi non dovrete mai raccontare a corte quello che qui avete sognato, a meno che non lo permetta io stesso per l'onor mio".

Melot si recò subito a cavallo nel bosco dove trovò Marco e gli disse che era finalmente giunto a scoprire la verità e gli raccontò come e dove e quello che era avvenuto alla fonte.

"Potete voi stesso sincerarvene, Signore - disse Melot - se a notte volete venire con me; ne sono sicuro come di nessun'altra cosa; se possono combinarlo verranno ambedue là questa notte e potrete voi stesso rendervi conto di quello che tra loro trattano".

Il re si recò a cavallo con Melot a procurarsi il tormento del suo cuore. Giunsero verso sera nel giardino e cercarono un luogo dove celarsi, ma né il re né il nano seppero trovare un nascondiglio che facesse per loro. Ora, accanto al ruscello che là scorreva c'era un ulivo grande, basso e anche sufficientemente frondoso; vi salirono ambedue con fatica e sedettero in silenzio.
Fattasi notte, Tristano si avanzò furtivamente e giunto nel giardino prese i suoi messaggeri (i fuscelli) li gettò nel rivo e li lasciò scorrere via con questo. Essi palesarono alla desiosa Isotta la presenza del suo amico. Tristano passò oltre la fonte, dove sull'erba cadeva l'ombra dell'ulivo. Là si fermò cogitabondo riandando nel suo cuore il suo segreto cruccio. Così avvenne che scorse l'ombra di Marco e di Melot poiché la luna splendeva chiara attraverso l'albero. Ora, quando distinse le due ombre venne in grande angustia, rendendosi subito conto dell'inganno e dell'insidia.

"Signore Iddio - pensò tra sé proteggete Isotta e me! se essa non si accorge in tempo di questa insidia nell'ombra mi viene certo dritta incontro. E se questo accade ce ne verrà male e malanno. Signore Iddio, per la tua grazia tienci ambedue in tua custodia; salva Isotta sulla sua via, guida i suoi passi, metti l'ingenua in guardia contro questa malizia e questa insidia che hanno tesa a noi due, prima che essa dica o faccia qualche cosa che faccia pensare a male. Deh Signore, abbi pietà di lei e di me. A te raccomandiamo questa notte il nostro onore e la nostra vita".

Isotta, la sua signora, e Brangaene, la casta amica di ambedue loro, stavano passeggiando e aspettando il messaggio di Tristano nel loro giardino del pianto, dove si recavano a tutte le ore, appena potevano farlo senza pericolo, lamentando fra di loro la loro sventura. Passeggiavano avanti e indietro parlando della loro storia di amore e di dolore. Ben presto Brangaene scorse il messaggio e la bacchetta nella corrente e fece cenno alla sua signora.

Isotta la prese e l'osservò, lesse Isotta, lesse Tristano, prese subito il suo mantello e se lo avvolse intorno alla testa e scivolò furtiva fra l'erba e i fiori fino all'albero e alla fonte. Quando fu a tanto breve distanza da poterlo scorgere, vide Tristano che se ne stava immobile come mai aveva fatto prima: poiché mai lei aveva mosso un passo verso di lui senza che egli le fosse premurosamente venuto incontro.

Ora Isotta molto si meravigliò, chiedendosi che cosa questo significasse: le si strinse il cuore, chinò il capo e mosse timorosamente verso di lui con grande angoscia e a lenti passi e quando giunse presso l'albero vide l'ombra dei tre uomini, mentre sapeva di uno solo. Comprese allora l'inganno anche dal contegno di Tristano.

"Ah - diss'ella - traditori! Che vuol dire questo? Donde questo agguato? Certamente il mio signore si trova qui vicino, dovunque possa essere nascosto. Temo assai che siamo traditi. Proteggici, Signore Iddio, aiutaci affinché possiamo uscirne con onore; Signore salva lui e me".

E si domandò tra sé:
"Tristano sa di questa mala ventura o non lo sa?".

E dal suo contegno comprese che egli doveva esserne a conoscenza.
Essa sostò allora un po' discosto e disse:

"Ser Tristano, molto mi dispiace che voi siate così certo e convinto della mia ingenuità, tanto da chiedermi un colloquio a quest'ora. Se consideraste l'onore che dovete a vostro zio e a me sarebbe cosa più conveniente alla vostra lealtà e al mio onore, che non il darmi ritrovo a così tarda ora e così di nascosto. Ora parlate: che cosa volete? io sto qui angustiata e soltanto perché Brangaene, oggi di ritorno da voi, mi ha esortata e consigliata a venire a sentire la vostra querela. Però ho fatto molto male a obbedirle. Essa è qui vicina a me e per quanto sicura io mi senta, darei in verità un dito della mano piuttosto che qualcuno sapesse che sono qui con voi. Si sono già raccontate tante storie su di voi e su di me che tutti giurerebbero che siamo colpevoli di amicizia illecita. Tutta la corte è piena di questo falso rumore. Ora Dio sa quale è il mio sentimento verso di voi, e voglio dire anche di più: Dio mi è testimonio e possa io non ottenere mai assoluzione dei miei peccati se io vi ho amato diversamente, come e con qual cuore; io dichiaro davanti a Dio che non ho mai sentito affetto per uomo alcuno e oggi e sempre il mio cuore è chiuso a tutti gli uomini, meno a colui che colse il primo fiore della mia verginità. Che il mio signore, re Marco, mi sospetti tanto per causa vostra, ser Tristano, sa Iddio che è molto male da parte sua, dopo che ha conosciuto il mio sentimento verso di voi. Coloro che hanno fatto tanti vani discorsi sul conto mio sono, sa Iddio, molto sconsiderati, ignorando essi interamente il mio cuore. Migliaia di volte ho simulato amicizia per voi e senza malizia, per l'amore che porto a colui che devo amare e Iddio lo sa. Fosse servo o cavaliere, chiunque appartenesse alla famiglia di re Marco o gli fosse caro, mi pareva giusto e onorevole fargli accoglienza; ora questo si rivolge contro di me. Pure non voglio portarvi rancore a causa delle loro menzogne. Signore, ora quello che mi volete dire ditemelo, perché non posso rimanere più a lungo con voi".

"Madonna - disse Tristano - io non ho dubbio alcuno che voi nelle parole e nelle azioni seguiate soltanto l'onore e la virtù, ma non ve ne fanno credito quei mentitori che hanno vanamente sospettato di voi e di me e ci hanno fatto perdere il favore del nostro signore senza nostra colpa né peccato, come Iddio ben sa. Madonna, mia virtuosa regina, riflettete bene e persuadetevi nell'animo vostro che io sono altrettanto innocente verso di voi quanto verso di lui e consigliate al mio signore che per la sua cortesia voglia per questi otto giorni nascondere e sospendere il rancore che senza mia colpa mi porta. Per questo tempo voglia egli e vogliate anche voi serbare verso di me un contegno come se mi foste benevolmente disposti. Intanto anch'io mi preparerò a partire da qui. Ci rimettiamo l'onore tanto il re quanto voi e io, poiché se vi mostrate così ostili e io parto da qui, i nostri nemici diranno che realmente c'era qualche cosa di vero: "vedete come ser Tristano se ne è partito in disgrazia del re".

"Ser Tristano - replicò Isotta - preferirei morire piuttosto che pregare il mio signore di fare per amor mio qualche cosa in vostro favore. Sapete bene che da molto tempo egli mi è avverso per causa vostra e se venisse a sapere che io sono qui adesso sola e di notte con voi, ne verrebbe una tale scena che egli mai più mi avrebbe amore né onore e, in fede mia, anche così non so se ciò mai più sarà. Mi fa molta meraviglia che Marco, mio signore, sia venuto in questo sospetto e mi domando da chi abbia preso consiglio, poiché io non mi sono mai accorta - e le donne se ne accorgono subito - che col vostro contegno mi abbiate voluta indurre a qualche frivolezza, né io stessa ho mai in questo praticato inganni o falsità. Non so che cosa ci abbia rovinati, perché lo stato di ambedue noi è ora misero e pietoso. Dio onnipotente voglia presto porvi fine e renderlo migliore. Ora, messere, datemi licenza; io devo ritirarmi e andatevene voi pure. Dio sa se il vostro travaglio e il vostro dolore mi fanno pena; io sarei per questo abbastanza colpevole - sebbene io non ammetta di esserlo - perché dobbiate avermi in odio e mi duole che per causa mia siate tanto oppresso, senza vostra colpa; perciò voglio passarci sopra e quando venga il giorno in cui dovrete partire, signore, Dio vi guardi; raccomando voi, la vostra preghiera e il vostro messaggio alla Regina del cielo; e se sapessi che il mio consiglio avesse qualche potere, consiglierei e farei, anche con mio danno, tutto quello che potesse giovarvi. Temo però assai che il re sia irritato contro di me, ma comunque vada e per quanto male, devo pur darvi la soddisfazione di dirvi che non siete colpevole in nulla contro di me né contro il re; se mi riuscirà appoggerò meglio che posso la vostra domanda".

"Grazie, madonna - disse Tristano - e le parole che il re vi dirà riportatemele subito; se però vedessi che mi conviene partire subito e non vedervi prima, qualunque cosa mi accada, o virtuosa regina, siate sempre benedetta da tutte le celesti schiere, poiché sa Iddio che terra e mare mai portarono donna più casta. Madonna, la vostra anima, la vostra persona, il vostro onore e la vostra vita siano sempre sotto la protezione di Dio".

Così si separarono; la regina se ne ritornò tristemente sospirando, amareggiata e amante con segreto dolore nel cuore e nello spirito. Il triste Tristano se ne andava pure tristemente e con gran pianto. Marco se ne stava triste egli pure, sull'albero; lo affiggeva e gli passava il cuore di aver così mal pensato del nipote e della sposa e malediceva molte volte col cuore e con la bocca coloro che a questo lo avevano indotto. Rimproverò aspramente il nano Melot di averlo ingannato e di aver diffamato la sua casta donna. Scesero dall'albero e rimontarono a cavallo con vergogna e rammarico, tanto Marco come Melot. Avevano doppio e diverso duolo: Melot per l'inganno di cui era incolpato, Marco per il sospetto col quale aveva infamato il nipote, la donna e soprattutto se stesso, spargendo la calunnia a corte e in tutto il paese.

Al mattino di buon'ora fece dire ai cacciatori che rimanessero pure e continuassero a cacciare, ma che egli stesso se ne ritornava a casa.

"Raccontatemi, madonna regina - disse egli come avete passato le ore e il vostro tempo?".

"Signore, il mio tempo libero fu quasi tutto vano dolore, mio sollievo furono l'arpa e la lira."

"Vano dolore? - esclamò Marco - come mai e per che cosa?".

Isotta sorrise e disse:
"Come avvenne e avviene ancora tutti i giorni e anche oggi; tristezza e duolo sono comuni a tutte le donne: ciò purifica il nostro cuore e illumina i nostri occhi. Ci creiamo in segreto dei gran guai da un nonnulla e anche facilmente li dimentichiamo".

E in questo modo continuò scherzando. Marco però ascoltava e ripassava in cuor suo le parole di lei e il loro significato:
"Ora ditemi, madonna- diss'egli - c'è nessuno che sappia, o sapete voi, che ne sia di Tristano? Mi dissero che stava male quando ultimamente andai a caccia".

"Signore, vi hanno detto il vero", rispose la regina: essa intendeva mal d'amore; sapeva bene che la sua malattia proveniva dalla Minne. Il re replicò subito:

"Come lo sapete? Chi ve lo ha detto?"

"Io so soltanto quello che suppongo e quello che poco tempo fa della sua malattia mi riferì Brangaene. Essa lo vide ieri e mi disse che dovevo riferire a voi le sue parole e la sua domanda e pregarvi che per amor di Dio non lo accusiate così gravemente contro il suo onore e che vogliate desistere dal vostro sdegno contro di lui, almeno per questi otto giorni mentre si prepara per la partenza e che gli permettiate di prendere congedo con onore dalla corte e dal paese; di ciò egli prega ambedue noi".

E così essa espose al re tutta la richiesta che Tristano le aveva fatto presso la fonte, dove il re stesso aveva ascoltato i loro discorsi.

Il re rispose:

"Madonna regina, sia sempre maledetto colui che mi indusse a dubitare di lui, del che profondamente mi dolgo perché ho recentemente riconosciuta la sua innocenza; mi sono reso conto di tutto fino in fondo e ora, benedetta sposa mia, per l'affetto che mi portate, tutto sia rimesso a voi e sia fatto quello che voi dite. Decidete voi e mettete pace fra lui e me".

"Sire - disse la regina - non voglio troppo affrettarmi a far questo, poiché se anche questa sera vi calmo, domani tornerete al vostro sospetto, come prima."

"No, invero, madonna, ciò non sarà mai più; io non avrò mai più dubbi sul suo onore e voi, madonna regina, sarete sempre sciolta da ogni sospetto di amore infedele".

Fatto questo giuramento, fu mandato subito per Tristano e ogni sospetto risolto in bene con animo sincero. Isotta fu nuovamente affidata a Tristano; egli l'assistette in tutto col consiglio e con l'azione; essa e la kemenate erano ai suoi ordini. Tristano e la sua dama Isotta vivevano tranquilli e felici, la loro gioia era completa; dopo lungo soffrire era concessa loro una vita beata secondo i loro desideri, sebbene dovesse durare poco tempo senza crucci.

Io affermo a voce ben alta che non c'è erba ortica così pungente e amara quanto il maligno vicino, né mai periglio così grande come il falso familiare - intendo dire di quella falsità di chi prende aspetto d'amico e invece nel cuore è nemico. Questi è un terribile compagno, ha sempre in bocca il miele e nel cuore il veleno che stilla dal pungiglione dell'invidia; questa col suo alito appestato spira sventura su ogni impresa dell'amico, su tutto quello che vede e sente e nessuno ne è salvo. Colui invece che apertamente avversa il nemico sulle sue vie, non lo accuso di falsità; finché combatte lealmente non fa gran danno; ma se si nasconde allora bisogna stare in guardia.

Così fecero Melot e Mariodo, stando sempre ipocritamente accanto a Tristano, profferendogli i loro servigi e la loro amicizia con simulazione e menzogna. Ma Tristano stava bene attento e mise in guardia anche Isotta:

"Badate - le disse - regina del mio cuore, e state ben attenta, tanto per voi quanto per me, alle vostre parole e ai vostri gesti; siamo circondati e minacciati da grandi pericoli; due serpenti velenosi in veste di colombe ci accompagnano ovunque con dolci detti e adulazioni. Da essi difendetevi, regina benedetta, perché là dove i familiari sono come colombelle nell'aspetto e come stirpe di serpenti nella coda, bisogna segnarsi come davanti alla tempesta e farsi benedire come davanti alla morte improvvisa. Madonna benedetta, bella Isotta, guardatevi dalla serpe Melot e dal cane Mariodo".

Tali erano infatti questi due, quegli serpe, questi cane perché continuamente tendevano agguati agli amanti a ogni occasione, a ogni passo, tal quale serpente e cane. Anche contro Marco esercitavano la loro malizia con accuse e consigli a tutti i momenti, finché egli ricominciò a esitare nel suo affetto e a sospettare gli amanti e a tendere loro tranelli e segrete reti.

Un giorno si fece salassare, secondo quanto gli avevano proposto i suoi falsi consiglieri, e con lui Isotta e Tristano, i quali non pensarono che vi fosse nascosta alcuna insidia e non temerono pericolo alcuno. Giacevano tutti tranquilli e in silenzio nelle loro stanze. Il giorno seguente, quando a sera si fu ritirata la schiera dei cortigiani e Marco fu andato a dormire, non rimasero nella kemenate, secondo quanto era stato combinato, oltre Marco e Isotta, alcun altro che Tristano e Melot, Brangaene e una piccola ancella. Le lampade e il loro chiarore era velato dalle folte cortine del letto.

Or quando all'ora di mattutino le campane cominciarono a suonare, Marco, sospettoso, si rivestì in silenzio e ordinò a Melot di levarsi e di andare con lui alla messa dell'alba. Quando Marco ebbe lasciato il letto, Melot prese una manciata di farina e la sparse sul pavimento in modo che se uno passasse venendo dal letto o andandovi, si dovesse scorgerne la traccia. Dopo di che uscirono tutti e due. Le loro devozioni non consisterono certamente in preghiere.

Ora Brangaene si accorse subito dell'insidia della farina, scivolò verso Tristano e lo fece accorto, quindi tornò a mettersi a letto. L'astuzia dispiacque molto a Tristano; il cuore gli ardeva nel petto per la donna e studiava come giungere a lei. Egli agiva come dice la similitudine, cioè che la Minne deve essere senza occhi e l'amore non conoscere paura quando ci si mette sul serio.

"Ahimè - pensò tra di sé - Signore Iddio, come faccio con questo malaugurato inganno! Questa impresa è un grande azzardo per me".

Si levò sul letto e si guardò intorno da tutte le parti per vedere in quale maniera potesse giungere colà. C'era già abbastanza luce perché potesse scorgere la farina; ma lo spazio gli parve troppo grande per un salto e non osò tentarlo. Pure non poté che scegliere fra le due alternative quale fosse la migliore. Unì i piedi, si puntò fortemente in terra, e arrivò con un balzo dove voleva. Ma Tristano, cieco d'amore aveva preso lo slancio e l'impresa alquanto al disopra delle sue forze: saltò, sì, fino al letto ma perse la gara poiché la vena si ruppe causandogli grande disagio e dolore. Letto e lenzuola si tinsero di sangue, come il sangue suol fare e si macchiarono in vari punti. In breve tempo la porpora e il broccato, il letto e le drapperie ne furono tutte segnate. Egli allora saltò di nuovo nel proprio letto e vi giacque preoccupato fino a giorno chiaro.

