GIUSEPPE VERDI 1813 - 1901

ARRIGO BOITO 1842 - 1918



NABUCCO 1842

MACBETH I 1847

RIGOLETTO - TROVATORE - TRAVIATA
---------1851-----------1853--------1853---------

DAL 1839 AL 1853 (14 ANNI)
VERDI COMPOSE
18 OPERE
"anni di galera"

DAL 1853 al 1893 (40 ANNI)
VERDI COMPOSE
8 OPERE
e
4 RIFACIMENTI DI OPERE PRECEDENTI

DON CARLOS 1867

AIDA 1871

MESSA DA REQUIEM 1874

SIMON BOCCANEGRA II 1881

OTELLO
1887

FALSTAFF

1893

GIUSEPPE VERDI WEBSITE

FERRUCCIO BUSONI WEBSITE

© Laureto Rodoni

1813 Nasce il 10 ottobre alle Roncole, frazione di Busseto. Il padre, Carlo, è l'oste del luogo, con uno spaccio di generi alla rinfusa; la madre, Luigia Uttini, filatrice, discende da certi proprietari di locanda nel Piacentino (Saliceto di Cadeo).

1821 Primo avvio alla musica con Pietro Baistrocchi, organista alle Roncole. In casa Giuseppe trascorre ore su una vecchia spinetta: un dono dei genitori e di un artigiano locale, Stefano Cavalletti ("vedendo la buona disposizione che ha il giovinetto Giuseppe Verdi [...] che questo mi basta per essere del tutto pagato").

1823 Nel mese di novembre entra al ginnasio di Busseto; messo a pigione dal ciabattino "Pugnatta", lascia le Roncole e la famiglia.

1825 Sugli studi generali (grammatica e retorica) ha il sopravvento la musica, con le lezioni del maestro di cappella Ferdinando Provesi. Intanto, morto il Baistrocchi, Giuseppe ha preso il suo posto alle Roncole; nei giorni di festa, solo, raggiunge a piedi la vecchia chiesa sul ciglio della strada.

1828 Prime prove di composizione, sconfessate e distrutte dal Verdi maturo: marce per banda, pezzi sacri, cantate, persino una sinfonia per il Barbiere rossiniano, rappresentato al teatro di Busseto.

1829 Comincia a sostituire il Provesi nelle sue vane mansioni all'organo, nella locale scuola di musica, alle prove della Società filarmonica. Con un attestato del maestro concorre, senza fortuna, per il posto di organista a Soragna.

1831 Baistrocchi, Provesi: il terzetto dei primi sostenitori di Verdi si completa con Antonio Barezzi, personaggio influente in paese, uomo positivo e progressivo, "commerciante in coloniali" e, come tale, fornitore dello spaccio alle Roncole. Sin dall'inizio ha intuito le doti del ragazzo, favorendo (quasi imponendo) gli studi e il trasferimento a Busseto; ora lo accoglie in casa, con i suoi sei figli: la sera si fa spesso musica (Barezzi è tra i fondatori della Filarmonica), e da tempo Giuseppe è il pupillo di queste riunioni fra dilettanti.

Dagli anni 13 fino agli anni 18 (epoca in cui venni a studiare il contrappunto in Milano [1826-1831]) ho scritto una farragine di pezzi: Marcie per banda a centinaja: forse altrettante piccole Sinfonie che servivano per Chiesa; pel Teatro, e per accademie: cinque o sei tra concerti e variazioni per Piano forte che io stesso suonava nelle accademie: molte serenate: cantate, (arie, duetti, moltissimi terzetti) e diversi pezzi da chiesa di cui non ricordo che uno Stabat-Mater. Nei tre anni che fui a Milano scrissi pochissimi pezzi ideali: due Sinfonie che furono eseguite a Milano in una accademia privata [...]; una cantata che fu eseguita in casa Borromeo (conte Renato) e diversi pezzi la maggior parte buffi che il Maestro mi faceva fare per esercizio, e che non furono nemmeno istromentati. Ritornato in patria ricominciai a scrivere Marcie, Sinfonie, pezzi vocali etc. una Messa intiera, un Vespero intiero, tre o quattro Tantum ergo ed altri pezzi sacri che non ricordo. Fra i pezzi vecchi vi sono i Cori delle Tragedie di Manzoni a tre voci, ed Il Cinque Maggio a una sola. [...] (Lettera a


1832 Il Monte di Pietà di Busseto concede una borsa di studio, ma a una condizione: sarà Barezzi, in qualità di garante, ad assumerne inizialmente l'onere; il Monte interverrà in un secondo tempo, allo scadere (novembre 1833) dei sussidi già in corso. La spesa e il rischio, di per sé notevoli, aumentano ancora dopo un celebre episodio, divenuto presto leggenda: giunto a Milano, Verdi non viene ammesso al Conservatorio; la mano è male impostata, ed è tardi ormai per tentare di correggerla; il ragazzo d'altronde ha superato i limiti d'età e non è neppure suddito del Lombardo-Veneto. Barezzi non si dà per vinto, e finanzia - pressoché da solo - il mantenimento in città e le lezioni private: per tre anni Verdi studia contrappunto e i classici con Vincenzo Lavigna, maestro al cembalo alla Scala e allievo favorito di Paisiello.

Non nel 1833, ma nel 1832 nel mese di giugno (non aveva compiti 19 anni) feci domanda in iscritto per essere ammesso come alunno pagante al Conservatorio di Milano. Di più subii una specie di esame al Conservatorio presentando alcune mie composizioni, e suonando un pezzo sul pianoforte dinanzi a Basily, a Piantanida, Angeleri ed altri ecc. ecc., più il vecchio Rolla, al quale ero raccomandato dal mio maestro di Busseto, Ferdinando Provesi. - Circa otto giorni dopo mi recai dal Rolla il quale mi disse: Non pensate più al Conservatorio: scegliete un maestro in città: io vi consiglio o Lavigna o Negri.
Non seppi più nulla del Conservatorio. Nissuno rispose alla mia domanda. Nissuno mi parlò, né prima, né dopo l'esame, del Regolamento. E non so nulla del giudizio di Basily narrato da Fétis. Ecco tutto!
[Lettera a Jacopo Caponi, 11.10.1880]


1833 Con la morte del Provesi iniziano le manovre per la successione: a Verdi, sostenuto da Barezzi, il prevosto oppone tale Giovanni Ferrari, maestro di cappella (provvisorio) a Guastalla e devoto padre di cinque figli; la contesa, come è facile immaginare, divide e infiamma Busseto, e finirà per segnare - con il precedente della borsa di studio - l'atteggiamento di Verdi verso il proprio ambiente.

1834 Introdotto da Lavigna, partecipa alle prove dei nobili Filarmonici milanesi: in un'occasione, durante il mese di aprile, subentra ai maestri accompagnatori, e concerta al cembalo l'oratorio La creazione di Haydn.

Io allora ero fresco di studi e certo non mi trovavo imbarazzato innanzi ad una partitura d'orchestra: accettai, sedetti al pianoforte per cominciare la prova. [...] a poco a poco riscaldandomi ed eccitandomi, non solo mi limitai ad accompagnare, ma cominciai anche a dirigere colla mano destra, suonando colla sola sinistra: ebbi un vero successo, tanto più grande quanto più inaspettato. Finita la prova, complimenti, congratulazioni da ogni parte [...] [Lettera a Giulio Ricordi, 19.10.1879]

Frequenta con assiduità la Scala (un altro suggerimento di Lavigna), in stagioni dominate dalle opere di Mercadante e Donizetti. Di questi anni si conserva solo un'aria, Io la vidi, con correzioni d'altra mano nello strumentale.

1836 A Parma il 28 febbraio supera l'esame per il posto di "maestro di musica" a Busseto; al Ferrari, eletto nel 1834 con un colpo di mano, resta solo l'organo della Collegiata. Il 4 maggio sposa Margherita Barezzi; meta del viaggio di nozze è naturalmente Milano, ai cui miraggi il "maestrino" non intende ora rinunciare: è il tempo del Rocester, il nebuloso progetto di un'opera mai rappresentata, rifluita forse (non ne è rimasta una sola nota) nell'Oberto Conte di San Bonifacio.

Il Massini [...] mi propose allora di scrivere un'opera pel teatro Filodrammatico ch'esso dirigeva, e mi consegnò un libretto che poi, in parte modificato da Solera, diventò l'
Oberto di San Bonifacio. Accettai con piacere l'offerta e me ne tornai a Busseto, ove ero impegnato nella qualità d'organista. Rimasi a Busseto circa tre anni; terminata l'opera, intrapresi di nuovo il viaggio per Milano portando con me l'intero spartito in perfetto ordine, avendo fatta la fatica di copiare e cavare da me solo tutte le parti di canto. [ibidem]

1838 Pubblica presso l'editore Canti, a Milano, Sei romanze per voce e pianoforte. In agosto perde la prima figlia, Virginia, di soli sedici mesi; anche Icilio, appena nato, morirà all'incirca alla stessa età.

1839 Lascia Busseto, il posto di maestro, il mondo che lo ha visto crescere, e si trasferisce con la moglie a Milano (6 febbraio). Non è un salto nel buio: alla Scala è in programma Oberto, conte di San Bonifacio, su un libretto riveduto da Temistocle Solera; sospesa e rinviata all'autunno, l'opera ha un esito promettente, con quattordici repliche dopo la "prima" del 17 novembre: l'impresario Merelli offre a Verdi un contratto per tre nuovi titoli (uno comico), mentre Ricordi, con infallibile fiuto, si assicura la stampa dell'Oberto. Pubblica brevi pagine presso l'editore Canti: L'esule (testo di Solera) e La seduzione (L. Balestra) per voce e pianoforte; Guarda che bianca luna (J. Vittorelli), notturno per soprano, tenore e basso, con flauto obbligato.

1840 Contraccolpo tragico e amaro: il 18 giugno muore la moglie, Margherita; il 5 settembre la nuova opera comica, Un giorno di regno, su un antiquato libretto di Felice Romani (Il finto Stanislao, 1818), cade senza appello alla Scala (nessuna replica).

Io abitavo in allora un modesto e piccolo quartiere nei pressi di Porta Ticinese, ed avevo meco la mia famigliola, la mia giovane moglie Margherita Barezzi, cioè, e due figlioletti. Tosto che mi accinsi al lavoro, fui colpito da grave angina, che mi tenne lunghi giorni a letto; appena cominciò la convalescenza, mi sovvenni che fra tre giorni scadeva l'affitto, per cui occorrevano 50 scudi. [...] Ma qui cominciano gravi sventure: il mio bambino si ammala al principio di aprile: i medici non riescono a capire quale sia il suo male, ed il poverino languendo si spegne nelle braccia della madre disperatissima. Né basta: dopo pochi giorni la bambina cade a sua volta malata!... e la malattia ha pure un fine letale!... ma non basta ancora: ai primi di giugno la giovane mia compagna è colpita da violenta encefalite ed il 19 giugno 1840 una terza bara esce da casa mia! ... Ero solo!... solo!... Nel volgere di circa due mesi tre persone a me care erano sparite per sempre: la mia famiglia era distrutta!... In mezzo a queste angoscie terribili, per non mancare all'impegno assunto, dovetti scrivere e condurre a termine un'opera buffa!... Un giorno di Regno non piacque: vi ebbe di certo una parte di colpa la musica, ma una parte pure vi ebbe l'esecuzione. Coll'animo straziato dalle sventure domestiche, esacerbato dall'insuccesso del mio lavoro, mi persuasi che dall'arte avrei invano aspettato consolazioni, e decisi di non comporre mai più! [...]
[ibidem]

Tu [Tito Ricordi] ti meravigli della sconvenienza del pubblico? A me non sorprende affatto. Egli è sempre felice quando può arrivare a far scandalo! All'età di 25 anni io pure aveva delle illusioni, e credeva alla sua cortesia; un anno dopo mi cadde la benda e vidi con chi aveva a fare. Mi fanno ridere taluni, quando con una specie di rimprovero hanno l'aria di dirmi che io devo molto a questo od a quel pubblico!... È vero; alla Scala s'applaudì altra volta il Nabucco ed i Lombardi, ma sia per la musica, pei cantanti, per l'orchestra, pei cori, per la mise en scène, fatto sta che tutto insieme era tale spettacolo da non disonorare chi lo applaudiva. Poco più d'un anno prima però questo stesso pubblico maltrattava l'opera di un povero giovane, ammalato, stretto dal tempo, e col cuore straziato d'un orribile sventura! Tutto questo si sapeva, ma non fu ritegno alla scortesia. Io non ho più visto da quell'epoca il Giorno di Regno, e sarà certo un'opera cattiva, pure chi sa quante altre non migliori sono state tollerate o fors'anco applaudite. Oh, se allora il pubblico, avesse, non applaudita, ma sopportata in silenzio quell'opera io non avrei parole sufficienti per ringraziarlo! ma finché ha fatto buon viso ad opere che fecero il giro del mondo, le partite sono pari. Io non intendo condannano, ne ammetto la severità, ne accetto i fischj, alla condizione che nulla mi si richiegga per gli applausi. Noi poveri zingari, ciarlatani, e tutto quello che volete, siamo costretti a vendere le nostre fatiche, i nostri pensieri, i nostri delirj per dell'oro = il pubblico per tre lire compera il diritto di fischiarci o di applaudirci. Nostro destino è di rassegnarci, ecco tutto! [...] Trista cosa il teatro!! [Lettera a Tito Ricordi, 17.10.1959]

Vuoi ridere? L'opera buffa ch'io scrissi alla Scala quattro anni sono e che cadde, ha fatto furore a Venezia. Il teatro è sicuramente cosa molto buffa. [Lettera a Vincenzo Luccardi, 17.10.1845]

Scoraggiato, avvilito, Verdi medita dunque di abbandonare tutto; lo salveranno l'astuzia, l'interesse, la fiducia di Merelli, unico punto di riferimento in una città ora estranea. L'impresario gli sottopone un libretto nuovo di Solera, il Nabucco. Dopo molte esitazioni, Verdi, entusiasta del libretto, lo mette in musica.

Un giorno un verso, un giorno l'altro, una volta una nota, un'altra volta una frase... a poco a poco l'opera fu composta. Eravamo nell'autunno del 1841, e rammentandomi la promessa di Merelli, mi recai da lui annunciandogli che il Nabucco era scritto, e quindi poteva rappresentarsi nella prossima stagione di carnevale-quaresima.

1842 Il 9 marzo trionfa alla Scala per Nabucodonosor (Nabucco), sul libretto di Solera indicato dal Merelli; ripresa nella stagione d'autunno, l'opera tiene il cartellone per cinquantasette sere. Nuovo contratto, e improvvisa celebrità: Verdi diviene un protagonista della vita milanese, conteso dai salotti, presente in ogni aspetto della società del tempo, dalla moda (cappelli, cravatte "alla Verdi") alle idee di riscatto nazionale.

Finalmente agli ultimi del febbraio 1842 cominciarono le prove: ed in dodici giorni dalla prima prova al cembalo si arrivò alla prima rappresentazione ch'ebbe luogo il 9 marzo, avendo per esecutori le signore Strepponi e Bellinzaghi, ed i signori Ronconi, Miraglia e Derivis. Con quest'opera si può dire veramente che ebbe principio la mia carriera artistica: e se dovetti lottare contro tante contrarietà è certo però che il Nabucco nacque sotto una stella favorevole, giacché anche tutto ciò che poteva riuscire a male contribuì invece in senso favorevole. [...] La prima scena del tempio in specie produce un effetto così grande che gli applausi del pubblico durano per ben dieci minuti! [...]. Ma non sempre è bene fidarsi nelle stelle benefiche!... e l'esperienza mi dimostrò in seguito come sia esatto il proverbio: Fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio!...

Nel corso del mese di giugno raggiunge Bologna per la storica esecuzione dello Stabat Mater di Rossini diretto da Gaetano Donizetti: prima visita al maestro; Chi i bei di m'adduce (da Goethe) per voce e pianoforte.

1843 Alla Scala l'11 febbraio I lombardi alla prima crociata (libretto di Solera, dal poema di Tommaso Grossi) rinnovano il successo del Nabucco.
L'attesa del pubblico era intensa e molte persone fecero la coda per varie ore per trovare un posto. La serata fu un trionfo e il divieto poliziesco dei bis fu violato più e più volte. I milanesi, all'inizio dell'opera, si identificarono con i lombardi e la Terra Santa che andavano a difendere fu facilmente pensata come l'Italia; i saraceni, infine, avevano molti tratti in comune con gli austriaci. Quando, nell'ultimo atto, i lombardi sono eccitati alla battaglia con le parole:"La Santa Terra oggi nostra sarà", dal pubblico si gridò "Sì" provocando una esplosione di acclamazioni. Ancora una volta la musica del ventinovenne Verdi, senza che egli stesso lo prevedesse, divenne emblematica per le aspirazioni del pubblico e considerata scritta per agitare sentimenti patriottici, incitare all'azione e consolidare un'opposizione.

Ora l'attività si espande e si intensifica: intraprende un viaggio a Vienna per delle rappresentazioni di Nabucco (l'impresa del Teatro di Porta Carinzia è nelle mani di Merelli).
Si accorda con La Fenice per una nuova opera e inizia della collaborazione con Francesco Maria Piave (al suo debutto come librettista). A proposito dell'opera che stava componendo, Verdi scrive al Piave:

Le raccomando la brevità, ed ora che incomincia l'azione non la lasci cadere e non dimentichi alcune frasi bellissime che sono nell'originale. [...] Non so capire perché si faccia un cambiamento di scena nell'atto terzo. [...] Un cambiamento di scena disturberebbe immensamente l'uditorio ed interrompe l'azione. I cambiamenti fatti nei primi atti vanno bene, ma negli ultimi due quanto più staremo attaccati a Hugo tanto più avranno effetto. Per me quei due atti sono divini. [...] Le raccomando brevità, e fuoco. [2.10.1843]

Risalgono a quest'anno i primi spunti per un Re Lear tratto dall'omonima tragedia di Shakespeare.

1844 Ernani a Venezia (La Fenice, 9 marzo; libretto di Piave, dal dramma di Victor Hugo) ottiene successo discreto, malgrado le resistenze e la cattiva prestazione dei cantanti, giunti affaticati alla prima; l'opera è presto ripresa a Vienna (oltre che alla Scala e in varie città italiane), diretta da Donizetti. Da qui al termine del decennio gli impegni teatrali incalzano, non concedono tregua: hanno inizio "gli anni di galera" - a stretto rigore - con I due Foscari, rappresentati a Roma con un buon successo (Teatro Argentina, 3 novembre; libretto di Piave, tratto da un dramma di Lord Byron).

Il carattere di Jacopo è debole e di poco effetto scenico [...]. Io gli darei in principio un carattere più energico, non lo farei torturato [...]. [Lettera a Piave 22.5.1844]

1845 Compone Giovanna d'Arco. La prima rappresentazione ebbe luogo alla Scala il 15 febbraio (libretto di Solera, tratto da un dramma di Schiller). Scritta nel giro di quattro settimane (bene accolta dal pubblico, meno favore invece da parte della critica). Dopo la prima esecuzione, Merelli chiese a Verdi di rivedere l'Ernani per la ripresa della prossima stagione. Irritato per il modo con cui Merelli gestiva il teatro, Verdi rifiutò decidendo di troncare i suoi rapporti con la Scala. Il fatto poi che, qualche mese dopo, Merelli mettesse in scena I due Foscari invertendo l'ordine del secondo e del terzo atto, non favorì certo una distensione. Verdi decise allora di non concedere più alla Scala una prima esecuzione di opere sue e ci vollero venticinque anni per farlo desistere dal proposito. Durante questi venticinque anni le opere di Verdi, che comprenderanno titoli tra i più importanti, apparvero per la prima volta a Napoli, a Venezia, a Firenze, a Londra, a Parigi, a Trieste, a Roma e a Pietroburgo. Il più importante teatro d'opera italiano veniva boicottato dal più importante compositore italiano. Verdi tornò alla Scala soltanto per Otello, preceduto - tappe di un riavvicinamento graduale - dalla prima europea di Aida (1872) alla nuova versione di Simon Boccanegra (1881).
Il nuovo contratto fu con il teatro San Carlo di Napoli per scrivere un'opera per la stagione del giugno 1845, solo quattro mesi dopo la prima esecuzione della Giovanna d'Arco. Il soggetto fu subito scelto dall'Alzire di Voltaire; il librettista fu Salvatore Cammarano. Verdi non stava bene, soffriva dei suoi soliti disturbi nervosi alla testa, alla gola e allo stomaco e, durante la composizione dell'opera fu costretto a chiedere un rinvio di due mesi. La prima di
Alzira si svolse il 12 agosto e ebbe debole e contrastato successo. Un critico napoletano accusò Verdi di scrivere troppo frettolosamente. Fu poi accolta freddamente a Roma qualche mese più tardi. Dopo questa esecuzione scrisse a un amico:

Vi sono ben grato delle notizie che mi date di quella sventurata Alzira e per dei suggerimenti che vi degnate farmi. Io pure a Napoli, prima d'andare in scena, vidi queste mancanze, e non potete immaginarvi quanto vi ho studiato. Il male è nelle viscere e, ritoccando, non si farebbe che peggio.

Qualche anno dopo si dice che Verdi, a proposito di Alzira, avesse affermato: "Quella è proprio brutta". Sempre nel 1845, pubblica presso l'editore Lucca un Album di sei romanze per voce e pianoforte. Con i primi successi parigini (Nabucco al Théâtre Italien) cede a Léon Escudier i diritti di traduzione per la Francia.

1846 Lavora con Piave alla nuova opera, Attila. Scrive al librettista:

A me pare che si possa fare un bel lavoro e se studierai seriamente farai il tuo più bel libretto. Ma bisogna studiare molto. Ti manderò l'originale di Verner fra pochi giorni e tu devi fartelo tradurre perché vi sono squarci di poesia potentissimi. Insomma serviti di tutto, ma fa una gran cosa. [...] Ti raccomando di studiare molto questo soggetto ed avere bene in mente tutto, l'epoca, i caratteri etc..., etc... [12.4.1845]

A Venezia,
il 17 marzo vi fu contrastata prima di Attila alla Fenice (libretto di Solera, completato da Piave e da Andrea Maffei). L'opera si affermò nel corso delle repliche, sull'onda dell'entusiasmo patriottico. Giuseppina Strepponi, prima interprete di Abigaille nel Nabucco, abbandona le scene e apre a Parigi una scuola di canto.

1847 Il 28 gennaio scrive ad Antonio Barezzi:

Io lavoro dalla mattina alle 8 alle 12 di notte e mi consumo la vita nel lavorare. Che destino perfido che è il mio!

Il 14 marzo vi fu a Firenze la prima rappresentazione di Macbeth al Teatro della Pergola su libretto di Piave, ma lo stesso compositore ebbe una gran parte nella stesura: preordinò la struttura stabilendo le scene del dramma che dovevano essere incluse.

Questa tragedia è una delle più grandi creazioni umane!... Se noi non possiamo fare una gran cosa cerchiamo di fare una cosa almeno fuori del comune. Lo schizzo è netto: senza convenzione, senza stento, e breve. Ti raccomando i versi che essi pur siano brevi: quanto più saranno brevi e tanto più troverai effetto. Il solo atto primo è un po' lunghetto ma starà a noi tenere i pezzi brevi. Nei versi ricordati bene che non vi deve essere parola inutile: tutto deve dire qualche cosa, e bisogna adoperare un linguaggio sublime ad eccezione dei cori delle streghe: quelli devono essere triviali, ma stravaganti ed originali. [...] Oh ti raccomando non trascurarmi questo Macbet, te ne prego inginocchiato [...]. Brevità e sublimità. [Lettera a Piave, 4.9.1846]

L'esito fu trionfale. Così Antonio Barezzi descrive alla famiglia il successo dell'opera:

Ieri sera fu la grande rappresentazione del Macbeth, quale, secondo il solito delle opere di Verdi, ha prodotto un immenso fanatismo, avendo dovuto comparire sul palco nel corso della rappresentazione 38 volte, e posso assicurarvi che il Macbeth è una grand'opera, estremamente grande e magnifica. Nel sortire che feci con Verdi dal teatro fossimo attorniati da un'immensità di popolo e questi ci accompagnarono in mezzo agli evviva sino al nostro albergo essendo distante dal teatro quasi un miglio; Verdi di quando in quando dovette fermarsi a ringraziare la popolazione fiorentina, quale era composta della prima gioventù. [...] Il Maestro in tutto il corso dell'opera fu chiamato fuori 27 volte.

Prima di cominciare la composizione di Macbeth, Verdi aveva scritto un libretto in prosa tratto dal dramma Die Räuber (I Masnadieri) di Schiller, incaricando l'amico Andrea Maffei di metterlo in versi. In questo periodo, il conte e la contessa Maffei avevano stretto amicizia con Verdi da circa cinque anni, il loro salotto era il più importante di Milano e il conte era un poeta di qualche eleganza e un apprezzato traduttore dall'inglese e dal tedesco. I Maffei si divisero nel 1846, ma Verdi rimase amico di ambedue.
In occasione della rappresentazione a Parigi di Macbeth, Verdi scrive una illuminante lettera a Cammarano che ci fa entrare per così dire nel suo "atelier" musicale. Il librettista si trovava a Parigi per la concertazione dell'opera a cui Verdi non aveva partecipato.

Si è data alla [soprano] Tadolini la parte di Lady Macbeth, ed io resto sorpreso come Ella abbia accondisceso fare questa parte. Voi sapete quanta stima ho della Tadolini, ed Ella stessa lo sa; ma nell'interesse comune io credo necessario farvi alcune riflessioni. La Tadolini ha troppo grandi qualità per fare quella parte! Vi parrà questo un assurdo forse!!... La Tadolini ha una figura bella e buona, ed io vorrei Lady Macbeth brutta e cattiva. La Tadolini canta alla perfezione; ed io vorrei che Lady non cantasse. La Tadolini ha una voce stupenda, chiara, limpida, potente; ed io vorrei in Lady una voce aspra, soffocata, cupa. La voce della Tadolini ha dell'angelico; la voce di Lady vorrei che avesse del diabolico. [...] Avvertite che i pezzi principali dell'Opera sono due: il Duetto fra Lady ed il marito ed il Sonnambulismo: Se questi pezzi si perdono, l'Opera è a terra: e questi pezzi non si devono assolutamente cantare: bisogna agirli, e declamarli con una voce ben cupa e velata: senza di ciò non vi può essere effetto. L'orchestra colle sordine. La scena estremamente scura. [23.11.1948]

Il 22 luglio 1847 Verdi debutta all'estero, a Londra (allo Her Majesty's Theatre), con l'opera
I Masnadieri ebbe infatti luogo di Londra, il il 22 luglio. Direttore lo stesso Verdi. L'opera riscosse grande successo presso il pubblico inglese soltanto alla prima; nelle altre rappresentazioni l'esito fu però deludente.
Prima di recarsi a Londra, Verdi sostò a Parigi per qualche giorno. Probabilmente voleva render visita all'amica e cantante Giuseppina Strepponi che, in quel periodo, viveva e insegnava nella capitale francese: la relazione con la Strepponi la si può probabilmente datare da questa visita piuttosto che dai precedenti incontri professionali.
Si fermò di nuovo a Parigi dopo l'esperienza londinese. L'Opéra di Parigi lo invitò a scrivere un'opera per la stagione di autunno. Verdi non volle accingersi a un impegno così importante nello spazio di poche settimane, e propose di adattare I Lombardi per una esecuzione parigina. Il libretto italiano di Solera fu rimaneggiato in francese con il titolo
Jérusalem da Gustav Vaëz e Alphonse Royer. I crociati lombardi divennero crociati francesi di Tolosa. La trama fu trasformata, mantenendo però, fin dove fu possibile, la struttura generale e l'originaria carica emotiva. Jérusalem ebbe a Parigi una fredda accoglienza, ma ottenenne vivi consensi nelle città della provincia francese. Più tardi fu tradotta in italiano e rappresentata, senza successo, a Milano con il titolo: Gerusalemme.
La creazione di Jérusalem dalla mutilazione dei Lombardi (e la successiva composizione affrettata e fatta controvoglia del Corsaro per liberarsi da un contratto svantaggioso, furono le due azioni meno coscienziose di tutta la carriera di Verdi. Fu pagato per la Jérusalem come per un'opera nuova, e gli riuscì perfino di vendere ancora la partitura a Ricordi, sotto il nuovo titolo.
Nel 1847 Verdi era in contatto con i vari capi del movimento politico liberale e nazionalista e con i letterati loro sostenitori, uno dei quali era Giuseppe Giusti che avrebbe voluto considerare Verdi come il compositore del movimento politico in atto. Dispiaciuto quando Verdi, dopo aver messo in musica vari soggetti con evidenti allusioni patriottiche, si era rivolto al Macbeth di Shakespeare, Giusti gli scrisse tentando di ricondurlo sulla "retta via":

Tu sai che la corda del dolore è quella che trova maggior consonanza nell'animo nostro, ma il dolore assume carattere diverso a seconda del tempo o a seconda dell'indole e dello stato di questa nazione o di quella. La specie di dolore che occupa ora gli animi di noi Italiani, è il dolore d'una gente che si sente bisognosa di destini migliori; è il dolore di chi è caduto e desidera rialzarsi; è il dolore di chi si pente e aspetta e vuole la sua rigenerazione. Accompagna, Verdi mio, colle tue nobili armonie, questo dolore alto e solenne; fa di nutrirlo, di fortificarlo, d'indirizzarlo al suo scopo.

La risposta di Verdi, scritta circa due settimane dopo la prima del Macbeth, è interessante:

Sì: tu dici benissimo: la corda del dolore è quella che trova maggior consonanza nell'animo nostro: tu parli dell'arte da quel grande che sei ed io seguirò certamente i tuoi suggerimenti ché intendo cosa vuoi dire. Oh se avessimo un poeta che ci sapesse ordire un dramma come tu l'intendi! Ma sgraziatamente (tu stesso ne converrai) se vogliamo qualche cosa che almeno almeno faccia effetto bisogna a nostra vergogna ricorrere a cose non nostre. Quanti argomenti nelle nostre istorie!...

Sebbene Verdi preferisse trovare soggetti italiani, i libretti di ventuno delle sue ventisei opere provengono da opere letterarie o drammatiche straniere. Nella lettera appena trascritta Verdi era sincero. Si trovava alla metà della composizione de I masnadieri per Londra e poi avrebbe dovuto liberarsi, con l'opera Il corsaro, dell'impegno assunto con l'editore Francesco Lucca. Quando fu finalmente libero incominciò a pensare, per la futura opera, a un soggetto patriottico italiano. Come aveva scritto al Giusti, la difficoltà stava nel trovare giovani poeti in grado di scrivere libretti. Infatti mancavano giovani e originali talenti sulle scene. I più giovani, osservava Verdi, pensavano di aver raggiunto la perfezione imitando Romani o Cammarano. Ciò che egli cercava era un poeta che non scrivesse come i predecessori, ma che fosse in grado di produrre un testo operistico pregnante, potente nella concezione, libero dalle convenzioni, vario e nuovo:

L'artista deve abbandonarsi alle proprie ispirazioni, e se l'artista ha talento vero, nessuno meglio di lui sente e capisce quello che gli si conviene. Io musicherei colla massima sicurezza un soggetto che mi andasse a sangue, fosse anche condannato da tutti gli artisti come immusicabile. [Lettera a Giuseppina Appiani]

È molto probabile che la relazione amorosa con Giuseppina Strepponi non sia iniziata nel 1846 come alcuni biografi sostengono. La lettera di Giuseppina a Giovannina Lucca del 5 gennaio 1847, contiene una domanda:

Verdi è a Milano? Dimmi se la sua salute quest'anno non ha avuta nessuna scossa, e se è di buon umore, perché il buon umore è in lui un segnale di salute.