Poco dopo Marco fu di ritorno e guardò il pavimento e lo vide intatto e non si accorse di nulla, ma quando si avanzò e vide sangue e ancora sangue, l'animo suo ne fu turbato.

"Come dunque, madonna regina - disse egli - che cosa significa questo? Donde viene questo sangue?".

"Viene dalla vena che si è riaperta e solo adesso è ristagnato".

Allora il re passò la mano anche su Tristano come per scherzo:

"Su, su, ser Tristano!", e gettò indietro le coperte e anche qui trovò sangue come là. Tacque e non disse parola, lo lasciò e se ne ritornò via, molto oppresso nel pensiero e nello spirito. Rifletté a lungo come uomo cui il giorno non spunta per la gioia. Aveva troppo cercato anche là, finché aveva trovato il tormento del suo cuore. Pure del segreto di quei due e della loro vera storia non sapeva che quello che vedeva dal sangue: la prova era invero troppo debole. Il dubbio e il sospetto, che lo avevano lasciato, ora lo tenevano di nuovo sotto il loro giogo; l'aver trovato intatta la farina davanti al letto gli faceva supporre innocente suo nipote, ma l'aver trovato insanguinato il letto della regina e quello di lui gli procurava dolore e cattivi pensieri, così come suole accadere ai dubbiosi. Con questo dubbio stava e pensava ora una cosa ora un'altra e non sapeva quello che voleva o quello che doveva supporre: aveva trovato indizio dell'amore colpevole sul suo letto eppure nulla davanti a questo; così la verità gli veniva offerta e al tempo stesso sottratta ed era ingannato da tutte e due le parti. Queste due, verità e menzogna, ora le rivolgeva ambedue in mente e ora non ne credeva nessuna. Non voleva ritenerli colpevoli, eppure non voleva crederli senza colpa; questo era un profondo tormento per il dubbioso.

Marco nel suo traviamento era intanto tormentato dal pensiero sul modo di chiarire questo sospetto e liberarsi dal peso del dubbio e stornare la corte dai mali pensieri sulla sua sposa Isotta e su suo nipote Tristano.

Fece chiamare i grandi vassalli della cui fedeltà era sicuro e confidò loro la sua incertezza e raccontò come questa maldicenza fosse sorta a corte e come egli temesse per l'onore del suo matrimonio e dichiarò che finché durava questa pubblica accusa, nota a tutto il paese, egli non voleva più avere la regina nel suo favore e nella sua grazia, se essa prima non avesse dimostrato pubblicamente la propria innocenza e la propria fedeltà coniugale. Per questo chiedeva il loro consiglio sul come risolvere il dubbio sulla colpa di lei, in modo che, tanto negandolo che accogliendolo, ciò risultasse a suo onore.

I suoi amici e vassalli gli consigliarono di riunire un concilio a Lunders in Inghilterra e là manifestare il suo cruccio ai sacerdoti, ai saggi antistiti che conoscevano bene il diritto canonico.

Il concilio fu subito indetto a Lunders, dopo la settimana di Pentecoste, verso la fine di maggio. Sacerdoti e laici accorsero in gran numero all'appello del re, come egli aveva pregato e anche ordinato; venne Marco e venne Isotta, ambedue sotto il peso del timore e del dolore. Isotta temeva fortemente di perdere l'onore e la vita, Marco pure era in grande angoscia di perdere dignità e gioia per la sua sposa Isotta.

Ora Marco sedeva al concilio e si lamentava coi principi del regno di essere gravato da questa vergognosa diceria, e li pregò con insistenza per amor di Dio e per l'onore loro se sapessero suggerirgli sia un'astuzia o un consiglio per giudicare o vendicare questo delitto e in un modo o nell'altro porvi fine. Su questo molti espressero la loro opinione in varie maniere, l'uno in bene, l'altro in male, chi in un senso, chi nell'altro.

Uno dei principi che erano al convegno si levò, per età ed esperienza bene adatto a buon consiglio, vecchio e di nobile aspetto, canuto e saggio, vescovo di Tamise. Appoggiandosi sul pastorale,

"Sire - disse - ascoltate: ci avete chiamati qui noi, principi d'Inghilterra, per avere da noi consiglio e fedeltà, secondo il bisogno. Signore, sono io pure uno di questi principi e il mio posto è fra di loro; sono anche in età da sapere quello che devo fare o tralasciare e dire quello che ho da dire. Ognuno di voi parli per proprio conto: quanto a me, sire, io voglio dirvi il mio pensiero e la mia opinione: se la mia idea vi parrà buona e vi piacerà obbedite al mio consiglio ed a me. La mia regina e ser Tristano sono accusati di grave colpa, ma da quanto ho udito raccontare, non sono stati convinti né sorpresi in nulla di grave. Come potete giustificare malignamente questa sfiducia? Come potete giudicare di vostro nipote e della vostra donna, del loro onore e della loro vita se non sono mai stati trovati in alcuna sorta di misfatto, né probabilmente mai lo potranno essere? Chiunque può facilmente accusare Tristano di questa colpa, senza apertamente provare nulla contro di lui, come giustamente dovrebbe fare. Così anche ognuno può spargere chiacchiere sulla regina, ma non può testimoniarne. Però, poiché la corte sospetta tanto del loro delitto, dovete, voi sire, stare separato dalla regina di mensa e di letto fino al giorno in cui essa potrà dimostrare la sua innocenza davanti a voi e davanti al popolo fra cui è diffusa questa diceria e che ognora ne parla, poiché purtroppo, a simili novelle l'orecchio è sempre aperto, siano esse verità o menzogna; sia vera o falsa, quando di tale colpa si sparge la fama, cresce e dilaga e diventa sempre peggiore. Comunque sia, questa diceria e questa mormorazione sono andate tanto per la bocca della gente che voi ne avete avuto danno e la corte crede al male. Ora io penso, e questo è il mio consiglio, che, se la regina è accusata di tale fallo, la si chiami qui alla presenza di tutti noi e si ascolti la vostra accusa e la sua difesa, secondo il costume della corte".

Il re disse:

"Signore, farò come dite; le vostre parole e il vostro consiglio mi sembrano giusti e convenienti".

Fu mandato per Isotta ed essa venne al concilio nel palazzo. Quando si fu seduta, il vecchio vescovo, il saggio del Tamise, su cenno del re si levò e così parlò:

"Madonna Isotta, virtuosa regina, che il mio dire non vi dispiaccia. Il re mio signore mi ordina di parlare per lui e debbo obbedire al suo comando. Però Dio sa come ciò mal si addica alla vostra dignità e contrasti con la vostra pura fama e assai a malincuore lo divulgo e lo metto in luce e vorrei potermene esimere.

Mia buona regina, il vostro signore e sposo mi ingiunge di interrogarvi intorno a una pubblica accusa. Non so, e neppure egli sa, di che cosa vi si incolpi, se non che voi siete accusata dalla corte e dal popolo, voi e suo nipote Tristano. Dio voglia, madonna regina, che di questo peccato siate libera e innocente; pure il re è preoccupato, perché lo dice la corte. Il mio signore non ha trovato egli stesso in voi nulla se non di buono; soltanto da chiacchiere della corte gli è nato il sospetto contro di voi, non da realtà alcuna; per questo egli vi cita qui affinché i suoi amici e vassalli lo sentano e lo sappiano e affinché egli possa distruggere questa diceria e questa menzogna col giudizio di tutti noi. Ora mi sembra giusto che voi diate risposta e rendiate conto del sospetto alla presenza di noi tutti".

Isotta, la bene assennata regina, quando fu la sua volta di parlare si levò essa pure e disse:

"Monsignor Vescovo, voi baroni del regno e la corte tutta, dovete tutti sapere quello di cui devo render conto sul disonore del mio signore e di me stessa: in fede mia, io lo nego ora e sempre. Signori, mi è noto che da un anno questa villanìa su di me viene detta a corte e fra il popolo. Voi tutti però ben sapete che nessuno è tanto fortunato da poter sempre vivere col favore del mondo, tanto che non gli venga mai attribuita colpa veruna. Perciò non mi meraviglio che questo accada a me pure. La gente non sa parlare di me senza accusarmi di mal costume e cattiva condotta, perché sono straniera e non ho parenti o amici a cui rivolgermi. Non vi è alcuno accanto a me che abbia compassione della mia pena. Voi tutti quanti, che siate poveri o ricchi, siete, ognuno di voi, pronti a credere alla mia onta. Se sapessi che cosa fare, a quale consiglio ricorrere perché la mia innocenza possa valere per la vostra grazia e ad onore del mio signore, lo farei di buona volontà. Che cosa mi consigliate? Io sono pronta a qualunque giudizio cui mi si voglia sottoporre, affinché ogni vostro dubbio venga da ora in poi soppresso: e molto più per affermare l'onore del mio signore e mio".

Il re disse:

"Madonna regina, così sia fatto: se potrò far giudizio su di voi come ci avete proposto, datecene vera sicurezza affidandovi alla prova del ferro rovente al quale vi deferiamo".

La regina accettò e promise di sottostare al giudizio come avevano combinato, entro le prossime sei settimane nella città di Carlium. Il re e i baroni del regno si separarono allora e il concilio si sciolse.

Isotta rimase colà sola, dolente e preoccupata, molto oppressa da cure e pena: temeva per il suo onore e la stringeva il segreto timore che la sua finzione venisse scoperta. Con questi due crucci non sapeva dove rivolgersi: allora li pose ambedue davanti a Cristo misericordioso, che la soccorresse nel bisogno; a Lui raccomandò ardentemente, con preghiere e digiuni tutta la sua pena e la sua angoscia. In questo frangente Isotta escogitò nel suo cuore un'astuzia, fidando nella cortesia di Dio. Essa scrisse una lettera che inviò a Tristano pregandolo di venire a Carlium la mattina di buon'ora se appena gli fosse possibile e di trovarsi sulla riva quando essa doveva approdare. Così fu fatto: Tristano venne in abito da pellegrino, col volto truccato, travestito e alterato nell'aspetto e nella persona.

Quando Marco e Isotta giunsero a riva la regina lo scorse e subito lo riconobbe; e quando il battello approdò, Isotta chiese e ordinò che fosse quel pellegrino, se ne fosse capace e se gli bastassero le forze, a portarla dal battello a terra per amore di Dio, poiché in quel giorno non voleva essere portata da un cavaliere. Quindi lo chiamarono:

"Avanti, sant'uomo, venite e portate a riva madonna".

Egli fece quanto gli veniva richiesto, prese in braccio la regina sua signora e la portò a terra. Isotta gli mormorò sottovoce che quando toccasse la sponda facesse in modo da cadere in terra insieme a lei. Qualunque cosa significasse questo consiglio, egli obbedì. Giunto dal battello alla riva il pellegrino cadde a terra come per caso e rivoltandosi venne a trovarsi nelle braccia della regina e al suo lato. Immediatamente si precipitò un gran numero di cortigiani con bacchette e bastoni per dare addosso al pellegrino, ma Isotta disse:

"No, no; questo è accaduto senza volere, il pellegrino è debole e senza forza ed è caduto senza sua colpa".

Nell'animo degli astanti fu calcolato molto ad onore e a lode di lei che essa non fosse in collera e non volesse vendicarsi del poveretto.

Isotta disse sorridendo:

"Che cosa ci sarebbe di strano se questo pellegrino avesse voluto scherzare con me?".

Ciò le fu attribuito a virtù e cortesia e il suo onore e la sua stima ne furono accresciuti e celebrati da molte bocche. Marco osservava tutto e ascoltava ogni cosa.
Isotta riprese allora:

"Ora non so che cosa avverrà: ognuno di voi vede bene che non posso più dichiarare che nessun uomo mi abbia avuta in braccio suo e mi sia giaciuto a lato all'infuori di re Marco".

Così continuarono a scherzare su questo pellegrino cavalcando verso Carlium. Qui c'erano molti baroni, chierici e cavalieri e gran folla di popolo, vescovi e prelati che facevano l'ufficio loro e benedicevano l'assemblea. Erano pronti con tutti i preparativi. Allora fu portato il ferro.

La buona regina Isotta aveva dato via tutto il suo argento e il suo oro, i suoi gioielli e tutto quello che aveva di vesti e di cavalli perché Dio nella sua grazia non ricordasse la sua vera colpa e la riportasse in onore. Intanto erano giunti alla chiesa e la saggia, la buona regina con animo raccolto aveva appreso quello che doveva fare. La sua penitenza fu molto devota: sul corpo direttamente portava un aspro cilicio di setole, sopra a questo una corta tunica di lana che le giungeva una spanna al disopra della caviglia. Le maniche erano rialzate fino al gomito; braccia e piedi erano nudi. Molti cuori e molti occhi vedendola ne ebbero tristezza e compassione; tutti poterono mirare la sua persona e la sua veste.

Intanto era giunta anche la reliquia sulla quale doveva giurare. Fu quindi ordinato a Isotta di confessare a Dio e al mondo la sua colpa di questo peccato. Ora Isotta aveva rimesso interamente onore e vita alla bontà di Dio. Protese reverentemente il cuore e la mano verso la reliquia per il giuramento. Cuore e mano affidò alla benedizione di Dio perché li proteggesse e li custodisse.

Ora colà si trovavano molti invidiosi che sarebbero stati contenti se il giuramento della regina le avesse portato danno o vergogna. Il velenoso siniscalco Mariodo, pieno di odio, cercava di nuocerle in tutti i modi. All'opposto ve ne erano invece altri che di lei si onoravano e volgevano tutto a suo bene. Così grande contesa vi fu tra loro riguardo a questo giuramento, l'uno le era contrario, l'altro favorevole, come suole accadere in queste circostanze.

"Mio re e signore - disse Isotta - comunque si dica e si parli, tutto deve essere fatto come a voi piace e come vi è gradito; perciò vedete voi stesso quello che io debba dire o fare, affinché col mio giuramento vi sia data soddisfazione. Sono già troppi tutti questi discorsi: ascoltate quello che voglio giurare: che nessun uomo conobbe mai il mio corpo, né all'infuori di voi mai in alcun momento uomo che viva mi ebbe tra le braccia o mi giacque allato, se non quegli per il quale non posso giurarlo né negarlo, in braccio del quale mi avete veduto con i vostri occhi, voglio dire quel povero pellegrino. Così mi aiuti Iddio Signore e tutti i Santi che per il nostro bene e la nostra eterna salvezza sono presenti a questo giudizio. Se non ho detto bene, signore, posso fare giuramento più perfetto in un modo o nell'altro".

"Madonna - disse il re - mi pare che basti così, per quanto ne so. Ora prendete il ferro in mano e, come avete detto, Iddio vi aiuti in questo grave momento."

"Amen", rispose la bella Isotta.

Quindi nel nome di Dio essa prese il ferro e lo portò senza che la bruciasse.

E qui si vede e fu palese a tutto il mondo come il potente Cristo sia adattabile come una manica: egli si piega e si accomoda come da lui si richiede, così maneggevole come a buon diritto si conviene. Egli è pronto per tutti i cuori, per la sincerità come per l'inganno. Sia sul serio, sia per scherzo, è sempre come lo si vuole. Ciò fu chiaramente manifesto nell'abile regina: il suo inganno e il falso giuramento che aveva fatto a Dio le servirono a crescere in onore così che fu di nuovo più che mai amata, venerata lodata e onorata dal suo signore Marco, dal popolo e dal paese. Il re consentiva a qualunque cosa capiva poterle essere gradito; le tributava onori e doni. Il suo cuore e tutto l'animo suo erano rivolti a lei senza ombra di falsità; dubbio e sospetto erano di nuovo scomparsi.

Quando a Carlium Tristano, il compagno di Isotta, ebbe portato la regina dalla nave a terra e compiuto ciò di cui ella lo aveva pregato partì subito dall'Inghilterra alla volta di Swales, dal duca Gilan; questi era giovane e ricco, non aveva moglie ed era libero e allegro. Tristano fu il benvenuto; gli era già noto per varie sue gesta e strane avventure e quindi gli stava molto a cuore di rendergli ogni onore, procurargli piaceri e agi in qualunque cosa egli potesse gradire; a questo egli si applicava con tutto lo zelo, poiché l'afflitto Tristano era sempre immerso in pensieri, nel desiderio e nella tristezza per la sua avventura.

Un giorno accadde che Tristano sedesse accanto a Gilan, in triste meditazione e inconsciamente sospirasse. Gilan se ne accorse e ordinò che gli portassero il suo cagnolino Petitcrin venuto da Avalon che era il trastullo del suo cuore, la gioia dei suoi occhi. Orbene, il suo ordine fu eseguito. Un panno di porpora raro e bello, prezioso e di struttura straniera meravigliosa della stessa misura della tavola fu steso dinanzi a loro e vi venne portato un cagnolino che, a quanto ho sentito dire, era fatato e che una maga aveva inviato, per amore e per Minne da Avalon, il paese delle fate. Era fornito con tale arte delle due qualità del colore e dell'intelligenza, che non c'è lingua abbastanza eloquente, né cuore tanto esperto da saperne descrivere o narrare la bellezza e la grazia. Le tinte erano così sapientemente combinate con arte straniera che nessuno poteva dire esattamente quale fosse il colore; questo era distribuito così variamente che guardando il petto non altrimenti si poteva dire che bianco più della neve, i fianchi erano verdi come l'erba, un lato rosso come il melograno, l'altro più giallo dello zafferano, in basso interamente azzurro, più in alto un misto così ben combinato che fra tutti nessun colore risaltava più dell'altro; non era né biondo né rosso né bianco né nero né giallo né turchino, eppure vi era parte di ognuno di questi colori, cioè era di lucente tinta purpurea. L'opera magica di Avalon si palesava nel pelo; non c'era uomo per quanto esperto che avesse potuto riconoscerne la tinta: questa era così varia e così strana e diversa che sembrava non vi fosse colore alcuno. Intorno al collo portava una catena d'oro; da questa pendeva una campanella di così dolce e chiaro suono che quando cominciò a oscillare l'afflitto Tristano si sentì libero dalla tristezza e dalla preoccupazione per la sua avventura e perfino dimenticò il dolore che lo opprimeva per Isotta. Tanto dolce era il suono della campanella che nessuno poteva udirlo senza essere alleggerito di tutte le sue pene e del suo soffrire.

Udendo e vedendo questa meraviglia Tristano cominciò a considerare cane e campanella, ognuno separatamente, il cane e il suo strano pelo, il campanellino e il suo dolce suono; ambedue lo stupivano e il miracolo del cagnolino gli parve ancora più meraviglioso del bel suono della campanella che gli penetrava per gli orecchi e lo sollevava dalla sua tristezza. Gli sembrava una strana avventura trovare in tutti questi colori quello che i suoi occhi aperti negavano, poiché non ne riconosceva alcuno, per quanto attentamente osservasse. Tese la mano dolcemente a carezzarlo e lisciandolo con le mani gli sembrava di toccare della seta tanto era morbido, e non ringhiava né abbaiava, né dava segno di irritazione, qualunque scherzo con esso si facesse; anche, secondo quanto di lui si narrava, non mangiava né beveva.

Quando lo riportarono via, la tristezza e il duolo di Tristano ripresero più gravi di prima e anzi tanto più dolorosi in quanto tutti i suoi pensieri e tutti i suoi desideri erano rivolti a studiare in qual modo o con quali mezzi poter ottenere il cagnolino Petitcrin per la sua dama, la regina, affinché la pena di lei ne venisse mitigata; ma non vedeva come ciò fosse possibile sia con arti o con preghiere, poiché sapeva bene che Gilan non lo avrebbe dato via neppure se ne fosse andato della sua vita, né per alcun tesoro che avesse mai visto. La brama e l'inquietudine gli agitavano sempre il cuore e mai aveva provato nulla di simile.

Come dice la verace storia del valore di Tristano, viveva a quel tempo nella terra di Swales un gigante superbo e temerario che aveva la sua dimora sulla riva e si chiamava Urgan il Villoso. Gilan e il suo paese di Swales erano soggetti a questo gigante e dovevano pagargli dei tributi perché lasciasse in pace la gente, senza offese e senza malanni. Ora corse voce a corte che Urgan era venuto e che si era portato via quello che doveva essere il tributo di buoi, pecore, e suini e che aveva ordinato di spingerli innanzi a lui. Gilan raccontò allora al suo amico Tristano come questo tributo gli fosse stato fin dal principio imposto con frode e violenza.

"Ora - disse Tristano - se io riesco a liberarvene e venirvi presto in aiuto in modo che siate svincolato dall'obbligo del tributo finché vivrete, quale ricompensa mi darete?".

"In fede mia, signore - disse Gilan - vi darò volentieri tutto quello che ho".

Tristano replicò subito:

"Signore, se mi garantite questo, io vi aiuterò certamente per quanto mi debba costare, in modo che tra breve siate liberato da Urgan, dovessi anche rimetterci la vita".

"Invero, signore, vi darò tutto quello che vorrete - rispose Gilan - e sarà fatto tutto quello che voi comanderete".

E in fede di ciò gli diede la mano. Tristano mandò subito per il suo cavallo e le sue armi; quindi chiese che gli indicassero il luogo dove questo figlio del diavolo doveva passare col suo bottino.
Tristano fu condotto sulla giusta via, sulle tracce di Urgan, in una fitta foresta; su di un ponte incontrò la banda del gigante, di ritorno dopo la rapina. Il gigante e la preda avanzavano, ma Tristano si mise davanti a loro e non permise loro di passare. Quando il perfido gigante Urgan si accorse che il ponte era bloccato venne subito con una lunga e forte stanga di acciaio che teneva librata in alto. Giunto davanti al cavaliere così bene armato, gli parlò con mal garbo:

"Voi, amico a cavallo, chi siete? Perché non lasciate passare la roba mia? Sa Iddio che ciò che avete fatto vi costerà la vita, se non vi arrendete".

Colui sul cavallo replicò:

"Amico, mi chiamo Tristano; sai bene che non tengo te né la tua mazza in conto neppure di mezza fava. Perciò vattene pure e sappi che in verità la tua rapina non passerà finché io lo potrò impedire".

"Già, ser Tristano - disse il gigante - voi vi vantate perché avete vinto Morolt di Irlanda, col quale avete combattuto molto ingiustamente e per nessuna ragione e che avete ucciso per superbia; ma con me non sarà come con l'Irlandese che assaliste con grande rumore e gli portaste via la bella, fiorente Isotta che gli spettava come compenso. No, no! la sponda è casa mia e io mi chiamo Urgan il Villoso! Ora lasciate libera la via!".

Con ciò cominciò a dirigere con tutte e due le mani un colpo verso Tristano con uno slancio lungo e potente prendendo la giusta mira nel puntare e lasciare, in modo che sarebbe costata la vita a Tristano. Quando con la stanga cominciò ad agitarla contro di lui, Tristano si schivò, ma non abbastanza presto: essa colpì il cavallo tagliandolo in due. Il mostruoso gigante diede un urlo e gridò a Tristano ridendo:

"Dio vi assista, ser Tristano, non abbiate fretta di montare in sella; degnatevi trattenervi un poco con me, se vi posso pregare di lasciar procedere con la vostra grazia e il vostro onore il tributo della mia terra".

Tristano cadde sull'erba poiché il cavallo gli era stato ucciso; si rialzò e con la lancia inferse a Urgan un colpo nell'occhio; così il maligno fu ferito. Il mostruoso gigante Urgan corse subito verso il luogo dove giaceva la sua stanga, ma intanto, mentre egli stendeva la mano per afferrarla, anche Tristano aveva gettato via la lancia e accorreva rapido con la spada; lo colpì proprio come voleva, poiché gli recise la mano che era tesa verso la mazza, così che quella cadde in terra; poi gli diede ancora un colpo sulla coscia e si volse indietro. Urgan, malconcio, afferrò la stanga con la mano sinistra, la impugnò e corse contro il suo nemico; egli inseguì Tristano fra gli alberi per molti giri e molte difficili svolte. Intanto il sangue scorreva dalla ferita di Urgan in tale abbondanza che il malandrino cominciò a temere che a causa di questo potesse fra breve perdere forze e coraggio. Abbadonò quindi preda e cavaliere, raccolse la mano dove la trovò e ritornò in fretta a casa nella sua fortezza.

Tristano se ne stava solo nel bosco accanto alla sua preda; era non poco angustiato che Urgan fosse scampato vivo; sedeva sull'erba pensoso e meditabondo, preoccupato nell'animo suo di non aver altra prova e testimonianza della sua impresa se non il tributo predato, quindi a nulla gli sarebbe valso tutto il suo travaglio e la fatica che vi aveva impiegata e Gilan non manterrebbe l'impegno che avevano fra loro pattuito. Ritornò allora sui suoi passi seguendo la traccia delle macchie di sangue sul terreno e sull'erba dove era passato Urgan.

Giunto al castello, osservò tutto attentamente e cercò Urgan dovunque, ma non trovò né lui né anima viva, poiché, come ci narra la storia, il mutilato aveva posato su di una tavola in una sala la sua mano staccata ed era sceso dal castello a valle giù per il monte in cerca delle erbe che gli occorrevano per la guarigione della ferita e delle quali conosceva le qualità. E se ci avesse pensato prima, avrebbe riattaccato in tempo la mano al braccio con arti che ben conosceva, prima che fosse interamente morta e avrebbe così rimediato alla disgrazia, non dell'occhio ma della mano. Ora questo non era più possibile perché Tristano, giunto colà e trovata la mano incustodita, se ne era impadronito e se ne era ritornato per la stessa via per la quale era venuto.

Urgan ritornò indietro e vide che aveva perduto la mano e ne ebbe gran dolore e ira. Gettò a terra i suoi medicamenti e si lanciò dietro a Tristano; questi era giunto al ponte e aveva già notato di essere inseguito; prese la mano e la nascose sotto un tronco rovesciato, stando in gran timore di questo uomo gigantesco, poiché non vi era dubbio che sarebbe finita con la morte di uno di loro due, o del gigante o della sua. Ritornò al ponte e gli andò incontro con la lancia e lo assalì così violentemente che questa si spezzò nel colpo; intanto anche il maledetto Urgan gli fu addosso con la sua stanga con tale impeto che il colpo cadde molto più addietro, altrimenti Tristano, fosse pur stato di ferro, non avrebbe potuto salvarsi. Molto gli giovò per questo che Urgan fosse così avido della sua vita, poiché questi gli si era troppo avvicinato e aveva preso lo slancio troppo al di là di lui. Prima che il gigante avesse sollevato di nuovo la stanga Tristano gli aveva inferto un colpo non dubbio all'altro occhio.

Allora Urgan cominciò a battere intorno a sé come un cieco con tali colpi che Tristano fuggì lontano e lo lasciò a battere con la sinistra tutto in giro; così facendo giunse vicino al margine del ponte e Tristano allora accorse, chiamò a raccolta per questa impresa tutte le sue forze, tutta la sua energia, lo afferrò con tutte e due le mani e lo spinse giù dal ponte; lo precipitò dall'alto a valle, così che la mostruosa mole si sfracellò sulle rocce.

Quindi il vittorioso Tristano prese la mano e corse via e giunse al luogo dove Gilan stava muovendogli incontro a cavallo. Gilan era profondamente addolorato che Tristano avesse intrapreso questo combattimento, poiché gli pareva impossibile che ne uscisse salvo come ne uscì e quando lo vide venire di corsa verso di lui gli gridò gioiosamente:

"â, bien venianz, gentil Tristan: uomo avventurato, ditemi ora: come state? siete sano?".

Tristano allora gli mostrò la mano recisa del gigante e gli narrò tutto come era avvenuto, la sua avventura e la sua fortuna nell'impresa. Gilan ne ebbe gran piacere; ritornarono a cavallo al ponte e trovarono, come era stato detto da Tristano e secondo le sue parole, un uomo sfracellato; lo considerarono con grande meraviglia, poi ritornarono allegramente verso casa sospingendo davanti a sé il bottino. Di questo molto si parlò in tutto il paese di Swales; si celebrò la gloria, l'onore, la lode di Tristano; mai altrettanto si era detto in quel paese del valore di alcun altro.

Allorché Gilan e Tristano il vittorioso furono ritornati a casa, ripresero a parlare della loro buona ventura. Tristano, quest'uomo straordinario, disse al duca:

"Signor Duca, ricordatevi della vostra promessa e del patto che abbiamo fatto tra noi e che avete giurato".

Gilan rispose:

"Certamente, che cosa vi piace di più? che cosa desiderate?"

"Ser Gilan, io desidero che mi diate Petitcrin".

Gilan rispose:
"Posso darvi miglior consiglio".

"Sentiamo, che cosa?" - rispose Tristano.

"Che voi mi lasciate il cagnolino e prendiate la mia bella sorella e la metà di quanto possiedo".

"No, signor duca Gilan, rammentatevi della promessa, poiché io non prenderei tutti i regni né tutti i paesi della terra se pur me ne fosse lasciata la scelta. Io uccisi Urgan il Villoso soltanto per Petitcrin".

"In verità ser Tristano, se questo è il vostro desiderio e preferite questo a ciò che vi ho proposto, mantengo la mia parola e vi cedo quello che più vi piace; non vi metto malizia né voglio ingannarvi: per quanto a malincuore, quello che voi ordinate sarà fatto".

Con questo fece venire il cagnolino davanti a sé e davanti a Tristano.
"Vedete, signore - diss'egli,- vi posso dire e giurare sulla mia eterna salvezza che fra tutto ciò che mi è caro nulla c'è, all'infuori del mio onore e della mia vita, che non vi donerei più volontieri che non il cagnolino Petitcrin: ora prendetelo e tenetelo voi e Dio voglia che sia per la vostra gioia. Mi avete invero portato via il mio trastullo migliore e molta della gioia del mio cuore".

Quando Tristano ebbe in suo possesso il cagnolino, in verità al confronto di questo non gli sarebbe importato nulla di Roma e di tutti i regni della terra e del mare. Il suo cuore, eccetto quando era insieme a Isotta, non era mai stato tanto lieto come ora. Per il suo segreto servizio egli si procurò da Gales un giullare abile e prudente e si mise a istruirlo sul modo più saggio di portare il dono alla regina, alla bella Isotta per sua gioia. Prudentemente lo nascose al Galeotto durante il viaggio, ma le scrisse delle lettere e gliele mandò e le fece sapere come e dove lo avesse ottenuto per lei.

Il giullare si mise in via come gli era stato ordinato e insegnato, e giunse a Tintajoel, al castello di re Marco, senza che per strada gli fosse occorsa alcuna contrarietà. Parlò con Brangaene, la quale consegnò la lettera e il cane a Isotta. Questa considerò attentamente nell'insieme e nei particolari tutte le meraviglie del cagnolino; diede dieci marchi d'oro al giullare per salario e per ricompensa. Scrisse e mandò una lettera richiamando Tristano con insistenza, dicendo che re Marco gli era favorevolmente disposto e non pensava più a quella diceria: venisse pure dunque, essa aveva tutto appianato.

Tristano fece come lei gli diceva e ritornò immediatamente; corte, popolo e paese gli tributarono onori ancor maggiori di prima; mai dalla corte aveva ricevuto di maggiori che adesso, senonché Mariodo e il suo compagno petit Melot, che già erano suoi nemici, glieli offrivano solo esternamente e qualunque onore gli facessero poco ve ne era di sincero. Ora qui ditemi tutti come sia; se dove c'è l'apparenza vi sia o non vi sia l'onore? Io dico di no e pur anche di sì: no, per colui che lo rende, sì, per colui al quale è reso; l'uno e l'altro sono contenuti in questi due termini. Che dire di più? è un onore senza onore.

Isotta disse al re che il cagnolino glielo aveva inviato sua madre, la saggia regina d'Irlanda, e fece fare per lui molti preziosi gioielli e ornamenti d'oro, quanto di meglio si poteva desiderare, e una bellissima cuccia dove era stesa una ricca pelliccia sulla quale esso si coricava. Così Isotta lo aveva giorno e notte davanti agli occhi, in pubblico e in segreto. Ovunque fosse, ovunque andasse a piedi o a cavallo ella soleva non perderlo di vista; lo conducevano e lo portavano sempre dove lei potesse seguirlo con gli occhi, e questo non lo faceva per proprio sollievo, ma, come racconta la storia, per rinnovare il suo nostalgico dolore e per amore di Tristano che per amore glielo aveva donato.

Essa non ne aveva alcun conforto, né gliene veniva pace, poiché la fedele regina, appena ricevette il cagnolino e si rese conto della campanella che le faceva dimenticare la sua pena, pensò che il suo diletto Tristano soffriva per lei e disse fra sé:

"Oh! come mi posso io rallegrare e che faccio mai io, donna infedele? Come posso mai e in qualsiasi momento sentirmi gaia, mentre egli è tanto triste per causa mia? egli che per me ha lasciato ogni gioia e votato la sua vita alla tristezza? Di che cosa posso io godere senza di lui, io che sono la sua gioia e la sua pena? Come posso ridere quando il cuore di lui non trova requie se il mio cuore non gli è vicino? Egli non vive se non per me: dovrei io ora vivere felice e contenta mentre egli intanto è immerso nella tristezza? Iddio misericordioso non voglia mai che io possa gustare gioia senza di lui!".

Con ciò staccò il sonaglio e vi lasciò appesa la catena; così esso perse ogni virtù e ogni incantesimo; non diede più un suono che avesse il primitivo potere; si dice che mai più, per quanto si stesse in ascolto, desse sollievo o consolazione a cuore alcuno. Questo non importava a Isotta che non desiderava essere felice: l'amante fedele innamorata aveva votato la sua felicità e la sua vita al suo nostalgico amore e a Tristano.
Tristano e Isotta avevano ora nuovamente vinto cure e affanni ed erano di nuovo in auge a corte; questa era piena delle loro lodi e mai ne avevano riscosso di maggiori, o goduto di più del favore di re Marco loro signore. Erano anche ben nascosti, poiché non trovando luogo o modo per stare insieme loro due, si contentavano dell'intenzione che spesso è di conforto agli amanti; la fiducia e la speranza di poter compiere ciò che il cuore desidera, dà sempre al cuore stesso desiderio di vivere e nuova vita. Questa è la vera intimità, questo il vero e miglior senso dell'amore e della Minne: che quando non si può avere la realtà che la Minne vorrebbe vi si rinunci di buon grado e si accetti la buona volontà invece dell'atto. Quando c'è la ferma volontà, è vicina anche la realizzazione. Con la buona volontà si deve acquietare il desiderio. I due compagni e amici nulla devono intraprendere cui il momento e l'occasione non siano propizi, altrimenti vogliono il loro proprio male. Se non si può, eppure si vuole, si gioca un gioco molto svantaggioso. Se ben si può, allora si voglia, ché questo è buon gioco, senza dolor di cuore. I due amanti, Tristano e Isotta, non potendo usufruire di occasioni propizie, vi rinunciarono per la loro comune volontà che agiva in loro dolcemente e amabilmente sebbene con grande difficoltà. Avere un solo amore e un animo solo sembrava loro cosa dolce e buona. Essi tenevano il loro amore celato a Marco e alla corte, per quanto lo permetteva il cieco amore che loro aleggiava sempre intorno.