Se fosse stata in corrispondenza epistolare con lui, avrebbe saputo dov'era e come stava. E ciò che Verdi diceva circa le proprie intenzioni, quando, più tardi in quell'anno, riuscì finalmente ad andare a Parigi, demoliscono in maniera conclusiva l'idea che l'incontro con Giuseppina fosse stato preparato. Nel viaggio d'andata a Londra per la rappresentazione dei Masnadieri, Muzio e Verdi arrivarono a Parigi il 1° giugno, alle 7 di mattina. Muzio partì per Londra il giorno dopo, e Verdi il 4 giugno. Molto occupato nella preparazione della nuova opera, Verdi scriveva a Giuseppina Appiani da Londra, il 27 giugno:

Io non vedo l'ora di andare a Parigi, che non ha per me alcuna seduzione particolare, ma che mi dovrà piacere molto perché là potrò fare la vita che vorrò. E un gran piacere far quello che si vuole! Quando io penso che starò parecchie settimane a Parigi senza esser imbrogliato in affari musicali, senza sentire parlare di musica (perché metterò alla porta tutti gli editori ed impresari) vado in svenimento per la consolazione.

Arrivò a Parigi il 27 luglio. Il 29 diceva alla contessa Maffei: "Starò a Parigi poco perché comincio già ad annoiarmi benché non sia qui che da 48 ore" e il 30 scriveva alla Morosini: "Sono qui da due giorni, e se continuo ad annoiarmi cosi, sarò presto a Milano". Non sono le espressioni d'un amante che s'avvii ad un appuntamento.
Verdi faceva continuamente dei progetti per ritornare in Italia, ma problemi di vario genere glielo impedirono. Durante questo periodo aveva certamente incontrato Giuseppina Strepponi, e inconsciamente il sempre crescente affetto per lei può aver influenzato le sue ripetute decisioni di differire il momento del ritorno in Italia. Ma Verdi non era un bugiardo. Era annoiato all'inizio del suo soggiorno parigino, se lo disse; egli non vedeva veramente l'ora di ritornare in Italia.


1848 In febbraio Verdi fu testimone della caduta di Luigi Filippo e della proclamazione della repubblica francese, con pochissimo spargimento di sangue. Ne scrisse, di buon umore, a Giuseppina Appiani, il 9 marzo:

Le cose di Parigi Ella le saprà intieramente: dopo il 24 febbraio nulla è accaduto. Il convoglio che ha accompagnato i morti alla colonna funebre della Bastiglia è stato imponente, magnifico, e ad onta che non vi fosse né truppa né guardia di polizia per mantenere l'ordine, non è successo il più piccolo inconveniente. La grande Assemblea Nazionale che fisserà il governo, sarà il 20 Aprile... Non posso nasconderle che mi diverto molto e che nulla finora ha potuto interrompere i miei sonni. Non faccio nulla; vado a spasso; sento tante coglionerie che nulla più [...] Se nulla di importante mi chiamerà in Italia, io resterò qui tutto l'aprile per vedere l'Assemblea Nazionale.

Il 18 marzo i milanesi si ribellarono ai dominatori austriaci con le famose Cinque Giornate. Durante questi giorni avvennero, nelle strade, disperati combattimenti, si eressero barricate, la città fu messa a soqquadro e, dopo scaramucce in ogni quartiere, compreso il tetto del Duomo, gli austriaci furono cacciati. Il 22 marzo anche i veneziani spezzarono il giogo e proclamarono la repubblica. Quando Verdi, a Parigi, venne a conoscenza di questi fatti si affrettò a ritornare a Milano. In una lettera al Piave del 21 aprile scrisse:

Figurati se io voleva restare a Parigi sentendo una rivoluzione a Milano. Sono di là partito immediatamente sentita la notizia, ma io non ho potuto vedere che queste stupende barricate. Onore a questi prodi! onore a tutta l'Italia che in questo momento è veramente grande! L'ora è suonata, siine pur persuaso, della sua liberazione. È il popolo che la vuole: e quando il popolo vuole non avvi potere assoluto che le possa resistere... Sì, si ancora pochi anni forse pochi mesi e l'Italia sarò libera, una, repubblicana.

Da una lettera di Peppina del 2 giugno a Pietro Romani si evince che essa aveva punti di vista identici aquelli di Verdi:

Capisco benissimo che le crome e le semicrome non possono far effetto contro i colpi di fucile e di cannone, sempre per l'antico diritto del più forte! Ma vadino pure al Diavolo tutte le note, se vi fosse luogo a sperare che l'Italia divenisse grande, unita, forte... libera! Ma troppe teste coronate l'opprimono ancora! io ebbi un momento di grande speranza, quando i Milanesi cacciarono il tedesco dalla loro città; ma ora le cose volgono alla peggio e gl'Italiani non possono rinunziare allo spirito di partito, discutono, parlano troppo e non agiscono abbastanza. Il sangue scorre in rivoluzioni impetuose, generose, ma gli uomini non hanno abbastanza fermezza per conservare il frutto dei loro sacrifizi. Dimenticano quanto loro costò il rovesciare un trono e ne innalzano un altro, come non si potesse vivere senza Re! È vero che saremmo governati da Re italiano, ma Carlo Alberto non ha antecedenti molto favorevoli per poter sperare una costituzione libera, ed osservata scrupolosamente. Dio voglia non rinnovi i tradimenti del 21 e non imiti il Tartufo che regna a Napoli!...
Qui come in Italia non si pensa che agli affari politici. Alcuni teatri sono, o sono stati chiusi. Gli artisti scritturati annualmente, non eccettuati quelli del Grand'Opera, sono ridotti a mezza paga ed a grandi diminuzioni. Non ti parlo dei Maestri di Canto, di Pianoforte, etc.! Essi hanno il tempo di passeggiare quanto vogliono. Io avevo cominciato l'inverno piuttosto bene, ma la rivoluzione di Febbraio venne a troncare ogni risorsa musicale. Non ho lasciato Parigi perché essendo stabilita di casa qui, avrei perduto moltissimo vendendo i mobili in tempi che il danaro scarseggia, ed avrei fatto spese inutili in viaggi... [...] Io non amo il ballo, non amo i pranzi e se avessi di che vivere senza lavorare, starei forse a Parigi per la libertà che vi si gode, ma non mi vedrebbero più in nessun luogo.

Non solo erano entrambi appassionati repubblicani, non solo dicevano le stesse cose sui rispettivi diritti della musica e del patriottismo, ma lo dicevano con le stesse parole. Il primo paragrafo citato è probabilmente un riflesso diretto delle lettere, andate perdute, che Verdi scriveva a Giuseppina da Milano. La prova fornitaci dagli indirizzi usati da Verdi, sostiene la teoria secondo la quale fu in questo periodo che egli e Giuseppina si dichiararono il loro amore e cominciarono a vivere insieme. La permanenza a Parigi, che doveva durare soltanto poche settimane e, ripetutamente protratta, durò invece più di due anni, fu interrotta due volte: la prima dal ritorno a Milano quando giunsero le notizie della rivoluzione, la seconda da un'andata a Roma per la rappresentazione della Battaglia di Legnano.
È quasi certo che durante l'estate Verdi e Giuseppina vivevano assieme a Passy, villaggio non lontano da Parigi. È certissimo che l'inverno seguente abitavano assieme, o in camere contigue, al 13 di Rue de la Victoire.
È stato detto giustamente che questo non poteva chiamarsi un sogno d'amore giovanile. Egli aveva quasi trentacinque anni ed ella quasi trentatré: entrambi avevano dietro alle spalle delle amare esperienze; l'animo di Verdi era impregnato di pessimismo dal tempo dell'annientamento della sua famiglia e la naturale vena malinconica di Giuseppina era stata accentuata dalla sua passione per Moriani e dalle relative conseguenze. Entrambi erano giunti a detestare la falsa pompa del mondo teatrale; ma avevano già molti ricordi in comune; l'intelligenza immediata e intuitiva di Giuseppina, e l'integrità morale di Verdi, la sua benevolenza e sicurezza, brillavano già nel passato, promettendo di illuminare sempre più il futuro. Erano nati l'uno per l'altra, e la loro unione, con o senza la benedizione della Chiesa, doveva essere di inestimabile beneficio per entrambi. Da quel momento, per cinquant'anni, le loro vite sarebbero sempre state unite.
Sembra veramente che la rivoluzione del 1848, a Parigi e a Milano, avesse giocato un ruolo decisivo per il loro riavvicinamento. Erano due italiani, vecchi amici ormai, in una città straniera, quando le speranze che entrambi nutrivano per la patria sembrarono improvvisamente sul punto di realizzarsi. Sentimenti di compatrioti, ideali comuni, l'eccitazione e i pericoli condivisi, la fine di quelle limitazioni che sempre comporta un momento di crisi, tutto deve aver aiutato a gettarli l'uno nelle braccia dell'altro.

Dopo poche settimane assistevano al rovesciamento catastrofico di tutte le loro speranze, sia in Italia sia in Francia. Il fatto che gli austriaci piuttosto di distruggere la città preferirono lasciare Milano non significò, naturalmente, la loro ritirata dall'Italia settentrionale. I milanesi chiesero aiuto al Piemonte e il Piemonte, di mala voglia, dichiarò guerra all'Austria. Gli Stati italiani, comunque, ben lontani dall'essere uniti, incominciarono a discutere tra loro sulle alleanze e sulle garanzie. Quando Carlo Alberto, re del Piemonte e della Sardegna, cacciò gli austriaci da Venezia, la città esultante si eresse in repubblica. Nemmeno Milano desiderava unirsi al Piemonte. Dal sud era in atto un movimento per unire gli Stati italiani sotto la guida temporale e spirituale del Papa. Intanto la guerra tra gli austriaci e l'Italia settentrionale continuò e non c'era da aspettarsi vittoria facile. Poiché Milano non era più al centro degli eventi, Verdi decise di ritornare a Parigi da Giuseppina Strepponi, ma anche per curare i suoi interessi, momentaneamente abbandonati. Cammarano nel frattempo gli propose un pezzo di propaganda incitante l'Italia a unirsi per cacciare l'invasore (cfr. la lettera di Giusti a Verdi e la risposta del compositore - 1847). Verdi ne era entusiasta. Il libretto traeva argomento dalla disfatta del Barbarossa, il re germanico e sacro romano imperatore, avvenuta nel 1176 con la battaglia di Legnano combattuta da città italiane riunite nella Lega Lombarda. Egli sapeva che il pubblico avrebbe recepito il libretto come relativo alla situazione del 1848 anche se, per ragioni di censura, doveva parlare d'una guerra di 7 secoli prima.
Verdi scrisse l'opera a Parigi mentre in Italia la guerra andava male. Carlo Alberto firmò con gli austriaci un armistizio che lo costringeva a ritornare in Piemonte. Milano fu rioccupata dagli austriaci.
La delusione politica già manifesta nella lettera di Giuseppina a Romani, e certamente condivisa da Verdi, doveva diventare molto maggiore.
Mazzini, da Milano, scrisse a George Sand a Parigi, il 12 giugno: "La réaction domine chez nous comme chez vous. On nous calomnie; on écrit sur les murs: mort aux répubblicains! On m'envoye des lettres anonymes pour me dire que je dois me préparer à la mort par poignard" A Parigi, dal 23 al 26 giugno, una disperata insurrezione di una folla armata fu sanguinosamente soffocata dal generale Cavaignac. Ne furono testimoni Verdi e Giuseppina, e ciò può aver contribuito alla loro decisione di andare a Passy. Verdi scriveva a Piave, il 22 luglio:

Non so fino a quando resterà in questo caos. Hai sentito di questa ultima rivoluzione? Quanti orrori, mio caro Piave! e voglia il cielo che sia tutto finito! E l'Italia? Povero paese!!! Io leggo e rileggo i giornali sperando sempre qualche buona novella, ma... E tu perché non mi scrivi mai? Mi pare che questi debbano essere i veri momenti in cui gli amici si ricordino degli amici! Speriamo tempi più lieti. Ma io mi spavento quando do un'occhiata alla Francia, poi una all'Italia...

Tre giorni dopo le armate italiane erano sconfitte a Custoza e respinte per tutta la Lombardia. Milano si arrese ai tedeschi il 5 agosto.
Nel fondato timore di rappresaglie austriache, un'emigrazione in massa ebbe luogo da Milano. Più di 120.000 persone, ovvero tre quarti degli abitanti della città, fuggirono in Piemonte o in Svizzera. Esistono dei toccanti racconti da parte di testimoni oculari, di colonne di esuli sulla strada, sotto il sole scottante e nella polvere, o, fisicamente esausti, riuniti assieme in silenziosa miseria al di là del Ticino, che era la frontiera con il Piemonte. La contessa Mafrfei, il cui salotto a Milano era il centro del sentimento nazionalista italiano, si rifugiò in Svizzera, al pari di Carcano e di Muzio. Lo stesso Mazzini si ritirò a Lugano all'inizio d'agosto. Verdi scriveva alla contessa Maffei, che gli aveva chiesto quale fosse la reazione francese agli avvenimenti italiani:

Chi non è contrario è indifferente: aggiungo di più che l'idea dell'unità italiana spaventa questi uomini piccoli, nulli che sono al potere. La Francia non interverrà con le armi certamente, a meno che qualche avvenimento impossibile a prevedersi non la trascini suo malgrado. L'intervenzione diplomatica franco-inglese non può essere che iniqua, vergognosa per la Francia, e ruinosa per noi.

Qualche settimana dopo scriveva ancora: "Della nostra povera Italia non so cosa dire di consolante. Felice Lei che ha ancora qualche speranza, io non ne ho alcuna". Cavaignac, in assemblea, si era rifiutato di rispondere alle domande riguardanti l'Italia e i negoziati a suo nome. "Che bella repubblica?"
concludeva Verdi amaramente.
Ciò nonostante il 18 ottobre mandava a Mazzini l'inno Suona la tromba, composto dal poeta patriota Goffredo Mameli, esprimendo la speranza che potesse "esser presto cantato nelle pianure lombarde".

I sentimenti patriottici di Verdi trovarono espressioni convincenti nell'opera La battaglia di Legnano, scritta a Passy e a Parigi nell'autunno e all'inizio dell'inverno. In origine destinata a Napoli, fu offerta al teatro Argentina di Roma quando si ruppe il contratto napoletano. Verdi parti da Parigi, diretto a Roma, il 20 dicembre.

In aprile o in maggio Verdi aveva fatto un breve viaggio a Milano e a Busseto per l'acquisto dei terreni di Sant'Agata. Con in tasca il primo contratto a lunga cadenza con Ricordi (1847), compose per l'editore Lucca Il corsaro, senza una destinazione precisa - caso unico - e senza poi intervenire alle prove o alla rappresentazione che ebbe luogo a Trieste, al Teatro Grande, il 25 ottobre. Piave scrisse il libretto tratto dall'omonimo dramma di Byron.
Il 23 novembre scrisse a un amico:

Io sono estremamente franco, deciso, qualche volta irascibile, selvaggio anche se volete, ma giammai né difficile né prezioso, e se sembro tale non è colpa mia, ma delle circostanze. [...] È vero che sono da un anno e mezzo a Parigi (in questa città ove si dice tutto s'ingentilisce) ma io, conviene lo confessi, sono più orso di prima. Sono sei anni che scrivo continuamente, che giro da paese in paese e non ho mai detto una parola a giornalista o ho mai pregato un amico, mai fatto la corte al ricco per aver un esito. Mai, mai: io sdegnerò sempre questi mezzi. Faccio del mio meglio le Opere: ho lasciato andare le cose pel loro canale senza mai influenzare nella benché minima parte l'opinione del publico.


1849 La vita politica a Roma era violenta come nel nord. In seguito al rifiuto di Pio IX e del suo amministratore capo, il Conte Pellegrino Rossi, di unirsi alla Lombardia contro l'Austria o di mandate qualche aiuto all'Italia settentrionale, i repubblicani assassinarono il Conte. Per due giorni il papa fu assediato al Quirinale da qualche migliaio di persone armate, ma il 24 novembre con l'aiuto degli ambasciatori francese e bavarese fuggì travestito da semplice prete. Il tragico evento turbò profondamente Verdi ("La catastrofe di Roma m'ha messo in gravi pensieri. La forza regge ancora il mondo! La giustizia? A che serve contro le baionette!! Non possiamo che piangere le nostre disgrazie e maledire gli autori di tante sventure"). Durante l'assenza del pontefice da Roma, il governo fu in mano ai repubblicani che indissero elezioni a suffragio universale. L'Assemblea che risultò eletta si doveva riunire per la prima volta in febbraio per trasformare in repubblica lo Stato pontificio. Questa era la situazione quando Verdi giunse a Roma in gennaio per dirigere la prima esecuzione de La battaglia di Legnano e non c'è da meravigliarsi se l'opera ottenne uno sfrenato successo. Mazzini e Garibaldi erano in città, il 27 gennaio l'atmosfera era elettrizzata e il Teatro Argentina stipato all'inverosimile. La musica di Verdi suscitò un enorme entusiasmo. I giornali riferiscono che quando si udirono le prime parole del coro di apertura ("Viva Italia / Sacro un patto / Tutti stringe i figli suoi") vi furono grida isteriche e deliranti di "Viva Verdi" e "Viva l'Italia". Il quarto atto venne regolarmente bissato, presenti Mazzini e Garibaldi. L'opera fu eseguita in qualche altra città italiana, ma cadde subito sotto i rigori della censura austriaca. Quando fu rappresentata al Teatro Regio di Parma, dopo le vittorie italiane del 1859, fu scopertamente intitolata: La disfatta degli austriaci.
Da Roma Verdi si trasferì a Parigi dalla Strepponi.
Il 1° febbraio, scrisse a Piave che si trovava in una Venezia stretta d'assedio:

Ho lasciato Roma con dolore, ma spero presto di ritornarci. Cerco di aggiustare in qualche maniera gli affari imbrogliati che ho qui, poi volo in Italia! Iddio vi benedica miei buoni Veneziani... qualunque sia l'evento voi avrete certamente la benedizione e la gratitudine di ogni buon italiano. Sono contento di Roma e della Romagna, la Toscana pure non va del tutto male, abbiamo motivo di avere grandi speranze. Due cose però mi spaventano: Gioberti e il Congresso di Bruxelles. Iddio ci salvi!... Dalla Francia non avvi nulla da sperare ed adesso meno che mai!

Intanto in Italia l'insurrezione stava fallendo. Le battaglie del nord provocarono l'abdicazione del re di Piemonte e Sardegna (23 marzo) e la vittoria dell'Austria. La Repubblica Romana cadde e il papa chiese l'intervento della Francia, dell'Austria, della Spagna e di Napoli. Gli austriaci entrarono in Toscana, per restaurare il Granduca, il 25 maggio; l'eroica difesa di Roma finì ai primi di luglio. Garibaldi iniziò la sua epica ritirata attraverso la penisola il 3 luglio e il giorno successivo le truppe francesi entrarono in Roma. Verdi scriveva a Luccardi il 14 luglio:

Non parliamo di Roma!!! A che gioverebbe! La forza ancora regge il mondo! La giustizia? A che serve contro le baionette! Noi non possiamo che piangere le nostre disgrazie, e maledire gli autori di tante sventure.

Dodici giorni dopo annunciava in un'altra lettera che avrebbe lasciato Parigi entro tre giorni. È quasi da tutti affermato che il ritorno di Verdi e Giuseppina in Italia fosse stato causato da un'epidemia di colera scoppiata a Parigi, che aveva messo in grande apprensione i genitori del compositore. Ma sembra anche assai probabile che lo sdegno per la parte avuta dalla Francia nell'assassinio della repubblica consorella, rendesse ormai intollerabile la loro permanenza a Parigi. Tutte le speranze erano perdute, e per molto tempo. Da Firenze dove si trovava per curare i suoi affari, Giuseppina scrisse a Verdi una lettera nella quale risulta evidente l'intensità del loro rapporto amoroso:

Addio, mia gioia! Adesso che ho quasi finiti i miei affari, affari troppo seri [la sistemazione di suo figlio Camillino; il padre era l'impresario Camillo Cirelli] per trascurare, vorrei poter volare vicino a te. Tu mi parli della campagna brutta, del servizio cattivo, più mi dici "Se non ti piacerà ti farò accompagnare (NB. Ti farò!) dove vorrai..." Ma che diavolo! a Busseto si disimpara a voler bene ed a scrivere con un po' d'affetto? Io non ci sono ancora epperò so ancora scriverti come sento, cioè. Che la campagna, il servizio e tutto andrà benone per me, purché tu sia là, brutto mostro indegno. Addio, addio. Ho appena il tempo di dirti che ti detesto e t'abbraccio. NB.: Non mandare ma vieni tu stesso a prendermi a Parma, perché sarei molto imbarazzata essendo presentata a casa tua da altri, che da te.

Giuseppina aveva investito il danaro, risparmiato nei suoi ultimi anni di cantante e insegnante di musica, in affari a Firenze. Fino alla fine della sua vita ella tenne sempre i suoi conti separati da quelli di Verdi, comprandosi i suoi vestiti e contribuendo, proporzionatamente ai suoi mezzi, a varie opere di carità di tasca propria. Era di natura generosa, non portata a conteggiare le varie spese e a tenere le fatture, ma diventò quello che Verdi desiderava ella fosse, e fu un modello di padrona di casa e di moglie.
Sistemati i suoi affari a Firenze, Giuseppina, all'inizio del settembre del 1849, arrivò a Busseto. Fu un momento storico quello in cui la carrozza di Verdi si fermò davanti al palazzo Dordoni: gli astanti stupiti e scandalizzati e gli oziosi sotto i portici lo videro smontare ed entrare in casa in compagnia di una donna sconosciuta. Chiusa la porta, Busseto ebbe un argomento di pettegolezzo per i successivi dieci anni.
Da Busseto, tra l'altro, poteva seguire i lavori alla proprietà di Sant'Agata. Questa villa, tre o quattro chilometri fuori di Busseto, diventò la sua residenza e quella di Giuseppina per il resto della loro vita. Una nuova stabilità e tranquillità, dopo i tentativi, i passi incerti o frenetici degli ultimi anni.
Per aiutare Cammarano che si trovava in difficoltà con la direzione del Teatro San Carlo, decisa a trarlo in giudizio per la mancata consegna di un libretto, Verdi aveva convenuto con lui di scrivere un'opera da destinarsi a Napoli. Cammarano suggerì a Verdi il dramma di Schiller Kabale und Liebe (Amore e raggiro) che il compositore aveva già preso in considerazione, e il compositore fu pienamente d'accordo. Cammarano si mise subito a stendere il libretto e Verdi incominciò a musicare l'opera prima di lasciare Parigi e continuò il lavoro a Busseto. Alla fine di ottobre Verdi aveva terminato la
Luisa Miller, ricavata dal citato dramma di Schiller ma ribattezzata col nome della protagonista. L'opera ebbe un successo contenuto e qualche dissapore con la direzione del Teatro convinse Verdi a non scrivere più opere per Napoli. E mantenne la parola.
A Napoli, il 3 novembre, in una lettera a Marie Escudier, Verdi descrisse Roma sotto l'occupazione francese:

Le cose del nostro paese sono desolanti! L'Italia non è più che una larga e bella prigione! Se vedeste questo cielo sì puro, questo clima sì dolce, questo mare, questi monti, questa città sì bella! Un paradiso per la vista: un inferno per il cuore! Il governo dei vostri a Roma non è migliore degli altri d'Italia. I Francesi fanno del loro meglio per cattivarsi l'amore dei Romani, ma finora questi sono dignitosissimi e fieri. Voi vedete Francesi dappertutto: parate, riviste, bande che straziano le orecchie in ogni angolo della città, in ogni momento, ma non vedete mai un Romano a prendervi parte. Checché ne dicano i vostri giornali bianchi, il contegno dei Romani è lodevolissimo, ma... i Francesi hanno ragione... sono i più forti! Le cose teatrali sono desolanti: l'Impresa è per fallire! Per parte mia non ne sono affatto malcontento, perché non desidero che ritirarmi in qualche cantuccio della terra e bestemmiare e maledire!

Verdi ritornò a Busseto, da Napoli, nel dicembre del 1849 dopo le prime tre rappresentazioni di Luisa Miller.


1850 Si era accordato con Ricordi per scrivere un'opera nuova da rappresentarsi nell'autunno del 1850 in uno dei principali teatri italiani che non fosse la Scala di Milano. Chiese a Piave di suggerirgli immediatamente un soggetto, e Piave consigliò un dramma francese, Le Pasteur di Souvestre e di Bourgeois, che aveva visto in teatro, tradotto in italiano col titolo di Stiffelio. La pièce teatrale fu rappresentata per la prima volta a Parigi nel 1848 e tratta del difficile matrimonio di un pastore protestante tedesco, la cui moglie ha commesso adulterio. Verdi accettò e l'opera andò in scena il 16 novembre 1850. Nonostante le opposizioni della censura Verdi non desiderava rinunciare al mordente di certe situazioni che nell'opera riuscivano piuttosto sconcertanti in un clima e in una società dove era difficile far accettare scandali di costume. Nel gennaio del '51 il maestro scriveva a Ricordi:

Tornando a Stiffelio, se si vuole assolutamente eseguire bisognerebbe prima di tutto che la Censura si persuadesse che nulla avvi in quel libro né contro la politica né contro la religione, e lasciasse il libretto originale con tutte le parole e la mise en scène rispettiva; che si eseguisse senza nissuna alterazione né castrazione e con tutto l'impegno possibile per parte di tutti... Se la Censura non permettesse il primo libretto anche colle parole "Ministro confessatemi... Ah Stiffelio io sono!" non è possibile l'effetto, ed allora è meglio aspettare che io abbia tempo, e rifarò l'ultima scena senza il tempio.

Mentre già fervevano i progetti intorno allo "scandaloso" dramma di Hugo, Le roi s'amuse (che si intitolerà Rigoletto) tornava ad affacciarsi l'idea del Re Lear (redasse una traccia dei quattro atti per Cammarano). Verdi considerava Le roi s'amuse "il più gran dramma dei tempi moderni". "Tribolet" [Rigoletto in italiano] "è creazione degna di Shakespeare!"
Tre mesi prima della data stabilita per l'esecuzione, la direzione del Teatro La Fenice ricevette la seguente comunicazione dalle autorità austriache:

[...] si deplora che il poeta Piave ed il celebre Maestro Verdi non abbiano saputo scegliere altro campo per far emergere i loro talenti che quello di una ributtante immoralità ed oscena trivialità qual è l'argomento del libretto intitolato La Maledizione.

A questo proposito il 5 dicembre 1850 Verdi scrisse al Presidente della Fenice:

La lettera arrivata col decreto che proibisce assolutamente La Maledizione [Rigoletto] mi è riuscita inaspettata al punto da perdere la testa [...] perché ora è troppo tardi per scegliere altro libretto, che mi sarebbe impossibile, affatto impossibile di musicare per questo Inverno. [...] Ora, sull'onor mio ripeto che mi è impossibile scrivere un nuovo libretto, quand'anche volessi occuparmi al punto da perdere la salute. [...] Il danno ed il dispiacere che mi provvengono da questa proibizione sono così grandi che io non ho parole per descriverli.

Ma lo stesso scrupolo esige dagli altri, imprese ed editori. La minaccia di rompere il contratto se le cose non vanno come dovrebbero, è ripetuta continuamente, condita di recriminazioni, di rimproveri, d'invettive. In parte sono ragioni d'interesse, in parte ragioni d'arte; talvolta, se una polemica si prolunga, l'indignazione finisce per mitigarsi un poco: ma lo scoppio è sempre violento, insolente. Soprattutto quando, alla presupposta cattiva volontà generica d'ogni Impresa, per sua natura preoccupata soltanto di far soldi a danno dell'esecuzione artistica e quindi dell'interesse dell'autore, Verdi veda sommarsi qualche intenzione che gli sembri rivolta a menomare la sua dignità d'artista e d'uomo.
La censura è attiva anche in altri ambiti: nel giugno viene soppresso il giornale l'Artista per "violenze personali, appello a passioni sterminatrici, gratuite offese a pacifici cittadini, criminose allusioni, sconce debolezze, bizzarri difetti che turbano la quiete pubblica ed avviliscono il genere umano". Soppresso anche il Lucifero imputato di "falsare lo scopo delle istituzioni sociali e di propagare l'odio di classe". In luglio: diffida delle autorità veronesi ai giovani che vestono "a modo di far risaltare i tre colori nazionali bianco, rosso e verde". Settembre: abolito a Milano il giornale Il Montanaro avendo trattato questioni politiche senza autorizzazione preventiva; soppresso a Venezia per eccessivo spirito critico il Lombardo-Veneto. Novembre: soppresso il giornale Era Nuova; soppressa a Milano La Società; il ministro austriaco dell'interno, visto come "sotto il manto della filantropia assumano carattere di politiche dimostrazioni le riunioni e feste di qualsiasi genere aventi per iscopo le raccolte di soccorsi" agli inondati bresciani (vittime di uno spaventoso nubifragio), le vieta in tutta la monarchia, liberi i singoli di consegnare le proprie offerte all'autorità locale che le farà trasmettere col mezzo delle delegazioni provinciali. Dicembre: sospeso a Milano il giornale Il Comune Italiano. Gli interventi della censura continuano anche negli anni seguenti.


1851 Dopo noie e scontri con la censura, Rigoletto trovò la via della scena (La Fenice, 11 marzo). Successo immediato e vivissimo, presto replicato nei maggiori teatri (nel 1857 anche a Parigi, nonostante il veto di Victor Hugo).
In primavera, pronta ormai la villa di Sant'Agata (più tardi ampliata), Verdi vi si trasferì, ben deciso a difendere - agli occhi dei bussetani e del mondo teatrale - la propria "libertà d'azione", il proprio spazio segreto. Amministra di persona i fondi, scava pozzi artesiani, si interessa di argini, di sementi, di mezzi e metodi di coltivazione (sarà il primo, anni dopo, a importare dall'Inghilterra le macchine agricole).
Il 28 giugno perse la madre. Muzio scrisse a questo prioposito a Ricordi:

Non ti posso dire il suo dolore; esso è immensamente grande, la Peppina soffre a vederlo piangere, ed a me tocca il triste ufficio di pensare al mortuario, ai preti etc.