Però il seme e il sospetto della Minne sono così fatti che ovunque siano gettati mettono radice e portano sempre nuovi frutti finché hanno un po' di umidità e non inaridiscono mai né si possono seccare. Questo malo sospetto presto cominciò a crescere e a farsi gioco di Tristano e Isotta. Di umidità ce n'era anche troppa, cioè dolci atteggiamenti, dai quali a ogni momento si manifestava l'amore. Parlò il vero colui che disse che, per quanto in guardia si cerchi di stare, l'occhio tende sempre a stare vicino al cuore e il dito al punto doloroso. Le stelle polari del cuore deviano volontieri verso là dove è volto il cuore così come anche il dito e la mano facilmente si dirigono verso il punto che duole. Lo stesso facevano sempre gli amanti; essi non sapevano né potevano ad alcun prezzo evitare di nutrire il sospetto con molti dolci sguardi troppo frequenti; poiché, purtroppo, come ho letto, l'amico del cuore, l'occhio, sempre verso il cuore era rivolto, la mano sempre andava dove stava il dolore; cominciarono fra loro due a irretire con gli sguardi cuore e occhi e spesso non sapevano distoglierli affinché Marco non vi scoprisse il balsamo della Minne.

Perciò egli sempre li osservava, il suo occhio era sempre vigile, spesso negli occhi loro leggeva segretamente la verità, ma sempre solo e unicamente nel loro aspetto; questo era così palesemente amoroso, così dolce e pieno di desiderio che gli andava al cuore ed egli ne provava tale ira, tale gelosia e tale odio che lasciò libero corso a questo e a quella, alla gelosia e al sospetto: dolore e collera gli avevano fatto perdere il senno e la misura. Era una morte per lui che la sua diletta Isotta dovesse pensare con amore ad altri che a lui solo, perché nulla al mondo gli era più caro che Isotta e in questo era fermo e saldo l'animo suo. Nonostante la sua collera lei era sempre la sua amata donna, più cara a lui della sua propria persona. Però per quanto la diligesse, questa pena e questo pazzesco duolo ardevano in lui con tale furore che egli ripudiò l'amore e rimase solo con la collera. Non gliene importava più nulla, che fosse menzogna o verità.

In questa cieca rabbia li citò ambedue davanti alla corte, nel palazzo, davanti a tutti i cortigiani. Parlò a Isotta pubblicamente in modo che tutta la corte potè udire:

"Madonna Isotta d'Irlanda, è noto a tutto il paese come da molto tempo e per lunghi anni voi siate stata sospettata insieme a mio nipote Tristano. Ora io molte volte vi ho fatto spiare per vedere se per amor mio aveste moderato questa follìa, ma non volete desisterne: io non sono uno stolto che non sappia e non veda chiaramente e segretamente nel vostro cuore: i vostri occhi sono continuamente volti a mio nipote; a lui voi mostrate più dolce viso che a me. Da tutta la vostra condotta riconosco che lo amate più che non amiate me. Qualunque vigilanza io eserciti su di lui o su di voi non porta ad alcun risultato: tutto è inutile per quanto io faccia. Vi ho tanto sovente separati l'uno dall'altro che mi meraviglio possiate essere ancora così uniti di cuore. Ho spesso intercettato i vostri dolci sguardi, pure non posso impedire l'amore fra voi due. Ora finalmente voglio dirvi che non sopporterò più a lungo questa infamia e questa pena che mi avete così dolorosamente imposto. Da ora in poi non sopporterò più questo disonore. Neppure voglio per ciò, nipote Tristano, madonna Isotta, vendicarmi di voi come ne avrei diritto, vi voglio troppo bene per condannarvi a morte e farvi del male, a malincuore lo confesso, poiché vedo che voi due contro ogni mia volontà vi amate più di quanto non amiate me; state dunque pure insieme come vi aggrada e non lasciatevi per timore di me. Se il vostro amore è così grande, io non voglio da ora in poi costringervi né molestarvi in alcun modo. Prendetevi dunque per mano e toglietevi dalla corte e dal paese. Se pur alcun male mi debba venire da parte vostra, io non voglio vedere né saperne nulla. Fra noi tre non può sussistere unione, la lascio a voi due e mi ritiro. Comunque io me ne sciolga, è una cattiva compagnia e volontieri vi rinuncio. Il re che coscientemente accetta comunanza in amore fa grande villanìa. Andate e Dio vi accompagni e vi conceda vita e amore, come desiderate: questa nostra società non sussiste più".

Tutto fu fatto secondo quanto aveva detto Marco. Tristano e madonna Isotta senza grande dispiacere e con mediocre duolo si inchinarono al re loro signore e quindi agli astanti; poi i due fedeli compagni si presero per mano e lasciarono la corte. Augurarono alla loro amica Brangaene di starsene in buona salute e la pregarono di voler rimanere ad allietare la corte fino a che non ricevesse notizie da loro due, e glielo raccomandarono caldamente. Tristano prese venti marchi dell'oro di Isotta, per sé e per lei per le cose necessarie e per il cibo: inoltre gli portarono, dietro sua richiesta per il viaggio, la sua arpa, la spada, l'arco e il corno. Scelsero anche per lui fra i suoi bracchi uno piccolo e bello chiamato Hiudan, che egli stesso prese al guinzaglio con una mano; poi pregò Iddio di proteggere i suoi fidi e ordinò loro di ritornare in patria presso suo padre Rual, tutti, eccettuato il solo Kurvenal che ritenne presso di sé; a lui consegnò l'arpa; l'arco invece lo tenne egli stesso e così pure il corno e il cane Hiudan - non Petitcrin - e così se ne partirono a cavallo dalla corte.

La casta Brangaene rimase sola tristemente rammaricandosi. La triste avventura e la dolorosa separazione dai suoi due amici le andava al cuore così angosciosamente che fu gran miracolo che non morisse dal dolore. Anche i due amanti si separarono da lei con grande pena, sebbene la lasciassero là con un'astuzia dicendole di restare per breve tempo presso Marco affinché potesse più tardi ottenere da lui il perdono per loro due.

Così se ne andarono tutti e tre, dirigendosi sempre verso il bosco, attraverso selve e folte macchie per quasi due giorni di viaggio. In quel luogo Tristano conosceva in un monte selvaggio una grotta, che aveva un tempo per caso scoperta andando a caccia a cavallo; ve lo aveva condotto la sua strada. Questa grotta era stata scavata nella roccia in antiche età, sotto la legge pagana, ancor prima dell'epoca di Korineis quando ancora imperavano i giganti, i quali si nascondevano quando volevano stare in segreto per le loro amorose avventure.

Dovunque si trovava una tale grotta, essa veniva chiusa con porta di ferro e in onore della Minne era chiamata "la fossiure à la gent amant", cioè la grotta degli amanti. Il nome ben le si adattava. La storia dice anche che la "fossiure" era rotonda, vasta, alta e diritta, bianca come la neve e tutto in giro liscia e levigata. La volta era chiusa in alto con arte mirabile e sulla chiusura vi era un coronamento di meravigliosa fattura e ornato di gemme. Il pavimento era liscio, lucido e ricco, di marmo verde come l'erba. Nel centro vi era un letto intagliato in puro cristallo, grande, alto e spazioso con tutto in giro delle scritte scolpite che dicevano come fosse consacrato alla dea Minne. In alto nella grotta erano praticate per la luce delle finestre che illuminavano tutto l'interno. Per entrare o uscire vi era la porta di metallo e davanti a questa, fuori, stavano tre soli folti tigli, ma più giù a valle e intorno c'erano innumerevoli alberi che con il loro fogliame e i loro rami davano ombra alla montagna. Da un lato si stendeva una pianura dove scorreva una fresca sorgente più lucente del sole. Anche qui tre tigli proteggevano la fonte dalla pioggia e dal sole; chiari fiorellini e verde erbetta di cui era variopinta la pianura, gareggiavano dolcemente fra loro; ognuno pareva che volesse superare l'altro. Vi cantavano, alla loro stagione, anche gli uccelli e il loro canto era dolcissimo, più assai che altrove. Occhio e orecchio vi trovavano pascolo e godimento, l'occhio il pascolo, l'orecchio la gioia. C'era ombra e sole, dolci aure e miti brezze. Intorno a questa valletta, per un giorno di cammino, altro non c'era che rocce senza vegetazione e aspro deserto selvaggio; né strada né viottolo vi erano tracciati; pure per quanto impervia, Tristano vi penetrò, egli e la sua fida compagna e presero dimora nella roccia e nel monte.

Appena vi si furono stabiliti, rimandarono Kurvenal a corte, che dicesse, qualora occorresse, che Tristano e Isotta la bella erano partiti per l'Irlanda con grande pianto e dolore, per dichiarare colà verso il popolo e il paese la loro innocenza; gli ordinarono anche di rimanere a corte a disposizione di Brangaene e di portare fedelmente alla loro fedele amica tutto il loro affetto e la loro amicizia: ascoltasse anche quanto si diceva intorno alla volontà di re Marco, se questi avesse qualche cattiva intenzione o meditasse qualche mala azione contro la loro vita e in quel caso subito li informasse; tenesse poi sempre presente il pensiero di Tristano e di Isotta e ritornasse ogni venti giorni con notizie che portassero buon consiglio.

Che posso dirvi di più? Egli fece quanto gli era stato comandato e Tristano e Isotta entrarono in casa loro in quella chiostra selvaggia. Molti sono meravigliati e curiosi e si tormentano per sapere come i due amanti Tristano e Isotta riuscissero a nutrirsi in questo deserto. Glielo spiegherò subito, appagando la loro curiosità: essi si miravano l'un l'altro e di ciò si cibavano. Il frutto che questo sguardo produceva era il loro nutrimento; là dentro di altro non si cibavano se non di gioia e di Minne, la diletta compagnia era la loro "mangerie".

Liberi da preoccupazioni, portavano celato sotto le vesti il vitto migliore che si possa avere in questo mondo. Lo tenevano in segreto e sempre nuovo e sempre fresco: era questo il puro amore, la balsamica Minne, tanto dolce al corpo e all'anima e che accende animo e cuore, era esso il loro miglior nutrimento e invero raramente prendevano altro cibo se non questo dal quale il cuore trae tutto l'appagamento del suo desiderio e l'occhio la sua gioia e anche il corpo il suo profitto. Questo bastava loro. L'amore tirava per loro l'aratro della vita, li accompagnava a ogni passo e a ogni momento e dava loro tutto ciò che si può desiderare per vivere.

Inoltre, ben poco si davano pensiero di starsene in un deserto lontani dal mondo, poiché di che cosa avevano mai bisogno e chi avrebbe potuto dar loro cosa alcuna? Erano compagnia pari di numero - uno e uno - nessun altro occorreva loro, se ne avessero preso uno in più sarebbero stati dispari e in più e inoltre disturbati e oppressi da questo uno dispari. La società di loro due teneva loro luogo di una intera compagnia, tanto che lo stesso buon re Artù non ebbe mai in casa sua festa così grande e che gli avesse procurato maggior piacere e gioia di vivere maggiore. Non si sarebbe trovata nel mondo intero delizia alcuna per la quale questi due amanti avrebbero speso neppure il valore di un anellino di vetro.

Tutto quello che si poteva immaginare di desiderabile sulla terra o altrove essi lo trovavano in sé stessi. Non avrebbero dato una fava per una vita migliore, a meno che non fosse per l'onore. Che cosa altro poteva loro importare? Tenevano corte, avevano beni sui quali si basa ogni piacere. I loro costanti familiari erano il verde tiglio, l'ombra e il sole, il rivo e il fonte, i fiori l'erba e le foglie, i bocci e i fiori che sono così dolci alla vista; loro servitore era il canto degli uccelli; il piccolo usignolo, il tordo e il merlo e gli altri uccellini del bosco, il cardellino e la calandra li servivano facendo a gara l'uno con l'altro; questi famigli stavano a ogni ora a disposizione delle loro orecchie e dei loro sensi. Festa loro poi era la Minne che indorava i loro piaceri e col suo favore li convitava mille volte al giorno alla Tavola Rotonda di Artù, essi e la loro compagnia tutta. Quale miglior nutrimento per l'anima e per il corpo? L'uomo vi si trovava accanto alla donna e la donna presso all'uomo; che cosa dunque mancava loro? avevano quello che desideravano ed erano là dove volevano essere.

Molti però ve ne sono che, secondo il loro uso e la loro scostumatezza - nel che io non li seguo - dicono che a questo tipo di gioco occorre anche cibo di altro genere; di questo io non so bene se sia così. E con ciò mi pare che basti. Se però ci fosse qualcuno che ha scoperto cibo migliore, lo dica pure, secondo come gli è noto; qualche volta io pure condussi tal genere di vita: allora mi pareva sufficiente.

Ora non vi dispiaccia che io vi spieghi con quale intento fosse combinata la grotta nella roccia. Essa era, secondo quanto ho letto di essa, fatta a volta, spaziosa, alta e diritta, bianca come neve, liscia e levigata tutto in giro. La volta interna rotonda significa la semplicità della Minne: la semplicità si addice alla Minne che non deve avere angoli. L'angolo della Minne è l'artificio o l'astuzia. La vastità è la forza della Minne, che è infinita. L'altezza è l'elevatezza dell'animo che sale fino alle nuvole e al quale niente è troppo grave quando si vuole innalzare colà dove le virtù sboccano e si fondono con la valta in un unico slancio. Così non crollerà mai: le virtù sono sempre così bene incastonate e sistemate, così ingemmate e ornate, che noi, i quali siamo più umilmente orientati, noi il cui animo si china e striscia al suolo e non se ne stacca e non si sa innalzare, noi guardiamo sempre verso il monte e miriamo in alto l'edificio delle sue virtù; a noi discende da esse la gloria, esse si librano alto sopra di noi nelle nuvole e ci rimandano quaggiù il loro splendore; noi le contempliamo ammirati e così ci spuntano le ali con le quali l'animo prende il volo e, volando, dalle virtù produce la lode.

Le pareti erano bianche e lisce; questo rappresenta la perfetta giustizia, la cui bianchezza e il costante splendore non devono essere macchiati; nessun maligno sospetto deve trovarvi incavi o rilievi.

Il pavimento di marmo nella tinta verde e nella consistenza è simile alla costanza; questo è il miglior significato del colore e della lucentezza. La costanza deve sempre rinverdire come l'erba ed essere lucente e liscia come uno specchio.

Il letto, dentro, era con ragione chiamato col nome della cristallina Minne; questo diritto lo aveva ben riconosciuto colui che tagliò il cristallo per loro giaciglio e loro comodità: la Minne deve essa pure essere trasparente e pura come il cristallo.

Dentro, erano applicati alla porta di ferro due chiavistelli e anche una maniglia fissata con grande abilità nella parete, così come la trovò anche Tristano; questa manovrava una piccola spranga azionandola dall'esterno all'interno e facendola muovere in su e in giù. Non vi era serratura né chiave e ora ve ne dirò il motivo: la serratura non c'era perché quel congegno che si applica alla porta, cioè al difuori della medesima per ostacolare o impedire il passaggio, è indizio di inganno, poiché colui che entra per la porta della Minne senza che gli venga aperta dall'interno non ha parte nella Minne, ma viene con inganno o con violenza. Perciò davanti all'ingresso vi è la porta di ferro che nessuno può oltrepassare se non se lo merita con l'amore.

Inoltre è di ferro affinché non possa essere infranta da congegno alcuno, né con la forza, né con la violenza, né per astuzia o abilità o inganno o sotterfugio. Internamente i due chiavistelli, che sono i sigilli della Minne, erano volti l'uno verso l'altro, dai due lati della parete e l'uno era di cedro, l'altro di avorio. Ora ne apprenderete il significato: quello di cedro simboleggia nella Minne la saggezza e il senno; quello di avorio la castità e la purezza. Con questi due sigilli, con questi due chiavistelli la casa della Minne era ben custodita e difesa da inganni e da violenza.

La segreta molla che agiva dall'esterno sulla maniglia era un sottile fuso di stagno; la maniglia stessa era d'oro come era giusto che fosse. Ambedue, maniglia e molla, non potevano nel loro genere essere meglio formate: lo stagno è la buona inclinazione per le cose misteriose e segrete; l'oro è il buon esito. Oro e stagno sono qui al loro giusto posto: ogni uomo può dirigere la sua mente secondo la propria volontà, estenderla o ritrarla, ristringerla o allargarla in un senso o nell'altro con poca fatica, come fa lo stagno, e senza grave danno; chi invece pone mente a praticare la Minne con vera bontà viene per questa sua cura portato dallo stagno, - debole cosa quale è, - fino all'aurea meta, alla felice ventura.

In alto nella grotta erano praticate tre sole finestrelle, con bell'arte intagliate nella pietra, attraverso le quali splendeva il sole. L'una è la bontà, l'altra l'umiltà, la terza la Zucht, la interna disciplina; attraverso tutte e tre ride il dolce splendore, la benedetta luminosità dell'onore, la migliore di tutte le luci, e illumina la grotta della bella ventura. E anche non è senza una particolare intenzione che la grotta sia situata in quella selvaggia solitudine e se ne può dedurre che la Minne e ciò che la riguarda non deve compiersi all'aperto o in pubblico; essa si nasconde in luoghi selvaggi, la via alla sua chiostra è ripida e faticosa, i monti si elevano intorno in catene accavallate e complicate. I sentieri scoscesi sono, per noi poveri martiri, irti di rocce e se non seguiamo la giusta via, se mettiamo il piede in fallo non arriviamo più alla meta. Chi però è tanto fortunato da entrare nel selvatico ha impiegato la sua fatica a buon fine: là egli trova la gioia del suo cuore; poiché il selvatico contiene tutto ciò che l'occhio ama e che l'orecchio desidera udire, tanto che egli non vorrebbe più essere altrove.

E questo ben lo so io, perché ci sono stato; ho anche inseguito la selvaggina, gli uccelli, il cervo e gli animali sulle loro tracce nella selva, ingannando così le ore, tanto che non ho ancora mai veduto il bast. La mia fatica e il mio travaglio rimasero senza ricompensa. Nella grotta trovai la spranga e vidi la maniglia, mi sono talvolta anche avvicinato al cristallo, ho sovente seguito le danze, ma non mi sono mai indugiato. E per duro che fosse il marmo del pavimento non ho talmente calpestato il terreno con i miei passi da non farvi più crescere l'erba la quale ne è il miglior pregio e lo rinnova continuamente; vi si sentiva sempre il passaggio della Minne.

Ho anche sovente mirato, per il piacere degli occhi, la bella parete e spesso fissato lo sguardo alla volta e ai suoi begli ornamenti là in alto. Le finestre dalle quali entrava il sole hanno varie volte mandato il loro fulgore nel cuore mio. La grotta mi è nota fin dal mio undicesimo anno, quando non ero ancora mai stato in Cornovaglia.

La coppia fedele, Tristano e l'amica sua, avevano dolcemente disposto nella selva, nel bosco e nei campi il luogo per il loro riposo e per le loro occupazioni, per l'ozio e per l'attività: erano costantemente vicini. Al mattino uscivano sul prato nella rugiada che rinfrescava l'erba e i fiori. La fresca prateria era il loro ristoro; vi passeggiavano su e giù conversando fra loro e ascoltando il dolce canto degli uccelli; poi si slanciavano in corsa dove mormorava il fresco fonte, ne ascoltavano il mormorio e lo guardavano scorrere e fluire verso la pianura; là sedevano per riposare e stavano attenti al gorgoglio e al corso del rivo e questo era il loro divertimento.

Quando il chiaro sole cominciava a salire nel ciclo e il caldo a incombere, andavano sotto il tiglio al soave venticello che infondeva piacere nel petto e nella persona, rallegrando gli occhi e tutti i sensi. Il dolce tiglio addolciva loro l'aria e l'ombra con le sue foglie; i venti erano dalla sua ombra resi miti, soavi e freschi, il sedile sotto l'albero era fatto di erbe e di fiori, prato più smagliante che si sia mai visto sotto un tiglio.

Là sedevano i fidi amanti, l'uno accanto all'altro, riandando alle storie di coloro che in antichi tempi erano periti per nostalgia di amore. Essi ne parlavano e ne discorrevano compiangendoli e compassionandoli: la Phillis di Tracia e quello che per il nome della Minne ebbe da soffrire la povera Canace, e Byblis cui per amore del fratello si spezzò il cuore, e la regina di Tiro e Sidone, l'innamorata Didone, il cui amore ebbe così tragica fine. Con tali racconti essi occupavano qualche volta il tempo. Quando però volevano dimenticare queste storie si ritiravano nella cella e riprendevano in mano gli strumenti che erano il loro diletto e lasciavano risuonare l'arpa e il canto con dolce malinconia, alternando lo svago fra le dita e la voce. Suonavano e cantavano lai e canzoni d'amore, alternandosi a loro talento nella gioia della musica: allorché l'uno toccava l'arpa, l'altro ne seguiva le note col canto, dolcemente e nostalgicamente. E ogni tono della voce e dell'arpa si accordava e si fondeva così amabilmente che ben a ragione la loro chiostra della dolce Minne fu chiamata la fossiure à la gent amant.

In loro si avverava quello che le antiche storie avevano narrato della fossiure. La vera padrona di casa, si era, lei per prima, concessa al loro gioco. Tutto quanto di passatempo e di svago era stato fatto prima di allora non bastava allo scopo, non era tanto puro d'intenzione e chiaro quanto il loro gioco. Essi coltivavano la Minne continuamente come mai fecero altri amanti e di altro non si occupavano perché a questo solo il cuore li spingeva.

Molti erano gli svaghi a cui si davano durante il giorno, cavalcando o stando fermi secondo l'umore, cacciando nella selva con l'arco uccelli e selvaggina. Qualche volta inseguivano a cavallo il cervo selvatico con il loro cane Hiudan, il quale non sapeva ancora inseguire la preda in silenzio; ma Tristano presto lo abituò a cacciare il cervo e gli altri animali del bosco e a seguire la traccia di ogni genere di selvaggina attraverso le foreste e la campagna senza farsi sentire. Impiegò vari giorni in questo, ma non, come alcuni affermano, per necessità di preda, né per il diletto che in tali cose si trova, ma essi adopravano l'arco e il cane più per il piacere del loro cuore che per mangerie. Ogni loro cura e ogni occupazione non dipendeva che dal loro piacere e da ciò che era gradito all'animo loro.

Durante questo tempo, re Marco, dolente, era in grande tribolazione per il suo onore e per la sua sposa. Corpo e anima erano di giorno in giorno più angosciati e onori e ricchezze gli erano indifferenti. Uno di questi giorni, cacciando a cavallo, più per tristezza che per avventura, egli capitò in quella stessa foresta. I cacciatori presero i loro cani e trovarono presto un branco; allora lasciarono andare la muta e in quello stesso momento i cani puntarono un cervo, di una rara specie, grande, forte e bianco, con una criniera come un cavallo, le corna piccole e brevi e come se le avesse appena spuntate. Lo inseguirono a gara e con tutta forza quasi fino a sera; allora ne persero le tracce, così che il cervo sfuggì loro e riprendendo la sua corsa giunse al luogo dove era la grotta; vi si rifugiò e fu salvo.

Ora, Marco, e ancor più i suoi cacciatori, ne furono assai contrariati, perché il cervo era così raro, sia per il colore che per la criniera, che tutti ne ebbero grande malumore. Riunirono di nuovo i cani e si buttarono a giacere per la notte perché avevano gran bisogno di riposo.

Ora anche Tristano e Isotta avevano udito per tutto il giorno il rumore dei corni e dei cani e subito pensarono che altri non poteva essere se non re Marco e ne ebbero una stretta al cuore, temendo ambedue grandemente di essere traditi.

Il mattino seguente di buon'ora il gran Cacciatore uscì prima che spuntasse l'aurora, ordinò ai suoi uomini di aspettare che facesse giorno e quindi di seguirlo. Prese al guinzaglio un bracco, il migliore che trovò e lo mise sulla traccia del cervo. Questi lo guidò per molte impervie strade, per rocce e dirupi, per luoghi aridi e luoghi erbosi, fin là dove il cervo era fuggito e sparito la sera prima: ne seguì attentamente la traccia finché la gola dei monti si aprì e comparve il sole: era giunto al fonte e nella piana di Tristano.

Quella stessa mattina Tristano e la sua compagna erano usciti, tenendosi per mano, nell'amena valletta e sul prato fiorito ancora rorido di rugiada. Calandre e usignoli cominciarono a gorgheggiare salutando i loro compagni; salutavano anche Tristano e Isotta; gli uccellini del bosco davano loro il benvenuto dolcemente nel loro latino; per molti dolci uccellini essi erano davvero i benvenuti.

Tutti si erano dati a un'allegra festa. Per fare omaggio agli amanti cantavano sul ramo con molte variazioni ed era una dolce lingua quella che là chantoit et discantoit le sue canzoni e i suoi refloit per la gioia degli innamorati. Li accolse il fresco fonte che zampillava bello davanti ai loro occhi e ancora più bello bisbigliava alle loro orecchie e veniva loro incontro gorgogliando misteriosamente e li accoglieva col suo mormorio; esso sussurrava dolcemente per salutare gli amanti. I tigli pure li salutavano con le loro dolci aure: li rallegravano dentro e fuori, nell'orecchio e nei sensi. La fiorita degli alberi, la prateria nel suo chiaro splendore, i fiori, l'erba verdeggiante e tutto quello che fioriva sorrideva loro. Anche la rugiada scintillante li salutava nella sua dolcezza e rinfrescava loro i piedi e dava pace ai loro cuori. E quando ebbero abbastanza goduto di tutto questo rientrarono nella loro grotta e si accordarono sul da farsi in questa ora, poiché temevano assai quello che poi infatti avvenne, e avevano paura che qualcheduno, seguendo i cani, venisse in qualche modo a scoprire il loro segreto. Tristano escogitò un artifizio sul quale convennero tra loro. Si distesero sul letto, stando ben separati e rivolti l'uno di schiena all'altro, come giacciono uomo e uomo, non come uomo e donna: il corpo dell'uno stava lontano dall'altra. Inoltre Tristano aveva posta fra loro la spada nuda. Di qua giaceva egli, di là essa; giacevano separati, ognuno per conto proprio. Così si addormentarono insieme.

Il cacciatore di cui ho detto più sopra, giunto alla sorgente, scorse nella rugiada la traccia dei passi di Tristano e di Isotta e pensò quindi che fosse quella del cervo; smontò da cavallo e scese sul sentiero seguendo la pista che essi avevano segnata, fino alla porta della grotta. Quivi erano i due chiavistelli e non poté andare oltre. Fallitagli questa via, ne tentò un'altra facendo tutto il giro intorno e per caso trovò in alto della grotta una finestrina nascosta; guardò dentro furtivamente e vide gli alunni della Minne; non altro che una donna e un uomo. Li mirò con grande stupore perché, sebbene donna, gli parve che mai potesse essere venuta al mondo creatura così straordinaria. Tosto scorse la spada nuda e si ritirò spaventato sembrandogli cosa pericolosa ed ebbe paura. Scese di nuovo dalla roccia e ritornò giù dove erano i cani.

Ora anche Marco aveva di molto preceduto i cacciatori e incontrò il primo cacciatore per via.

"Ecco Sire - esclamò questi - ho una cosa meravigliosa da narrarvi; mi è accaduta or ora una bella avventura".

"Parla: quale avventura?".

"Una grotta della Minne".

"Dove e come l'hai trovata?"

"Sire, in questo bosco, qui vicino."

"In questo bosco selvaggio e deserto?"

"Sì, qui."

"Vi è alcun essere vivente?"

"Sire, ci sono un uomo e una dea; giacciono su di un letto e dormono come a gara. L'uomo è come un uomo comune, ma il mio dubbio è per la sua compagna, se sia o no un essere umano; è più bella di una fata, nulla di così bello, fatto di carne e ossa, può esistere sulla terra; e non so per quale ragione fra loro giace una spada nuda e lucente".

Il re disse:
"Conducimi là".

Il cacciatore lo guidò di nuovo attraverso la selva per la stessa via fino al luogo dove era sceso da cavallo. Il re smontò sull'erba e prese a salire per il sentiero; il cacciatore rimase sul posto. Marco giunse alla porta, passò oltre, fuori dalla parete di roccia e in fondo alla stretta gola fece molti giri secondo l'insegnamento del cacciatore e trovò la finestrella. Vi mise l'occhio per sua gioia e per suo dolore e li vide ambedue giacere sull'alto letto di cristallo, ancora addormentati. Li trovò pure come li aveva veduti il cacciatore, giacere lontani l'uno dall'altro, l'uno da una parte, l'altro dalla parte opposta e la spada nuda fra loro. Riconobbe il nipote e la sposa: il cuore dentro di lui e tutto il corpo gli si raggelarono dal dolore e anche dall'amore. La strana situazione gli faceva piacere e pena: piacere, intendo, per l'apparenza che fossero senza colpa, pena, intendo, perché li vedeva insieme. Di nuovo disse dentro di sé:

"Signore misericordioso, come può essere ciò? Se fra loro c'è stato quello che da lungo tempo sospettavo, come mai giacciono essi ora in questo modo? La donna dovrebbe pur sempre stare accanto all'amato e fra le sue braccia; come avviene che questi amanti se ne stanno così?".

Di nuovo però si diceva:

"C'è mai qualche cosa di vero in tutto questo? C'è colpa o non c'è colpa?".

Ma di nuovo ecco il dubbio:

"Colpa? - diceva - sì. Colpa? - diceva - in fede mia, no".

Così seguitò in queste due alternative finché, smarrito e perplesso, cominciò di nuovo ad avere dei dubbi sull'amore di ambedue.
Minne, la conciliatrice, giunse tutta ornata e acconciata con cura meravigliosa: portava nei suoi tratti sul bianco dipinta con i colori più belli la menzognera parola no, che luceva e splendeva nel cuore del re; l'altro suo dolore, la sgradita parola sì, Marco non la vide affatto; era interamente sparita, non vi era dubbio né illusione: la doratura della Minne, l'aurea innocenza, attirava con la sua magia lo sguardo e la mente di lui verso la luce del mattino, là dove giaceva tutta la sua felicità. Egli contemplava assorto Isotta, la gioia del suo cuore che mai prima gli era apparsa più bella.

La storia narra di non so quale ardore che la infiammava e il suo viso colorito come una rosa selvatica risplendeva rivolto in alto verso di lui. La bocca ardeva e rifulgeva come un carbone acceso. Sì, ora comprendo di quale ardore si tratti: alla mattina Isotta era uscita sul prato nella rugiada che ancora le brillava sulla persona. Un furtivo raggio di sole le splendeva sul fianco, sul mento e sulla bocca. Questi due splendori si erano fusi in un unico gioco di luci, una luce brillava in un'altra luce, un sole e un altro sole avevano combinato una grande festa e fatto nozze fra loro in omaggio a Isotta.

Il mento e la bocca di lei, il suo incarnato e tutta la sua persona erano così amabili, così armoniosi che Marco ne fu infiammato di desiderio e bramò di baciarla. La Minne gli lanciò la sua fiamma, la Minne accese l'uomo della bellezza del corpo di lei; la bellezza della donna incitava i suoi sensi all'amore. Il suo sguardo rimaneva immobile, contemplando assorto come fuori dalla veste apparivano belli il collo e il seno, le braccia e le mani. Essa portava senza altra acconciatura una ghirlanda di trifoglio e al suo signore mai era apparsa più desiderabile e più deliziosa.

Ora egli vide che il sole le splendeva in faccia e temette che le facesse male e le portasse danno; prese erba, foglie e fiori e tappò con questi la finestra e diede alla bella la sua benedizione; pregò il buon Dio di vegliare su di lei e piangendo si ritirò. Ritornò afflitto ai suoi cani, ma non continuò a cacciare e fece ritornare a casa cacciatori e cani, ma lo fece con lo scopo di evitare che alcun altro si recasse colà e scorgesse i due amici.

Appena il re se ne fu andato, Tristano e Isotta si svegliarono e si guardarono intorno cercando la spera di sole; ma questo entrava soltanto da due delle finestre: guardarono la terza meravigliandosi molto che non ne venisse luce. Non indugiarono oltre, si levarono tutti e due e uscirono sul monte; tosto trovarono foglie e fiori davanti alla finestrella e scorsero anche sulla sabbia e davanti, sopra e sotto alla grotta le orme di un uomo. Molto si spaventarono e temettero assai. Pensarono subito che Marco fosse venuto e li avesse sorpresi: lo supponevano, ma non ne avevano vera certezza. Però molto confidavano nel pensiero che chiunque li avesse veduti, li avrebbe trovati in quella posizione giacenti voltandosi le spalle.

Il re convocò subito a consiglio i suoi fidi a corte e nel paese per consultarsi e per discutere con loro e narrò in qual modo li avesse trovati, come io vi ho appena raccontato, e disse che egli mai crederebbe a qualche cosa di male fra Tristano e Isotta. L'assemblea comprese subito quale fosse il desiderio del re e dove tendessero le sue parole e come egli bramasse di riaverli. Diedero quindi il consiglio secondo quanto fanno le persone sagge, cioè secondo quello che egli aveva in cuore e come egli stesso voleva, e cioè lo esortarono a richiamare la sua sposa Isotta e suo nipote Tristano, poiché non aveva riconosciuto in essi nulla che fosse contro l'onore e non aveva udito altre maldicenze sul conto loro. Fu chiamato Kurvenal e fu inviato ai due amici quale messo, poiché conosceva il loro rifugio. Il re inviò a Tristano e alla regina il suo saluto e la sua minne e fece loro dire che venissero pure, che da ora in poi non avrebbe ascoltato nulla di male che fosse detto su di loro.

Kurvenal si recò colà e riferì agli amanti l'intento di Marco. A essi sembrò buona cosa e se ne rallegrarono in cuor loro. Ne ebbero però piacere più per la grazia di Dio e il loro onore che per qualsiasi altro bene che ne potesse derivare loro. Ritornarono quindi e ripresero le loro abitudini come una volta. Però non furono mai più per tutta la loro vita così intimamente uniti come lo erano stati in quel tempo, né mai trovarono epoca così propizia per la loro felicità come era stata quella. Intanto però Marco e la corte si prodigavano per far loro onore, ma essi non si sentivano più liberi e franchi.

Marco il dubitoso raccomandava loro e li pregava per amore di Dio e anche di lui stesso che stessero bene attenti ed evitassero le dolci intese e gli sguardi furtivi e non ostentassero tanta intimità né tanta familiarità discorrendo fra loro. Questo divieto dispiacque grandemente agli amanti.