Il 10 dicembre, ottenuto un prestito da Ricordi, partì con la Strepponi per Parigi.
Qualche mese prima, suo suocero e benefattore Barezzi gli chiese di legalizzare la sua unione con Giuseppina. Così Verdi rispose:

In casa mia vive una Signora libera indipendente, amante come me della vita solitaria, con una fortuna che la mette al coperto di ogni bisogno. Né io, né Lei dobbiamo a chicchessia conto delle nostre azioni; ma d'altronde chi sa quali rapporti esistano tra noi? Quali gli affari? Quali i legami? Quali i diritti che io ho su Lei, ed Ella su di me? Chi sa s'Ella è o non è mia moglie? Ed in questo caso chi sa quali sono i motivi particolari, quali le idee da tacerne la pubblicazione? Chi sa se ciò sia bene o male? Perché non potrebbe anche essere un bene? E fosse anche un male chi ha il diritto di scagliarci l'anatema? Bensì io dirò che a lei, in mia casa, si deve pari anzi maggior rispetto che non si deve a me, e che a nessuno è permesso mancarvi sotto qualsiasi titolo; che infine ella ne ha tutto il diritto, e pel suo contegno, e pel suo spirito, e pei riguardi speciali a cui non manca mai verso gli altri.

Perché Verdi era riluttante a sposare la Strepponi? Forse era restio alla cerimonia religiosa. Il suo agnosticismo religioso lasciava Giuseppina perplessa e irritata. Molti anni più tardi la Strepponi raccontava allo psichiatra Cesare Vigna i risultati abituali dei suoi tentativi di convincere Verdi dell'esistenza di Dio:

Rispondeva alle obbiezioni della consorte, buona cattolica, con la frase tra sprezzante e compassionevole "siete matti", gettata in faccia a' credenti in Dio, nella Provvidenza, nell'oltretomba co' suoi premi e castighi. Disgraziatamente lo dice di buona fede...

Con il suo esempio, Verdi suscitava dei dubbi nella mente di Giuseppina, che scriveva:

Vi sono delle nature virtuosissime che hanno bisogno di credere in Dio. Altre, ugualmente perfette, che sono felici, non credendo niente ed osservando solo rigorosamente ogni precetto di severa moralità. Manzoni e Verdi!... Questi due uomini mi fanno pensare, sono per me un vero soggetto di meditazione. Ma le mie imperfezioni e la mia ignoranza mi rendono incapace di sciogliere l'oscuro problema.

Verdi non aveva mai preso posizioni ostinate nel suo agnosticismo. Dopo tutto aveva accettato senza riserve di sposare in chiesa la sua prima moglie. Si pensò a una promessa fatta, alla prima moglie, di non risposarsi... Comunque sia, Verdi e Giuseppina Strepponi non pensarono al matrimonio per altri otto anni.

Il 4 aprile Verdi aveva scritto a Cammarano una importantissima lettera a proposito del Trovatore che mette in evidenza la laboriosa riflessione sull'evoluzione del suo stile musicale e drammaturgico:

Voi non mi dite una parola se questo dramma vi piace. Io ve l'ho proposto perché parevami presentasse bei punti di scena, e sopratutto qualche cosa di singolare di originale nell'insieme. Se voi non eravate del mio parere perché non mi avete suggerito altro argomento? Per questo genere di cose è bene che poeta e maestro sentano all'unissono! In quanto alla distribuzione dei pezzi vi dirò che per me quando mi si presenta della poesia da potersi mettere in musica, ogni forma, ogni distribuzione è buona, anzi più queste sono nuove e bizzarre, io ne sono più contento. Se nelle opere non vi fossero né Cavatine, né Duetti, né Terzetti, né Cori, né Finali etc. etc., e che l'opera intera non fosse (sarei per dire) [che] un solo pezzo, troverei più ragionevole e giusto. Per questo vi dirò che se si potesse evitare nel principio di quest'opera il Coro (tutte le opere cominciano con un Coro) e la Cavatina Leonora, e cominciare addirittura col canto del Trovatore e fare un sol atto dei due primi, sarebbe bene, perché questi pezzi così isolati con cambiamento di scena a ciascuno pezzo m'hanno piuttosto l'ari di pezzi da concerto che d'opera. Del resto fate quanto stimate bene. Quando si ha un Cammarano non si può che far bene.


1852 Verdi e la Strepponi trascorsero a Parigi l'inverno 1851-52 epoca in cui Verdi aveva già incominciato a lavorare a Il trovatore. Cammarano aveva steso uno schema per un libretto.
L'altro soggetto a cui Verdi si interessava era La Dame aux camélias: l'adattamento teatrale che Dumas figlio aveva ricavato dal proprio racconto era quasi perfetto per una versione musicale.
Nel corso del mese di febbraio al Théàtre du Vaudeville si rappresentò con enorme successo questa pièces teatrale. Cammarano, comunque, preferì dedicarsi a Il trovatore e Verdi rimandò il lavoro sul dramma di Dumas. Ebbe anche contatti con l'Opéra per un nuovo titolo, spettacolo clou per l'Esposizione Universale del 1855. Ricevette le insegne di cavaliere della Legion d'onore (consegnate dall'amico Escudier); a metà marzo rientrò a Busseto dove continuò a lavorare a Il trovatore, ostacolato dalla malferma salute del librettista e da preoccupazioni per la salute del padre, corrispondendo anche con il Piave per l'opera destinata a Venezia, La Dame aux camélias che sarà poi chiamata La traviata.
In luglio, Cammarano morì a Napoli lasciando incompleto il libretto de Il trovatore. Verdi, profondamente scosso da questo lutto, incaricò un giovane poeta napoletano, Leone Emanuele Bardare, di valersi degli appunti del Cammarano per l'ultimo atto e di completare il libretto.
L'opera fu terminata nel corso del mese di novembre. Verdi si recò a Roma il mese successivo per mettere in scena l'opera.

Il 26 luglio Verdi aveva scritto al librettiscta Eugène Scribe:

Desidererei, ho bisogno, di un soggetto grandioso, appassionato, originale: di una mise en scène imponente, abbagliante. Ho sempre davanti agli occhi tante e tante di quelle scene magnifiche che si trovano nelle vostre opere: fra le altre L'Incoronazione nel Prophète [di Meyerbeer]! In questa scena nessun altro compositore avrebbe fatto, meglio di Meyerbeer: ma ugualmente con questo spettacolo, e soprattuto con questa situazione così originale, grandiosa ed allo stesso tempo così appassionata, nessun compositore, per quanto roco sentimento avesse, non avrebbe potuto non ottenere un grande effetto. Certo! queste scene sono dei miracoli! ma voi ne fate così abitualmente, che spero ne vogliate fare uno anche per me.

Verdi stava cercando un soggetto grandioso da comporre entro il 1955 per l'Esposizione nazionale di Parigi.


1853 All'inizio di gennaio Giuseppina si trovava a Livorno (da dove poteva facilmente recarsi a Firenze) per affari. Alcune lettere di Giuseppina a Verdi, scritte mentre egli si trovava a Roma per la rappresentazione del Trovatore, sono veramente rivelatrici. Egli non le permetteva ancora di accompagnarlo quando metteva in scena opere nuove in Italia. 2 gennaio:

Domani aspetto tue nuove e Dio voglia non manchino, avendone troppo bisogno! Spero avrai passato il primo dell'anno un po' meglio di me... [...] Non posso dirti con quanta impazienza aspetti il tuo ritorno!... Mi sono abbonata alla lettura e leggo, leggo, leggo, fino a farmene gli occhi infiammati; ma temo che la tristezza e la noia non mi attacchino con violenza in questi giorni in cui tu m'hai condannata al sistema cellulare. Dirai: spendi e divertiti. Prima di tutto io non amo che tu mi dica "divertiti" e poi, io non so cosa farmene dei divertimenti! Se io ti potessi vedere un quarto d'ora ogni ventiquattro, io avrei l'animo lieto, lavorerei, leggerei, scriverei ed il tempo mi passerebbe anche con troppa velocità. Così... ma lasciamo quest'argomento, perché mi vien da piangere.

3 gennaio:

Mio caro Pasticcio, ricevo la tua in questo momento e non ti posso dire con quale gioia!... Godo moltissimo che tu ti trovi perso senza di me, e ti auguro tanta noia da farti rinunziare alla barbara idea di lasciarmi isolata, come un santo della Tebaide! Mio caro Mago, il tuo cuore è un cuore d'Angelo, ma la tua testa, per le lingue e per certe idee, ha la parte ossea di una tale épaisseur, che se Gall esistesse, potrebbe aggiungere delle curiose osservazioni al suo trattato della Craniologia. Io domando a te in via di conversazione. È vero o non è vero che tutti quelli che s'intrigano, o s'interessano de' fatti altrui credono come un articolo di fede ch'io sia teco a Roma? Tu risponderai: certamente: lascia che lo credano. Io ripiglio (sempre in via di conversazione). Cosa farebbe a te allora, che vicino alla tua stanza da letto vi fosse la stanza del tuo povero Pasticcio? [...
] Ora potendo io star sola, sola, senza distrazione alcuna in una stanza, invece di starvi malcontenta, vi starei felicissima se sapessi che la notte quando rientri dal teatro, o dalla conversazione, prima di coricarti verresti come a casa, a dirmi; Buona notte, Pasticcio, e alla mattina prima di aprire la tua stanza alle visite: Buongiorno, Pasticcio. A me pare che nessun oratore abbia mai trovato argomenti più persuasivi dei miei.

Di nuovo il 3 gennaio:

Ho ricevuto la tua seconda lettera e ti ringrazio d'aver pensato a me il primo giorno dell'anno nuovo e undicesimo della nostra conoscenza! Se non ti ho scritto è perché conosco la tua indifferenza per tali cose... ma puoi immaginarti quanto bene ti desideri e ti desidererò il primo e tutti i giorni di tutti gli anni che ti restano a vivere! (Così Dio faccia che tu mi chiuda gli occhi!...) [...] Mio caro Verdi, ti confesso la mia debolezza, ma questa separazione mi è stata più dolorosa di tante altre. Senza di te sono un corpo senz'anima. Io sono (e tu credo del pari) diversa da tanti altri che hanno bisogno di frequenti separazioni per ravvivare il loro affetto. Io starei con te degli anni e degli anni, senza conoscere né noia, né sazietà; al contrario ora che fummo lungo tempo insieme, senza lasciarci un momento, io sono stata più sensibile al distacco, quantunque tu mi faccia sperare sarà breve. [...] Ora io sono grazie a Dio scomparsa dalla società e dopo tanti anni che noi viviamo insieme una vita solitaria, quasi selvaggia, il mio Io si trova come nuotante nello spazio quando solo deve recarsi in quello, o in quell'altro luogo del mondo abitato e civilizzato. Come me puoi dire ad alta voce che desideri la tua stanzetta di Sant'Agata! Così non avessi il contratto dell'Opera che potremmo o a Sant'Agata, od in altro deserto, godere la nostra vita tranquilla; godere i nostri piaceri così semplici e per noi tanto deliziosi! Qualche volta temo che l'amor del danaro non si risvegli in te e ti condanni ancora a molti anni di lavoro! Mio caro Mago, avresti gran torto! Vedi? noi abbiam passato una gran parte della nostra vita e tu saresti ben pazzo se invece di godere il frutto delle tue gloriose ed onorate fatiche in pace, sudassi per accumulare danaro e far ridere quelli che nella triste parola Morte! vedono il momento dei loro infami desideri realizzati, nella iniqua parola Eredità! [...] Noi adoriamo la campagna ed in campagna si spende poco, e si gode assai. [...] Io domando se a noi la Città ci ha mai dati tanti piaceri e se per conseguenza due o tre mesi all'anno di questa maledetta città non sono più che sufficienti per darci la febbre del desiderio di ritornare in campagna.

12 gennaio:

[...] Senti, mio caro Mago. Io non ho nulla al mondo che mi consoli, Te eccettuato! Io (e forse è male) ti amo sopratutto e sopra tutti! Per quanto grandi, numerosi e costanti siano i miei dolori, l'amore tuo è per me tal bene, che basta a darmi coraggio per sopportare tutte le amarezze che mi travagliano. Quindi se qualche atto, parola, o mancanza talvolta ti spiace in me, perdonalo, pensando a tutto quello che vi è di triste, disgraziato nella mia esistenza! [...] Non perder tempo e corri vicino a me subito finite le faccende di Roma. Voglimi bene, come io ne voglio a te. Tua Peppina

17 gennaio:

[...] Sono d'una tristezza incredibile e guai se dovessi continuare così! In Firenze ho avute delle occupazioni, delle noie, non dei divertimenti; ma il fumo del vapore del 24 mi annunzierà il mio Mago e con lui ritorneranno i momenti di buon umore e di birichinismo. Oh! se Sant'Agata fosse in Francia, in Inghilterra, in America!... Chi! all'infuori di te, mia Gioia, mi vedrebbe più su questa terra! Credi che l'avversione ch'io dimostro per la società in generale è assai minore di quella che io sento in me stessa! Se potessimo trovare nel mezzogiorno della Francia, dell'Inghilterra, della Grecia, della Turchia ecc. un angolo di terra da comperare, per mettere sottosopra a nostro capriccio, che delizia sarebbe per me! e per te? Io amo Sant'Agata perché è nella mia natura di affezionarmi ai luoghi, che abito lungamente; nonostante, almeno per otto o dieci anni ancora, vi sono tanti motivi, tante passioni (buone o cattive) che ci tolgono di godere colà quella quiete completa, che parmi ci farebbe ringiovanire e vivere doppiamente.

Il brano in cui Giuseppina descrive Verdi mentre compone a Sant'Agata, lei stessa rannicchiata su una poltrona vicina a interpolare critiche e commenti, è di straordinario interesse. Ella deve esser stata la prima a cantare molte di queste melodie di fama mondiale dagli appunti manoscritti del Maestro, che si lasciava consigliare da lei su molte cose. Infatti, appena cinque giorni dopo che Giuseppina aveva scritto questa lettera, troviamo Verdi che dice a Corticelli di non desiderare legarsi a un contratto per scrivere un'opera per una data determinata; prima avrebbe composto l'opera, con suo proprio comodo, poi si sarebbe guardato attorno per il teatro ed i cantanti adatti. Ciò era esattamente quello che aveva consigliato Giuseppina. Ma se ella sperava che le fosse concesso di accompagnarlo a Venezia per la rappresentazione della Traviata, doveva restar delusa. Verdi decise altrimenti, e la salute sempre più instabile di Giuseppina avrebbe in ogni modo reso consigliabile che ella rimanesse a casa. La traviata fu terminata a Sant'Agata in un'atmosfera di malinconia e di cattivi presentimenti come quella dell'ultimo atto dell'opera. Verdi stesso non stava bene, e già convinto che l'opera sarebbe andata male, come effettivamente accadde. Piave, da Sant'Agata, fu obbligato a scrivere sotto dettatura di Verdi, una lettera per far sapere alla direzione che il compositore riteneva l'intera compagnia dei cantanti scritturati indegna del teatro La Fenice, e che il risultato sarebbe stato un fiasco completo. Subito dopo la partenza per Venezia, Giuseppina gli scrisse una lettera meravigliosamente bella, il 23 febbraio

Caro Mago, come ti promisi, ti scrivo per dirti che io non istò né meglio né peggio di Domenica [...]. Tutto quello che io domando e spero è di essere perfettamente stabilita al tuo ritorno. Come mi sia crucciata li scorsi giorni vedendo te, mio povero Mago, affaticare come un negro ed avere per sovrappiù la vista del mio malessere, non puoi immaginarlo!... Ma ritornerò sana e cercherò col mio buon umore di farti dimenticare le noie passate. Tu sei così buono col tuo Livello [voce dialettale che sta per "noiosa"]... ed io mi desolo non potendo in nulla compensare quanto fai per me!... Neppure azzardo parlarti della tua generosa e delicata... ma vedi non è ingratitudine, tu lo sai, lo senti, lo capisci! Più d'una volta ho mandato giù la saliva, tossito etc. per incominciare il mio discorso... ma l'emozione mi strozza le parole in gola, mi vien da piangere, il sangue alla testa etc. e bisogna che rinunzi a quelle espressioni sincere ch'io vorrei dirti e tu hai il diritto d'attendere. D'altronde conoscendo la squisitezza del tuo sentire son certa che tu saresti confuso e commosso al pari di me! Povero Mago! e dire che quella tua anima così alta è venuta spontaneamente ad alloggiare in un corpo Bussetano. Vi vuol la fede di San Tommaso a crederlo. Io son sempre nella persuasione che sia successo qualche cambio nella tua infanzia! e tu provenga da qualche dolce fallo di due esseri infelici e superiori. Scrivimi quando puoi: sollecita le prove e ritorna nel tuo tugurio. La nostra giovinezza è passata, nondimeno noi per noi siamo sempre il mondo e vediamo con altissima compassione tutti i fantocci umani agitarsi, correre, arrampicarsi, strisciare, battersi, nascondersi, ricomparire, tutto per tentare di mettersi in maschera sul primo o sui primi gradini della mascherata sociale. In questa convulsione perpetua giungono all'ultima estremità sorpresi di non aver goduto nulla, di non aver nulla di sincero e disinteressato che li consoli nella ultima ora e andando troppo tardi a quella pace, che parmi il primo de' beni sulla terra e che hanno disprezzato tutta la loro vita per abbracciare le chimere della vanità.
Quando Iddio a noi lasci la salute, i nostri piaceri e desideri semplici e modesti ci rallegreranno anche nella grave età; la nostra affezione ed i nostri caratteri che tanto simpatizzano non lascieranno luogo a quegli alterchi frequenti ed acerbi che scemano l'amore e finiscono per distruggere tutte le illusioni... Non è vero, mio Pasticcio, che io vedo la vita dal lato che disgraziatamente non la vedono in generale? Se tu la vedi così, l'avvenire può essere ancora bello per me e per te. Addio, ti lascio perché sono stanca ma spero di star bene fra poco. Saluta Piave. Peppina

Vi sono altri brani, in queste lettere, che mostrano l'atteggiamento di Giuseppina verso gli amici e i conoscenti di Verdi. Muzio, lo giudicava con grande chiarezza:

Temo che la testa di quel giovane sarà un eterno ostacolo alla sua fortuna. È onestissimo ma d'un carattere esageratamente caldo ed inquieto; d'una facilità e d'una franchezza troppo spinta nel far osservazioni, sputar sentenze e dar consigli non richiesti; di così poco tatto nelle circostanze alcune volte delicatissime della vita, che pochi si adopreranno a favor suo, se non lo conosceranno a fondo, per apprezzare quanto vi è di buono, d'onesto e leale nel cuor suo. Me ne spiace, perché gli voglio sinceramente bene.

Le piaceva moltissimo anche Piave (detto "Gran Diavolo"), pur con certe riserve:

Ringrazia il Gran Diavolo delle poche linee scrittemi e digli che non ti dimostri la sua amicizia battendo l'acciarino. Capisco ch'egli abbia gran talento ed inclinazione (te lo ha provato) per tal mestiere, ma esortalo da parte mia a spiegare il suo zelo érotique con degli amici che lo assomiglino. Scherzi a parte, salutalo molto da parte mia e digli che se la povera Peppina è qui in mezzo alla neve (nuovamente caduta dopo la tua partenza) è perché cosi volle chi solo al mondo può comandarmi.

Dopo La traviata, Verdi non firmò più "sentenze d'esilio" per Giuseppina. Come risultato di questo nuovo atteggiamento, abbiamo pochissime lettere, d'ora in avanti, di lei a lui, perché non si separarono più che raramente. Il 9 settembre, secondo il desiderio espresso da Giuseppina, che le fosse risparmiato un altro inverno a Sant'Agata, Verdi scrisse a Cesare De Sanctis se poteva trovargli un appartamento a Napoli per due persone, e se una signora, che sarebbe andata con lui con il passaporto in regola, avrebbe avuto delle noie dalla polizia. De Sanctis rispose che la signora non avrebbe avuto nulla da temere; portare poi una lettera di presentazione per una banca sarebbe stato il non plus ultra della prudenza. Ma Verdi e Giuseppina, alla fine, non andarono a Napoli, ma di nuovo a Parigi. La partenza fu preceduta da un'altra esplosione d'ira contro Busseto, questa volta a causa della proposta nomina di Muzio a maestro di musica; dopo che Verdi l'aveva persuaso a far domanda, tutto finì in niente a causa delle condizioni vessatorie ed umilianti connesse alla nomina stessa. Verdi disse alla Società Filarmonica che non avrebbe mai piü voluto aver niente a che fare con le questioni musicali di Busseto:

In qualunque altro paese, trattandosi di musica, io sarei riescito ad ottenere quanto Voi ed io desideravamo: in qualunque altro paese avrei avuto l'appoggio delle autorità civile ed ecclesiastica. Altrove, lo ripeto, sarei riescito, a Busseto (è cosa fin da ridere) non ho potuto. È vecchio proverbio: Nemo propheta in patria!

Verdi e Giuseppina ritornarono a Parigi a metà ottobre, durante il secondo impero di Napoleone III che era subentrato alla seconda repubblica. Si fermarono in Francia per più di due anni. Il libretto da lungo tempo promesso da Scribe, Les vêpres siciliennes, fu consegnato alla fine di dicembre. Era la prima opera di Verdi che avrebbe avuto la sua prima esecuzione a Parigi, poiché la precedente Jérusalem era il semplice rimaneggiamento di un'opera già esistente. Il soggetto dell'opera doveva trattare dei vespri siciliani e quindi del famoso massacro avvenuto a Palermo nel 1282; Eugène Scribe, onnipresente all'Opéra, con uno dei suoi numerosi collaboratori, Charles Duveyrier, aveva l'incarico di stendere il libretto. Già all'inizio sorsero molte difficoltà: quasi insuperabili, forse, quelle relative alle esigenze di forma proprie all'opera francese di quel tempo. Per il grand-opéra era tradizionalmente d'obbligo uno spettacolare marchingegno in cinque atti, con grandi cori, splendidi effetti, scene sontuose e profusione di balletti: in altre parole un tipo di opera, stabilito da Meyerbeer e dai librettisti come Scribe, che da anni godeva il favore del pubblico. Questo genere di spettacolo alla vecchia maniera era diametralmente opposto al dramma agile, chiaro e sincero proprio alla natura di Verdi; ma, comprendendo che non era possibile modificare il gusto parigino Verdi cercò di adeguarvisi nel modo migliore, imponendosi di scrivere per Parigi l'opera desiderata secondo quello che il libretto di Scribe suggeriva. "Un'opera all'Opéra è fatica da ammazzare un toro" scriveva Verdi a un amico. "Cinque ore di musica?... Hauf!..." Ma, sebbene si rendesse conto del libretto che poteva aspettarsi da Scribe, rimase egualmente deluso dell'insulso intruglio drammatico che gli veniva sottoposto. Si trattava, come poteva facilmente dedurre, di una insensata parodia dei fatti storici del 1282. Si mise tuttavia al lavoro passando i mesi invernali a Parigi e l'estate in campagna a Mandres. In ottobre aveva portato a termine quattro dei cinque atti e incominciarono le prove.
Verdi non si accontentava ormai più dei vecchi libretti. Aveva scritto il 18 gennaio a Cesare De Sanctis:

Novità, novità! Lo scoglio di tutti i giovani poeti. Par loro di avere toccato il cielo con un dito quando possono dire: "Ho fatto come Romani, come Cammarano ecc." Per Dio appunto perciò si dovrebbe fare altrimenti... Quando verrà il poeta che darà all'Italia un melodramma vasto, potente, libero d'ogni convenzione, vario, che unisca tutti gli elementi e sopratutto nuovo!!... Chi lo sa? [...] Ma verrà un tempo, spero, in cui anch'io mandando al diavolo le note potrò godere un po' più la vita che non ho fatto finora: e sì che ho lavorato tanto.

Il Trovatore era andato in scena trionfalmente al Teatro Apollo di Roma il 19 gennaio 1853 e subito l'opera fu considerata il capolavoro che realmente è e negli anni che seguirono immediatamente alla prima romana fu eseguita in tutto il mondo. Alcuni critici tuttavia, lamentarono l'abbandono del bel canto per richiedere agli esecutori tessiture impossibili, e molti trovarono da ridire sugli aspetti violenti e sinistri che gravano sulla trama de Il trovatore. "Dicono" scriveva Verdi alla Contessa Maffei "che quest'opera sia troppo triste e che vi siano troppe morti. Ma infine nella vita tutto è morte!. Cosa esiste?..."
In questo periodo Verdi aveva anche concordato di rappresentare La traviata il 6 di marzo alla Fenice di Venezia, in tal modo mentre provava Il trovatore a Roma componeva La traviata. Solo poche settimane separano quindi le prime delle due opera. Dopo le prime tre recite de Il trovatore, Verdi ritornò a Sant'Agata per terminare La traviata, in una atmosfera di oscuro pessimismo, adattissimo al contenuto della parte conclusiva del dramma. Anche Piave si trovava in villa per terminare il libretto. Verdi giunse a Venezia il 21 febbraio per strumentare l'opera e assistere alle prove. Aveva le sue buone ragioni per temere il peggio: soprano, tenore e baritono non erano all'altezza e non si trovavano a loro agio in un'opera così fuori del comune: un ambiente semplice e domestico, privo di intrighi, di duelli, insomma d'ogni orpello proprio alle vecchie trame. La prima esecuzione de
La Traviata avvenne il 6 marzo e nelle lettere del giorno seguente, a vari amici, Verdi riferirà sul disastro. La lettera più citata è il laconico biglietto inviato al Muzio: "La Traviata, ieri sera, fiasco. La colpa è mia o dei cantanti?... Il tempo giudicherà."
Verdi fu per lunghi periodi a Sant'Agata nella primavera e durante l'estate, occupandosi della campagna e corrispondendo con Antonio Somma sul progetto del Re Lear, al quale pensava seriamente in quest'epoca.
In ottobre, come detto, Verdi tornò a Parigi per comporre Les vêpres siciliennes.
Il 1º gennaio aveva scritto a Cesare De Sanctis:

Non desidererei meglio che di trovare un buon libretto e quindi un buon poeta (ne abbiamo tanto bisogno) ma io non vi nascondo che leggo mal volentieri libretti che mi si mandano: è impossibile, o quasi impossibile che un'altro indovini quello che io desidero: io desidero sogetti nuovi, grandi, belli, variati, arditi..., ed arditi all'estremo punto, conforme nuove etc. etc. e, nello stesso tempo, musicabili... Quando mi si dice: ho fatto così, perché così han fatto Romani, Cammarano, etc., non s'intendiamo più: appunto perché così han fatto quei grandi, io vorrei si facesse diversamente.

Da Sant'Agata, il 22 aprile, Verdi scrisse ad Antonio Somma:

La lunga esperienza mi ha confermato nelle idee che io ebbi sempre riguardo all'effetto teatrale, quantumque ne' miei primordi non avessi il coraggio che di manifestarle in parte. (Per esempio dieci anni là non avrei arrischiato di fare il Rigoletto.) Trovo che la nostra opera pecca di soverchia monotonia, e tanto, che io rifiuterei oggi di scrivere soggetti sul genere del Nabucco, Foscari etc. etc... Presentano punti di scena interessantissimi, ma senza varietà. È una corda sola, elevata se volete, ma pur sempre la stessa. E per spiegarmi meglio: il poema del Tasso sarà forse migliore, ma io preferisco mille e mille volte Ariosto. Per l'istessa ragione preferisco Shacspeare [sic] a tutti i drammatici senza eccettuarne i greci. A me pare che il miglior soggetto in quanto ad effetto che io m'abbia finora posto in musica (non intendo parlare affatto sul merito letterario e poetico) sia Rigoletto. Vi sono posizioni potentissime varietà, brio, patetico: tutte le peripezie nascono dal personaggio leggero, libertino del Duca: da questo i timori di Rigoletto, la passione di Gilda etc. etc. che formano molti punti drammatici eccellenti, e fra gli altri la scena del quartetto, che in quanto ad effetto sarà sempre una delle migliori che vanti il nostro Teatro.


1854 Gran parte della musica di quest'opera venne scritta nel 1854, molto lentamente e senza nessun entusiasmo. I pensieri di Verdi erano spesso altrove. Scriveva alla contessa Maffei di non aver nessuna intenzione di stabilirsi permanentemente a Parigi: "Io amo troppo il mio deserto e il mio cielo". Aveva "una smania feroce di ritornare a casa". I mesi estivi furono passati in campagna, a Mandres, e da là, in settembre, Verdi riferiva che aveva finito quattro atti della nuova opera. Le prove iniziarono in ottobre, ma vennero interrotte dalla fuga del soprano principale, l'eccentrica cantante tedesca che si faceva chiamare Cruvelli. Verdi si servì di questo appiglio per chiedere lo scioglimento del contratto. In una lettera a Giuseppina Appiani aveva scritto che, se riusciva ad ottenere lo scioglimento del contratto, sarebbe ritornato subito a Busseto, ma soltanto per pochi giorni. "Dove andrò? Non saprei dirlo!" Probabilmente avrebbe portato Giuseppina Strepponi a Napoli, per evitarle un altro inverno nella nebbia, pioggia e neve di Sant'Agata. Ma la Cruvelli ricomparve e fu necessario fermarsi a Parigi. Seguirono prove apparentemente lunghissime ed estenuanti; Les vépres siciliennes non furono rappresentati che il 13 giugno 1855.
Il Trovatore era nel frattempo approdato nella capitale francese sulle scene amiche del Théâtre des Italiens.
I veneziani riudirono La traviata il 6 maggio 1854, nel Teatro di San Benedetto, con alcune modifiche e una diversa compagnia di canto. Questa volta l'opera ebbe uno schiacciante successo, un successo che si diffuse immediatamente. L'opera fu rappresentata in tutta l'Italia e in Europa, sempre con i costumi settecenteschi, e presto divenne l'opera più discussa del tempo. A Cesare Vigna, che gli riferì del gran successo della Traviata a Venezia, scrisse: "Verrà il momento, e non è molto lontano, che dirò: 'Addio, mio pubblico; sta bene; la mia carriera è finita: vado a piantar cavoli."
Il 28 giugno Verdi diceva alla contessa Maffei che sperava di andare in Italia per quindici giorni; ma fu trattenuto a Parigi per altri sei mesi, lottando per impedire che le sue opere fossero fatte rappresentare in una maniera indegna, e senza pagamento dei diritti, da Calzado, uno spagnolo che era subentrato a dirigere il Thétre Italien. Durante questo stesso periodo era anche impegnato in una corrispondenza lunga e spesso acrimoniosa con Tito Ricordi su diritti di traduzione, diritti di rappresentazione, contratti, errori di stampa, appropriazioni indebite, diritti d'autore e disonestà di editori. L'agente di Ricordi non aveva fatto il suo dovere: "Così a me tocca prolungare il soggiorno in Parigi e consumare danari!... Secondo il solito a me le spese e le noie, agli altri l'utile!" Ricordava a Ricordi che la "colossale fortuna" di questi, derivava largamente dalle sue opere. "Infine io non sono mai stato considerato che come un oggetto, un arnese da servirsene fino che produce. Tristi parole, ma vere."
Verso la fine di dicembre Verdi e Giuseppina erano di nuovo a Sant'Agata.


1855 Il 3 gennaio scrive a un amico francese:

Più rifletto su questo soggetto, più mi convinco che è pericoloso. Ferisce i francesi, che vengono massacrati; ferisce gli italiani perché Scribe, modificando il carattere storico di Procida, ne ha lutto (secondo il suo sistema prediletto) un comune cospiratore mettendo nella sua mano l'inevitabile pugnale. Mio Dio! Nella storia di ogni popolo ci sono virtù e crimini, e noi non siamo peggio degli altri, in tutti i casi, sono prima di tutto italiano, e costi quello che costi, non sarò mai complice di un insulto fatto al mio paese.

Felice fu l'esito de Les vêpres siciliennes il 13 giugno: oltre cinquanta repliche, dopo le peripezie e le tensioni degli otto mesi di prove:

È nello stesso tempo desolante e umiliante per me che il signor Scribe non si dia la pena di porre rimedio a questo quinto atto, che ognuno è concorde nel trovare privo di interesse. [...] Se avessi potuto sospettare in lui tale sovrana indifferenza, sarei rimasto al mio paese, dove, in verità, non mi trovavo male! [...] Speravo che il signor Scribe avesse avuto la compiacenza di farsi vedere qualche volta alle prove per rimediare a alcuni inconvenienti di parole, di versi difficili o duri a cantare; per vedere se non vi era nulla da ritoccare nei pezzi, negli atti ecc. ecc. [...]

L'opera, subito tradotta in italiano, fu presentata a Parma con il titolo Giovanna de Guzman (26 dicembre).
Dopo la prima esecuzione di Les Vêpres siciliennes, Verdi si fermò a Parigi per diversi mesi: doveva infatti occuparsi di numerose questioni di affari e di problemi legali relativi ai diritti, alla pubblicazione e alla esecuzione delle sue opere. Si recò a Londra, per la tutela dei diritti sul Trovatore: era ancora prassi corrente, in Italia e all'estero, ricavare l'orchestrazione di un nuovo lavoro da spartiti pirata, o tagliare e sostituire interi brani con opere di altri compositori; Verdi interverrà energicamente a più riprese, per affermare e difendere l'integrità delle proprie creazioni. Finalmente in dicembre rientrò a Sant'Agata per occuparsi dell'adattamento di Stiffelio, con la collaborazione di Piave.


1856: Il 7 febbraio 1856 Verdi descriveva la sua vita a De Sanctis:

Abbandono totale di musica: un poco di lettura: qualche leggera occupazione d'agricoltura e di cavalli: voilà tout.

Nel mese di marzo fu convocato Piave, per discutere della trasformazione dello Stiffelio in Aroldo. Piave suggerì di ambientarlo nel medioevo e di trasformare Stiffelio in un crociato. Verdi non era d'accordo ("T'ho già detto che non amerei fare di Stiffelio un Crociato. Qualche cosa di più nuovo e di più piccante. Pensaci.") ma Piave insistette per il suo crociato e il risultato fu Aroldo dove il protagonista è un crociato inglese.
In quel mese doveva recarsi anche a Venezia per dirigere una fortunata ripresa de La traviata. Prima di mettere in scena qualche novità, andò lui stesso a riscattare la Traviata alla Fenice, con un allestimento controllato di persona. La lettera di convocazione a Piave ha il tono di un umorismo gagliardo e vittorioso:

O martedì o mercoledì o giovedì partirò per Venezia, io ti scriverò sempre un giorno prima, onde tu sappia positivamente il giorno in cui sarò a Padova. Anzi, perché ti arrivi presto la lettera farò ferma in posta, e tu, caro il mio gatto [soprannome di Piave], avrai la compiacenza verso le dodici di fare una corsa alla posta, così ti calerà un po' quel ventraccio. Io mi fermerò a Padova, e se tu non vi sarai sarai un ludro [una carogna]
, un p..., un gatto, un coccodrillo, un sorcio. Fa preparare una buona cena (perché talvolta a Padova non si trova), un buon fuoco, un buon letto, e alla mattina alle 8 partiremo per Venezia, onde far prova alle dodici. Di più per giovedì mattina mi troverai due stanze (se fossero quelle del ponte delle ostriche benissimo) e farai da Gallo mettere il cembalo buono assai. Ha capito, sig. Ludro? Fa che vi sia il programma della nostra opera ben diffuso. Guarda che non abbia da bestemmiare, perché divento col crescer degli anni sempre più furente. Una volta o l'altra già t'ammazzo.

Dal punto di vista della creazione, l'anno fu poco produttivo per Verdi. Il 1º aprile Verdi diceva alla contessa Maffei:

Non posso fare a meno di ammirare la sua bontà e la sua costante amicizia per questo povero orso di Busseto. Non mi occupo di nulla, non leggo, non scrivo. Giro ne' campi da mattina a sera e cerco di guarire, finora inutilmente, dal mal di stomaco che i Vespri mi han lasciato. Maledettissime opere!

Tuttavia il 15 maggio firmava un contratto per un'opera nuova, che doveva esser data al teatro La Fenice di Venezia, durante la prossima stagione di carnevale. Si trattava del Simon Boccanegra. In quel momento stava ancora considerando di scrivere un'opera basata sul Re Lear per Napoli. Fitto il carteggio con l'avvocato poeta Antonio Somma. Interessante per comprendere la "poetica" verdiana questo stralcio della lettera inviata allo stesso Somma il 7 aprile:

Non son sicuro se il quart'atto del Re Lear va bene come ultimamente lo mandaste, ma ciò che è certo si è, che non sarebbe possibile fare inghiottire al pubblico tanti recitativi di seguito, specialmente in un quarto atto. Non sono esigenze di compositore: io metterei in musica anche una gazzetta, od una lettera ecc. ecc., ma il pubblico ammette tutto in teatro fuori che la noia. Tutti quei recitativi, fossero anche fatti da Rossini o da Meyerbeer, non potrebbero a meno di riescire lunghi, quindi nojosi. Se devo dire il vero, temo molto di questa prima metà dell'atto quarto. Non saprei dirlo, ma vi è qualche cosa che non mi soddisfa. Manca sicuramente di brevità, forse di chiarezza, forse di verità... non saprei. Vi prego dunque di rifletterci ancora, per vedere se è possibile trovare qualche cosa di più teatrale.

In giugno, su consiglio del medico, andò con Giuseppina a Venezia per i bagni di mare, ma trovò anche il tempo di rivoltare e ricucire Stiffelio (che affermerà a Rimini, nell'agosto del 1857 col titolo di Aroldo) e abbozza la prossima opera per la Fenice (stagione '56-'57), sotto una certa consulenza di Somma e con libretto sempre di Piave (Simon Boccanegra). Alla fine dell'anno una lettera al fedele librettista presenta solide indicazioni sceniche per questo lavoro, ambientato a Genova, con l'aria e il profumo del mare che impregnano la partitura, mentre la vicenda del doge medioevale e dei suoi avversari grandeggia in alcuni squarci di gigantesco rilievo. Si tratta del Simon Boccanegra, tratto dall'omonimo dramma dello spagnolo Antonio Garcia Gutiérrez. "Cura molto le scene" scrive il maestro. E continua:

Le indicazioni sono abbastanza esatte, nonostante mi permetto alcune osservazioni. Nella prima scena, se il Palazzo Fieschi è di fianco, bisogna che sia ben in vista di tutto il pubblico, perché è necessario che tutti veggano Simone quando entra in casa, quando viene sul balcone, e stacca il lanternino: credo d'aver avuto un effetto musicale che io non voglio perdere causa la scena. [...]

Durante il 1856, Verdi non solo lavorava alla nuova opera dopo aver preparato il libretto che Piave doveva verseggiare, ma continuò nei suoi viaggi a Parigi e a Londra per tutelare i propri interessi.

Alla fine di luglio era ritornato con Peppina una volta ancora a Parigi. Doveva essere un soggiorno di circa quindici giorni, per disfare la casa e sistemare i mobili. Escudier veniva informato che "Verdi viene a Parigi, ma il Maestro rimane in Italia". Ma come al solito fu coinvolto in affari musicali, nonostante la sua volontà. Intentò, e perse, una causa contro Calzado, per impedirgli di dare La traviata e il Rigoletto al Théâtre Italien, e quindi si accordò per curare la rappresentazione del Trovatore, in francese, all'Opera. Tutte queste cose lo trattennero in Francia fino al gennaio 1857.


1857 Sempre più ricorre nelle sue lettere il tema della vita di campagna, dei contadini, dei "campi".

Mio caro Vigna, anch'io sarò sincero con te (come lo sono sempre del resto e con te e con tutti) e ti dirò che non ti ho scritto fino ad ora, perché da mattina a sera sono sempre fra campi, fra boschi, in mezzo a paesani, a bestie... alle migliori, però, le quadrupedi. Arrivando a casa stanco, non ho mai saputo finora trovare il tempo ed il coraggio di prender in mano la penna.

Giuseppina scrisse a Léon Escudier, il 4 luglio:

D'ailleurs son amour pour la campagne est devenu manie, folie, rage, fureur, tout ce que vous voudrez de plus exagéré. Il se leve presque avec le jour pour aller examiner le blé, le maïs, la vigne etc! Heureusement nos goûts pour ce genre de vie, ne diffèrent que pour le lever du soleil, qu'il aime à voir debout et moi de mon lit.

Tuttavia, di ritorno a Sant'Agata, con lo stomaco "a pezzi" dovette mettersi a lavorare al Simon Boccanegra. L'opera venne infine rappresentata, con scarso successo, il 12 marzo a Venezia.
L'opera Aroldo inaugurò il nuovo teatro di Rimini il 16 agosto. Verdi e Piave supervisionarono lo spettacolo, e Angelo Mariani, che incominciava a farsi un nome come interprete verdiano, era il direttore. Durante una prova, quando Mariani riprese l'orchestra perché incapace di eseguire il brano della tempesta come desiderava, Verdi ascoltò in silenzio per un certo tempo, poi si avvicinò al direttore d'orchestra invitandolo a non insistere, ma a passare al pezzo seguente. Dopo la prova Mariani protestò, poiché avrebbe voluto ottenere dall'orchestra una esecuzione migliore, ma Verdi sorrise e osservò che la colpa non era degli esecutori poiché l'orchestrazione era completamente sbagliata e che intendeva rifarla durante la notte. Aroldo ebbe meno successo di Stiffelio.

Rimini rigurgitava di forestieri, immensa era l'aspettativa. Ritratti di Verdi erano appesi alle vetrine de' negozi, ai muri, alle finestre, dovunque; epigrafi di occasione magnificavano il Genio italiano; sulle cantonate a lettere staccate, si leggeva W.V.E.R.D.I. per opera del Comitato Nazionale. Dello spartito piacque soprattutto la brillante sinfonia, ma il resto dell'opera lasciò freddo l'uditorio; discreti applausi salutarono le ultime battute dello Stiffelio riscaldato, come allora si disse, e si mostrò di preferire la vecchia edizione.

A Parigi si occupò della revisione de Il trovatore (
Le trouvère) per l'edizione francese, scrivendo il balletto e modificando il finale, ma trovando anche il tempo di corrispondere con il Piave per il Simon Boccanegra. Non mancarono gli interventi della censura poiché il doge Boccanegra esprimeva concetti sull'unità d'Italia; ma Verdi dichiarò inequivocabilmente di non voler accettare alcuna imposizione e in sostanza non vi furono mutamenti. Verdi lavorò all'opera nel corso dell'anno, ma quando lasciò Parigi, all'inizio del 1857 per ritornare a Sant'Agata, era ben lungi dall'aver terminato il lavoro. Insoddisfatto di alcune parti del libretto del Piave, pregò Giuseppe Montanelli, uomo politico e già professore di diritto che viveva esiliato a Parigi, di riscrivere alcune scene. Il Montanelli lavorò con solerzia e competenza, ma quando Verdi arrivò a Venezia, alla metà di febbraio per le prove, aveva ancora un atto da scrivere e tutta la partitura da strumentare. L'opera andò in scena alla Fenice il 12 marzo, ma non ebbe successo. Alla contessa Maffei, Verdi scriveva:

Il Boccanegra ha fatto a Venezia un fiasco quasi altrettanto grande che quello della Traviata. Credevo d'aver fatto qualche cosa di possibile, ma pare che mi sia ingannato.

L'opera interessò tuttavia i critici. La musica veniva elogiata per la fedeltà al testo, la strumentazione per la sua eleganza, la melodia per l'ispirazione. Ventitré anni dopo, nel 1880, il sessantasettenne Verdi, dopo Aida e con Otello in gestazione, fu convinto da Ricordi di dare un'occhiata al Boccanegra. Verdi si persuase facilmente, avendo sempre amato questa sua opera.

Giuseppina aveva accompagnato Verdi a Venezia per la rappresentazione del Simon Boccanegra; lo accompagnò anche a Rimini per la prima di Aroldo andò in scena il 16 agosto. I giorni dell'esilio erano terminati: ora passava ovunque per sua moglie. Le sue lettere di questo periodo sono piuttosto scarse, cosi che non è possibile dire con esattezza quando cominciò ad usare il cognome di Verdi. Non possediamo niente il marzo del 1853 (si firmava ancora "G. Strepponi") ed una lettera in francese a Léon Escudier del 15 febbraio dell'anno in corso, che è firmata "Josephine Verdi". Il 24 dicembre Verdi stesso diceva a De Sanctis: "Verrò a Napoli con mia moglie".
Durante il mese di settembre Verdi scrisse a Torelli:

Sono nella desolazione! In questi ultimi mesi ho percorso un'infinità di drammi (fra i quali alcuni bellissimi), ma nessuno facente al caso mio! [...] Ora sto riducendo un dramma francese, Gustavo III di Svezia [che diverrà Un Ballo in maschera], libretto di Scribe, e fatto all'Opéra or sono più di vent'anni [con musica di Auber]. È grandioso e vasto; è bello; ma anche questo ha i modi convenzionali di tutte le opere per musica, cosa che mi è sempre spiaciuta, ma che ora trovo insoffribile. Vi ripeto che sono nella desolazione, perché per trovare altri sogetti ora è troppo tardi, e d'altronde non saprei più dove andarmene a scartabellare: quelli che ho sotto la mano m'ispirano nissuna confidenza. Vi faccio dunque un progetto che può accomodar tutto, ed essere d'interesse tanto per il teatro, quanto per la mia riputazione. Deponiamo il pensiero di scrivere per quest'anno un'opera totalmente nuova, e sostituiamo a quella la Battaglia di Legnano riducendola ad altro sogetto, ed aggiungendo i pezzi necessari come feci per l'Aroldo. [...] Io mi obbligherò a scrivere il Re Lear per l'anno venturo, facendo però una Compagnia adattata, come voi sapete che è indispensabile.


1858 Il soggiorno a Napoli, iniziato al principio di quell'anno durò quasi quattro mesi. Insormontabili difficoltà di censura portano a sciogliere un contratto con il San Carlo: come già Il trovatore, anche Un ballo in maschera (con il titolo originario, Una vendetta in domino) fu offerto all'impresario romano Jacovacci. Dopo Venezia, Napoli: un'altra esperienza chiusa; di fatto, nel primo decennio dell'Italia unita, Verdi scriverà solo per teatri stranieri. Per un certo periodo aveva avuto anche dei contatti con il Teatro S. Carlo di Napoli riguardo al Re Lear. Era stato firmato un contratto con il teatro, ma per Verdi molto dipendeva dalla disponibilità di Maria Piccolomini per la parte di Cordelia; quando fu evidente che non era possibile averla per la stagione 1858, Verdi pensò di accantonare il progetto di Re Lear e di cercare subito un altro soggetto per l'opera che doveva scrivere, secondo il contratto, per il gennaio del 1858. La scelta cadde, come detto, su un libretto preesistente di Scribe, suo ex collaboratore, dal titolo Gustave III ou Le bal masqué. Il soggetto, di origine storica, trattava dell'assassinio di Gustavo III di Svezia a un ballo mascherato nel 1792. Verdi chiese al librettista del Re Lear, Antonio Somma, di tradurre un'altra volta il libretto francese. La decisione fu presa solo nell'ottobre del 1857, tre mesi prima della data stabilita per l'andata in scena. Per aggirare i problemi di censura, Verdi e Somma sarebbero stati anche d'accordo a spostare l'azione dalla Svezia del diciottesimo secolo alla Pomerania del diciassettesimo secolo, e a cambiare il titolo da Gustave III in La vendetta in domino. Solo in gennaio, arrivando a Napoli, Verdi venne a sapere che il censore rifiutava il permesso all'esecuzione dell'opera, con o senza il cambiamento d'epoca e di luogo. Il caso fu portato in tribunale. Fu sciolto il contratto lasciando libero il compositore di offrire La vendetta in domino altrove. Mentre gli avvocati stavano ancora discutendo, Verdi aveva già offerto l'opera al Teatro Apollo di Roma che l'accettò con la riserva, naturalmente, di far approvare il soggetto dalla censura papale. Per quanto spiacevole la controversia riguardante il Ballo in maschera, Giuseppina si godette l'inverno a Napoli, da tanto tempo programmato, e si fece uno stuolo di nuovi amici. Fra questi vi erano Cesare De Sanctis e la sua famiglia, il caricaturista Melchiorre Delfico, il bibliotecario del Conservatorio, Francesco Florimo, il barone Giovanni Genovese, il poeta Nicola Sole, i pittori Domenico Morelli e Filippo Palizzi, Vincenzo Torelli e molti altri. Sono tutti immortalati dalle caricature di Delfico, assieme a Verdi, a Giuseppina e al minuscolo maltese spagnolo Loulou. Le caricature furono offerte dal Piave.
Per la fine di aprile Verdi e Giuseppina erano di ritorno a Sant'Agata.

Dopo i trambusti di Napoli questa profonda quiete mi è sempre più cara. È impossibile trovare località più brutta di questa, ma d'altra parte è impossibile ch'io trovi ove vivere con maggior libertà [...] Son dieci anni che non vedo quel paese [Milano], che ho amato tanto, e dove ho passato la mia gioventù ed incominciata la mia carriera! Quante memorie care e tristi! Chi sa quando lo vedrò! [Lettera di Verdi a Clarina Maffei]

E a Torelli, alla fine di maggio, scrisse:

Voi siete riparato alla campagna, ed io sono in un vero deserto. Da un mese non vedo alcuno; corro tutto il giorno da casa ai campi, dai campi a casa, finché arrivata la sera, morto di stanchezza, mi caccio in letto per tornare da capo l'indomani. La Peppina legge, scrive, lavora: io non faccio nulla, nulla: vero bruto.

Il compositore continuò a corrispondere sull'opera con l'impresario romano Vincenzo Jacovacci e con il Somma. La censura papale approvò il libretto ponendo la condizione che il dramma non si svolgesse in un paese europeo. Verdi e Somma, dopo aver considerato vari paesi, compreso il Caucaso, scelsero infine Boston, in periodo antecedente alla guerra americana d'indipendenza. Il 6 agosto Verdi scriveva al Somma: "Armatevi di coraggio e di pazienza, sopratutto pazienza! [...] la Censura ha mandato una lista di tutte le espressioni e dei versi che non vuole."
Il sottotitolo originale di Scribe, Le bal masqué, divenne in italiano il nuovo titolo dell'opera: Un ballo in maschera. Il censore papale impose ancora dei mutamenti, indignando il Somma.
Il 12 settembre Giuseppina scrisse a Torelli:

[...] Quanto a Verdi, egli ha una salute da spiantato (fate le corna) ed è degno per il suo colore di andare nelle colonie a piantar canne da zucchero. Io vi posso giurare che in questi mesi non ha scritto una nota! [...] Ora comincia a dar qualche occhiata sinistra al cartolare del nuovo spartito, che quasi certamente si darà a Roma. Spero nel cattivo tempo e nell'impossibilità di uscire, perché ritrovi il bisogno di riprendere la penna.

A Giuseppina fu risparmiato un altro inverno a Sant'Agata dovendo ritornare a Napoli per il Simon Boccanegra, e successivamente rimanere due mesi a Roma per la rappresentazione del Ballo in maschera. Nel dicembre era un Verdi tormentato che scriveva all'amico Cesare Vigna, lo psichiatra:

Da Roma ho ricevuto le varianti al Ballo in maschera. Somma mi scrive che ne è "nauseato" (la parola non è gentile) ed io lo sono più di lui! Ma cosa doveva io fare? Voleva che io protestassi e facessi una lite come l'anno scorso? Una seconda lite sarebbe stata scandalosa e ridicola! Certo che pel teatro bisogna fare dei sacrifizi, e chi non ha questo coraggio è inutile che si metta alla dura prova.

A Roma, comunque, ogni cosa procedeva facilmente a dispetto della febbrile situazione politica.


1859 Il 15 gennaio Giuseppina scrisse a Mauro Corticelli:

Verdi è così stanco, saturo, disgustato del teatro che ci sono molte probabilità che dica per la scena quello che Rabelais disse nei suoi ultimi istanti della vita: Abbassate il sipario; la farsa è terminata! Sarà fatto il suo volere. Nessuno, senza dubbio, può vantarsi di essere più onesto di lui, e di aver guadagnato con più dignità i mezzi e il diritto di condurre un'esistenza indipendente.

La prima esecuzione del Ballo in maschera fu fissata per il 17 febbraio 1859. Verdi e Giuseppina arrivarono a Roma nel gennaio e furono discretamente soddisfatti della compagnia. La prima rappresentazione ottenne un brillante successo.
Nel 1859 nella vita di Verdi entrò ancora la politica. Fra il 1849, quando erano state distrutte le ultime speranze napoletane, e il 1859, non abbiamo nessuna fonte d'informazione su quelli che erano i punti di vista politici del compositore. I commenti sulla politica spariscono dalle sue lettere, come la vena patriottica e bellicosa sparisce dalle sue opere. Il ritiro alla vita domestica e al silenzio dei campi fu d'immenso beneficio per la sua arte, la cui crescente umanità, grazia e calore possono annoverarsi fra le non ultime conquiste di Giuseppina. Ma il cuore di Verdi continuava a sanguinare per l'Italia e il successo delle sue opere gl'interessava sempre meno. Diceva a Piave che se si fosse saputo con quale incredibile indifferenza aveva assistito al caldo successo del Ballo in maschera, la gente gli sarebbe diventata ostile, lo avrebbe tacciato d'ingratitudine e di disinteresse per l'arte che professava. In uno dei rari scoppi di confidenza esclamava:

Oh no! io l'ho adorata e l'adoro quest'arte, e quando sono fra me e me alle prese colle mie note allora il cuore palpita, le lagrime piovon dagli occhi e la commozione ed i piaceri sono indicibili, ma se penso che queste mie povere note devono essere gettate avanti ad esseri senza intelligenza, ad un editore che le vende per servire poscia di divertimento o di scherno alle masse, oh allora non amo più nulla!... Non ne parliamo.

Il tema del ritiro, dell'addio alle muse ricorre sempre più di frequente, ogni nuovo lavoro essendogli strappato a forza, da circostanze impreviste, da complotti di amici, da una combustione improvvisa, quasi contro la sua volontà, della materia creativa sepolta sotto la cenere. Curare le sue terre, diventare un contadino, come seguitava a dire, erano le uniche cose che lo interessavano.
Da questa inerzia spirituale, abbattimento e delusione, fu rianimato dal richiamo squillante di Cavour e di Vittorio Emanuele. Cavour era primo ministro del Piemonte dal 1852, eccetto che per un brevissimo intervallo. Per mezzo di un'abile attività diplomatica, mettendo una potenza o un partito l'uno contro l'altro, con atti di forza mediante misure impopolari che più tardi davano però i loro frutti, aveva creato la possibilità di una ripresa della guerra contro l'Austria con una mossa abilissima verso la riunificazione dell'Italia sotto Vittorio Emanuele. Con l'invio di truppe piemontesi in Crimea per combattere a fianco dei francesi e degli inglesi, aveva alzato il prestigio del suo paese assicurandogli un benevolo appoggio nel futuro. Il 10 gennaio 1859 Vittorio Emanuele aveva dichiarato davanti al parlamento che non era insensibile alle grida di dolore che gli giungevano da molte parti d'Italia. Nello stesso mese fu firmata un'alleanza difensiva fra Piemonte e Francia e la principessa Clotilde di Savoia sposava il principe Gerolamo, cugino di Luigi Napoleone. Tutto questo accadeva subito prima della rappresentazione del Ballo in maschera a Roma, e fu a
quell'epoca che il grido "Viva Verdi!" cominciò ad assumere il valore di acrostico: V.E.R.D.I. non si indicava solo il compositore, ma anche Vittorio Emanuele Re d'Italia. Fu un grido che penetrò nell'anima italiana.
L'Austria fu provocata fino ad emanare un ultimatum il 23 aprile, e tre giorni dopo che l'ultimatum era stato respinto, il 26 aprile, l'esercito austriaco attraversava il Ticino ed invadeva il Piemonte. Era precisamente quello che Cavour voleva. Napoleone III tenne fede alla sua parola e scese in aiuto del Piemonte; in una serie di battaglie gli austriaci furono sconfitti e respinti dal Piemonte e dalla Lombardia. Ben presto i duchi di Parma e di Modena fuggirono dai loro territori e i governi provvisori instaurati cercarono la protezione di Vittorio Emanuele.
Sant'Agata non era sul fronte, ma a un certo momento ne fu abbastanza vicina. Giuseppina scriveva a De Sanctis, il 21 maggio:

Verdi è serio, grave, ma calmo e fidente nell'avvenire. Io sono certamente più inquieta, più smaniosa, ma io sono donna e di un temperamento più vivo. Del resto capirete bene, che il pensiero di tali cose non è fatto per risvegliare una pazza allegria.

Il 20 giugno Verdi redasse una sottoscrizione a favore dei feriti e delle famiglie dei caduti. Egli si mise a capo della lista con un'offerta di 25
napoleoni d'oro.
Seguirono le vittorie di Solferino e San Martino. Ma, il 12 luglio, Napoleone firmava il trattato di Villafranca, che portava la pace, lasciando però Venezia ancora in mani austriache. Verdi ne fu colpito e disgustato.

"E dov'è dunque la tanto sospirata e promessa indipendenza d'Italia?" chiedeva a Clarina. "Cosa significa il proclama di Milano? O che la Venezia non è Italia? Dopo tante vittorie, quale risultato! quanto sangue per nulla! quanta povera gioventù delusa! E Garibaldi che ha perfino fatto il sacrifizio delle sue antiche e costanti opinioni in favore d'un Re senza ottenere lo scopo desiderato! C'è da diventar matti.

Se la guerra del 1859 non aveva portato a compimento tutte le speranze italiane, molto era stato però guadagnato. La Lombardia era libera, e Parma, Modena e la Toscana optarono con un plebiscito l'unione con il Piemonte. Verdi, in rappresentanza di Busseto, fu nel novero dei prescelti per portare il risultato del plebiscito a Vittorio Emanuele, a Torino. I delegati videro il re il 15 settembre e, due giorni dopo, Verdi, tramite sir James Hudson, ministro britannico alla corte piemontese, andò a far visita a Cavour, che aveva dato le dimissioni alla notizia del trattato di Villafranca e si era ritirato nelle sue proprietà di Leri. Quella che Herzen chiamava la traduzione in prosa di Cavour della poesia di Mazzini si guadagnò la stima entusiasta di Verdi. Il fervente repubblicano del 1848-49 diventò, nel 1859, un leale suddito di Vittorio Emanuele.

Verdi e Giuseppina si sposarono a Collonges-sous-Salève in Savoia il 29 agosto (non il 29 aprile) di quell'anno. Il matrimonio non è nominato in nessuna lettera del compositore di quel periodo. Il ritmo della vita di Verdi e Giuseppina era più calmo di quello di un tempo. Si fermarono a Roma alcune settimane dopo la prima di Un ballo in maschera, prima di ritornare a Sant'Agata per la bella stagione.


1860 L'inizio del 1860 vide un'innovazione importante: Giuseppina cominciò a tenere i copialettere, sul genere di quelli di Verdi, e doveva continuare a farlo fino al 1892. Cinque grandi volumi formato protocollo, conservati a Sant'Agata, contengono il grosso della sua corrispondenza di più di trent'anni. E qui, oltre alle sue lettere, troviamo, di suo pugno, gli originali di molte lettere che, con qualche o nessuna modifica, venivano poi copiate e spedite da Verdi come sue. Giuseppina era in realtà divenuta una specie di segretaria privata ideale. Qualche volta Verdi cambiava una frase troppo fiorita, cancellava o condensava un brano, o sostituiva un'espressione più energica a quella usata da Giuseppina: altre volte invece doveva addolcire un'osservazione troppo aperta. Ella in generale aveva una capacità straordinaria di scrivere lettere per Verdi nello stile di questi, così che erano praticamente indistinguibili da quelle scritte dal compositore in persona.
L'importanza di questi copialettere è tanto maggiore in quanto il periodo della collaborazione più attiva di Giuseppina come segretaria, riempie abbondantemente l'enorme vuoto, che va dal 7 ottobre 1858 al 20 settembre 1867, nei copialettere di Verdi.
Leggere i copialettere dall'inizio alla fine, equivale a rivivere con l'immaginazione la vita di Giuseppina per trent'anni, un'esperienza affascinante, alle volte esaltante, alle volte profondamente triste e deprimente. Ci si distacca con un rispetto ed una simpatia enormemente accresciuti per questa donna meravigliosa nel difficile ruolo di moglie di un genio.
Giuseppina scriveva in tono discorsivo e con molto bel garbo, in italiano e in francese: riusciva anche a scrivere, con meno disinvoltura ma altrettanto garbatamente, in inglese. Dopo una lettera autografa del Maestro, gli amici non potevano desiderare niente di meglio che una lettera di Giuseppina. Possedeva una notevole forza narrativa: poteva essere spiritosa, saggia e simpatica; possedeva grande comprensione e molto senso comune; qualche scintilla di malizia aggiunge un certo gusto ai suoi scritti. Quando l'occasione lo richiedeva, sapeva togliersi i suoi eleganti guanti e somministrare uno schiaffo verbale secco e salutare. La sua carità, alle volte piuttosto restia quando si trattava di Busseto, aumentò con il passare degli anni. La sua bontà, la sua gentilezza e la sua dedizione a Verdi trapelano da molte sue lettere.
Verdi e la Strepponi trascorrono l'inverno '59-'60 a Genova e buona parte del 1860 a Sant'Agata. Piave scrive a Verdi mettendolo al corrente delle sue difficoltà finanziarie, dovute al fatto che tutti i teatri sono chiusi a causa dello stato d'assedio che stava per essere decretato. "Mi raccomando a te" invoca al maestro, "se ti è possibile lavora per me, che ne ho molto bisogno fisico e morale." Verdi, che ha chiuso il pianoforte ("non ho più fatto musica, non ho più visto musica, non ho più pensato a musica", confessa a De Sanctis), non resta inattivo quando si tratta di aiutare un amico fedelissimo e fa in modo di spingere Piave alla direzione della Scala. Nel marzo di quest'anno il librettista scrive al maestro con maggiore sicurezza. Alla Scala lo vogliono e non lo vogliono, ma l'appoggio di Verdi non manca di ottenere il suo effetto: "La tua lettera mi fu una chiave d'oro e se come spero riuscirò nell'intento cui miro lo dovrò a te..."
Per il resto il musicista continua la vita del possidente.