Marco però era felice. Nella sua donna Isotta trovava tutta la gioia che il suo cuore desiderava, l'onore però, non era se non per il corpo. Egli non riceveva dalla sua sposa né minne, né reverenza, né alcuno degli onori che Dio ha creato, se non in quanto nel nome di lui essa si chiamava regina e signora, poiché egli era re. Egli accettava tutto questo e le voleva bene come se lui solo le fosse caro. Questa era la stolta irragionevole cecità di cui parla un proverbio: la cecità della Minne abbaglia dentro e fuori, ottenebra la mente e gli occhi che non vogliono vedere quello che pure vedono chiaro davanti a loro. Così era accaduto a re Marco: vedeva e sapeva ed era sicuro come della morte che Isotta era corpo e anima presa dall'amore per Tristano, eppure non voleva saperlo. A chi si può ora dare la colpa della vita disonorevole che egli così conduceva con lei? poiché egli avrebbe certamente agito male accusando la regina di inganno o di falsità poiché né essa né Tristano lo ingannavano; egli vedeva con i propri occhi e lo sapeva anche senza vederlo che essa non gli portava amore, eppure gli era cara ugualmente. Perché, o Signore, e per quale motivo egli le voleva tanto bene?. Perché anche oggi accade a più di uno: chi soffre desiderio lussurioso deve sopportare grande angustia.

Ahimè! quante se ne vedono ancor oggi di persone come Marco e come Isotta! Se dobbiamo confessarlo esse sono più cieche ancora o altrettanto cieche di occhi e di cuore. E non soltanto alcuni, ma molti sono i colpiti da cecità i quali non vogliono rendersi conto di ciò che hanno davanti agli occhi e che considerano menzogna quello che pur sanno e vedono. Se vogliamo essere giusti non dobbiamo di questo dar colpa alcuna alle donne: queste sono innocenti verso l'uomo se gli lasciano vedere con i suoi occhi quello che esse combinano e fanno. Quando da sé si vede la colpa, non si è traditi né ingannati dalla donna; in questo caso la concupiscenza ha fatto velo agli occhi; lussuria e concupiscenza sono il velame che in tutto il mondo e in tutti i tempi è stato davanti agli occhi veggenti. Per quanto riguarda la cecità, nessuna cecità abbacina con tanto affanno e tanta angustia come la concupiscenza e il desiderio. Preferiremmo tacerlo, pure è vero il detto che bellezza genera vituperio. La fiorente Isotta, questa meravigliosa bellezza, abbagliò così fortemente il re, internamente ed esternamente, negli occhi e nella mente, che egli non sapeva più vedere in lei nulla che potesse far pensare a male e quello che di lei sapeva era solamente tutto il meglio. Per concludere il mio dire, egli era così contento di starle vicino che non si curava di qualunque male da lei gli provenisse.

E' difficile occultare quello che sta sempre chiuso e sigillato dentro al cuore. Ci si occupa volontieri di ciò che angustia la mente; l'occhio ritorna al suo oggetto; occhio e cuore rintracciano con diletto le orme delle gioie passate e colui che vuole impedire loro questo piacere non fa che renderglielo più caro. Così quanto più si cerca di distoglierneli, tanto più tenacemente vi aderiscono. Così fecero anche Isotta e Tristano: appena la loro gioia e il loro piacere vennero limitati dalla cautela, ne ebbero angoscia e pena. La seducente brama faceva loro ancora più male di prima; erano attratti l'uno verso l'altro più angosciosamente e dolorosamente di quanto lo fossero mai stati finora. L'oppressione della malaugurata prudenza pesava, grave come una montagna di piombo, sul loro animo. La maledetta prudenza, nemica della Minne, ottenebrava il loro senno. Isotta, lontano da Tristano, era di nuovo in pene e angoscia: questa lontananza da lui era la sua morte. Quanto più il suo signore le vietava ogni rapporto con lui, tantop iù il suo pensiero e la sua mente erano in lui assorti. C'è un detto vero che la prudenza porta e genera soltanto rovi e spine se la si coltiva; è essa la spina pungente che fa inaridire onore e fama e disonora anche quelle donne che meriterebbero di essere stimate se si facesse loro giustizia. Ma poiché si fa loro torto, il loro spirito si abbatte e così la sorveglianza le offende nello spirito e nell'onore. Eppure, comunque si faccia, la prudenza è sprecata per la donna, poiché nessun uomo riuscirà mai a sorvegliare una donna cattiva; la buona non deve essere sorvegliata perché, come si suol dire, si guarda da sé e le viene in odio chi inoltre vuol farle la guardia; e questi mette la donna in pericolo per il corpo e per l'onore e facilmente essa non ritornerà più al suo buon costume, senza che le rimanga attaccato qualche cosa di quello che la spina ha prodotto, poiché se accade che il rovo prenda una volta radice nel buon terreno, è più difficile sradicarlo di là che non nel terreno arido o altrove.

So bene che l'animo buono, a cui per tanto tempo si è fatto torto finché a causa di questo male diviene infecondo, produce frutto ancor peggiore dell'animo che è sempre stato cattivo. E questo è vero: l'ho letto. Perciò l'uomo saggio che tiene all'onore della donna non deve metterle intorno segretamente altra guardia che buoni consigli e ammaestramenti. In questo modo deve vigilarla e sappia che in verità meglio di così non potrà mai sorvegliarla, perché, sia essa buona o cattiva, se troppo spesso le viene fatta ingiustizia nasce facilmente in lei un risentimento che sarebbe bene evitare. Ogni brav'uomo e ognuno che abbia animo virile deve avere tanta fiducia nella propria moglie e anche in se stesso da credere che per amor suo essa eviti ogni intemperanza. Per quanto si faccia, non si potrà mai forzare l'amore della donna con cattive arti; queste spengono la Minne. La prudenza è una cattiva costumanza della Minne, essa risveglia rovinosa ira: allora la donna è perduta.

Assai bene farebbe colui che volesse rinunciare a proibizioni e divieti poiché questi generano nella donna grande dispetto e la spingono a fare, causa il divieto, quello che non farebbe se non fosse proibito. Questo cardo e questa spina pare le siano congeniti. Le donne di questo carattere sono figlie della loro madre Eva: fu essa che infranse il primo divieto: a lei Dio nostro Signore aveva concesso frutta e fiori ed erbe e tutto quello che c'era nel Paradiso terrestre perché ne usasse a suo talento, meno una sola cosa che le proibì per la vita e per la morte (i preti ci dicono che fosse il fico). Essa lo colse e infranse il comandamento di Dio e perdette se stessa e Dio. E' mia assoluta convinzione che non l'avrebbe mai fatto se non fosse stato proibito. Con la prima azione che compì rivelò la sua natura e fece quello che le era vietato. Se però si considera attentamente, Eva avrebbe certamente disprezzato quell'unico frutto, avendo tutti gli altri a sua disposizione e invece non volle che quello solo e con quello mangiò (sic) anche il suo onore.


Tali sono tutte le figlie di Eva che le somigliano. Anzi, se si potessero ancora fare divieti, quante Eve si troverebbero ancora al giorno d'oggi, che a causa della proibizione perderebbero se stesse e Dio! E poiché ciò proviene dalla loro stessa natura ed è questa che in loro lo produce, merita grande lode e onore colei che sa astenersene. Perché quando una donna agisce virtuosamente contro la sua propria natura e custodisce bene la sua fama, il suo onore e il suo corpo, è una donna solo di nome, ma ha un animo virile e bisogna tributarle in ogni cosa onore, lode e benedizione. Quando la donna rigetta da sé la sua natura femminea e ne distacca il cuore e assume un cuore virile, allora l'abete produce miele, la cicuta porta balsamo, la radice dalla quale nasceva l'ortica infiora di rose la terra.

Che cosa c'è nella donna di più puro che combattere con onore contro il suo corpo secondo il miglior diritto sia del corpo che dell'onore? Essa deve disporre il combattimento in modo che ad ambedue sia fatta giustizia e provveda a ognuno dei due in modo che l'altro non venga negletto. Non c'è donna assennata che trascuri il proprio onore per il corpo o il proprio corpo per l'onore, ma ha modo di mantenere ambedue. Non deve rinunciare ad alcuno dei due, ma sostenerli sia con l'amore che col dolore, così come è destinato. Sa Iddio che esse devono tutte crescere in dignità; con grande travaglio devono consacrare la loro vita alla virtù di temperanza, farne la regola dei loro sensi e l'ornamento della persona e dei costumi.

Tra tutte le creature che il sole illumina nessuna ve ne è di così avventurata come la donna che consacra anima corpo e vita alla temperanza e quindi ama e onora se stessa; e per tutto il tempo che essa è bene accetta a sé è anche giusto che sia benvoluta dal mondo. Una donna che agisce contro il proprio corpo e che dispone l'animo suo a odiare se stessa chi vorrà amarla? e colei che disprezza il proprio corpo e rende ciò palese al mondo, quale amore o quale onore può venirle tributato? Il desiderio è spento appena spunta, e si vorrebbe dare a questa vita senza nome l'altissimo nome di vita!

No, no, questa non è Minne, è la sua avversaria, la perfida, empia, malvagia avversaria che non merita il nome di donna, come veridicamente dice un proverbio: Colei che a molti dà amore da molti è disamata. Colei che si mette in mente che tutto il mondo la ami, pensi prima di tutto ad amare se stessa e mostri al mondo i segni della Minne: se è la vera traccia della Minne tutto il mondo l'amerà.

Una donna che vincendo se stessa dedica la propria femminilità a piacere al mondo merita che tutto il mondo l'apprezzi e la stimi, la adorni di fiori e la incoroni di quotidiani onori e così accresca la sua fama. Colui verso il quale lei è incline, al quale essa affida il suo corpo e lo spirito, il suo pensiero e il suo amore, questi è nato fortunato e prescelto e destinato a costante felicità; egli porta nascosto nel cuore un vero paradiso. Non deve temere che il rovo lo punga quando stende la mano, né che la spina lo ferisca quando coglie la rosa: qui non vi è né rovo né spina, qui l'asprezza del cardo non esiste più: la rosea pace ha sradicato spina cardo e rovo. In questo paradiso nulla che non sia gradito alla vista spunta dal ramo, cresce o rinverdisce; è la piena fioritura della bontà femminile. Altro frutto non vi è se non fedeltà o Minne, stima del mondo e onore.

Ah! in un tale paradiso così gaudioso e fiorito l'uomo dovrebbe trovare la felicità del cuore e godere la gioia degli occhi suoi. E che cosa di peggio che a questo tale sarebbe accaduto a Tristano e a Isotta? E chi mi ha seguito fino a qui non scambierebbe la sua vita con quella di Tristano? poiché in verità una donna virtuosa con quale cuore si dedica a colui al quale essa ha dato e affidato il suo onore e il suo corpo! Come si prende dolce cura di lui! Come tiene tutte le vie di lui sgombre da cardi e da spine e da ogni tristezza! Come lo protegge dalle pene di cuore, proprio come una qualunque Isotta il suo Tristano! E sono anche convinto che cercando bene si scoprirebbero ancora delle Isotte nelle quali si troverebbe tutto quello che si cerca.

Ora però dobbiamo ritornare a quanto dicevamo della prudenza: come avete udito, questa era tanto invisa ai due amanti, Tristano e Isotta, e il divieto li faceva tanto soffrire, che pensavano con ancor maggiore intensità di prima al loro destino, finché lo compirono per loro rovina: donde ne venne ad ambedue grande sventura e mortale dolore.

Era sul meriggio e il sole splendeva ardente, purtroppo anche sul loro onore. Due diversi soli brillavano nel cuore della regina e nel suo spirito: il sole e la Minne, il desiderio dell'animo e il calore della stagione la tormentavano col loro contrasto. Ora essa volle sfuggire alla lotta e al tormento e anche al caldo mediante un'astuzia nella quale restò lei stessa impigliata.

Si recò nel verziere per avere sollievo e andava in cerca di un'ombra propizia e di un luogo fresco, ombroso e appartato che le offrisse schermo e riparo. E appena lo ebbe trovato vi fece apprestare un ricco e bellissimo letto. Coltre e lenzuola erano di porpora e di bliat e stoffe regali furono stese sul letto e quando questo, il più bello che si potesse immaginare, fu pronto, la Bionda vi si coricò in camicia; alle ancelle ordinò di ritirarsi tutte, meno la sola Brangaene.

Venne allora spedito un messo a Tristano, che non mancasse di recarsi subito senza indugio a colloquio dalla regina. Ora, egli fece proprio come Adamo: mangiò il pomo che gli offriva la sua Eva e con questo mangiò insieme anche la morte. Egli giunse e Brangaene andò con le altre donne e si sedette fuori con loro in grande angustia. Ordinò ai camerieri di chiudere tutte le porte e di non lasciar passare alcuno senza un ordine espresso di lei di farlo entrare. Le porte furono serrate e Brangaene stando seduta pensava deplorandolo tra sé, che non c'era timore né cautela che potesse arrestare la sua signora.

Mentre era in questi pensieri, un cameriere uscì un momento e appena davanti alla porta gli venne incontro il re chiedendo molto impazientemente della regina.

"Essa dorme, credo, signore", rispose ognuna delle ancelle. La povera Brangaene tacque spaventata, la testa le ricadde sul petto, le tremarono le mani e il cuore. Il re parlò di nuovo:

"Orsù, ditemi, dove dorme la regina?".

Gli accennarono il verziere ed egli vi si recò immantinente per trovarvi il tormento del suo cuore: vide sposa e nipote con le braccia strettamente intrecciate, gota contro gota e la bocca sulla bocca l'uno dell'altro. Quello che si poteva vedere e che la coperta lasciava scorgere in alto, le braccia e le mani, le spalle e il petto erano tanto vicini, tanto strettamente allacciati e intrecciati come se fossero opera di oro e metallo insieme fusi e tale che più bella non avrebbe potuto essere. Tristano e la regina dormivano dolcemente non so dopo quali fatiche.
Quando il re vide così apertamente la sua disgrazia, ebbe finalmente e per la prima volta la certezza dolorosa del suo male; era ormai informato e libero da dubbio e da sospetto, suoi antichi oppressori; ora egli non supponeva più, ma sapeva: quella certezza che prima aveva tanto desiderato gli era ora tutta concessa. Io credo però che meglio sarebbe stato per lui supporre che sapere; quello che sempre si era sforzato di sapere per uscire dalla pena del dubbio, diveniva ora la sua vivente morte. Così si volse via in silenzio, chiamò a sé i suoi consiglieri e i suoi uomini e disse loro che gli era giunta notizia, come verità attendibile, che Tristano e la regina fossero insieme e che tutti dovevano andare con lui a sincerarsene e che, se ciò fosse risultato vero, si fosse subito fatto giudizio sul luogo stesso di tutti e due, secondo le leggi del regno.

Ora, appena il re si era scostato da accanto al letto, Tristano si svegliò e lo vide allontanarsi.

"Ahimè - esclamò -, che cosa avete fatto, fedele Brangaene! sa Iddio che temo che questo sonno ci costerà la vita. Destatevi, Isotta, povera donna, destatevi, regina del mio cuore! temo che siamo scoperti".

"Scoperti? - disse lei - e come?".

"Il re mio signore era qui davanti a noi, egli ci ha visti ambedue e io ho visto lui; se ne sta andando proprio ora e io so con certezza che devo morire; egli vuole condurre qui dei testimoni che lo aiutino a questo scopo, perché vuole la nostra morte. Signora del mio cuore, bella Isotta, dobbiamo ora separarci e probabilmente mai più ci troveremo insieme per nostra gioia come prima. Ora tenete a mente come abbiamo mantenuta pura la Minne fino a questa ora; badate che rimanga ancora ferma e salda e non mi escludete dal vostro cuore, perché in quanto al mio, voi non ne uscirete mai. Isotta resterà sempre nel cuore di Tristano. Ora vedete, amica del mio cuore, che questa separazione e questa partenza non mi allontani da voi; non mi dimenticate per nessuna ragione. Dûze âmie, bêle Isôt, baciatemi e datemi licenza".

Lei si ritrasse un poco e sospirando gli rispose:

"Signore, i nostri cuori e i nostri sensi sono stati troppo tempo e troppo strettamente congiunti perché possano mai apprendere che cosa significhi dimenticare. Che mi siate vicino o lontano, nel mio cuore non ci sarà vita né creatura vivente se non Tristano, mio cuore e mia vita. Signore, da gran tempo possedete di me anima e corpo; ora badate che nessun'altra donna mi divida da voi e che noi rimaniamo sempre confermati e rinnovati nell'amore e nella fedeltà che così lungamente e per tanto tempo è stata in noi così pura. E prendete questo anellino: sarà un pegno di fedeltà affinché qualora abbiate in mente di amare alcuna all'infuori di me, esso vi ricordi il mio cuore e questo momento. Pensate quanto dolorosa è questa separazione al nostro cuore e al nostro corpo; pensate a tutte le ore dolorose che ho passato per voi e non abbiate nessuno più caro della vostra amica Isotta. Non mi dimenticate per alcun'altra; noi due abbiamo sopportato amore e dolore insieme e tanto uniti fra noi fino a quest'ora che dovremo nutrire fino alla morte lo stesso sentimento e la stessa devozione. Signore, è inutile che io vi faccia altre raccomandazioni; se Isotta ebbe sempre un solo cuore e una sola fedeltà con Tristano, tali li ha ancora sempre e così deve sempre durare. Però voglio farvi una preghiera: in qualsiasi terra remota vi troviate, conservatevi bene voi, vita mia, poiché se dovessi essere priva di voi, mia vita, allora io, vita vostra, morirei. Per amor vostro, non per me stessa, io prenderò grande cura di me, che sono la vostra vita, di questo corpo che è vostro, perché so bene che del vostro corpo e della vostra vita sono responsabile io; noi siamo un solo corpo e una sola vita; ora pensate sempre a me, a Isotta, vita vostra; che io veda in voi la vita mia sempre e anche voi vediate la vostra in me; voi avete in mano le nostre due vite. Ora venite e baciatemi: Tristano e Isotta, voi e io, noi due saremo sempre una cosa sola. Questo bacio deve essere il suggello della nostra fedeltà fino alla morte, voi a me e io a voi, un solo Tristano e una sola Isotta".