Aprite dunque le orecchie" avverte così l'Escudier "non fiatate, ed ascoltate: Dacché non fabbrico più note pianto cavoli e faggiuoli, ecc. ecc. ma quest'occupazione non bastandomi più, mi son dato alla caccia!!!!!!

Come nel '48, l'anno è trascorso fra devozioni patriottiche, intermezzi sentimentali e smanie di lotta. Ma questa volta sono meno impetuosi i desideri.
In giugno la fabbrica della villa cammina a gran passi e il maestro divide il suo tempo fra "mattoni e calce e muratori" e passione venatoria. Scrive molte lettere al Mariani, ormai di famiglia:

Sono in piena fabbrica: mi alzo alle cinque, vado alla muta delle quaglie; sparo qualche fucilata alle quaglie che non sono tanto imbecilli d'andare nella rete; si fa dopo colazione; do un'occhiata ai muratori; si fa un piccolo sonno da un'ora alle due; si dà dopo passo alle cose di casa e si scrivono lettere; si pranza, si fa una passeggiata fino a notte, si torna in casa, quattro chiacchiere ed a letto per alzarsi l'indomani alle cinque. Ma adesso c'è un da fare... e non è possibile annojarsi.

Tranne queste occupazioni preoccupazioni, ancora riposo assoluto. Nel maggio del '60 Giuseppina scrisse all'impresario Montuoro:

Verdi non sa se scriverà in seguito - tutto è possibile, se non probabile; non vuol fare giuramento di non prendere più la penna; perché in questo modo egli che ama tanto l'indipendenza diverrebbe schiavo di se stesso cioè del suo giuramento...

In una lettera del novembre '60 al Piave fa professione di fede artistica, senza promettere nulla per l'avvenire:

Ti ringrazio molto, moltissimo degli auguri pel 9 ottobre, ed un po' meno pei tuoi complimenti del successo del Ballo. Tu lo sai, non non sono commosso mai molto per questa sorta d'affari, ed ora ne sono così indifferente che non è da credere. Se qualcuno lo sapesse mi griderebbe la croce addosso, mi taccierebbe d'ingrato e di non amare l'arte mia. Oh no! io l'ho adorata e l'adoro quest'arte, e quando sono fra me e me alle prese colle mio note allora il cuore palpita, le lagrime piovon dagli occhi e la commozione ed i piaceri sono indicibili, ma se penso che queste mie povere note devono essere gettate avanti ad esseri senza intelligenza, ad un editore che le vende per servire poscia di divertimento o di scherno alle masse, oh allora non amo più nulla!... Non ne parliamo.

In ottobre, quando ormai alla guerra per le Due Sicilie si erano uniti i piemontesi e lo "spettacolo" era al colmine, ribatteva col medesimo spirito, chiedendo notizie sull'attività e i successi di Mariani nella città ligure, ma deviando la richiesta al tema di una trionfante marcia di soldatini:

[...] Ma dimmi di altra musica, la quale (domando scusa a tutti voi altri figli di Apollo) mi interessa assai più... Come vanno le crome e le biscrome di Cialdini, Persano, Garibaldi, ecc. ecc.? Tu mi avevi promesso di scrivermene, e, testaccia, l'hai dimenticato. Quelli son Maestri! e che Opere! e che Finali! a colpi di cannone!

Il 1860 vide degli immensi progressi nel processo d'unificazione dell'Italia. Garibaldi, presa in mano la situazione, sbarcò con i suoi mille volontari a Marsala l'11 maggio, superò in furberia i napoletani ed entrò a Palermo il 27 dello stesso mese. Quello stesso giorno Verdi scriveva al suo amico Mariani, il direttore d'orchestra: "Evviva dunque Garibaldi. Per Dio, è un uomo veramente da inginocchiarglisi davanti!" Ben presto tutta la Sicilia, eccettuate le fortificazioni di Messina, fu in mano di Garibaldi. Il 20 agosto passava sul continente e il 7 settembre entrava trionfante a Napoli. Cavour, allarmato per le possibili ripercussioni dell'impetuosità di Garibaldi, mandò l'esercito piemontese, sotto il generale Cialdini, negli Stati Pontifici. Dopo che l'annessione degli Stati Pontifici era stata completata e Garibaldi aveva messo il regno delle Due Sicilie nelle mani del re, ritirandosi poi a Caprera, la sua isola natale, Giuseppina scriveva ad Antonio Capecelatro a Napoli:

Amate voi Giuseppe da Caprera? Spero di sì. È impossibile che voi non siate entusiasta dell'Eroe più puro e più grande esistito nel mondo fino a questo momento.

L'ultima di quelle che si possono chiamare le lettere d'amore di Giuseppina a Verdi porta la data della fine di quell'anno. Molti anni erano ormai passati da quando avevano messo casa insieme, ma il ritornello delle lettere di Giuseppina non era cambiato. Aveva un bisogno costante di comunicare con Verdi, senza il quale si sentiva ancora perduta:

Il salone senza di te è troppo deserto e quel posto vuoto a tavola mi rattrista. Nell'addormentarti pensa a me; pensa alla compagna che vive teco da tanti anni e vorrebbe vivervi per altrettanti secoli. Non fare una brutta smorfia... Io cercherei e troverei forse nel mio amore il modo di non esserti mai di noia né di peso e per non esserlo neppure in questo momento ti dico addio e vado a letto. Ti auguro una notte tranquilla, ed un cielo azzurro domattina!

Ti giuro, e tu non avrai difficoltà a crederlo, che io molte volte sono quasi sorpresa che tu sappia la musica! Per quanto quest'arte sia divina e il tuo genio degno dell'arte che professi, pure il talismano che mi affascina e che io adoro in te, è il tuo carattere, il tuo cuore, la tua indulgenza per gli errori degli altri, mentre sei tanto severo a te stesso. La tua carità piena di pudore e di mistero - la tua altera indipendenza e la tua semplicità da fanciullo, qualità proprie di quella tua natura che seppe conservare una selvaggia verginità d'idee e di sentimenti in mezzo alla cloaca umana! O mio Verdi, io non son degna di te e l'amore che mi porti è una carità, un balsamo ad un cuore qualche volta ben triste, sotto le apparenze dell'allegria. Continua ad amarmi, amami anche dopo morta ond'io mi presenti alla Divina Giustizia ricca del tuo amore e delle tue preghiere, o mio Redentore! [Sant'Agata, 5 dicembre]


1861 Quando fu realizzata l'unità d'Italia nel 1861, in un primo tempo Verdi rifiutò tutte le proposte di candidatura al primo parlamento italiano come rappresentante di Busseto. Sosteneva di essere un artista. Non aveva né attitudini, né ambizioni politiche. Ma quando fu sollecitato personalmente da Cavour, non resistette più a lungo:

[...] So che le chiedo cosa per lei grave e molesta. Se ciò malgrado insisto, si è perché reputo la sua presenza alla camera utilissima. Essa contribuirà al decoro del Parlamento dentro e fuori d'Italia, essa darà credito al gran partito nazionale che vuole costituire la nazione sulle solide basi della libertà e dell'ordine, ne imporrà ai nostri imaginosi colleghi della parte meridionale d'Italia, suscettibili di subire l'influenza del genio artistico più assai di noi abitatori della fredda valle del Po.

Fu eletto e nel febbraio partì con Giuseppina per Torino dove Vittorio Emanuele apriva il primo parlamento. Verdi fu assiduo alle riunioni, ma votava sempre come Cavour.

Da Torino, il 19 marzo, scrisse a Cesare De Sanctis:

Parliamo un po' di politica. Per Dio non fate ragazzate; state quieti, tenete a freno i matti, abbiate pazienza, fidate nel gran politico che regge i nostri destini, e tutto andrà bene. Pensate che se non si dovesse effettuare la grande idea dell'unità d'Italia la colpa sarebbe tutta vostra, ché delle altre parti d'Italia non v'è da dubitare. Se per idee miserabili di campanile l'Italia dovesse essere divisa in due (che Dio non lo voglia) sarebbe sempre in balia e sotto protezione delle altre grandi potenze; quindi povera, debole, senza libertà, e semibarbara. L'Unità soltanto può renderla grande, potente e rispettata. Guai a voi se non vi unite con confidenza, francamente a noi; l'esecrazione e la maledizione dei presenti, e dei posteri si scaglierebbe sul vostro capo, e ben a ragione.

Il 6 dicembre dell'anno precedente aveva già scritto al De Sanctis:

E come vanno le cose politiche del vostro paese? Tenetemene a dunque giorno, e scrivetemi di quello che pensate, sperate e temete. Io ne spero bene, quantumque avrei desiderato un po' più d'ordine e di calma (di quell'ordine e calma dell'Italia Centrale dell'anno passato e che ha tanto giovato alla nostra causa) e vorrei meglio compresa la grande idea dell'Unità italiana.

Quando Cavour il 6 giugno morì Verdi organizzò a Busseto una messa in suffragio. La morte di Cavour fu un fatto grave per la nazione che si andava formando. Per Verdi significava la perdita di un uomo che aveva sempre stimato e la fine della sua breve carriera politica.

Al momento di partire sento la terribile notizia che mi uccide! Non ho coraggio di venire a Torino; né potrei assistere ai funerali di quell'Uomo!... Quale Sventura! Quale abisso di guai!... [7 giugno]

Le esequie a Cavour furono celebrate Giovedì con tutta la pompa che poteva aspettarsi da questo piccolo paese. Il clero celebrò gratis e non è poco. Io ho assistito alla funebre cerimonia in pieno lutto, ma lutto straziante era nel cuore. Inter nos, io non potei trattenere le lagrime e piansi come un ragazzo... Povero Cavour! e poveri noi. [14 giugno]

In una lettera personale a Léon Escudier, del 3 luglio, Giuseppina scrisse:


Vous connaissez le malheur qui a frappé l'Italie la morte de Cavour! Vous dire que Verdi a pleuré comme à la morte de sa mère c'est vous dire encore peu! Il avait connu de près cet homme extraordinaire, fascinant, merveilleux!... Cet homme d'état qui avait conservé (privilège unique) du coeur au milieu de la diplomatie et de la politique! Eh bieh, cet bomme cheri et veneré par les Italiens a disparu pour jamais. Un mois s'est dejà écoulé depouis ce mort et le ne puis pas en parler sans avoir les yeux remplis de larmes.

Essendo entrato in politica solo per soddisfare un desiderio di Cavour, lentamente se ne allontanò. Tornò a Torino per una sessione del parlamento, ma mentre era in questa città firmò un contratto con il Teatro Imperiale di Pietroburgo per scrivere un'opera da rappresentarsi nell'inverno del 1861-1862. I guadagni di Verdi venivano in gran parte investiti in terreni e proprietà. Tutti gli ampliamenti apportati a Sant'Agata gli avevano lasciato poco danaro liquido, e questo fatto accrebbe l'attrattiva di un'offerta, fattagli all'inizio del 1861, di 60.000 franchi, con tutte le spese pagate, per un'opera nuova da scrivere per il teatro Imperiale di Pietroburgo. Il tenore Enrico Tamberlik agiva da intermediario fra la direzione del teatro ed il compositore, e la sua proposta raggiunse Sant'Agata acclusa ad una lettera di Corticelli, i cui viaggi con Adelaide Ristori lo avevano portato a quel tempo a Pietroburgo. Il corso delle trattative, che alla fine sfociarono nella composizione della Forza del destino, può essere seguito nelle lettere di Giuseppina a Corticelli. L'idea di un viaggio in Russia sembrava esserle piaciuta fin dall'inizio:

[...] da certe parole sfuggite non parmi sia più tanto avverso a riprendere la penna... [...] In ogni modo, per quanto cattivo avvocato io sia, metterò insieme, in quest'occasione, i migliori squarci della mia eloquenza onde persuaderlo a esporre il suo naso al pericolo di gelare in Russia. Non riuscendo con l'eloquenza, metterò in opera un mezzo che, a quanto mi vien assicurato, riesce anche alle frontiere del Paradiso coll'illustrissimo San Pietro, cioè: Insistere, seccare, finché si ottenga. È vero che Verdi è meno paziente di San Pietro; ma infine, se mi manderà a dormire, non sarà la prima volta e bisognerà tacere.

Si decise per un dramma spagnolo che aveva già preso in considerazione, Don Alvaro o La forza del destino di Don Angel de Saavedra. Affidò il libretto a Francesco Maria Piave e lavorò all'opera nell'estate. "Il Dramma è potente" scriveva a Léon Escudier "singolare e vastissimo: a me piace assai." La corrispondenza tra Verdi e Piave rivela che le relazioni tra compositore e librettista erano rimaste quelle di un tempo. Verdi tormentava il Piave, lamentandosi spesso della modestia e della incomprensibilità dei suoi versi:

Per l'amor di Dio, mio caro Piave, pensiamoci bene. Così non si va avanti ed è impossibile cavarsela con questo dramma, assolutamente. Lo stile vuol più stringato. La Poesia può, e deve dire tutto quel che dice la prosa con metà parole: finora tu non lo fai...

Giuseppina si occupò della organizzazione per il viaggio in Russia. Quando arrivarono a Pietroburgo (a fine novembre) ebbero inizio le prove dell'opera. Ma l'esecuzione fu però rimandata all'autunno seguente. Ecco la testimonianza di Peppina in una lettera al Conte Arrivabene:

Verdi non darà la sua nuova opera a Pietroburgo... quest'anno! Ahimè! le voci dei cantanti sono fragili come... (lascio che Lei finisca la frase) e la voce della Signora La Grua è per sua e per disgrazia di Verdi, un desolante esempio di questa fragilità. Orbene, mancando la prima donna per la quale egli aveva scritto, e non essendovi qui altra cantante adatta a quella parte, Verdi chiese lo scioglimento del contratto. La risposta a tale richiesta fu un "No" deciso, anche se preceduto, seguito e condito con le più belle frasi del mondo. Poi si misero d'accordo per dare l'opera il prossimo inverno, a condizione etc., etc. [1º febbraio 1862]

Il 14 luglio 1861, Giuseppina aveva scritto a Corticelli:

Io, intanto, per evitare ogni burrasca, mi sono proposta di dargli sempre ragione dalla metà di ottobre a tutto gennaio, prevedendo che durante la fatica dello scrivere e delle prove non ci sarà modo di persuaderlo che possa aver torto una sola volta! Quando però il tempo mi parrà troppo scuro andrò a prender aria. Piano!... mi dimenticavo che l'aria di Russia fa gelare i nasi! Andrò a letto, solo sito dove credo si possa star bene in quelle boreali regioni.

Il 14 marzo, a proposito di una rappresentazione del Tannhäuser di Wagner a Parigi, Escudier aveva scritto a Verdi:

Quelle purge allemande, mon dieu, on a voulu faire avaler au public! Heureusement elle a été trop amère et la digestion s'est traduite par des sifflets. Nous voilà donc débarassés d'un fou, qui s'imaginait qu'on pouvait impunément faire de la musique sans mème l'apparence de mélodie: il avait fait assez de bruit: on le lui a bien rendu à la représentation d'hier.

Non Verdi, ma Giuseppina gli risponderà con toni inaspettatamente polemici otto anni dopo (cfr. 1869) in occasione di una rappresentazione di Rienzi, sempre a Parigi.


1862 Nel febbraio di quell'anno Verdi lasciò la Russia.
Poiché aveva accettato di malavoglia l'incarico di rappresentare l'Italia alla Esposizione di Londra del 1862, con Giuseppina non tornò in Italia ma raggiunse Londra via Parigi. Gli fu commissionata una marcia per la cerimonia di apertura. Decise di comporre invece una breve opera corale, chiedendo al ventenne Boito un testo adatto per l'occasione.
Boito era alla sua prima esperienza con Verdi. Colui che, diviso fra due tentazioni ("Boito ha ingegno" scriveva la Maffei "ma vacilla ancora tra la poesia e la musica"), sarebbe diventato il collaboratore letterario del musicista vegliardo, aveva scritto fino a quel momento poco di letterario e poco di musicale. Qualche verso, saggi musicali di Conservatorio quali una sinfonia e due cantate queste ultime in collaborazione con Franco Faccio e una interessante recensione sulla vita musicale di Parigi, durante il suo viaggio nel 1862, vincitore - assieme all'inseparabile Faccio - di una borsa di studio. Boito, opportunamente introdotto in grazia degli attestati di giovane promessa e forte di un temperamento intraprendente, trovò la sua occasione d'oro. Bisogna tener presente che il letterato-musicista era molto intromesso nell'ambiente aristocratico milanese, per nascita (figlio di una nobile polacca), per la posizione del fratello Camillo (architetto, novelliere, esponente di punta della Scapigliatura) ed infine per la sua innegabile vivacità che lo poneva nel bel mezzo degli ardori polemici d'avanguardia. Verdi lo ricevette con tutta affabilità, assieme a Franco Faccio, nel suo appartamento parigino. La commissione di scrivere un inno in rappresentanza dell'Italia, con la musica del "compositore più generalmente stimato d'Europa", a una Esposizione di così grande risonanza non deve quindi meravigliarci.
Il conseguente Inno delle Nazioni, per tenore, coro e orchestra, un'opera che dura una quindicina di minuti, fu rifiutato da Michele Costa, il direttore musicale dell'Esposizione, con il pretesto che non rientrava nei termini della commissione. Può darsi che l'Inno di Verdi, che citava la musica di due famosi inni rivoluzionari: "La marsigliese" e "Fratelli d'Italia" di Mameli e Novaro, fosse considerato pericolosamente repubblicano. In quell'epoca nessuno dei due brani costituiva l'inno nazionale dei rispettivi paesi. L'impresario rivale dell'Her Majesty's Theatre, organizzò la prima esecuzione dell'Inno il 24 maggio, compleanno della regina Vittoria, con un grande successo.

Ammirando le vetrine dei negozi di Regent Street, i pensieri di Peppina correvano a Sant'Agata dove doveva ben presto ritornare:

Forse se la solitudine di quel soggiorno non fosse cosi assoluta, talvolta sepolcrale, io dimenticherei completamente che esistono delle città. Ed in verità non penso ad esse che quando mesi e mesi passano nel profondo silenzio e nella intera solitudine dei campi. Una singola famiglia vicina a noi basterebbe per rompere la monotonia di quell'esistenza.

Finalmente Verdi e la Strepponi ritornarono a Sant'Agata. Durante l'estate Verdi espresse pensieri tutt'altro che lusinghieri sulle vicende interne della nazione: "Cosa si fa al Parlamento? Vedo che si attacca sempre lite e si perde tempo" scrisse all'Arrivabene. Per gran parte del tempo Verdi si dedicò al perfezionamento della strumentazione de La forza del destino e in autunno, con Giuseppina, ritornò a Pietroburgo. Questa volta tutto andò per il meglio e l'opera, con un grande successo, fu rappresentata il 10 novembre 1862 o il 29 ottobre secondo il calendario russo. Marito e moglie assistettero a due trionfi. Infatti si assentarono per una settimana dalla residenza reale per recarsi a Mosca, dove si rappresentava il Trovatore: tutto il pubblico si alzò, salutando con evviva ed applausi interminabili. Sulla rappresentazione della Forza, Verdi scrisse a Ricordi: "Esecuzione buonissima. Decorazioni e vestiario ricchissimi." Verdi ricevette l'Ordine Imperiale e Reale di S. Stanislao (Croce di Commendatore da portarsi al collo).
Ecco la testimonianza di Peppina:

L'opera è andata benone, ad onta delle contorsioni coliche del partito Tudesque che io compatisco d'altronde moltissimo, dacché dopo tanti anni che grida a tutti i venti che le opere tedesche sono le migliori, il pubblico si ostina a lasciare il teatro vuoto quando le danno e corre in folla quando si annunzia questa brutta robaccia del Ballo in maschera, Forza del destino, ecc. Figurati che della Forza del destino se ne sono già date otto recite, con teatro costantemente affollato. Bello spettacolo per un impresario. L'imperatore, che assistette soltanto alla quarta rappresentazione, impedito di assistervi prima causa a un violento mal d'occhi e mal di gola, chiamò fuori Verdi a nome, e volle anche averlo nel suo palco, dove gli fece con l'imperatrice un mondo di elogi. Il giorno della sua partenza annuale per Mosca mandò a Verdi di motu proprio la decorazione di San Stanislao. Quanto all'indennizzo per essere venuto due volte in Russia, furono convenientissimi.

Come in altri luoghi dove Verdi aveva dato le sue opere, il successo teatrale si trasferì subito in un successo mondano. Il maestro eseguiva compiacente al pianoforte brani delle sue opere, in casa della contessa d'Adelberg, per una ristretta cerchia di amici. E lui stesso conferma a Clarina Maffei di aver goduto un soggiorno abbastanza raro:

Da Parigi vi scriverò a lungo e vi parlerò della Russia e dell'alta società, perché stupite, stupite! in questi due mesi ho frequentato i Salons e poi pranzi, feste, ecc. ecc. Ho conosciuto alti e bassi personaggi: uomini e donne amabilissimi, e d'una politesse veramente squisita, ben altra dell'impertinente politesse parigina.

Sull'opera invece ebbe a confessare alcune perplessità dal punto di vista dell'esecuzione e della realizzazione a stampa. Scrisse a Ricordi:

Le parti e partitura d'orchestra sono arrivate e sono in casa mia, e quindi per ora sicure di furto. Permettimi però che ti faccia alcune osservazioni franche e sincere sulla tua copisteria che assolutamente ha bisogno di sorveglianza. Oltre i cattivi caratteri dei copisti, l'indecisione delle note, i sbagli moltissimi, quello che io non posso perdonare sono le mancanze quasi assolute dei coloriti e dell'espressione.

Dopo una tale requisitoria, che non lasciava dubbio sullo sfacelo delle imprese commerciali di Ricordi, il maestro scrisse ancora all'editore riprendendo l'argomento dell'esecuzione e passando poi ad illustrare la sostanza drammatica. Si comprende quanto Verdi fosse ormai maturo e responsabile di fronte all'opera in musica e quanto invece i teatri si accontentassero di soluzioni sommarie:

Fa quello che stimi bene della Forza sia per Torino, sia per Milano. Ti dico la verità che io ho ben poca voglia di venir a sputar sangue, e crepar di bile senza ottener nulla, causa la insufficienza delle masse, la trascuranza scenica, e l'ignoranza degli artisti. Se gli artisti imparassero a leggere ed a capire, se gl'Impresari a mettere in scena, se le masse sapessero fare i piani e i forti ed andare insieme, gli effetti sarebbero diversi da quel che sono. E bada che io non domando cose straordinarie ed impossibili: domando semplicemente quello che è di assoluta necessità. È come se un pittore domandasse un po' di luce per vedere un quadro. Si dice che la Forza del Destino sia troppo lunga, e che il pubblico sia spaventato dei tanti morti! D'accordo: ma una volta ammesso il soggetto come si trova altro scioglimento? Il terzo atto è lungo!! Ma quale è il pezzo inutile? l'accampamento forse? Chi sa! messo in scena come si deve non riescirebbe inferiore alla scena dell'osteria.

L'epico, estromesso dal dramma intimo del Ballo in maschera, si prese una rivincita nella Forza del destino. Conventi, osterie, romitori sono i magnifici fondali di una storia d'amore e di vendetta che porta il titolo più verdiano di tutte le opere del maestro, quasi una sintesi del suo pensiero sull'esistenza. Due amanti divisi dopo il primo atto e non ricongiunti che all'ultima scena, per morire insieme: fra queste due puntate del medesimo capitolo, scende la corrente della vita.
L'edizione de La forza del destino eseguita a Pietroburgo è diversa, in varie parti, dall'opera che noi oggi conosciamo. Nonostante il suo immediato successo, Verdi non ne era interamente soddisfatto.


1863 Durante i primi mesi dell'anno i Verdi si recarono a Madrid. Il teatro della città spagnola mise in scena la Forza del destino dopo la metà di febbraio. Il ritorno a Parigi avvenne nel marzo. Quanto all'Italia poi, il maestro non poté rivederla che nell'estate avanzata. A Roma la Forza andò in scena all'Apollo, col testo ripulito dalla censura, col titolo meno cabalistico di Don Alvaro. Negli anni seguenti fu allestita a New York, a Vienna, a Buenos Aires e a Londra. Ma per l'esecuzione scaligera del 1869, Verdi revisionò l'opera.
Alla fine di luglio in una lettera alla contessa Maffei, Verdi espresse il suo primo giudizio du Wagner: Wagner è un ricercatore del fiabesco, del surreale, del mitico e dell'invenzione fantastica, e per questo Verdi lo destina tra coloro che abbandonano la realtà:

Vedevo spesso in Parigi l'anno scorso Boito e Faccio e sono certamente due giovani di molto ingegno, ma io non posso dir nulla del loro talento musicale, perché di Boito non ho mai inteso nulla, e di Faccio poche cose che egli venne un giorno a farmi sentire. Del resto poiché Faccio darà un'opera, il pubblico dirà la sua sentenza. Questi due giovani sono accusati di essere caldissimi ammiratori di Wagner. Nulla di male, purché l'ammirazione non degeneri in imitazione. Wagner è fatto ed è inutile rifarlo. Wagner non è una bestia feroce come vogliono i puristi, né un profeta come lo vogliono i suoi apostoli. È un uomo di molto ingegno che si piace delle vie scabrose, perché non sa trovare le facili e più diritte. Non bisogna che i giovani si illudano, vi sono molti e molti che fanno credere di aver delle ali, perché realmente non hanno gambe da reggersi in piedi. Che Faccio si metta una mano sul cuore e senza badare ad altro scriva come questo gli detta; abbia ardire per tentare vie nuove e coraggio per affrontare le opposizioni.

Franco Faccio presentò alla Scala, su libretto di Marco Praga, l'opera I profughi fiamminghi. Erano presenti tutti i vessilliferi della nuova arte (la cosiddetta Scapigliatura). Durante la cena che seguì allo spettacolo, Boito ebbe la goliardica idea di recitare una propria composizione poetica:

Alla salute dell'Arte italiana!
Perché la scappi fuora un momentino
Dalla cerchia del vecchio e del cretino,
Giovane e sana. [...]
Forse già nacque chi sovra l'altare
Rizzerà l'arte, verecondo e puro,
Su quell'altar bruttato come un muro
Di lupanare.

Della cerchia "del vecchio e del cretino" poteva far parte anche Verdi; non era stato menzionato, ma andando per esclusione non diventava poi molto difficile vederlo confinato fra le anticaglie. Iniziava, da parte intellettuale, quella operazione di isolamento che tendeva a sminuire, nel panorama musicale italiano ed europeo, il predominio dell'opera verdiana. La serata artistica milanese aveva denunciato interessi contrari al melodramma di tradizione, avallando i dissensi più o meno severi pronunciati contro il cinquantenne compositore. Nella felice condizione di una parabola ascendente, accompagnato da un successo di pubblico che gli aveva dato una grossa posizione sociale, Verdi correva il rischio di vedersi attaccato dalle nuove generazioni, ansiose di una giustificabile apertura culturale, proveniente stavolta dall'area tedesca. Mentre l'Italia stava ancora pagando una dominazione straniera, questi irrequieti artisti richiamavano in patria la moda esterofila confezionata con i prodotti dell'arte musicale. Dietro alla loro spinta, seguiva comunque l'esigenza di portare in Italia la produzione strumentale tedesca, per rinnovare l'aria dell'ambiente musicale italiano. Faccio però non desiderava per nessun capolavoro al mondo perdere la protezione di Verdi, e si definisce "piccolissimo a fronte del grandissimo". Ma Verdi aveva chiuso porte e finestre:

Una parola d'incoraggiamento dite voi [Contessa Maffei]: ma quale necessità di questa parola a chi si è presentato, ed ha fatto per giudice il pubblico? Ora è affare da sbrigarsi fra loro, ed ogni parola diviene inutile. So che si è parlato molto di quest'opera, troppo, secondo me; ed ho letto qualche articolo di giornale, ove ho trovato delle grosse parole d'Arte, d'Estetica, di Rivelazioni, di Avvenire, ecc. ecc. e confesso che io (grande ignorante che sono!) non vi ho capito nulla... [...] Infine se Faccio, come dicono i suoi amici, ha trovato nuove vie, se Faccio è destinato a rizzare l'arte sull'altare ora brutto come lezzo di lupanare, tanto meglio per lui e per il pubblico. Se è un traviato, come altri pretendono, si rimetta sulla buona via, se così crede, se così pare a lui.

Boito, preso dall'entusiasmo della giovinezza, cominciò a divulgare personali impressioni:

L'ora di mutare stile dovrebb'essere venuta, la forma vastamente raggiunta dalle altre arti dovrebbe pur svolgersi anche in questo nostro studio; il suo tempo di virilità dovrebb'essere pieno; ci si levi la pretesta e lo si cuopra di toga, ci si muti nome e fattura, e invece di dire libretto, piccola parola d'arte convenzionale, si dica e si scriva tragedia, come facevano i Greci. Tutto questo discorrere affrettato conduce naturalmente a concludere che oggi non è dato far della bella né della buona musica, non solo sopra un cattivo libretto, ma sopra un libretto.


1864 Il 9 aprile di quell'anno Verdi scrisse una sorprendente lettera al Conte Opprandino Arrivabene. Di nobilissima famiglia mantovana, giornalista, l'Arrivabene (1807-1887), fu prima a Milano e Napoli, poi, segnando le tre tappe della capitale d'Italia assieme al giornale cui collaborava, L'Opinione, a Torino, Firenze e Roma. Verdi, che lo conobbe a Milano negli anni precedenti l'Oberto, l'ebbe carissimo fino all'ultimo giorno di sua vita. Tempestato anch'egli, come tutti i più intimi, d'incarichi d'ogni genere che era felice di sbrigare per far cosa grata all'amico, l'Arrivahene ne era compensato con una confidenza illimitata, e con lunghi sfoghi su tutti gli argomenti possibili, in risposta alle domande con cui abilmente sollecitava il Maestro. Fu, con quelle del senatore Piroli e di Emanuele Muzio, la più lunga amicizia di Verdi e una delle più sincere e disinteressate. Scrisse dunque all'amico, tra l'altro:

[...] Io non scrivo musica (e ciò poco importa) e non potrò così presto venire a Torino (e ciò importa ancor meno). [...] Ricordi non mi manda mai musica sapendo com'io per i lunghi dieci o dodici anni che ho soggiornato in Milano, non sono mai andato una sola volta a consultare i suoi archivi musicali. Non capisco la musica per la via degli occhi, e se tu hai creduto che la composizione [fa riferimento alla Petite Messe Solennelle di Rossini] perché di Rossini potesse fare il miracolo di chiarirmi la mente per comprendere le bellezze e i tesori d'armonia tanto vantati da d'Arcais e da Filippi [critici musicali influenti] ti sei grandemente ingannato.

Uno dei più grandi compositori di ogni epoca confessa candidamente di non saper capire una partitura alla sola lettura. Inoltre snobba il parere di due critici sull'ultima composizione di Rossini.