Suggellato così questo discorso, Tristano partì con grande dolore e rammarico; l'altra sua vita, e l'altro suo io, Isotta, rimase con profondo duolo. I due amanti non si erano ancora mai separati con sì grande martirio come questa volta.

Intanto giunse il re conducendo con sé tutta la schiera dei suoi consiglieri. Venivano troppo tardi però, perché non trovarono che Isotta sola sul letto immersa nei suoi pensieri come prima. Dato che il re non aveva trovato che la sola sua Isotta, i consiglieri lo condussero subito via da quel luogo e gli dissero:

"Sire, voi agite molto male verso vostra moglie e verso il vostro onore, volendo tante volte e senza ragione trovare motivo d'accusa. Voi avete in odio il vostro onore, vostra moglie e più ancora voi stesso. Come potete essere felice se vi amareggiate ogni gioia con la vostra donna, ne fate ludibrio a corte e in tutto il paese, pur non avendo mai constatato cosa che possa essere contraria all'onore di lei? Di che cosa accusate la regina? perché volete vedere falsità nella regina che non usò mai inganno verso di voi? Sire, per il vostro onore, non fatelo mai più; per amore di voi stesso e per amor di Dio evitate una simile beffa".

Così dicendo lo condussero via ed egli li seguì e ancora una volta fece tacere la sua collera e se ne andò invendicato.
Tristano andò a casa sua, riunì tutti i suoi fidi e con loro si diresse subito al porto. Si imbarcò sulla prima nave che trovò e fece vela per la Normandia, egli e la sua compagnia tutta. Non vi rimase che breve tempo perché l'animo suo lo spronava a cercarsi una vita che potesse dargli forza e conforto nella sua tribolazione. Ora vedete che cosa strana: egli sfuggiva il duolo e il travaglio e cercava travaglio e duolo; fuggiva da Marco e dalla morte e cercava la pena mortale che gli uccidesse nel cuore quella per la separazione da Isotta. A che cosa serviva che egli là fuggisse dalla morte e qui le andasse incontro? A che serviva schivare il tormento in Cornovaglia mentre questo gli gravava addosso giorno e notte? Per la donna manteneva la propria vita e alla vita era perduto se non era insieme alla sua donna. Nessun essere vivente portava la morte al suo corpo e alla sua vita se non Isotta, la sua vita migliore. Così lo premevano morte e duolo. Ora egli si disse che questa pena non avrebbe mai potuto divenire sopportabile su questa terra, tanto da poterne guarire, se non per mezzo della cavalleria.

Si parlava allora di una grande guerra nella terra di Allemagna.

Tristano lo apprese e subito andò nella Champagne e di là passò in Allemagna dove servì così bene lo scettro e la corona che mai l'Impero Romano ebbe sotto le sue bandiere uomo altrettanto celebre per virile cavalleria. Ebbe fortuna e successo in tutte le avventure e le imprese guerresche che non starò qui a narrare, perché se volessi enumerare tutte le gesta che sono state scritte di lui, la storia diverrebbe qualche cosa di prodigioso. Devo gettare al vento le favole che vi si riferiscono; già la sola verità mi impone una fatica assai grave.

Isotta, vita di Tristano e sua morte, sua vivente morte, la fiorente Isotta, soffriva pena e angustia. Se non le si spezzò il cuore il giorno in cui vide partire Tristano e ne seguì la nave con lo sguardo, fu soltanto perché lo sapeva vivo: fu la vita di lui che la salvò; senza di lui non poteva vivere né morire, né comunque agire. Tanto la vita come la morte le erano avvelenate e non poteva né morire né vivere. La luce degli occhi suoi le veniva molte volte a mancare; la lingua nella bocca taceva sovente al bisogno. Tutto questo non era vita e non era morte, eppure vi era questa e quella, ma dal dolore erano confuse così che per lei l'una o l'altra era indifferente. Quando vide gonfiarsi le vele il suo cuore disse fra sé:

"Ahimè, ahimè, mio ser Tristano, tutto il mio cuore si attacca a voi, i miei occhi vi seguono e voi vi affrettate tanto ad allontanarvi! Come potete andar via da me così? Eppure so che se fuggite da Isotta, lasciate la vita vostra, poiché la vostra vita sono io e non potete vivere un solo giorno senza di me, come io non posso vivere senza di voi. Le nostre due persone e le nostre due vite sono talmente intrecciate fra loro e tanto insieme intessute che voi mi portate via la mia vita e mi lasciate qui la vostra. Mai ci furono due vite altrettanto fuse. Noi ci diamo vita e morte l'uno all'altro, poiché nessuno di noi due può vivere o morire se l'altro non glielo concede. Così la povera Isotta non è né interamente viva né morta. Non so da che parte rivolgermi. Or dunque mio ser Tristano, poiché voi siete con me un solo corpo e una sola vita, dovete insegnarmi come mantenere corpo e vita per voi e poi anche per me. Istruitemi dunque: perché tacete? Noi avremmo bisogno di buona dottrina. Ma che dico io, stolta Isotta? La parola di Tristano e il mio spirito se ne stanno andando via laggiù insieme. La vita e il corpo di Isotta sono in balìa della vela e dei venti. Dove posso trovare me stessa? dove mi posso cercare? dove, ora? Sono qui e anche costà e non sono né qua né là. Chi mai fu tanto smarrito quanto me? chi fu tanto diviso? mi vedo là su quel mare e sono qui a terra, viaggio con Tristano e sto qui presso Marco; in me morte e vita si combattono aspramente; ambedue mi avvelenano. Morirei volontieri, se potessi, se non mi trattenesse colui al quale è legata la mia vita. E non posso intanto vivere bene né per lui né per me stessa poiché devo vivere senza di lui. Egli mi lascia qui e se ne parte eppure sa bene che senza di lui io sono morta fin dentro nel cuore. Dio sa che questo mio discorso è ben inutile, perché il nostro dolore è comune e non lo porto io sola: è suo quanto mio e anzi penso che il suo debba essere maggiore. Il suo soffrire e la sua pena sono più grandi ancora. La separazione, se pur affligge l'animo mio, affligge ancor più il suo. Se mi fa male al cuore l'essere qui sola senza di lui, a lui questo duole anche più che a me. Se io lo rimpiango, egli rimpiange me, soltanto con minor ragione. Io mi dico con tutta verità che giustamente piango e mi affliggo per Tristano, poiché la mia vita è legata alla sua; invece a me è legata la sua morte, perciò egli piange senza bisogno; egli può andare lontano per mantenere il suo onore e la sua vita, visto che se rimanesse qui presso di me non potrebbe mai essere salvo; perciò io debbo adattarmi a stare senza di lui; per quanto io ne possa soffrire, egli non deve mai essere in pericolo alcuno per colpa mia. Per quanto dolorosa mi sia la sua assenza, pure ho assai più caro che stia lontano da me in buona salute, piuttosto che mi sia vicino e io debba temere che presso di me debba averne danno. Poiché, Dio sa che colui il quale vuole avere il proprio vantaggio con danno del suo amico poco amore gli porta. Per quanto male ne possa venire a me, io voglio essere amica di Tristano senza danno di lui; se egli sta bene e ha fortuna, non mi rammarico anche se debbo sempre soffrire: mi dominerò in tutte le mie azioni, rinuncerò a me e a lui affinché egli sia sano e salvo per me e per sé".

Tristano, secondo quanto ho letto, era in Allemagna da sei mesi o più e aveva gran desiderio di ritornare per avere qualche notizia e sapere che cosa si dicesse della sua signora. Si consigliò con se stesso e decise di ritornare là donde era venuto dapprima, andare in Normandia e di là passare in Parmenia presso i figli di Rual. Sperava di trovare anche lo stesso Rual e raccontargli la sua ventura. Purtroppo questi era morto e così pure sua moglie Florete. Sappiate però che i suoi figli si rallegrarono fino in fondo al cuore dell'arrivo di Tristano.

L'accoglienza che gli fecero fu affettuosa e sincera; gli baciarono ripetutamente le mani e i piedi, gli occhi e la bocca.

"Signore - gli dissero - in voi Dio ci ha ridonato padre e madre. Caro e buon signore, ora stabilitevi qui e riprendetevi tutto quello che doveva essere vostro e nostro e lasciateci vivere qui con voi, come con voi visse nostro padre che fu vostro fido vassallo e come vogliamo essere noi pure. Nostra madre, amica vostra, e nostro padre sono morti ambedue, ma ora Dio nella sua grazia ci ha in voi ricompensati riconducendovi qui a noi".

Il triste Tristano fu grandemente addolorato ed ebbe grande tristezza e afflizione e li pregò di condurlo alla tomba dei genitori. Vi si recò dolente e vi stette per un buon pezzo piangendo e lamentandosi e pronunciando il suo discorso funebre:

"Dichiaro innanzi a Dio - disse con gran fervore - che se mai dovesse accadere quaggiù, come ho udito dire da bambino, che l'onore e la fedeltà siano sepolti in terra, allora veramente essi giacciono qui seppelliti; e se onore e fedeltà hanno come dicono, parte in Dio, allora è certamente vero e non ne dubito, che ambedue, Rual e Florete, sono alla faccia di Dio che li ha dati al mondo per ornamento e bellezza, e ora sono incoronati là dove ricevono la loro corona i figli di Dio".

I degni figli di Rual offrirono poi a Tristano con spontanea reverenza la loro casa, la loro persona, i loro beni e il loro vassallaggio come meglio potevano. Erano sempre, a tutte le ore, pronti al suo servizio: quello che egli comandava era fatto in tutto e per tutto appena era possibile: lo accompagnarono con cavalieri e dame nei tornei, nelle cacce e in qualsiasi svago egli desiderasse.

Fra la Bretagna e l'Inghilterra si trovava un ducato chiamato Arundel, situato in riva al mare. Il Duca era valoroso, cortese e anziano e i suoi vicini, a quanto narra la storia, gli avevano fatto guerra e rapito la sua terra e i suoi diritti e lo avevano sopraffatto in terra e in mare. Egli avrebbe voluto dar loro battaglia, ma non ne era in grado. Aveva avuto da sua moglie un figlio e una figlia, perfetti ambedue nel corpo e nell'anima. Il figlio era stato armato cavaliere ed era bravo e pieno di vita; in tre anni si era già acquistato fama e onore. Sua sorella era bella e giovane e si chiamava Isotta as blansche mains; suo fratello Kaedin li frains, suo padre era il duca Jovelin, sua madre, la duchessa, era chiamata Karsie.

Ora Tristano in Parmenia udì che c'era guerra nella terra di Arundel e decise di prendervi parte per dimenticare alquanto la sua pena. Se ne partì dalla Parmenia e andò verso Arundel, a un castello dove si trovava il signore del paese: questo si chiamava Karke. Quivi per primo si fermò; padrone e famigli gli fecero quell'accoglienza che si conviene a un valoroso. Lo conoscevano già di fama. Tristano, come ci narra la storia, era noto per il suo valore in tutte le isole a occidente; perciò lo accolsero con gioia. Il Duca accettò il suo consiglio e le sue direttive e lo pregò di disporre del suo onore e di tutta la sua terra. Suo figlio, il cortese Kaedin, era molto devoto a Tristano e sempre intento al suo volere perché desiderava imparare da lui onore e dignità; a questo si applicava mettendovi tutto l'animo suo. Erano sempre insieme, a ogni ora e a ogni momento, sempre pronti al servizio l'uno dell'altro in ogni gara e in ogni disputa. Si erano promessi fra loro fedeltà e amicizia e la mantennero tutti e due sino alla fine.

L'esule Tristano chiamò Kaedin e con lui si recò dal Duca e gli domandò e lo pregò di narrargli fin dal principio la storia della guerra con i suoi nemici e da dove gli fosse derivato il danno maggiore che avesse sofferto. Venne informato allora di tutto, di come si fosse svolta la guerra e della posizione dei nemici e della direzione presa dalle loro truppe.

Ora, il Duca aveva sotto la sua giurisdizione un buon castello fortificato che stava proprio sulla via del nemico. Quivi si accampò Tristano col suo compagno Kaedin e con un piccolo manipolo di cavalieri. Non avevano forze sufficienti da potersi battere in qualunque momento in campo aperto, ma potevano soltanto di quando in quando furtivamente e in segreto danneggiare le terre del nemico con rapine e incendi.

Tristano mandò segretamente in Parmenia a dire ai suoi cari amici, i figli di Rual, che gli occorrevano dei cavalieri ben armati e li pregava per il loro onore e la loro virtù di assecondarlo e venirgli in aiuto. Essi gli inviarono subito cinquecento cavalcature e cavalieri bene attrezzati e grande provvista di viveri. Quando Tristano apprese che da casa sua gli venivano rinforzi, mosse egli stesso incontro a essi e li guidò nel paese di notte, in modo che nessuno se ne accorse, salvo quelli che gli erano amici e gli portavano aiuto. La metà di questi li lasciò a Karke ordinando loro di starsene chiusi e di non muoversi, chiunque li attaccasse, finché non giungessero egli con Kaedin e avessero dato l'assalto al nemico; soltanto allora dovevano tentare la loro fortuna. Prese quindi l'altra metà degli armati e ritornò al castello che gli era stato affidato. Anche là li condusse di notte e pure a questi raccomandò di stare nascosti con altrettanta attenzione quanta ne usavano quelli di Karke.

Al mattino, appena spuntò il giorno, Tristano scelse non meno di cento cavalieri; gli altri li lasciò nel forte. Pregò Kaedin di dire ai suoi che stessero attenti in caso egli fosse inseguito e gli venissero allora in aiuto da Karke e anche dal castello fortificato. Percorse poi a cavallo tutta la Marca, rapinando e incendiando apertamente nel paese, dovunque sapeva esservi fortezze e città fortificate del nemico.

Prima di notte era volata per tutto il paese la notizia che il fiero Kaedin era sceso in guerra aperta. Questa notizia turbò grandemente Ruggero di Doleise e Nautenis di Hante e Rigolin di Nantes, i duci del nemico; essi riunirono tutte le forze che poterono chiamare nella notte e che furono inviate. Il giorno seguente, sul meriggio, quando le loro schiere furono radunate, mossero contro Karke. Avevano con loro ben quattrocento e più cavalieri e intendevano e si preparavano ad accamparsi là come altre volte avevano fatto. Ma Tristano e il suo compagno Kaedin si misero sulle loro tracce, mentre quelli si ritenevano sicuri che in quel momento nessuno avrebbe osato combattere con loro. Ora quegli altri vennero in rapida corsa da tutte le parti e a nessuno pareva di fare abbastanza presto a raggiungere i nemici.

Quando questi si avvidero che bisognava ingaggiare battaglia, vi si prepararono subito e avanzarono tutti insieme. Nella mischia volarono spade e picche, si scontrarono destriero contro destriero, uomo contro uomo con tale ferocia che fu fatta gran carneficina. Grande strage fecero qui Tristano e Kaedin, là Ruggero e Rigolin. Ognuno otteneva e trovava quello che perseguiva sia con la spada che con la lancia. Si chiamavano l'un l'altro, qui: Chevalier Hante, Doleise e Nante!, là Karke e Arundel.

Allorché quelli della fortezza videro ingaggiata la battaglia, irruppero fuori delle porte da tutte le parti contro le schiere, le sgominarono in una lotta accanita. In breve tempo le dispersero cavalcando in mezzo a esse, menando colpi qua e là, come cinghiali in mezzo alle pecore. Tristano e il suo compagno Kaedin miravano agli stendardi e alle insegne che distinguevano i capi dei nemici. Ruggero, Rigolin e Nautenis furono fatti prigionieri e la loro compagnia ne ebbe grave danno. Tristano di Parmenia e i suoi uomini procedevano a cavallo abbattendo i nemici, uccidendoli e facendoli prigionieri. Quando questi videro che il combattimento si volgeva a loro sfavore cercarono, ognuno, di salvarsi e conservare la vita con la fuga o con l'astuzia: questa fu la preoccupazione di tutti. La fuga, la resa o anche la morte decisero le sorti della battaglia per una delle due parti.

Ora che la battaglia era stata vinta da una delle parti e che l'altra era stata sconfitta, e dopo che i prigionieri furono presi e custoditi là dove devono esserlo, Tristano e Kaedin riunirono tutti i loro cavalieri e tutte le loro forze e si diressero in primo luogo verso le terre dovunque si trovavano dei nemici o si vedevano proprietà loro; sia beni che città o castelli, tutto veniva distrutto dove si trovava; le spoglie e il bottino erano mandati a Karke. Sottomessa tutta la marca nemica, compiuta la loro vendetta e conquistato tutto il paese, Tristano rimandò in Parmenia la sua masnada, ringraziandola dell'onore e dell'aiuto che ne aveva ricevuto. Partiti questi, Tristano, il saggio, dispose che i prigionieri venissero a fare omaggio al duca e ricevessero da lui quanto dei loro beni egli volesse render loro e anche la parola del perdono, e che gli dessero garanzia che non avrebbero mai più fatto danno al paese con la loro inimicizia e per causa loro. E tutti furono d'accordo, i capi e i loro uomini.

Tutto questo valse a Tristano grandi lodi e grande onore dalla corte e da tutto il paese. Paese e corte celebravano il suo senno e il suo valore ed erano pronti a ogni suo volere.