Scrisse il 26 settembre a Clarina Maffei:

Sapete che per più giorni mi sono trovato fra Congressi musicali, Monumenti, Deputazioni, Inni ai vivi, ai morti, ai Monaci, ai Preti, ai Santi, Arcangeli, Troni, Dominazioni etc.!!!.. Se avessi accettato avrei scritto, o dovrei scrivere Sei Inni!!.. Sei Inni?!!... Piuttosto dodici Opere che quella sorta di musica che non è musica, vera negazione dell'Arte, e che ha tanto a che fare coll'Arte come io colla Teologia. Ho rifiutato tutto, già s'intende, ed amici e nemici hanno disapprovato e disaproveranno. Sta bene e ne son contento. [...] E così me ne sto lontano da tutto e da tutti pel timore che qualche idea di questo genere sorga contro i Monumenti o contro i Congressi, o contro queste benedette ed universali Società di Quartetti che non hanno nissuno scopo o quello soltanto (è sempre la mia testa che parla) di indirizzare la musica italiana su una strada da seccare gli organi ai vivi ed ai morti.

Verdi allude ad avvenimenti culturali accaduti nel corso dell'estate. In giugno iniziava la sua attività la "Società del Quartetto" di Milano e aveva visto la luce il "Giornale della Società del Quartetto" con Giulio Ricordi direttore. In luglio Verdi era stato eletto membro dell'Acadèmie des Beaux Arts di Francia, con 23 voti su 37, al posto di Meyerbeer, spentosi in maggio. Nel corso dell'estate a Pesaro, in occasione di onoranze tributate a Rossini, fra cui un Guglielmo Tell diretto da Mariani, fu scoperto un monumento a lui dedicato.

Un mese dopo, il 22 ottobre, scrisse a Ricordi:

Piove, piove, e piove!!! Addio campagna, addio passeggiate, addio bel sole che non vedremo più che pallido ed ammalato, addio bel cielo azzurro, addio spazio infinito, addio desideri e speranze di venire a Como! [nella villa di Ricordi] Quattro pareti sostituiranno l'infinito, il fuoco invece del sole, i libri e la musica rimpiazzeranno l'aria ed il cielo.., la noja invece del piacere! Sia dunque; faremo della musica per... per far quello che fanno tant'altri; annojarsi a morte colla maggior parte della così detta musica classica, colla differenza però che io quando m'annojo, dico "m'annojo" mentre altri fingono estasi per bellezze che non vi sono, o che per lo meno eguali si trovano nella musica nostra. Tant'è; l'epoca attuale parla, si dimena, si affaccenda molto, produce poco, e tende a fabbricarci una musica nuova con della cipria e delle ossa da morto. Se dentro però vi sarà un po' di sole, evviva allora la musica nuova.

Verdi ha, naturalmente, un amministratore e degli agenti; ma - e in questo la sua natura diffidente gli dà quasi sempre ragione - vuol tutto vedere, tutto sapere. E, se potesse, vorrebbe far tutto da sé: non ce n'è uno che sappia o voglia fare interamente il proprio dovere. Il 2 ottobre scrisse a Léon Escudier: "Da Compositore son diventato Fermier!! Il mio fattore è scappato, e voi potete immaginare il mio da-fare, ed il mio umore nel trovarmi involto in tutta questa prosa."

Già poco dopo la prima fiorentina del Macbeth, si parlò di una traduzione francese; ma trascorsero 17 anni prima di giungere alla sua realizzazione. L'editore francese di Verdi, Léon Escudier, venne a Genova alla fine di giugno per gli accordi preliminari con Verdi. Da una lettera dell'anno successivo diretta a Ricordi, si apprende che Verdi doveva aggiungere un balletto e sostituire con un coro la morte di Macbeth in scena: Il compositore accettò. Passato all'esame dello spartito, Verdi si accorse della necessità di ulteriori interventi, e così ne scrisse a Escudier (S. Agata, 22 ottobre):

Nell'ultima vostra mi dite tante e tante belle cose, che io, quand'anche frugassi per un mese nel sacchetto delle amabilità non saprei trovarne la più piccola parte. Non dirò dunque nulla, e voi, mettendo in moto la vostra immaginazione sottintenderete tutto quello che io vorrei e dovrei dirvi. Ho scorso il Macbeth coll'intenzione di fare le arie di ballo, ma ohimé! alla lettura di questa musica sono stato colpito da cose che non avrei voluto trovare. Per dire tutto in una parola vi sono diversi pezzi che sono o deboli, o mancanti di carattere che è ancor peggio: 1º Un'aria di Lady Macbeth nell'Atto II - 2º Diversi squarci a rifare nella Visione Atto III - 3º Rifare completamente Aria Macbeth Atto III - 4º Rittoccarre le prime scene dell'Atto IV - 5º Far di nuovo l'ultimo Finale togliendo la morte in scena di Macbeth. - Per far questo lavoro, oltre il balletto, ci vuol tempo, e converrebbe che si abbandonasse il pensiero di dare il Macbeth in quest'inverno. Parlatene e rispondete subito.

Evidentemente Verdi ebbe assicurazioni in proposito, poiché qualche tempo dopo scrive a Tito Ricordi (Torino, 2 novembre):

Al Teatro Lirico di Parigi vogliono ora fare il Macbeth tradotto in francese, e mi domandano di comporre le arie di ballo, e fare alcune modificazioni che io amerei estendere a diversi pezzi per dare maggior carattere a quell'opera. Ti prego però a volermi mandare uno spartito a orchestra per vedere cosa vi è da fare.

Il lavoro si svolge nei mesi successivi, e si possono seguire alcune tappe attraverso la corrispondenza con Escudier e con Ricordi. A Escudier (S. Agata, 2 dicembre):

Sono da pochi giorni ritornato da Torino, ed ora sono alle prese con Macbeth. Ah voi credete che travaglierò soltanto all'ultim'ora? No: travaglio anche adesso come un negro: non dirò che faccia molto, ma travaglio, travaglio, travaglio [...]. Vi lascio perché Macbeth mi chiama.

A Ricordi (dicembre):

Sto lavorando al Macbeth pel Teatro Lirico ed è affare molto più importante di quello che credevo. Quando sarà finito ne parleremo pei teatri italiani. Intanto di mano in mano che sarà pronto qualche atto te lo manderò onde farne una copia e potersene all'uopo servirsene per l'Italia.

Le modifiche riguardarono quindi anche il libretto, e allo scopo venne di nuovo interpellato Piave, che provvide a verseggiare quanto Verdi chiedeva. Verso la metà del mese di dicembre il lavoro era avviato, e Verdi scrive a Escudier (Busseto, 13 dicembre): "Non dubitate che io scrivo, e m'occupo seriamente, e vorrei e spero mandarvi presto i tre primi atti completamente finiti." A fine d'anno scrisse a Escudier (Busseto, 31 dicembre):

Mille, mille, mille, due mille, tre mille auguri per parte nostra a voi ed ai vostri, con cent'anni di vita, la borsa piena, ed una lingua lunga cento miglia per dire male di tutto e di tutti. Amen. In quanto al Macbeth io mi occupo a scrivere; vi raccomando un po' di pazienza e presto avrete quello che desiderate e tutto arriverà in tempo. Non potete immaginarvi come sia noioso e difficile di rimontarsi per una cosa fatta altra volta, e trovare un filo rotto da tant'anni. Si fà presto a fare, ma io detesto in musica i Mosaici. Patience, patience, patience.


1865 Si inserisce a questo punto il problema della traduzione del libretto, risistemato da Piave; la traduzione venne in un primo tempo affidata a Edmond Duprez, su richiesta di Escudier, ma poi il direttore del Teatro Lirico gli tolse l'incarico, per affidarlo a Charles-Louis-Etienne Nuitter e Alexandre Beaumont. Il 23 gennaio scrisse a Escudier: "Voi avete ricevuto da qualche tempo i due primi atti del Macbeth. L'altro giorno spedii il terzo a Ricordi, per cui lo avrete forse contemporaneamente con questa lettera." All'inizio di febbraio termina anche il quarto atto, e lo annuncia a Escudier (Genova, 3 febbraio 1865):

Con comodo vi manderò tutte le osservazioni su questo Quarto Atto. Avete ricevuto il Terzo? Parto Domenica per Torino e Genova ove mi fermerò per tutto il resto dell'inverno. Da Genova vi scriverò a lungo e voi mi risponderete allora. Vedo che i giornali cominciano già a parlare di questo Macbeth. Per l'amor di Dio, ne blaguez pas trop. È perfettamente inutile.

"Il Macbeth è dunque finito! - scrive da parte sua Piave (Milano, 9 febbraio 1865) - non vedo l'ora di sentirne i nuovi pezzi." Le successive lettere a Escudier riguardano i problemi relativi al contratto, e la richiesta di notizie sull'andamento delle prove.
In opere come il Macbeth, come tutte quelle di Verdi dal Rigoletto in poi, esclusi i Vespri siciliani, anche personaggi apparentemente di scarsa importanza possono diventare essenziali per esprimere una determinata intenzione del Maestro (Sparafucile in Rigoletto, il paggio Oscar nel Ballo in maschera, Preziosilla e Melitone nella Forza del Destino); così, non c'è in essi particolare che possa essere trascurato senza la certezza di danneggiare l'insieme. Vero per il libretto come per gli artisti e per la regìa, per la musica come per i costumi e per l'orchestra. Solo il concorso di tutti questi elementi, e di tanti altri ancora, può portare all'«interpretazione» perfetta.
A proposito della formidabile Gran Scena del sonnambulismo, Verdi scrisse a Escudier l'11 marzo:

Eccoci al Sonnambulismo che è sempre la Scena capitale dell'Opera. Chi ha visto la Ristori sa che non si devono fare che pochissimi gesti, anzi tutto si limita quasi ad un gesto solo, cioè di cancellare una macchia di sangue che crede aver sulla mano. I movimenti devono esser lenti, e non bisogna veder fare i passi; i piedi devono strisciare sul terreno come se fosse una statua, od un'ombra che cammini. Gli occhi fissi, la figura cadaverica; è in agonia e muore subito dopo. La Ristori faceva un rantolo; il rantolo della morte. In musica non si deve, né si può fare; come non si deve tossire nell'ultim'atto della Traviata; né ridere nello "scherzo od è follia" del Ballo in Maschera. Qui vi è un lamento del Corno inglese che supplisce benissimo al rantolo, e più poeticamente. Bisogna cantarlo colla massima semplicità, e colla voce cupa (è una morente) senza però mai che la voce sia ventriloca. Vi è qualche momento in cui la voce può spiegarsi, ma devono essere lampi brevissimi che sono indicati nello spartito. Infine per l'effetto, e pel terrore che deve incutere questo pezzo abbisogna "figura cadaverica, pochi gesti, movimenti lenti, voce cupa" espress. etc. etc.... Notate poi che tanto qui, come nel Duetto del prim'atto, se i cantanti non cantano sotto voce l'effetto ne riuscirà disgustoso perché vi è troppa sproporzione e troppo squilibrio fra cantanti ed orchestra / l'orchestra non ha che pochi istromenti e violini con sordine.

La prima del Macbeth rivisitato andò in scena al Thèâtre-Lyrique il 21 aprile:

Ho osservato in alcuni giornali francesi alcune frasi che ammetterebbero qualche dubbiezza. Chi rimarca una cosa e chi l'altra. Chi trova il soggetto sublime, e chi non musicabile. Chi trova che io non conoscevo Shakespeare quando scrissi il Macbeth. Oh, in questo hanno un gran torto. Può darsi che io non abbia reso bene il Macbeth, ma che io non conosco, che io non capisco e non sento Shakespeare no; per Dio, no. È un poeta di mia predilezione, che ho avuto fra le mani fin dalla mia prima gioventù e che leggo e rileggo continuamente. Tutto ciò non importa.

Verdi aveva ben ragione di irritarsi, perché tutto il lavoro di riduzione della tragedia mostra una attenta e anche intelligente conoscenza dell'originale.
Nonostante la sua proclamata ignoranza e l'abitudine sempre affermata di non leggere spartiti ma di sentirli a teatro, Verdi si era interessato alle idee e alla musica di Wagner fino dall'anno in cui, fra la curiosità musicale di tutta Europa, si preparava il Tannhäuser a Parigi (1861). Come detto, il suo editore francese, l'Escudier, gli diede relazione di quella "prima" vergognosamente fischiata. Nel dicembre, quando già erano stati applauditi a Monaco Tristano e Oro del Reno e si preparava la Walchiria, Verdi sentì, in un concerto, la sola sinfonia del Tannhäuser, e il suo giudizio fu: "È matto!!!" Diverso parere aveva espresso due anni prima su Wagner: né "bestia feroce" né "profeta" ma "uomo di molto ingegno che si piace delle vie scabrose". Tuttavia desiderò conoscere anche gli scritti teorici di Wagner, che però a tutto il 23 gennaio '70 il Du Locle non gli aveva ancora mandato: "Sceleratissinio Du Locle! Voi vi siete scordato di mandarmi i scritti letterarj di Wagner. Sapete che desidero conoscerlo anche da questo lato, e però vi prego di fare quello che non avete fatto."

Aveva scritto al Piave il 4 febbraio:

Stetti lontano dalla Camera per due anni e più, dopo vi sono andato rarissime volte. Più volte volli dare le mie dimissioni, ma ora perché non era bene promovere nuove elezioni, ora per una cosa, ora per l'altra io sono ancora deputato contro ogni mio desiderio ed ogni mio gusto, senza avervi nessuna attitudine, nessun talento e mancante completamente di quella pazienza tanto necessaria in quel recinto. Ecco tutto. Ripeto che volendo o dovendo fare la mia biografia come membro del Parlamento non vi sarebbe altro che imprimere in mezzo di un bel foglio di carta: "I 450 non sono veramente che 449, perché Verdi come deputato non esiste."

Il 3 maggio del 1865 riprese in una lettera a Tito Ricordi il discorso sulla musica sua dei suoi tempi e in particolare su Boito (che aveva 21 anni) e Faccio (che ne aveva 23):

Ho sempre amato e desiderato il progresso, e se la cotterie [cricca] creatasi in Milano di cui il tuo Giulio fa parte, e di cui tu stesso, forse senza volerlo, sei complice potrà riuscire a rialzare la nostra musica io griderò Hosanna! Anch'io voglio la musica dell'avvenire, vale a dire che credo ad una musica a venire, e se non l'ho saputa, come volevo, fare, la colpa non è mia. Se anch'io ho sporcato l'altare, come dice Boito, Egli lo netti, ed io sarò il primo a venire accendergli un moccolo. Evviva dunque la cotterie; evviva il Nord se ci reca la luce, ed il sole.

E il 24 maggio:

Questi cosidetti apostoli dell'avvenire sono iniziatori d'una cosa grande, sublime. Era necessario lavar l'altare imbrattato dai porci del passato. Ci vuole una musica pura, vergine, santa, sferica! Io guardo in alto ed aspetto la stella che mi indichi dove sia nato il Messia...

Non solo: ma, a proposito d'un proscritto del Piave, che forse alludeva all'intimità della Maffei con quei giovani peccatori, se la prende quasi anche con la vecchia amica:

Tu non vuoi scrivere né credere quanto si dice sul conto della...! Son cose ben grosse! Bisogna pure che in un modo o nell'altro io ne sappia qualche cosa. Io sono stato, e lo sono, molto amico di quella persona, ma io non voglio essere burlato né canzonato, e desidero d'essere amico delle persone che ne valgono la pena.

Nell'autunno si recò a Parigi per discutere una proposta francese relativa all'esecuzione de La forza del destino revisionata. Non si arrivò ad alcuna conclusione in quanto Verdi e l'Opéra non si trovarono d'accordo su varie questioni, ma Verdi accettò di scrivere un'opera nuova per l'Esposizione di Parigi del 1867. I soggetti presi in esame comprendevano anche il Re Lear, ma Verdi aveva pensato troppo a quest'opera. Sebbene avesse meditato seriamente di ritornare a questo soggetto, e ne scrisse in proposito a Léon Escudier, alla fine rinunciò all'idea dicendo che era magnifica, ma poco spettacolare per la sensibilità parigina, e si decise per un soggetto tratto dal Don Carlos di Schiller. Un anziano librettista, Joseph Méry ebbe l'incarico dell'adattamento del dramma di Schiller, ma morì prima di terminare il lavoro. A completare il libretto fu chiamato Camille Du Locle che collaborò con Verdi a Sant'Agata nel marzo del 1866.
Due mesi dopo, scoppiò la guerra Austro-Prussiana in cui l'Italia fu coinvolta a fianco della Prussia. Questi avvenimenti e un fastidioso male di gola rallentarono il ritmo della composizione, ma alla fine di agosto Verdi con Giuseppina ritornò a Parigi con l'opera praticamente finita. Incominciarono le prove, con i soliti ritardi parigini, intralci e questioni, in mezzo alle quali Verdi ebbe la notizia della morte del padre.

Verdi si serviva spesso di Giuseppina come intermediaria, sapendo che una sua parola, detta alla persona giusta al momento giusto, gli avrebbe risparmiato noie e imbarazzi, o spinto avanti quelle proposte positive che desiderava. Quelli che avevano affari con lui, spesso prima si mettevano in contatto con Giuseppina per scoprire se il momento era propizio. L'abilità e la diplomazia dimostrata nella sua posizione fra Verdi e il mondo esterno sono al di sopra di ogni elogio. Agendo, alle volte in collusione con Verdi, alle volte di proprio impulso e iniziativa, distribuiva cenni amichevoli, sollecitazioni, parole di ammonimento. Soprattutto gli editori di Verdi trovarono in lei un'inestimabile intermediaria. Con quel suo intuito straordinario di tutte le complesse possibilità finanziarie e commerciali delle sue opere nella sfera internazionale, vi erano sempre delle cose per le quali Verdi riteneva che i Ricordi avessero fatto meno di quanto avrebbero dovuto nel suo e nel loro interesse. Ogni tanto scoppiava un temporale: allora l'aiuto di Giuseppina veniva sollecitato dagli editori, e in genere era liberalmente dato, per quanto compatibile con la fedeltà verso i principi del marito.


1866 Freschi di buone esperienze i due tornarono a casa in primavera. Verdi aveva in tasca il contratto dell'Opéra e ritenne di poter lavorare a Sant'Agata; ma non era tempo di pace; la terza guerra con l'Austria diventava, ogni giorno di più, una realtà.

M'aspetto da un momento all'altro [scrive in maggio a Escudier] di sentire il cannone, ed io sono qui così vicino ai campi d'armata, che non mi sorprenderebbe di vedere qualche palla rotolare un bel mattino nella mia stanza. La guerra è inevitabile. Le cose sono spinte a un punto tale, che se anche tutto il mondo non la volesse, la vorremmo noi. Le masse non si tengono più; ciò non è più in potere manco del Re, e sarà quel che sarà, ma la guerra bisogna farla.

Ma a Verdi non sarebbe piaciuto veder soldati dalle sue parti; stavolta sarebbe scappato come un profugo. Il tempo passava anche per lui; aveva messo su casa, gli interessi erano aumentati, il conflitto non gli avrebbe portato che guasti e rovina ai campi e alle cose. In modo assai goffo chiese consiglio all'amico sul da farsi, ma le decisioni erano già prese: come avrebbe potuto rinunciare alle laute offerte dell'Opéra? Affittò un appartamento a Genova (palazzo Sauli), abituale ritiro per i mesi invernali fino al 1874 (poi traslocò a Palazzo Doria):

Andrò pel momento a Genova, e vi resterò fino all'ultimo, ultimissimo momento in cui devo o dovrei partire per Parigi. Dico dovrei perché il lasciare l'Italia in questo momento mi pesa come un rimorso. È ben vero che io non ho età né braccio per andare alla guerra; non ho testa per dar consigli, io in fine non son buono a nulla, ma pure sarei stato qui, mi sarei dimenato, avrei fatto quel po' di bene che avrei potuto, ed avrei come tanti altri goduto e sofferto co' miei. Che ne dite voi? Cosa fareste al mio posto? [Lettera alla Contessa Maffei]

L'opera nacque dunque con lo spettro delle distruzioni:

S'io venissi ora a Parigi credo che non finirei più l'opera... Insomma quest'opera è in mezzo a fuoco e fiamme, e fra tante agitazioni o riescirà meglio delle altre, o sarà una cosa orribile...

Ma quello che fa ancora balzare il maestro, che riporta nelle sue lettere fiammate di spontanea ribellione e una sorta di furore per cui - almeno a parole - prenderebbe a calci il mondo, è la questione dell'onore, della dignità offesa. La guerra, come è noto, si spense nel grigiore delle sconfitte italiane e con l'acquisto del Veneto soltanto per intercessione dell'imperatore Napoleone; restavano ancora senza soluzioni i problemi del Trentino e di Roma. "Noi non avevamo vinto nulla; avevamo speso troppo e pagato col sangue un premio di consolazione."
Ancora prima, in luglio, al momento in cui il Veneto era ceduto alla Francia e si ignorava quali sarebbero state le decisioni di Napoleone, sfodera la sua indignazione con Escudier:

Da ieri sono a Genova, ed appena arrivato qui leggo nei giornali cosa che mi mette nella più grande desolazione. L'Austria cede la Venezia all'imperatore dei Francesi?!!! È egli possibile? E cosa ne farà l'Imperatore? La riterrà? La vorrà dare a noi? Ma noi non possiamo accettarla e spero che i nostri ministri rifiuteranno. Voi non ci dovete niente e noi non vogliamo niente. Voi che siete tanto suscettibili in fatto d'onore, capirete e rispetterete questo sentimento negli altri... E Parigi fa illuminazioni!!! No, no, la pace non è fatta e non può farsi in quel modo... Avvertite Mr. Perrin che io non scrivo, che non posso scrivere, e che non saprei come fare a fare una nota. Sono ammalato mille volte.

L'Opéra non accettò lo scioglimento del contratto. Fece ritorno a Parigi. Non parlarono più di guerra, le loro condizioni economiche erano in sostanza floridissime e l'avvenire non destava preoccupazioni. Si erano lasciati alle spalle un magnifico appartamento a Genova che Mariani s'incaricò di ammobiliate. Intanto il maestro non dimenticava di lanciare messaggi al fattore di Sant'Agata, perché l'azienda camminasse. Si capisce da questi biglietti che la riconciliazione col padre era ormai avvenuta (Carlo viveva con una vecchia sorella e con una nipotina, Filomena, che sarebbe diventata la figlia adottiva dei Verdi).

Il 12 agosto, con l'armistizio di Cormons, si era conclusa la terza guerra d'indipendenza; Garibaldi, vittorioso a Bezzecca, era stato costretto a evacuare il Trentino. Verdi scrisse da Parigi all'Arrivabene il 28 settembre all'immediata vigilia della firma del trattato di pace di Vienna (3 ottobre), con il quale l'Austria cedeva il Veneto a Napoleone III, che a sua volta l'avrebbe consegnato al regno d'Italia previo plebiscito:

Sulle cose d'Italia chiudo occhi e orecchie per non vedere e sentire. Ne capisco gli attuali vantaggi, ma io non vedo che l'onta nostra Come tu capirai sono ingolfato nelle prove del Don Carlos. Si va avanti ma, come sempre a l'Opéra, a passi di lumaca. Del resto tutto va regolarmente. Si sperava di poter andar in scena verso la metà di Dicembre, ma io non lo credo. Qui piove da tre mesi!


1867 Dopo rinvii, tagli, interventi dell'ultima ora, Don Carlos andò in scena l'11 marzo. "Ci sono capolavori che nascono di getto, perfetti e compiuti in ogni loro parte; e ce ne sono altri che costruiscono la propria statura attraverso una gestazione laboriosa, ricca di ripensamenti a volte anche contraddittori. Alla seconda categoria appartiene senza dubbio il Don Carlo(s); che, come nessun'altra opera sua, spinse Verdi al tormento di rielaborazioni o riscritture d'interi brani, spie di quanto profonda fosse la rispondenza tra la propria sensibilità e il coacervo drammatico del lavoro di Schiller. Tormento, tuttavia, che ha finito col concretarsi in un'opera che non solo sopravanza di non poco - in termini di drammaturgia e psicologia dei caratteri - quella dello stesso Schiller, ma sta in cima al pur tanto ricco e variegato corpus del teatro verdiano. La complessità della gestazione non ha mancato di riflettersi sulla storia esecutiva: stentata, giacché il pubblico ha tardato ad accorgersi della grandezza dell'opera (negandole tuttora, se è per questo, l'adesione spontanea riservata invece a titoli sicuramente inferiori), in ciò poco aiutato dalla critica e pochissimo dalla musicologia, responsabile fino a tutti gli anni Cinquanta, in Germania e Inghilterrra soprattutto, di edizioni - non solo teatrali ma addirittura editoriali - a dir poco obbrobriose nel loro disinvolto impiego di tagli, rielaborazioni e spostamenti interni. Sicché non pare fuor di luogo un rapido riassunto dell'odierna situazione editoriale del Don Carlo(s). Quattro sono le edizioni:

Edizione I – Come detto, il 12 marzo 1867 andò in scena a Parigi il Don Carlos, opera in cinque atti su testo francese di Camille Du Lode, che giunse in Italia - a Bologna - il 26 ottobre dello stesso anno, tradotta in italiano da Achille de Lauzières e col titolo mutato in Don Carlo. – Le altre edizioni: Edizione II (cfr. 1872) – Edizione III (cfr. 1882) – Edizione IV (cfr. 1886)." (Elvio Giudici)

L'opera aveva avuto un modesto successo. Al Conte Arrivabene Verdi scrisse: "Ieri sera Don Carlos. Non fu un successo!! Non so cosa sarà in seguito, e non mi sorprenderei se le cose cangiassero." Ma l'imperatrice Eugenia la ritenne offensiva, parere dal quale molti presero l'imbeccata, senza contare un certo risentimento per il fatto che un incarico così importante fosse stato affidato a un compositore straniero. La critica fu in sostanza favorevole anche se qualcuno volle sottolineare influssi di Meyerbeer e persino di Wagner. Verdi ne fu molto risentito e scrisse a Escudier:

Infine sono un wagneriano quasi perfetto. Ma se i critici avessero fatto un po' più d'attenzione avrebbero visto che le stesse intenzioni vi sono nel terzetto dell'Ernani, nel Sonnambulismo del Macbeth ed in tanti altri pezzi etc. etc... Ma la questione non sta nel sapere se appartiene il D. Carlos ad un sistema, ma sta nel sapere se la musica è buona o cattiva. La questione è netta e semplice e soprattutto giusta.


L'indignazione di Verdi era autentica. In questo periodo non aveva ancora sentito un'opera di Wagner, il che avvenne solo dopo aver strumentato l'Aida. L'evoluzione del pensiero verdiano è spontanea e nulla ha a che fare con Wagner. L'11 giugno così si espresse con Escudier sull'Opéra di Parigi:

Due cose mancheranno sempre all'Opéra: il ritmo e l'entusiasmo. Si fanno molte cose bene, ma il calore che trasporta e trascina non l'avranno mai; o almeno non l'avranno finché non insegneranno a cantar meglio al Conservatorio, e non troveranno un Direttore come Costa o come Mariani. Ma la colpa è anche un po' di voi altri Francesi, che mettete dei ceppi ai piedi agli artisti col vostro bon gout... comme il faut etc. etc. Lasciate alle arti libertà completa, e tollerate difetti nelle cose d'ispirazione. Se spaventate l'uomo di genio colla critica compassata e meschina, Egli non si abbandonerà mai, e gli toglierete il naturale e l'entusiasmo. - Ma se voi siete contenti così, e se l'Opéra ama perdere parecchie centinaia di mille franchi perdendo 8 o 10 mesi di tempo nel montare un'opera, buon pro le faccia, e son contento anch'io.

In italiano, come Don Carlo, l'opera fu rappresentata prima a Bologna e poi alla Scala.
Il giorno dopo la prima parigina Verdi e Giuseppina partirono per Genova. Successivamente Verdi ripartì per Sant'Agata per affrontare i suoi problemi familiari. A Londra l'opera venne rappresentata con successo il 4 giugno. Alla prima rappresentazione italiana, a Bologna (Teatro Comunale, 27 ottobre, direttore Angelo Mariani), l'opera ottenne vivo successo.
I primi giorni del mese di luglio Verdi entrò in uno stato di agitazione che oppresse tutti gli abitanti di Sant'Agata: la malattia del suocero e benefattore Barezzi e la consapevolezza che per lui non c'era più nessuna speranza lo gettarono in una soffocante apprensione. Giuseppina lamentava che il suo carattere fosse diventato impossibile e nota nel diario:

Io cerco di rialzare il morale di Verdi per l'indisposizione che forse i suoi nervi e la sua immaginazione gli fan considerare più grave. [...] Viene molte volte nella mia stanza senza restar fermo in pace 10 minuti. [...] Infine egli si è mal montato contro la servitù e contro di me, ch'io non so con quali parole e con qual tono di voce devo parlargli per non offenderlo! Ahimè! come andranno a finire le cose, non lo so, perché il suo umore diventa sempre più inquieto ed iracondo. Possedere tali eminenti qualità ed avere un carattere qualche volta sì aspro e difficile!... [...] Dio faccia che si calmi perché io ne soffro assai, e perdo la bussola.

Il 21 luglio il vecchio benefattore morì:

I dolori succedono ai dolori con una rapidità spaventevole! Il povero signor Antonio, il mio secondo padre, il mio benefattore, il mio amico, colui che m'ha amato tanto, non è più! La sua molta età non vale a mitigare il dolore che è per me grandissimo! Povero signor Antonio! Se vi è una seconda vita Egli vedrà s'io l'ho amato e s'io son grato a quello che ha fatto per me. È morto nelle mie braccia ed ho la consolazione di non avergli mai dato un dispiacere. [Lettera ad Arrivabene]

A questo dolore si aggiunse la notizia che Francesco Maria Piave era stato colpito da una paralisi: incapace di muoversi e di parlare, visse ancora otto anni, durante i quali Verdi aiutò generosamente la moglie e la figlia.
In una lettera al commediografo Achille Torelli del 23 ottobre, Verdi espresse le seguenti opinioni sul rapporto spesso conflittuale tra artista e critica musicale:

La critica fa il suo mestiere; giudica e deve giudicare secondo norme e forme stabilite; l'artista deve scrutar nel futuro, veder nel caos nuovi mondi; e se nella nuova strada vede in fondo in fondo il luminicino, non lo spaventi il buio che l'attornia: cammini, e se qualche volta inciampa e cade, s'alzi e tiri diritto sempre. È bella qualche volta anche una caduta in un caposcuola.

Verdi chiedeva all'artista di comportarsi con umiltà. L'artista ideale, l'uomo ideale è un semplice, che mette l'intelligenza al servizio della propria responsabilità umana. Quando poi semplicità e coraggio si uniscono a una ricchezza intellettuale e traggono da essa un maggiore alimento, allora si giunge a quella che Verdi chiama, con linguaggio eterodosso, santità, e che dovrebbe consistere in una speciale saggezza riscaldata dal fuoco di un amore il più possibile disinteressato e devozionale. È questo secondo Verdi il caso di Alessandro Manzoni, al quale Verdi avrebbe poi dedicato la Messa da requiem, ulteriore conquista di una nuova religiosità in musica.

Un episodio importante avvenne nel maggio 1867. Giuseppina, ancora presa dai suoi problemi d'arredamento [per Palazzo Sauli a Genova], andò da Sant'Agata a Milano, sola. Là, senza preavvisare, raccolse il suo coraggio e andò a trovare Clarina Maffei alla quale si presentò mandandole un ritratto di Verdi. Questa visita fu un enorme successo; Giuseppina e Clarina, ridendo e piangendo, si buttarono l'una nelle braccia dell'altra. Clarina ebbe poi la meravigliosa idea di portare Giuseppina da Manzoni, il suo "Santo", idolatrato anche da Verdi, il quale fin allora aveva sempre esitato ad avvicinarlo di persona.
In una lettera così Giuseppina ringraziò Clarina Maffei:

L'aver veduto, parlato e toccate le mani di quel Santo, è avvenimento e ricordo tale, che resterà incancellabile dalla mente e dal cuore, fino all'ultimo giorno di mia vita! Quest'onore lo devo a te, ottima creatura, senza nessun mio merito personale, ma solo perché tu ami d'inalterabile amicizia il mio Verdi e perché essendo io sua moglie, facendo a me cosa cara e desiderata tanto, sapevi di farla ancora e in pari tempo a Verdi stesso... Verdi mi ha sempre parlato di te, come dell'amica più cara e più degna di esserlo; ond'è, che se noi ci siamo vedute l'altro giorno per la prima volta, ci amiamo però da lungo tempo.

Grazie a Clarina Maffei e a Giuseppina, Verdi ebbe la possibilità di incontrare per la prima volta Manzoni. Quando Giuseppina gli comunicò la notizia mentre si recano in carrozza a Sant'Agata...:

Pouff! qui la bomba fu così forte ed inaspettata, che non seppi più se dovevo aprir gli sportelli della carrozza per dargli aria, o se dovessi chiuderli, temendo che nel parossismo della sorpresa e della gioia non mi saltasse fuori! È venuto rosso, smorto, sudato; si cavò il cappello, lo stropicciò in modo che per poco non lo ridusse in focaccia. Più (e ciò resti fra noi) il severissimo e fierissimo orso di Busseto n'ebbe pieni gli occhi di lagrime, e tutti e due commossi, convulsi, siamo rimasti dieci minuti in un completo silenzio. Potenza del genio, della virtù e dell'amicizia!

Quant'invidio mia moglie, d'aver visto quel Grande! ma io non so se, anche venendo a Milano, avrò il coraggio di presentarmi a Lui. Voi ben sapete, quanta e quale sia la mia venerazione per quell'uomo, che, secondo me, ha scritto non solo il più gran libro dell'epoca nostra, ma uno dei più gran libri che sieno usciti da cervello umano. E non è solo un libro, ma una consolazione per l'umanità. Io aveva sedici anni, quando lo lessi per la prima volta. Da quell'epoca, ne ho tetto pur molti altri, su cui, riletti, l'età avanzata ha modificato, o cancellato "anche su quelli di maggior riputazione" i giudizj degli anni giovanili; ma per quel libro, il mio entusiasmo dura ancora eguale, anzi, conoscendo meglio gli uomini, si è fatto maggiore. Egli è, che quello è un libro vero; vero quanto la Verità. Oh se gli artisti potessero capire una volta questo vero, non vi sarebbero più musicisti dell'avvenire e del passato; né pittori puristi, realisti, idealisti; né poeti classici e romantici; ma poeti veri, pittori veri, musicisti veri.

Vi mando una mia fotografia per LUI. M'era venuta l'idea d'accompagnarla con due righe, ma il coraggio m'è mancato, e mi pareva d'altronde una pretensione, che io non posso avere. Se lo vedete, ringraziatelo del suo ritrattino, che col suo nome, diventa per me la più preziosa delle cose. Ditegli, quanto sia grande il mio amore e il mio rispetto per Lui; che io lo stimo e venero, quanto si può stimare e venerare su questa terra e come uomo, e come altissimo e vero onore di questa nostra sempre travagliata patria.

In una lettera del 14 giugno, Giuseppina così scrisse di Sant'Agata:

Quando volle Iddio, la casa fu finita, e t'assicuro che Verdi diresse i lavori bene e forse meglio d'un vero architetto. Ecco dunque il quarto appartamento che dovetti mobiliare. Ma il sole, gli alberi, i fiori e l'immensa e vada famiglia degli uccelli, che fanno tanto bella ed animata la campagna, per gran parte dell'anno, la lasciano triste, muta e spogliata nell'inverno. Allora io non l'amo. Quando la neve copre quelle immense pianure e gli alberi coi loro nudi rami sembrano scheletri desolati, io non posso alzare gli occhi per guardare fuori: copro le finestre con cortine forate ad altezza d'uomo, e mi sento una tristezza infinita, un desiderio di fuggir la campagna, e sentir che vivo fra viventi e non fra gli spettri ed il silenzio d'un vasto cimitero. Verdi, natura di ferro, avrebbe forse amato la campagna anche d'inverno, e saputo crearsi piaceri ed occupazioni adatte alla stagione, ma ebbe, nella sua bontà, compassione del mio isolamento e della mia tristezza, e dopo molte esitanze sulla scelta della località, abbiamo piantato le nostre tende invernali in faccia al mare ed al monte, ed io sto ora mobiliando il quinto e certo l'ultimo appartamento in vita mia.

Nell'ottobre l'amico Corticelli si trovava allora in Italia, stanco di viaggiare, e senza impiego. Gli fu offerto l'incarico d'intendente a Sant'Agata, che accettò pieno di gratitudine.

Uno sguardo più profondo all'ambiente forse ci aiuterà a raggiungere una conclusione convincente. Com'era la vita domestica di Giuseppina con Verdi? Due brevi brani di una specie di diario, del luglio 1867, trovato nel copialettere di Giuseppina rivelano uno stato di cose molto più infelice di quel che si potrebbe sospettare.

1º luglio. Nota. [...] L'occuparsi esclusivamente d'un uomo può essere ammirevole in teoria, è un errore in pratica. Io cerco di rialzare il morale di Verdi per l'indisposizione che forse i suoi nervi e la sua immaginazione gli fan considerare più grave. Egli dice che io non credo, che io rido, ecc. e me ne fa una colpa. È soggetto a riscaldo d'intestini, e la smania, le corse, la fatica di questi giorni per la macchina e la sua naturale inquietudine gli causano qualche sconcerto di ventre. Viene molte volte nella mia stanza senza restar fermo in pace 10 minuti. Ieri venne e secondo il solito specialmente di questi giorni, appena seduto, s'alzò. Gli dissi: Dove vai? Di sopra. E siccome non è solito andarvi replicai: A che fare? A cercar Platone. Oh ma non ricordi che è nell'armadio della stanza da pranzo? Mi pare che le domande e le risposte non avessero niente che di naturale, e da parte mia poi era il pensiero fisso di non vederlo star quieto come ne ha bisogno e risparmiargli passi inutili... Non l'avessi mai detto! Fu un affar grave, premeditato da parte mia e quasi abuso di potere!... Infine egli si è mal montato contro la servitù e contro di me, ch'io non so con quali parole e con qual tono di voce devo parlargli per non offenderlo! Ahimè! come andranno a finire le cose, non lo so, perché il suo umore diventa sempre più inquieto ed iracondo. Possedere tali eminenti qualità ed avere un carattere qualche volta si aspro e difficile! La copia di alcune lettere contenute in questo libro prova come egli qualche volta abbia fiducia nel mio carattere e mi creda con un po' di testa... Alle volte conoscendo dalla soprascritta il carattere di un amico, domanderò: come sta? Basta non urtarlo e fargli l'idea ch'io ficca il naso dove non devo! Non è troppo suscettibilità e troppo contenzione?

2 luglio. Anche questa sera burrasca a proposito di una finestra aperta e perché ho cercato di calmarlo! S'è messo in furia dicendo che vuol mandar via tutta la servitù, e ch'io tengo da loro che non fanno quel che devono, piuttosto che da parte sua che fa delle osservazioni giustissime. Ma Dio mio queste mancanze della servitù egli le vede nel suo cattivo umore colla lente d'ingrandimento e più i poveri diavoli hanno bisogno di chi tuteli un poco i loro interessi, perché poverini e perché non cattivi nella massa di servitù generale corrotta! Dio faccia che si calmi perché io ne soffro assai, e perdo la bussola.

3 luglio. Marcellino, l'ultima volta che andò a Busseto, andò dalla Maddalena e gli disse piangendo dirottamente, che teme di non aver per lungo tempo da restare in casa, perché il Padrone mostra di essere malcontento. Ch'egli fa quello che può, ed alcune mancanze, se le commette, non è per male volontà, ma per eccesso di timore. Che se dovesse andar via di casa ne sarebbe così disperato, che abbandonerebbe il paese, perché egli vuol bene ai suoi padroni.

Sei settimane dopo le note di diario, Verdi, che si trovava a Torino, scrisse al suo agente Paolo Marenghi a Sant'Agata:

Parto domani sera per Parigi e ripeto ancora gli ordini dati per vedere se io arriverò una volta ad essere inteso ed ubbidito. 1) Voi (oltre tutta la vostra ispezione) veglierete sopra i cavalli ed il cocchiere, di cui mi fido pochissimo in fatto di ordini. Ch'ei faccia passeggiare i cavalli ogni due giorni senza andare a Busseto. 2) Direte a Guerino che ha fatto male a dare la chiave della macchina, che ora la pulisca e la chiuda fino a mio ordine. 3) Ripeterete al giardiniere quello che ho detto a lui. Il giardino chiuso: nissuno deve entrare, né quei di casa dovranno sortire ad eccezione dei cocchiere pel poco tempo onde muovere i cavalli. Se qualcheduno sortisse, egli deve star fuori per sempre. Badate che non scherzo, che ormai intendo di essere padrone in casa mia.

I servitori, secondo l'ordine numero tre, non avevano il permesso di uscire di casa! Che cosa era questa, se non tirannia domestica del genere veramente pii mostruoso? Ma non erano soltanto i servitori che soffrivano di questo duro regime. E un colpo per noi scoprire che poteva comportarsi in questo modo anche verso Giuseppina. Non si potrebbe avere un esempio migliore di quello che io intendo per "verità relativa" dei vari documenti, perché troppo differiscono le scene descritte nelle note di diario da quello che ci possono suggerire le lettere contemporanee a Clarina Maffei!

Le note di diario vennero scritte durante l'ultima malattia di Antonio Barezzi, quando la sua fine era già sicura... Un altro gruppo di note di diario, questa volta in francese, da Genova, all'inizio dell'anno seguente, mostra che la situazione non è cambiata.

1º Gennaio. Laissant de coté l'assez grave dispute d'hier à propos de la maison de Gênes, de la cuisinière qui ne le contente pas, et les mille choses qui le contrarient, tandis que je tâches de faire mon possible pour le voir satisfait chez lui comme il le mérite, la journée s'est passé assez bien et il a voulu absolument me faire cadeau du premier de l'an, que je ne desirais pas, auquel je ne m'y attendais nullement, vu les grandes dépenses de l'année pour l'appartement, maçons, etc., dépenses qui semblent lui peser et qu'il me reproche d'avoir été entrainé à faire, pour la maison que j'ai manifesté désir d'avoir a Gênes. D'abord et comme base des mémoires ou notes, que j'ai promis de faire commencer du premier 1868, il y a, que si j'ai désiré avoir un pied à terre dans un pays, oil il y a la mer, que j'admire jusqu'à l'adoration, comme une des grandes merveilles du bon Dieu et de la nature, je n'ai cependant pas désiré des choses splendides, mais un nid en vu de cette mer, pour y passer les mois rigoreux de l'hiver, très tristes à la campagne, et très dispendieux sans commoditées correspondantes à l'Hôtel, où l'on est toujours chez irs autres. Il m'a donc fair un très beau cadeau, car il est grand seigneur et généreux. J'en ai été touchée, comme de tout le bien qu'il me fait et qu'il m'a toujours fait sans ostentation et sans reproches... exemplé trois fois dans les derniers jours!...

2 Janvier. Journée sereine! Le diner a été trouvé bon. Je suis contente. Il est calme.

3 Janvier. Nous avons joué au billard, comme presque toujours ces derniers temps. Il s'est occupé en faisant le menuisier, en faisant le serrurier, en jouant du piano. Il n'y a rien trouvé à redire, ni à gronder! Mon Dieu, il serait si facile d'être heureux, quand on a la santé et un peu de fortune. Pourquoi n'est il pas toujours comme cela, au lieu de trouver mal n'importe ce que je fais et que je fais toujours avec la seule et même pensée, de lui rendre la vie commode, agréable et sereine?!

4 Janvier. Hélas! Les nouges ont reparu! Hier au soir la Marquise de... fut nous rendre visite avec son mari. Mariani s'est déchatné contre Gênes et les mauvaises humeurs de la Ma... Il a porté au septième ciel Bologne et ses habitants de toutes les classes. J'ai pris part à la conversation, en disant mon opinion, avec des termes, que j'ai pensée ont été convenables... mais depuis assez longtemps je parle, à ce qu'il parait toujours, mal et mal à propos. Verdi s'irrite pour les intonations de voix trop douces, ou trop vives, de sorte que je suis à me demander, quel peut être le juste milieu qui lui convient! Le matin à dejeuner il me l'a reproché vis a vis de Mr. Corticelli et Maddalena, au sujet de ce qu'il disait sur Mariani. J'ai mal joué au billard et comme il m'a dit quelque chose brusquement, j'ai repondu: As tu mal dormi? Après en venant dans ma chambre, je lui ai domandé: Qu'ai-je dit hier soir, qui méritait tes observations? Il me repondit: C'est le ton... Mais au nom de Dieu! est-ce qu'à mon âge je dois parler et me tenir comme une jeune fille?... Il soutient que j'ai la prétention de me croire une femme parfaite (!) et qu'on ne peut me toucher, ni me dire un mot, sur ce que je dis et fais, surtout sur mon ménage! Mon Dieu! si lorsqu'une chose ne lui convient pas, il me le disait avec un peu moins de brusquerie!... Et d'ailleurs, est-ce un grand crime de s'occuper, comme je le fais, aussi consciensieusement d'affaires, qui sont, dans leur extrème modestie, du rapport essentiellement féminin? Que d'hommes voudrait voir leurs femmes occupées de la sorte, surtout quand on conserve en même temps les gouts poétiques de la lecture, des arts, et d'une élégance en rapport avec l'âge? Mais ayant renoncé à la societé, au monde (et avec bonheur!) pour m'occuper exclusivement de ce qui peut lui être utile, et nécessaire, ne serait il pas juste de m'en tenir compte, avec une parole de satisfaction au mains une fois par an?! Mais c'est peut être là mon tort, de n'avoir pas fait comme la généralité des femmes qui arrivées à obtenir un but ardemment desire, recommencent après une vie de dépenses, d'amusement, etc. J'ai voulu devenir une femme neuve, pour répondre dignement a l'honneur qua j'ai reçu en devenant sa femme, et au bien que je reçois continuellement de cet homme, qui pour être parfait il ne lui manquerait qu'un peu plus de douceur et de charme dans les rapports journaliers, avec qui n'a d'autre bonheur, que celui d'une parole aimable! Avec son immense talent, il devrait se rappeler que le pain est nécessaire à la vie matérielle... mai qu'il y a une autre vie, que la vie simplement matérielle!...

Heures 2 1/2. Maintenant il joue du piano et chante avec Mariani.
[cfr. lettera di Giuseppina del 3 gennaio 1869]


1868 Come sempre nei primi mesi dell'anno Verdi si trovava con Giuseppina a Genova. Durante il mese di marzo, quando il Don Carlos stava per essere rappresentato alla Scala (l'opera ebbe un "successo colossale" e "vero, reale, positivo") e dopo che il Mefistofele di Boito era caduto clamorosamente, il Teatro milanese propose un rilancio dell'opera di Verdi. Nauseato dal mercantilismo degli impresari, aveva scritto a Ricordi:

Ritorno da S. Agata e trovo la vostra lettera del 10 con molte altre che mi parlano delle cose della Scala. Tutte per dirmi di venire a Milano ché il momento è opportuno. Il momento è opportuno?!!.. ma che?... son io fatto per godere sulle rovine degli altri? Io son di quelli che va dritto per una strada senza guardar né a dritta né a sinistra, che fa quanto può, e quanto crede, che non vuole né momenti opportuni, né appoggi né protezioni, né claque, né reclame, né consorterie. Amo l'arte quand'è rappresentata degnamente, e non gli scandali or ora avvenuti alla Scala. Se vi è cosa al mondo di cui io sia contento si è di non essere venuto in questo momento a Milano. Ah il mio cuore, il mio istinto se volete, mi dice sempre la verità: nelle cose un po' incerte lo interrogo, e mi risponde giusto.

È sempre in marzo, il 6, che illustra al Conte Arrivabene la formula del compositore:

So anch'io che vi è una Musica dell'avvenire, ma io presentemente penso e penserò così anche l'anno venturo che per fare una scarpa ci vuole del corame e delle pelli!... Che ti pare di questo stupido paragone che vuoi dire che per fare un'opera bisogna aver in corpo primieramente della musica?!... Dichiaro che io sono e sarò un ammiratore entusiasta degli avveniristi a una condizione che mi facciano della musica!... qualunque ne sia il genere, il sistema, ecc. ma musica!... Basta, basta! Che non vorrei che parlandone troppo mi si attaccasse il male.

Nella seconda metà di maggio scrisse al ministro Broglio:

Sigr Ministro,
Ho ricevuto il Diploma che mi nomina Commendatore della Corona d'Italia.
Quest'ordine è stato istituito per onorare coloro, che giovarono sia colle armi colle lettere scienze ed arti all'Italia attuale. Una lettera a Rossini dell'Eccellenza Vostra, benché ignorante in musica (com'Ella stesso lo dice, e lo crede) sentenzia che da quarant'anni non si è più fatta un'opera in Italia. Perché allora si manda a me questa decorazione? - Vi è certamente un'equivoco nell'indirizzo e la rimando. [...]

A questo proposito aveva scritto a Ricordi il 15 maggio:

Può darsi che nessuno dopo Rossini abbia più creato un Barbiere di Siviglia e che nessuno abbia più avuto fantasia ed abbondanza di motivi del medesimo: ma ne viene per questo la conseguenza che la musica sia decaduta al punto da far gettare tante grida ad un ministro? [...] Ma egli dice che è tanto ignorante in musica (e dev'essere) e perché giudica allora? Certo che l'epoca ha gravi imperfezioni: molte lasciateci, molte create per cercar il meglio. Ma quando si volesse fare un'analisi sia pure all'ingrosso sulle opere di altr'epoca, non sarebbe difficile trovare anche nelle migliori una insopportabile convenzione di forme, pedanteria nei pezzi d'assieme, falsa la espressione, completa assenza di passione, istromentazione tediosa monotona, senza colorito, senza poesia e senza perché: e soprattutto la mancanza di quel filo d'oro che lega ciascuna parte e costituisce invece di pezzi incoerenti l'opera in musica. Non era quindi il caso di gridare restaurazione. Bisognava dire: cercate ancora e andate avanti. A te parrà che io sia un avvenirista? E perché no? Sì, avvenirista finché vuoi, ma ad una condizione: voglio dire che quando si fa opera in musica vi sia prima di tutto musica.

Verdi non vedeva Clarina Maffei da vent'anni. Giuseppina, senza dirgli una parola, organizzò una visita di sorpresa di Clarina a Sant'Agata per la fine di maggio.

Egli mi accolse come una sorella la contessa raccontava a un'amica mi riconobbe tosto ma non credeva ai propri occhi. Mi guardava attonito: poi gettò delle esclamazioni: mi abbracciò... La casa è elegante e confortevolissima; il giardino vasto e bello; porteremo a Milano dei boschi di fiori. Verdi mi parlò delle piante di rose, di cui vi mando una foglia per ricordo. Oggi andremo a Busseto; poi a visitare la casa ove egli nacque.

Si fermò una settimana; parlarono del passato, e Verdi promise che sarebbe andato a Milano a conoscere Manzoni. Dopo la partenza di Clarina, Giuseppina scrisse:

Vado di tanto in tanto, secondo il mio costume, a visitare le stanze dell'appartamento superiore. Vado nella stanza che tu hai occupato e mi domando: È proprio vero? Clarina fu a Sant'Agata? In questo letto? Sì! quella buona, quella eccellente creatura, venne fin qui per visitare e benedire gli antichi ed i nuovi amici, che il suo cuore ha confuso in tin solo e santissimo amplesso... Grazie, mia Clarina, di questa tua apparizione, che mi ha riscaldato il cuore. Arrivata tra i fiori, partisti tra i fiori, quasi come un Essere fantastico. La mestizia ed il silenzio, che la tua partenza, aveva lasciato in questa casa, non fu senza vita e voluttà! Il pensiero, riposa pensando a te, che facesti "nel nostro secolo!" dell'amicizia il tuo tempio, il tuo Dio e tutte le tue gioie! Che tu sia benedetta! Verdi (che ti scriverà) par sempre fermo nell'idea di fare una corsa a Milano e sul Lago. Verrà dunque, prima che Manzoni parta per la campagna. Sta bene che quel Santo veda e stringa la mano al mio Verdi, che è degno della sua benevolenza.

Il 30 giugno Verdi incontrò finalmente a Milano - auspice, con la moglie, la contessa Maffei - Alessandro Manzoni: il contemporaneo ammirato, venerato, presente a Verdi sin da quando, nella "faraggine di pezzi" per Busseto, poneva in musica Il cinque maggio o i cori delle tragedie.
Verdi ne fu molto commosso. Era strano per lui ritrovarsi a Milano, dopo tanti anni. Notò come la città si fosse ingrandita, ammirò la nuova Galleria, e risenti i legami che esistevano con la scena dei suoi primi successi.
Scrisse Verdi il 7 luglio a Clarina Maffei:

Cosa potrei dirvi del Manzoni? Come spiegarvi la sensazione dolcissima, indefinibile, nuova, prodotta in me, alla presenza di quel Santo, come voi lo chiamate? Io me gli sarei posto in ginocchio dinanzi, se si potessero adorare gli uomini. Dicono che non lo si deve, e sia: sebbene veneriamo sugli altari tanti che non hanno avuto il talento né le virtù del Manzoni, e che anzi sono stati fior di bricconi. Quando lo vedete baciategli la mano e per me ditegli tutta la mia venerazione.

Ho visitato colà il nostro grande Poeta, che è anche un gran cittadino, e un sant'uomo! Assolutamente nei nostri Grandi vi è un certo non so che di naturale, che non si trova in quelli degli altri paesi. [Lettera a Escudier]

Nell'estate si apriva a Busseto un nuovo teatro. Per l'inaugurazione, il 15 agosto, si rappresentò il Rigoletto. Due mesi dopo Rossini moriva a Parigi e Verdi tentò di mettere insieme i principali compositori italiani perché scrivessero una Messa di Requiem da eseguire per il primo anniversario della morte. Verdi avrebbe voluto che ogni parte della messa fosse scritta da un compositore, che la Messa avesse una sola esecuzione, che la partitura venisse depositata al Liceo Musicale di Bologna, dove Rossini aveva studiato, e che nessuno, compositori ed esecutori, dovesse ricevere dei compensi. Verdi scrisse il Libera me che gli era stato assegnato. Ma, incredibilmente, la difficoltà di organizzare un coro sembrò insuperabile. Il comitato propose di rimandare l'esecuzione, ma Verdi si rifiutò di prendere in considerazione il rinvio e, alla fine, i manoscritti furono restituiti ai compositori.
Ne scrisse a Ricordi il 17 novembre:

Ad onorare la memoria di Rossini vorrei che i più distinti maestri italiani (Mercadante a capo, e fosse anche per poche battute) componessero una Messa da Requiem da eseguirsi all'anniversario della sua morte. [...] Questa composizione (per quanto ne possano essere buoni i singoli pezzi) mancherà necessariamente d'unità musicale; ma se difetterà da questo lato, varrà nonostante a dimostrare come in noi tutti sia grande la venerazione per quell'uomo, di cui tutto il mondo piange la perdita.

Su Rossini, Verdi scrisse alla Maffei, il 29 novembre:

Un gran nome è scomparso dal mondo! Era la riputazione la più estesa, la più popolare dell'epoca nostra, ed era gloria italiana! Quando l'altra che vive ancora [Manzoni] non sarà più, cosa ci resterà?

In quel periodo Verdi attendeva alla felice ripresa de La forza del destino alla Scala ed era in corrispondenza con Camille Du Locle, il librettista del Don Carlos che continuava a suggerire idee per nuove opere. Verdi, fermamente deciso a troncare ogni collaborazione con l'Opéra di Parigi, tentava di spiegare al Du Locle il suo atteggiamento. In una lettera, in cui si lamenta dei gusti e delle condizioni che il teatro parigino imponeva, dice come persino il genio di Rossini fosse stato sconfitto con il Guillaume Tell dalla "fatale atmosfera" dell'Opéra:

La conclusione di tutto questo, si è che io non sono un compositore per Parigi. Non so se ne ho il talento, ma so che le mie idee in fatto d'arte sono ben diverse dalle vostre. Io credo all'ispirazione: voi altri alla fattura!

Du Locle, tuttavia, non si diede per vinto, proponendo a Verdi vari soggetti operistici, poi abbandonati. Inviò infine al compositore una trama in quattro pagine di un'opera ambientata nell'antico Egitto. Verdi si mostrò interessato al soggetto egiziano, elogiandolo e chiedendo chi lo avesse scritto. Du Locle dichiarò che ne era l'autore e che aveva tratto il soggetto da un racconto dell'egittologo francese Auguste Mariette: ne fece stampare un numero limitato e lo propose al Khedive come soggetto per una grande opera che poteva celebrare l'apertura del canale di Suez. Il Khedive incaricò infine Du Locle di interessare al progetto un compositore di fama internazionale. Verdi fu scelto per primo, ma il Khedive pensava di avvicinare Gounod e Wagner se Verdi avesse rifiutato.
Nel dicembre era un Verdi tormentato che scriveva all'amico Cesare Vigna, lo psichiatra:

Da Roma ho ricevuto le varianti [imposte dalla censura] al Ballo in maschera. Somma [Antonio, il librettista] mi scrive che ne è "nauseato" (la parola non è gentile) ed io lo sono più di lui! Ma cosa doveva io fare? Voleva che io protestassi e facessi una lite come l'anno scorso? Una seconda lite sarebbe stata scandalosa e ridicola! Certo che pel teatro bisogna fare dei sacrifizi, e chi non ha questo coraggio è inutile che si metta alla dura prova.


1869 La revisione de La forza del destino ebbe un enorme successo anche se Verdi la considerava una vecchia opera rispetto al Don Carlo del 1867. Il compositore tolse alcuni pezzi, cambiando l'ordine delle scene, curando una nuova ristampa, rifacendo di nuovo il finale e aggiungendo l'attuale sinfonia. I cambiamenti necessari al libretto furono effettuati da Antonio Ghislanzoni, poeta drammaturgo, narratore e direttore della "Gazzetta Musicale" di Milano, che qualche mese più tardi redasse sotto forma di libretto italiano la traccia francese dell'Aida. Quando il critico Filippi sostenne che l'aria di Leonora "Pace, pace mio Dio" era una imitazione dell'Ave Maria di Schubert il compositore rispose esaurientemente:

[...] nella mia somma ignoranza musicale, non saprei da quant'anni non sento l'Ave di Schubert, e m'era perciò ben difficile imitarla. Non creda che dicendo: una somma ignoranza musicale, sia per fare un po' di blague. No, è la pura verità. In casa mia non vi è quasi musica, non sono mai andato in una Biblioteca musicale, mai da un editore per esaminare un pezzo. Sto a giorno d'alcune delle migliori opere contemporanee non mai studiandole, ma sentendole qualche volta a teatro: in tutto ciò vi ha uno scopo ch'Ella capirà. Le ripeto adunque che io sono, fra i maestri passati e presenti, il meno erudito di tutti. Intendiamoci bene, e sempre per non far blague; dico erudizione e non sapere musicale. Da questo lato mentirei, se dicessi che nella mia gioventù non abbia fatto lunghi e severi studi. Egli è per questo che mi trovo aver la mano abbastanza forte a piegare la nota come desidero, ed abbastanza sicura per ottenere ordinariamente gli effetti ch'io immagino; e quando scrivo qualche cosa d'irregolare si è perché la stretta regola non mi dà quel che voglio, e perché non credo nemmeno buone tutte le regole finora adottate. I Trattati di Contrappunto hanno bisogno di riforma. [marzo]

Le lettere di questo periodo non sono affatto gaie. Giuseppina era capace dei più intensi affetti verso le persone, i luoghi, gli animali, e di conseguenza soffriva in proporzione per le partenze, le morti e le delusioni. Il malinconico silenzio, che alle volte incombeva su Sant'Agata, era stato rianimato dalla presenza di Maria [Filomena] Verdi, come dobbiamo ora chiamarla. L'amore di Giuseppina per questa bimba era quasi più che materno. Ma Verdi aveva decretato, con il suo solito buon senso, che Maria doveva partire per il collegio scelto a Torino, l'istituto della Regia Opera della Provvidenza. Dopo che le porte dell'istituto si richiusero alle spalle di Maria, Verdi andò a Milano, per le prove della versione riveduta della Forza del destino, alla Scala, mentre Giuseppina ritornò, sola, a Genova. Raccontava al canonico Avanzi:

Non avrei coraggio di ricominciare, e pel momento non sono ben sicura se avrò coraggio di persistere nella determinazione presa di starmene separata per tanto tempo. Ho sofferto molto, moltissimo! Piango ogni volta che ripenso a lei e mi par di vedere quella faccia aperta e ridente in tutti gli angoli della casa! Ma non c'è più. È un Istituto imponente; mi pare che abbia la maggior parte dei requisiti che si richieggono per farne delle allieve ben educate e seriamente istruite... ma... ma mi pare che io pure avrei potuto educarla e farla istruire benissimo.

Dapprincipio si rifiutò d'andare a Milano, finché Verdi non l'andò a prendere. Dopo, di ritorno a Genova, fece la brutta copia di una lunga lettera per Clarina Maffei, in un tono dolce e triste:

Arrivati a una certa età le cose più piacevoli e più dolorose, quelle che si sono desiderate o temute passano, fuggono con una rapidità vertiginosa! Verdi fu a Milano dopo tanti anni d'assenza e tanto desiderio de' suoi amici di rivederlo! E ritornato su quel palco della Scala testimonio de' suoi primi successi, delle sue lotte, delle sue prime emozioni artistiche che sono infine la pagina principale degli uomini di genio!... [...] Tutto è passato e noi siamo ritornati alla calma, al silenzio, alla quasi solitudine. Verdi è andato a parlare per qualche giorno ai suoi alberi ed ai suoi fiori di S. Agata. Io sono rimasta in Genova: non sorto, trascuro un po' la casa, leggo molto e penso moltissimo. Nella meditazione vi è qualcosa di severo e melanconico, che non è privo di voluttà! Maturando negli anni io inclino moltissimo a questa disposizione di spirito. Passo in rivista uomini e cose: e in questa specie di fantasmagoria mentale, mi vedresti, volta a volta, ridere e piangere, commuovermi, arrabbiarmi e via via abbandonarmi all'interminabile catena delle emozioni, suscitate in me da diversi pensieri e ricordi, tristi o ridenti.