La sorella di Kaedin, Isotta dalle bianche mani, il fiore della sua terra, era nobile e saggia e si era talmente distinta per fama e per virtù che tutto il paese le era devoto e non parlava che delle sue perfezioni. Vedendola così bella, nel cuore di Tristano si rinnovarono l'antico dolore e il rimpianto. Essa gli rammentava tanto l'altra Isotta, la bella d'Irlanda, e poiché anche questa si chiamava Isotta, ogni volta che il suo occhio si posava su di lei, udendo quel nome diventava così triste e disperato che si poteva leggergli negli occhi il duolo del cuore. Pure, egli amava il suo dolore e lo conservava nell'intimo suo: lo trovava dolce, lo trovava buono, diligeva questa sua tristezza; perciò quando vedeva la fanciulla, la guardava volentieri, perché il dolore che provava per la bionda gli era più caro di qualsiasi gioia. Isotta era la sua felicità e il suo tormento, Isotta il suo smarrimento, gli faceva bene, gli faceva male; quanto più Isotta col suo nome gli spezzava il cuore, tanto più caro gli era rimirare Isotta.

Sovente diceva fra sé:

"Ah! dê bénie, come questo nome mi rende confuso; scambia ai miei occhi e nella mia mente il vero e il falso, mi produce grande e strana pena: Isotta mi ride e mi scherza continuamente all'orecchio, eppure non so dove Isotta sia: il mio occhio vede Isotta, eppure non vede Isotta. Isotta mi è lontana e mi è vicina; temo di essere di nuovo ammaliato dalle Isotte. Mi pare che la Cornovaglia sia divenuta Arundel, che Tintajoel sia diventato Karke e Isotta l'altra Isotta. Ogni volta che qualcuno parla di questa fanciulla dal nome di Isotta mi pare di avere ritrovato Isotta; così anche in questo resto deluso. Che strana cosa accade in me! Da tanto tempo bramo di rivedere Isotta; ora sono venuto in un luogo dove Isotta c'è, eppure non è la bionda che mi fa così dolcemente soffrire. E' Isotta che ha volto il mio spirito verso questi pensieri che mi occupano il cuore; è quella di Arundel e non Isotta la bella, che i miei occhi purtroppo non scorgono. Per tutto quello che il mio occhio vede e che porta il suo nome io avrò sempre affetto e cuore amoroso e sarò grato al caro nome che così sovente mi ha dato gioia e gaudiosa vita".

Tali discorsi faceva Tristano spesso fra sé quando mirava la sua dolce pena, Isotta as blansche mains. Essa gli riaccendeva nell'anima il fuoco che giorno e notte gli covava nel cuore; egli non pensava più a imprese serie o cavalleresche: cuore e sensi erano solo rivolti alla Minne e al piacere. Solo il piacere cercava e lo perseguiva in strano modo, voleva avere amore e insieme illusione di amore per la fanciulla Isotta, voleva piegare l'animo suo all'amore per lei nella speranza che il fardello della sua nostalgia ne potesse essere alleggerito.

Volgeva spesso verso di lei i suoi teneri sguardi e gliene indirizzava tanti che essa per forza si dovette accorgere che il cuore di lui nutriva per lei affetto. Già in principio lei lo aveva molto avuto nel pensiero, vedendo quale fosse la sua fama presso la corte e il popolo; da allora il suo cuore era a lui rivolto e quando a caso lo sguardo di Tristano si posava su di lei, glielo rendeva così amorosamente, che egli cominciò a pensare in qual modo potesse procurare che tutto il suo duolo ne venisse blandito e sempre più vi rifletteva; la rimirava sera e mattina e ogni volta che gli era possibile.

Ben presto accadde che Kaedin si avvide di questi loro sguardi e allora condusse Tristano con sé più spesso di prima, poiché nutriva la speranza che il suo cuore si attaccasse a lei e allora l'avrebbe sposata e sarebbe rimasto con loro e avrebbe anche portato a buon termine con lui la loro guerra in tutto il ducato. Quindi raccomandò caldamente a sua sorella Isotta che parlando con Tristano gli si mostrasse benevola, ma solo in quanto egli stesso (suo fratello) glielo suggeriva, ma che non facesse atto alcuno senza il consiglio del loro padre o di lui stesso. Isotta aderì alla sua richiesta, tanto più che anche lei vi era propensa e così fece con Tristano. Cominciò a rivolgerglisi con discorsi, atteggiamenti e tutto ciò che può attrarre il pensiero e risvegliare nel cuore la Minne, in mille guise e in tutti i modi, finché lo infiammò e il nome di lei prese a suonargli dolce all'orecchio, mentre prima gli suonava aspro. Vedeva e udiva Isotta con piacere maggiore di quanto volesse; lo stesso accadeva a Isotta con lui. Essa ne era attratta e godeva nel vederlo; egli pensava a lei ed essa a lui; così si promisero fra loro affetto e amicizia e lo attuarono con grande impegno quando potevano farlo opportunamente.

Un giorno Tristano stava seduto riandando col pensiero al suo antico dolore e considerava nel suo cuore le molte e svariate pene che Isotta, l'altra sua vita, la bionda regina, la chiave della sua Minne, aveva sofferto per lui, restando così costante in tutte le prove. Molto si rattristò e si dolse ripensando che, all'infuori di Isotta, egli mai prima di allora aveva provato inclinazione amorosa verso donna alcuna, né mai ad alcuna aveva pensato. Con dolore disse a se stesso:

"Infedele! che cosa faccio? io so bene, e ne sono sicuro come della morte, che Isotta, mio cuore e vita mia, verso la quale io così stoltamente mi conduco, non ama né pensa ad alcuna creatura sulla terra, né alcuna può esserle cara se non io solo. Ed ecco che io amo e penso a una vita che non è la sua. Non so che cosa mi abbia cambiato; che cosa mi è avvenuto, infedele Tristano? amo due Isotte e voglio bene a tutte e due, e invece l'altra mia vita, Isotta, non vuole bene che a un solo Tristano. Essa non vuole altro Tristano che me e io corteggio un'altra Isotta. Guai a te, o uomo dissennato, sconsigliato Tristano! abbandona questa cieca stoltezza, lascia questa ingratitudine".

Così controllò di nuovo la sua volontà, rinunciò alla Minne e all'inclinazione che sentiva per la fanciulla Isotta. Usava tuttavia con lei così dolci modi che essa credeva di vedervi la prova del suo amore; ma la realtà era un'altra e le cose andarono come dovevano andare. Isotta aveva portato via ad Isotta parte dell'animo di Tristano; ma Tristano era nuovamente rivolto all'antico amore; il suo cuore e i suoi sensi coltivavano soltanto il loro antico dolore. Pure egli continuava sempre nella sua cortesia; vedendo nella fanciulla la nostalgica inquietudine che in lei cominciava a manifestarsi, mise ogni impegno a farle piacere: le raccontava belle novelle, cantava, scriveva per lei, leggeva e pensava a tutto quello che potesse divagarla, le teneva compagnia, le abbreviava le ore ora con la parola, ora con la mano; per ogni sorta di strumenti Tristano sapeva e trovava lai e belle canzoni che fino adesso sono ancora in voga, e in quel tempo compose anche il nobile Laio di Tristano, che sarà dappertutto amato e apprezzato finché durerà il mondo. Sovente accadeva che quando erano radunati i famigliari, Isotta e Kaedin, il duca e la duchessa, le dame e i baroni, egli componesse delle canzoni, dei rondò e delle ariette cortesi e cantasse questo ritornello:

Isôt ma drûe, Isôt m'âmie
en vûs ma mort, en vûs ma vie.

E poiché tanto gli piaceva cantarlo, tutti pensavano e credevano che intendesse la loro Isotta e se ne rallegravano assai - nessuno tuttavia più del suo amico Kaedin: questi gli era sempre dappresso in casa e fuori e gli metteva sempre la sorella vicino. Essa ne era ben lieta, lo prendeva per mano e gli dedicava tutta la sua attenzione; i suoi chiari occhi e il suo pensiero erano a lui rivolti; qualche volta la debole fanciulla gettava via la modestia e la verecondia e metteva apertamente la mano nella sua, come se lo facesse solamente per compiacere Kaedin, ma comunque egli ve la incitasse, essa stessa ne traeva gioia. Si fece così amabile verso Tristano, così vezzosa e ridente, così loquace e vezzosa, scherzosa e suadente, finché di nuovo lo riaccese ed egli ricominciò ancora a tentennare nel suo amore con l'animo e col pensiero: era in dubbio riguardo a Isotta, se voleva o non voleva. Gli faceva anche veramente pena che lei gli dimostrasse tanto affetto.

Spesso pensava tra sé:

"Voglio o non voglio? mi pare di no, mi pare di sì".

Ma allora sopravveniva la costanza:
"No - diceva - ser Tristano, pensa alla tua fedeltà verso Isotta, ricordati della fedele Isotta che non si allontanò mai un passo da te".

Così egli era ripreso da questo pensiero e in tale tormento per l'amore di Isotta, la regina del suo cuore, che mutò modi e costume e non trovò ovunque se non tristezza. Anche quando andava da Isotta e conversava con lei, dimenticava se stesso e le stava accanto sospirando: la sua segreta pena divenne così palese che tutti credevano che la sua inquietudine e la sua tristezza fossero per causa di Isotta. E in verità avevano ragione: la tristezza e il duolo di Tristano erano, sì, per Isotta, Isotta era il suo tormento, ma non la Isotta che essi avevano in mente, non quella dalle bianche mani: era Isotta la bele, non questa di Arundel, come invece tutti credevano. E lo credeva la stessa Isotta, ma in ciò si ingannava poiché essa aveva per Tristano desiderio ancor maggiore di quanto egli non ne avesse mai avuto per alcuna sua Isotta.

Così ambedue passavano le ore con diverso duolo. Tutti e due soffrivano dolore e desiderio, sebbene in modo differente; la loro Minne e il loro intento non si accordavano; né Tristano né la fanciulla Isotta camminavano sulla via del reciproco amore. Tristano desiderava con forza un'altra Isotta, e Isotta non voleva alcun altro Tristano, essa dalle bianche mani amava e voleva lui solo; a lui erano attaccati il suo cuore e il suo pensiero, la tristezza di lui formava la sua inquietudine e quando talvolta lo vedeva impallidire in volto e lo udiva sospirare così profondamente, allora lo guardava teneramente e sospirava con lui. Come è uso di buona compagna, portava insieme a lui la sua pena, sebbene questa non la riguardasse. Il dolore di lui la desolava tanto che ne pativa per Tristano più che lui stesso.

L'amore e la bontà che essa gli dimostrava così costantemente lo rattristavano molto; sentiva compassione di lei che gli aveva donato inutilmente tanto del suo amore e messo il cuore in una speranza così vana. Pure, continuava il suo viver cortese e vi si applicava a tutte le ore quanto più dolcemente poteva con gli atteggiamenti e le novelle e avrebbe con tutto il cuore voluto liberarla da quella pena. Ma ormai essa ne era troppo e troppo profondamente presa e quanto più egli vi si sforzava e affaticava, tanto più la fanciulla di ora in ora si infiammava di lui, sin quando finalmente la Minne la vinse ed essa gli rivolse sguardi, parole e gesti così soavi che egli per la terza volta ricadde nel suo stato penoso di dubbio e di nuovo la navicella del suo cuore ricominciò a ondeggiare incerta fra pensieri contraddittori. E questo non deve destare meraviglia, poiché sa Iddio come il piacere che sta a tutte le ore e a ogni tempo sorridente davanti agli occhi dell'uomo, abbagli lo sguardo e la mente di lui e trascini anche il cuore.

Da questa storia gli amanti possono conoscere che si sopporta molto meglio un lontano dolore per un amore lontano, piuttosto che essere accanto alla Minne senza amore vicino. Infatti, se il mio ragionamento è giusto, è più facile rinunciare alla Minne lontana e da lontano desiderarla, che desiderarla e rinunciarvi da vicino; e rinunciare alla Minne lontana è più agevole che sottrarsi a quella vicina. In questo si smarrì Tristano: egli bramava una Minne lontana e pativa grande dolore per quella che non vedeva né udiva e intanto si sottraeva a questa vicina che i suoi occhi miravano sovente. Desiderava sempre la chiara, la bionda Isotta d'Irlanda e sfuggiva la fiera fanciulla di Karke dalle bianche mani. Si tormentava tanto per quella e si ritraeva qui da questa; così veniva a perderle ambedue. Voleva e non voleva l'una e l'altra Isotta; sfuggiva questa e cercava quella.

Pure la fanciulla Isotta aveva ingenuamente riposto in lui ogni suo desiderio, la sua fiducia e la sua costanza; desiderava colui che l'abbandonava e inseguiva colui che la sfuggiva; e ciò perché si ingannava. Tristano le aveva tanto mentito con quel suo doppio agire, con gli occhi e con la bocca, che essa si credeva sicura del cuore e dell'intenzione di lui, e fra le seduzioni di Tristano quella che più a lui la teneva avvinta era l'udirlo sovente cantare:

Isôt ma drûe, Isôt m'âmie, en vûs ma mort, en vûs ma vie;

Questo le rapiva il cuore e faceva nascere in lei l'amore.

Ella prendeva queste parole tutte per sé inseguendolo da vicino così dolcemente che per la quarta volta la Minne lo raggiunse mentre fuggiva da lei e lo trasse nuovamente a sé, in modo che egli fu di nuovo ripreso e di nuovo giorno e notte pensava e meditava angosciosamente sulla vita sua e su di sé.

"Ah, Signore! - pensava - come mi ha smagato l'amore! questo amore che mi fa smarrire il senno e mi prende anima e corpo e tanto mi opprime, se in qualche modo potrò calmarlo ciò non potrà avvenire che per mezzo di un amore estraneo: ho letto e ne sono convinto, che una passione toglie forza all'altra. Il letto del Reno e il suo corso, per grande che sia, non lo è mai tanto, in nessun punto, che non possa farne scorrere in singoli rivi tanta acqua da indebolirlo e limitarne la forza. Così il poderoso Reno diviene un piccolo Renino. Nessun fuoco ha tanta forza, se ci si pensa bene, che non arderebbe più debolmente se si sottraessero molti singoli tizzoni. Lo stesso accade a colui che ama: questi pure può fare lo stesso gioco: egli può tanto e tanto spesso far defluire l'animo suo in singoli rivi, può in tanti modi dividerlo e distrarlo fino a che diventi tanto debole che poco danno provochi. Questo può accadere anche a me, se vorrò dividere e spartire il mio amore e il mio affetto fra molte invece di darlo a una sola. Se rivolgessi il mio pensiero a più di una Minne forse diverrei un Tristano senza tristezza.

Ora devo tentare la prova: se la mia buona ventura lo permette, è ora di cominciare, poiché la fedeltà e l'amore per la mia dama non mi portano alcun vantaggio; io spreco per lei corpo e anima, vita e salute e non trovo alcun conforto né per la salute né per la vita. Soffro quindi invano questa tristezza e questo duolo. Ah, dolce "âmie", cara Isotta, è troppa la separazione della nostra vita. E' ben diverso da una volta quando portavamo insieme il bene e il male, avevamo un unico amore, un unico soffrire; ora purtroppo non è più così. Ora io sono triste e voi gaia, tutti i miei sensi sono tesi verso la vostra dolce Minne e i vostri invece mi pare che poco tendano a me. Il piacere che io mi rifiuto in voi, voi lo concedete, ahimè, ogni volta che vi piace. Voi avete già il vostro compagno, Marco, il vostro sposo e siete sempre uniti; io sono straniero e solo. Credo che non sarò mai più confortato da voi, eppure non posso distogliere da voi il mio cuore. Perché mi avete rapito a me stesso se tanto poco mi desiderate e così facilmente rinunciate a me? O dolce regina Isotta, come scorre angosciosa la mia vita per causa vostra, mentre di me tanto poco vi cale, che non mi avete da allora mandato un messaggio, né fatto inchiesta sulla mia vita, o mandato per me!

Lei mandare per me? ah, che dico? dove dovrebbe mandare per me e come informarsi della mia vita? da tanto tempo io sono in balìa dei venti incostanti, come potrebbe trovarmi? non posso neppure figurarmi come: se mi si cerca qui io sono là, se mi si cerca là io sono qui: come trovarmi e dove? Come trovarmi? dove sono: ma i paesi non fuggono in altri luoghi e io sono pur nel paese: là si troverebbe anche Tristano. Colui che ci si mettesse con impegno cercherebbe finché non mi trova, poiché a chi vuol cercare un pellegrino non è assegnata meta sicura per la sua indagine ed egli deve bene o male impiegarvi tutte le sue forze se vuol concludere qualche cosa. La mia dama, dalla quale la mia vita intera dipende, avrebbe, Dio lo sa, in tutto questo tempo dovuto mandare segretamente per me in tutta la Cornovaglia e l'Inghilterra, la Francia e la Normandia, nella mia terra di Parmenia o dovunque corresse rumore che vi fosse il suo amico Tristano; avrebbe dovuto indagare dappertutto se le fosse importato di me: ma invece essa non si occupa di me, che pure a lei penso e la amo più che il corpo e l'anima mia. Per lei sfuggo qualsiasi altra donna e devo essere privo anche di lei stessa. Io non posso richiedere da lei nulla di quello che in questo mondo mi dovrebbe procurare gioia e gaudiosa vita".

[Qui si interrompe l'opera di Goffredo di Strasburgo, a causa della morte dell'autore secondo l'opinione comune, nei primi decenni del tredicesimo secolo].

NOTE

1. "Refloit", danza e motivo di danza; "Stampenie", ballo popolare.

2. "Kemenate", appartamento delle donne.

3. "Harnschar", castigo usato per i vassalli infedeli; qui inteso come segno di scarsa dignità del cavaliere.