Questa lettera del 9 marzo lascia leggere fra le righe quella depressione di spirito in lei ormai abituale. Arrivavano eccellenti rapporti sui progressi scolastici di Maria. Ma Giuseppina aveva molte altre preoccupazioni: a Cremona la madre si comportava come una pazza, e si pensava doverla rinchiudere in un manicomio. Barberina [la sorella] era sempre malata: in una recente lettera aveva quasi espresso il desiderio di morire: "Ti ringrazio dei sacrifici che fai per me, che non miglioro mai, né il Signore mi prende presso di Lui."
Gli ultimi due volumi dei copialettere di Giuseppina sono essenziali per lo studio della crisi domestica che amareggiò gran parte degli ultimi anni della sua vita. Ma l'interesse generale dei volumi diminuisce. Verdi ha ora ripreso i suoi copialettere e si rivolge poche volte a lei in qualità di segretaria. Man mano che ella invecchiava, la sua prosa diventava meno scintillante.

Il 29 aprile Giuseppina scrisse a Léon Escudier, rimproverandolo di essere troppo severo nel giudizio su Wagner:

Ne me parlez pas de Wagner avec ce mépris et cette aversion. Ecoutez-moi bien, mon cher ami. Je vous prédis que les Parisiens d'ici a quelques années ne jouiront que par Wagner. D'abord il vous a rudoyés vertement et comme il y a quelque chose d'original et de piquant dans cette manière de s'imposer et de faire de la réclame vous avez commencé par vous étonner, mais vous finirez par dire bravo bravo. D'ailleurs, et je parle seulement pour la musique, la claque et le journalisme imposent la loi aux oreilles musicales de la fashion parisienne.

Il 7 agosto Verdi scrisse a Ricordi a proposito di una riuscitissima rappresentazione de La forza del destino a Vicenza qualche settimana prima:

Ahi ahi! Quando si accusa il pubblico di non aver capito un'Opera, io traduco FIASCO! - È vero che vi è pubblico, e pubblico, nonostante tutti sono suscettibili a scuotersi a commoversi quando ve ne sia il motivo. - I dettagli che mi date mi fanno fare delle riflessioni ben tristi ben scoraggianti per me, e per l'arte in generale. Cos'è piaciuto veramente nella Forza? Una Ballata, due Romanze, due Duetti... vale a dire i pezzi d'accademia, ma non una di quelle scene che hanno qualche originalità e carattere, che hanno movimento scenico, o che hanno Intendimenti Drammatici - Così nel D. Carlos sento sempre parlare di qualche Duetto, dell'aria del V atto, ma giammai del Terz'atto che è veramente il punto culminante, e, dirò così il cuore del Dramma; né mai della scena dell'Inquisizione che si eleva di qualche poco sugli altri pezzi. È vero che quelli squarci non furono mai eseguiti in Italia né scenicamente, né musicalmente, ed in ciò stà il mio conforto; ma cosa devo pensare di questi quadri della Forza così magnificamente eseguiti, a quanto voi dite, e del Terzetto ultimo meglio rappresentato che non era a Milano? Se ciò è, bisogna concludere che quei quadri sono uno sbaglio od un controsenso, e che bisogna tornare alle Cavatine. - Buon pro' lor faccia e si servano.

Il documento più singolare di tutta la serie dedicata ai problemi dell'opera in musica e ai "segreti" della composizione, è la lettera inviata a Du Locle il 6 ottobre. L'opera non è un mosaico, è un processo drammatico in sviluppo:

Nei vostri teatri musicali vi sono troppi sapienti! Ciascuno vuol giudicare a norma delle proprie cognizioni, de' suoi gusti e, quel che è peggio, secondo un sistema, senza tener conto del carattere e dell'individualità dell'autore. Ciascuno vuol dare un parere, vuol emettere un dubbio, e l'autore vivendo per molto tempo in quella atmosfera di dubbi, non può a meno, a lungo andare, di non essere un po' scosso nelle sue convinzioni, e finire a correggere, ed aggiustare, e, dirò meglio, a guastare il suo lavoro. In ogni modo, si trova alla fine sotto la mano, non un'opera di getto, ma un mosaico, e sia pur bello quanto si voglia, ma sempre mosaico... Ma se l'opera è di getto, l'idea è una, e tutto deve concorrere a formare quest'uno. Voi forse direte che nulla impedisce di ottenere tutto questo a Parigi: in Italia si può, anzi io lo posso sempre, ma in Francia no... La conclusione di tutto questo si è che io non sono un compositore per Parigi. Non so se ne ho il talento, ma so che le mie idee in fatto d'arte son ben diverse dalle vostre. Io credo all'Ispirazione: voi altri alla fattura. Ammetto il vostro criterio per disputare, ma io voglio l'entusiasmo che a voi manca, per sentire e giudicare. Voglio l'arte in qualunque siasi sua manifestazione: non l'arrangement, l'artifizio, il sistema che voi preferite.

In una lettera di Giuseppina a Verdi, del 3 febbraio 1869 si parla di Maria [Filomena] Verdi che era stata appena accompagnata in collegio a Torino, con gran dispiacere di Giuseppina:

Ho ricevuto notizie da Torino e te le trasmetto immediatamente, persuasa che anche in mezzo alle tue occupazioni e distrazioni penserai qualche volta a quella cara Bambina che non è più con noi. Essa sta bene; ha pianto ancora nella sera di domenica e il lunedì mattina svegliandosi in mezzo a tante faccie sconosciute! Pare che vada rasserenandosi, io però che leggo entre les lignes, vedo che ha sofferto e soffre ancora moltissimo... Ma il suo bene vuole che stia in un collegio e sia. Quantunque io fossi persuasa che avrei sentito molto il distacco, non credeva però di provarne tanta amarezza. Non ho fatto sapere a nessuno il mio ritorno in Genova, perché non ho volontà di vedere nessuno. Nello stesso tempo le stanze enormi mi sembrano in questo momento tristi deserti, popolati da fantasmi.

Si deve considerare il suo dolore a questo riguardo giudicando il significato dell'insieme. Ma che cosa dobbiamo pensare del seguente brano straordinario?

Ho ben pensato e non verrò a Milano. Ti risparmierò così di venire misteriosamente ad ora di notte alla stazione per farmene scivolar fuori come un involto di merce proibita. Ho ponderato il tuo profondo silenzio prima di partire da Genova, le tue parole di Torino, la tua lettera di martedì ed i miei presentimenti mi consigliano di declinare l'offerta che mi fai di venire ad assistere ad alcune prove della Forza del destino. Sento tutto quello che vi è di forzato in questo invito e io credo saggia determinazione lasciarti in pace e starmene dove sono. Se non mi diverto, non mi espongo almeno ad ulteriori ed inutili amarezze e tu sarai d'altronde completamente à ton aise. Quando la scorsa primavera il mio cuore mi dava l'audacia di presentarmi alla Maffei ed a Manzoni per tornarmene da te colle mani piene di cose grate - quanto io era felice pensando alla cara sorpresa che t'avrebbe cagionata la visita della Clarina - quando facevamo insieme la gita a Milano la visita a Manzoni la corsa sul Lago e che conseguenza di tutto questo vi era il tuo riavvicinamento al paese de' tuoi primi successi... io non pensava allo strano e duro risultato che mi sta dinanzi d'essere rinnegata. [Brano cancellato: Saprai che quando si sono passati anni ed anni d'una vita silenziosa, ritirata, modesta, non è la smania di venirmi a divertire a Milano]. No, Verdi, io non poteva pensare che in primavera si potesse presentare insieme all'augusta presenza del Manzoni, ed in inverno fosse prudente cosa rinnegarmi. Così è. Tollera dunque che il mio cuore esacerbato trovi la dignità del rifiuto e Dio ti perdoni [Versione alternativa: e tanto affetto per te da perdonarti] l'acutissima ed umiliante ferita che mi hai recata. Alla Giuditta ed alla Clarina che mi scrivono (non so perché e con qual fine) pregandomi di raggiungerti a Milano troverai qualche pretesto per giustificare il mio rifiuto. Risponderò domani o dopo. Della Bambina te ne scriverò appena ne abbia io stesso ulteriori notizie.

Questa è l'altra faccia della medaglia, che ci rivela un cuore spezzato dietro le graziose lettere descrittive a Clarina. Che amarezza deve essere stata quella che fece uscire dalla penna di Giuseppina una frase come "farmi scivolar fuori come un involto di merce proibita!"
Siamo ora giunti all'argomento principale d'indagine di questo capitolo, e in grado di impostarlo su base realistica. Secondo la nostra nuova cronologia, Verdi probabilmente vide per la prima volta, Teresa Stolz, in un breve incontro, a Genova nel 1868, sia in aprile che nella seconda metà di dicembre. Passò invece del tempo in sua compagnia, per la prima volta, durante le prove della Forza del destino alla Scala, nel febbraio del 1869. Una cosa emerge con chiarezza cristallina dalla lettera di Giuseppina del 3 febbraio, che cioè il comportamento di Verdi prima di partire per andare a curare le prove, era stato tale da indurla, a torto o a ragione, a credere che non fosse desiderata. È vero che ella andò a Milano, dopo ulteriori pressioni, e che in seguito scrisse lettere di ringraziamento per le cortesie usatele colà. Però queste lettere non "ridondano di inesprimibile felicità, di entusiastiche lodi al suo Verdi, di illimitata fiducia in lui". Vi è questo brano a Ricordi:

N'è vero, Giulio, che in Verdi l'uomo supera l'artista? Sono molti anni che ho la benedizione di viverci vicino e vi sono dei momenti in cui non so se sia più grande il mio affetto o la mia venerazione per lui, pel suo cuore e carattere.

Ma le lettere dello stesso periodo a Clarina sono pervase da un vago senso di scontentezza e depressione. Non è facile togliersi di mente la lettera a Verdi, del 3 febbraio: "Dio ti perdoni l'acutissima ed umiliante ferita che mi hai recata".
Dopo di ciò finì l'amicizia fra Verdi e Mariani nell'agosto di quell'anno, ufficialmente a causa delle Celebrazioni rossiniane di Pesaro e la preparazione poi abortita di quelle di Bologna, per le esitazioni di Mariani nell'accettare la direzione del Théâtre des Italiens (che poi venne preso da Muzio) e per il rifiuto di dirigere l'Aida al Cairo. Le relazioni perdurarono in maniera precaria per altri due anni, quindi, come abbiamo visto, Teresa Stolz ruppe il suo fidanzamento con Mariani immediatamente dopo la sua visita a Sant'Agata, durata dal 23 settembre al 12 ottobre 1871. Nei copialettere di Giuseppina vi sono soltanto due biglietti a Teresa Stolz prima di questa visita, uno del 22 marzo 1869, dopo gli auguri per l'onomastico, e l'altro all'inizio del gennaio 1871, in cui ricambia gli auguri per il nuovo anno. La vera corrispondenza inizia soltanto dopo la visita a Sant'Agata.



1870 Una lettera di Verdi a Du Locle del 23 gennaio 1870 accenna alla possibilità di un'opera su Nerone. Ricordi, che aveva sentito Verdi discuterne, sembra avesse cominciato a informarsi per conoscere qualcosa di più dell'opera che, si sapeva, Boito stava componendo. Egli ne diede notizia il 10 febbraio 1870:

Oggi, riescii interrogando adroitement a sapere che Boito non s'è messo per anco a musicare il Nerone, del quale anzi non ha neppure terminato il libretto. [...] Certamente il Nerone è un soggetto splendido, grandioso, interessante e prima di lasciarlo da parte non crede Ella, Maestro, di tentar qualche cosa da questo lato?

Non vi fu una risposta immediata, e Ricordi allora cercò l'aiuto di Giuseppina. La lettera seguente è datata 24 febbraio nel copialettere di Giuseppina. Essa quindi si riferisce al progetto del Nerone:

Il Suo talento, bisogna pur convenirne, è grande, fine, multiforme. Per quanto la mia femminea vanità sia sollecitata da mano maestra, ed il mio desiderio di artista e di italiana grandissimo perché Verdi si persuada a riprendere la penna, mi resta però tanto buon senso da capire e dichiarare che le mie pressioni non peseranno sulla bilancia del sì e del no, per quanto Ella e molti altri abbiano potuto o possano credere il contrario.

L'idea del Nerone uscì dalla mente di Verdi quando egli decise di scrivere l'Aida per il Cairo. Ma quest'opera non era ancora finita, che già Ricordi era di nuovo alla carica, usando tutta la sua abilità di diplomatico e di politico del mondo musicale. La diplomazia era riservata a Verdi, la politica a Boito. L'Amleto di Faccio doveva essere rappresentato alla Scala durante la stagione di Carnevale: Ricordi apriva la sua campagna mandandone il libretto a Verdi. Poi rivolse le sue attenzioni al librettista. Mentre nel 1870 era stato ben attento a nascondere la vera ragione del suo interesse per i progressi del Nerone...
Da Genova, il 10 agosto scrisse a Cesare De Sanctis:

Se voi volete andare al Cairo, io vi consegnerò lo spartito della nuova opera: voi la dirigerete e ne avrete gli applausi o i fischi (sempre [se] l'opera esista perché finora è in mente Dei. Anche il contratto non è ancora firmato.) Sono afflittissimo per le sconfitte francesi. Io ho vissuto troppo tempo in Francia, per non capire come i Francesi si sieno resi insopportabili, colla loro insolenza, la loro blague e le loro fanfaronnate. Ma chi pensa seriamente, e chi si sente vero italiano, deve essere superiore a queste punture d'amor proprio, e dobbiamo rammentarci che la Prussia ha dichiarato altra volta che I Mari di Venezia e Trieste appartengono alla Germania!!! Prussia vincitrice vuol dire: Impero Germanico costituito definitivamente: Austria distrutta, e cacciata in un confine d'Europa: il mare Adriatico all'impero fino all'Adige. Il resto d'Italia, pensate Voi, cosa diverebbe!!... Ecco quello che abbiamo più tardi a temere, e quello che mi spaventa... E Noi ci perdiamo a gridare Morte all'uno, e Viva all'altra, senza sapere il perché!!!! - Ad onta che le cose sien ben gravi, io spero ancora. Spero nel valore del Soldato francese, benché io tema il sapere strategico del Tedesco. [...] P.S. di Giuseppina: Io non vi parlerò della guerra: solo vi dirò, che non credo più al progresso, se questo si manifesta in macchine per la distruzione dell'umanità. Il pensiero di tutte quelle morti, di quei strazj, di tante desolazioni mi annienta!... Povere madri, povere spose povere famiglie e povera Italia, se le cose vanno di questo passo!...

Il poco eroico conseguimento finale dell'unità d'Italia, con l'assorbimento del patrimonio di San Pietro dopo la ritirata della guarnigione francese da Roma, diede a Verdi poca soddisfazione. Ne scrisse a Clarina Maffei:

È un gran fatto, ma mi lascia freddo, forse perché sento che potrebbe essere cagione di guai, tanto all'estero come all'interno: perché non posso conciliare Parlamento e Collegio dei cardinali, libertà di stampa e Inquisizione, Codice Civile e Sillabo. Che domani venga un Papa destro, astuto, un vero furbo, come Roma ne ha avuti tanti, e ci ruinerà. Papa e Re d'Italia non posso vederli insieme nemmeno in questa lettera.

La guerra franco-prussiana ed i suoi risultati preoccupavano grandemente lui e Giuseppina.

Questo disastro della Francia, come a Voi, mette a me pure la desolazione in cuore!... È vero che la blauge, l'impertinenza, la presunzione nei francesi era, ed è malgrado tutte le loro miserie insopportabile: ma infine la Francia ha dato la libertà e la civiltà al mondo moderno. E se essa cade, non c'illudiamo, cadranno tutte le nostre libertà e la nostra civiltà.

Verdi prevedeva quello che sarebbe accaduto:

Che i nostri letterati e i nostri politici cantino pure il sapere, le scienze, e persino (Dio glielo perdoni) le arti di questi vincitori; ma se guardassero un po' addentro, vedrebbero che nelle loro vene scorre sempre l'antico sangue goto; che sono d'uno smisurato orgoglio, duri intolleranti, sprezzatori di tutto ciò che non è germanico, e di una rapacità che non ha limiti. Uomini di testa, ma senza cuore; razza forte, ma non civile. E quel Re, che ha sempre in bocca Dio e la Provvidenza, e che con l'aiuto di questa distrugge la parte migliore d'Europa! Egli si crede predestinato a riformare i costumi, e punire i vizi del mondo moderno! Che stampo di missionario! L'antico Attila (altro missionario idem) si arrestò avanti la maestà della capitale del mondo antico; ma questi sta per bombardare la capitale del mondo moderno. Io avrei amato una politica più generosa, e che si pagasse un debito di riconoscenza. Centomila de' nostri potevano salvare forse la Francia e noi. In ogni modo avrei preferito segnare una pace vinti coi francesi, a questa inerzia che ci farà disprezzare un giorno. La guerra europea non la eviteremo, e noi saremo divorati. Non sarà domani, ma sarà.

La guerra franco-prussiana, scoppiata in luglio e la sconfitta di Sedan dei Francesi gettarono nello sconforto il compositore.

Caro Arrivabene. [...] Io sono rattristato dagli avvenimenti della guerra e deploro i mali della Francia, e temo un avvenire terribile per noi. Ah il Nord! è un paese, e gente che mi fanno spavento. Per me avrei amato nel nostro Governo una politica più generosa, ed avrei voluto che si purgasse un debito di riconoscenza... So bene che mi si dirà... e la guerra Europea?... ma la guerra Europea non si eviterà, e se la Francia era salva eravamo salvi anche noi. [13 settembre]

Approfittando della sconfitta dell'esercito francese a Sedan contro i prussiani (1º settembre), della caduta di Napoleone III, fatto prigioniero, e della proclamazione della Terza Repubblica (4 settembre), le truppe italiane al comando del generale Cadorna avevano occupato lo stato pontificio e il 20 settembre erano entrate in Roma; il 20 ottobre un plebiscito ne avrebbe decretato l'annessione al regno d'Italia.

L'affare di Roma è un gran fatto ma mi lascia freddo, forse perché sento che potrebbe essere cagione di guai tanto all'estero come all'interno; perché non posso conciliare Parlamento e Collegio dei cardinali, libertà di stampa e Inquisizione, Codice civile e Sillabo, e perché mi spaventa vedere che il nostro Governo và all'azzardo, e spera... nel tempo. Che domani venga un Papa destro, astuto, un vero furbo, come Roma ne ha avuti tanti, e ci ruinerà. - Papa e Re d'Italia non posso vederli insieme nemmeno in questa lettera. È uno sfogo. Vedo molto nero; eppure non v'ho detto la metà del male che penso e temo. [30 settembre]

Nel periodo in cui la trama di Aida pervenne a Verdi, nel corso della primavera, il canale di Suez era già aperto da alcuni mesi, e di conseguenza la diffusa convinzione che l'opera fosse eseguita per l'apertura del canale, dev'essere contraddetta. L'opera non fu nemmeno, come ancora si legge, commissionata per l'apertura del Teatro dell'Opera del Cairo, che fu inaugurato (con Rigoletto) il 1° novembre 1869, due settimane prima del canale. Verdi accettò di scrivere l'opera, che fu Aida. Avrebbe avuto solo sei mesi di tempo per lavorare in quanto il contratto prevedeva la prima dell'opera al teatro del Cairo nel gennaio 1871. Du Locle stese un libretto completo in francese, ma Verdi volle l'opera in italiano e incaricò Antonio Ghislanzoni di tradurre il testo. Questi, che qualche mese prima aveva scritto alcuni versi per la revisione de La forza del destino, era un critico musicale di dieci anni più giovane di Verdi. Era un tipo di librettista che andava bene per Verdi poiché lo poteva dominare. La corrispondenza con Ghislanzoni ci rivela la gran parte avuta da Verdi nella stesura del libretto, che fu frutto più della fantasia del compositore che opera dei librettisti. Essa è di straordinario interesse per la descrizione che ci dà del modo in cui Verdi si accostava alla composizione di un'opera. Eccone alcuni estratti:

Ho trovato qualche cosa per la scena della consacrazione. Se non le pare vada bene, cerchiamo ancora. Ma intanto mi pare si possa così fare una scena musicale di qualche effetto. Il pezzo si comporrebbe di una litania intonata dalle sacerdotesse, cui i sacerdoti rispondono; da una danza sacra con una musica lenta e triste; da un breve recitativo, energico e solenne come un salmo della Bibbia; e da una preghiera di due strofe, detta dal prete e ripetuta da tutti. [...] Sia detto una volta per sempre ch'io non intendo mai parlare dei suoi versi che sono sempre buoni, ma dire la mia opinione sull'effetto scenico. Il duetto tra Radames ed Aida è riuscito, secondo me, di gran lunga inferiore all'altro tra padre e figlia. Ne è causa forse la situazione e forse la forma che è più comune di quella del duetto precedente. [...] In ultimo vorrei levare la solita agonia ed evitare le parole: "io manco; ti precede; attendimi! morta! vivo ancor! ecc. ecc.". Vorrei qualche cosa di dolce, di vaporoso, un a due brevissimo, un addio alla vita. Aida cadrebbe dolcemente nelle braccia di Radames. Intanto Amneris inginocchiata sulla pietra del sotterraneo, canterebbe un Requiescant in pacem ecc.

Verdi, per scrivere l'opera, non impiegò più di quattro mesi completandola prima del previsto. Però, a causa della guerra franco-prussiana e dell'assedio di Parigi, le scene, che erano state realizzate in questa città, non potevano partire per l'Egitto. Di conseguenza la prima esecuzione al Cairo fu rinviata di undici mesi.

Una corrispondenza di eccezionale interesse è quella del 1872 fra Giuseppina e Cesare Vigna, alienista a Venezia, al quale, vent'anni prima, Ricordi aveva dedicato La traviata. Vigna, il 2 maggio, mandava a Sant'Agata un opuscolo da lui scritto, con l'intenzione di confutare l'opinione di Verdi ch'era impossibile per un dottore essere uno spiritualista: "Io lo sono né mi vergono di esserlo, perché vedrà, se Dio le accorda la pazienza di leggermi, che la scienza non è già tutta dalla parte degli avversari, come si pretenderebbe dagli odierni positivisti". La lettera di risposta di Giuseppina, del 9 maggio, è molto nota, essendo stata pubblicata da Luzio assieme alla sua scelta delle lettere a Clarina Maffei:

Per la stima che Verdi ha del vostro carattere, credo sia dispostissimo a dar fede alle vostre parole e tenervi, quantunque Medico, nel numero dei spiritualisti, ma, sia detto fra noi, Egli presenta in questo genere, il più strano fenomeno del mondo. Non è medico, è artista, tutti s'accordano nell'accordargli il dono divino del genio; è una perla d'onest'uomo, capisce e sente ogni delicato, ed elevato sentimento, con tutto ciò questo brigante si permette d'essere, non dirò ateo, ma certo poco credente, e ciò con una ostinazione ed una calma da bastonarlo. Io ho un bel parlargli delle meraviglie del cielo, della terra, del mare, etc. etc. Mi ride in faccia e mi gela in mezzo del mio entusiasmo tutto divino col dirmi: siete matti! e sfortunatamente lo dice in buona fede.

È stato fatto ogni genere di tentativo per falsare il chiaro significato di questo brano, da coloro che, a tutti i costi e di fronte a testimonianze contrarie, desiderano far passare Verdi per cristiano e cattolico. Essi ci spiegano che l'esclamazione "Siete tutti matti" non si riferisce alla sostanza del discorso di Giuseppina, ma al suo poetico modo di parlare. Tuttavia il brano, che stanno ben attenti a non citare integralmente, non comporta una simile interpretazione. Inoltre la brutta copia nel copialettere mostra una variante cruciale. Infatti vi si legge: "questo brigante si permette di essere un ateo con una ostinazione e una calma da bastonarlo". Poi scelse la forma meno drastica, ma prima aveva scritto "ateo".
Venne sempre detto che Giuseppina stessa fu cattolica devota per tutta la vita. I copialettere, con grande sorpresa, non sostengono quest'idea.
Essa diceva a Vigna che, se avessero potuto incontrarsi, egli sarebbe stato un potente alleato nelle discussioni con Verdi sulla religione. Vigna dapprima raccolse il suggerimento con entusiasmo. Rispondeva, il 12 maggio:

Chi sa scrivere una lettera come l'ultima, può essere qualcosa di più di un semplice intermediario nella vitalissima questione che intenderei di svolgere in compagnia di Verdi... Se assistendoci reciprocamente, mentre egli senza saperlo è assai più forte di me anche in tale argomento, riuscissimo a scemare quel vuoto doloroso, quel crudele scetticismo, che massime in certi istanti avvelena le gioie più pure, le compiacenze più nobili, le aspirazioni più sublimi della vita, non potrei dirmi fortunato nell'essere a tant'opera occasione e strumento? Lasciamogli pure rappresentare la parte dell'avversario; nulla di meglio, è la parte più difficile. Potrebbe verificarsi il caso di quel filosofo, il quale non essendo riuscito mai a dimostrare l'esistenza di Dio, divenne poi un fervido credente quando si studiò a tutt'uomo di negarla. Siete matti! Le ha ripetuto più volte Verdi, ma io che di matti almeno devo intendermi più di lui potrei soggiungere che spesso in delirio veritas e che qualche volta vanno ascoltati anche i matti.

Successive note sono di importanza vitale. La seguente è di una lettera del 29 maggio:

Credo in Dio, prima, ignota, unica, onnipotente causa di tutto il Creato. Sento in me quella favilla, quell'atomo emanato dal Grande Spirito che dà vita e moto all'universo e noi chiamiamo anima. Il pensiero, la conoscenza, il cuore, misteriose potenze che m'agitano mi approvano e mi condannano, son superiori sopravviveranno al mio corpo destinato alla morte. La morte!!! Le scienze, i sofismi, le sottigliezze metafisiche, dei Teologi dei Dotti di tutte le religioni, di tutti i tempi, infrangono contro questo mistero della morte come contro quello della vita e nulla san dire come non han potuto mai dire, credendolo e provandolo: Dio non esiste! Fin lo scettico Rebelais negli ultimi suoi momenti esclamò Je vais querir le grand peut être! Dunque ha riso tutta la vita per morir col dubbio nel cuore. Altri scettici, o sofisti, mentono anche morendo, e gridano con orgoglio non convinti: Dio non c'è!!! Le religioni... mio caro Vigna, non spaventatevi, vi fo' grazia delle mie idee, delle mie convinzioni sulle religioni. Se siete arrivato a leggermi fino a questo punto, ammiro la vostra pazienza e vi domando indulgenza per la mia baldanza.

Questi scritti, sul lato destro della pagina divisa in due, sembrano essere una serie di appunti in preparazione del proposto dibattito, piuttosto che la brutta copia di una lettera:

Io ho un certo attaccamento direi quasi infantile per la religione in cui son nata, rimontando però, al Vangelo di Cristo. Non cambierei perché le apostasie mi urtano in religione, in politica, in tutto. La convinzione può solo far perdonare certi cambiamenti, i quali troppo spesso hanno la loro origine nelle passioni o nell'interesse. Io credo che le religioni siano l'opera dell'uomo furbo o superiore che per dominare i suoi simili o per far il loro bene, hanno approfittato della debolezza, del terrore, delle sventure, ecc. Al postutto noi abbiamo bisogno d'invocare un ente supremo, e l'uomo tende sempre a materializzarlo, a dargli una forma sensibile. È questa forma e le leggi teocratiche secondo i climi e la natura degli uomini che ricevono queste leggi. Da questo un sacerdozio in origine convinto, esaltato, poi corrotto, furbo e venale.

Da parte di Giuseppina, sono osservazioni stupefacenti. Da Verdi, sarebbero meno sorprendenti, ma non sono certamente sue. Il participio passato del secondo paragrafo è al femminile: nata.

Il 3 settembre, a Clarina Maffei, Giuseppina scrisse:

Verdi s'occupa della sua grotta, del suo giardino. Sta benissimo ed è di umore lietissimo. Felice lui, e Dio lo faccia felice per lunghissimi anni. Vi sono delle nature virtuosissime che hanno bisogno di credere in Dio: altre, ugualmente perfette, che sono felici, non credendo a niente ed osservando solo rigorosamente ogni precetto di severa moralità. Manzoni e Verdi!... Questi due uomini mi fanno pensare, sono per me un vero soggetto di meditazione. Ma le mie imperfezioni e la mia ignoranza mi rendono incapace di sciogliere l'oscuro problema.

Sembra assolutamente fuori discussione che a quell'epoca Verdi fosse un ateo impenitente, e Giuseppina stessa, sebbene profondamente religiosa, nel senso che credeva in Dio, essere supremo, era però assai lontana dall'essere una cattolica ortodossa.



1871 Risalgono al gennaio di quell'anno alcuni consigli rivolti ai giovani compositori:

Esercitatevi nella Fuga costantemente, tenacemente, fino alla sazietà, e fino a che la mano sia divenuta franca e forte a piegar la nota al voler vostro. Imparerete così a comporre con sicurezza, a disporre bene le parti ed a modulare senz'affettazione. Studiate Palestrina e pochi altri suoi coetanei. Saltate dopo a Marcello e fermate specialmente la vostra attenzione sui recitativi. Assistete a poche rappresentazioni delle Opere moderne, senza lasciarvi affascinare né dalle molte bellezze armoniche ed istromentali né dall'accordo di settima diminuita, scoglio e rifugio di tutti noi che non sappiamo comporre quattro battute senza una mezza dozzina di queste settime. Fatti questi studi, uniti a larga cultura letteraria, direi infine ai giovani: Ora mettete una mano sul cuore; scrivete, e (ammessa l'organizzazione artistica) sarete compositori. In ogni modo non aumenterete la turba degli imitatori e degli ammalati dell'epoca nostra, che cercano, e cercano e (facendo talvolta bene) non trovano mai. [Lettera a Francesco Florimo]

Giuseppina aveva passato, con intervalli, sette anni della sua vita a Parigi. Le sue lettere agli amici francesi, dopo la caduta di Parigi, sono cariche di grande emozione. Ella aggiunse queste righe a una lettera di Verdi, a Camille Du Locle, del 14 febbraio 1871:

Paris, ce grand Paris, que vous appelez le Grand Cadavre, je l'aime et je suis fière de l'aimer! Vous êtez, moralement, plus glorieux que vous ne l'avez jamais été! Je n'ai qu'un desir c'est de venir m'a genouiller et baiser la poussière de ce gran pays, ou mes amies ont tant souffert! Vous qui me connaissez, vous savez que je dis vrai et que mes paroles partent du coeur!

Ancora Nerone, un anno dopo! Ricordi approfittò del fatto che Verdi era tentato da questo soggetto per estorcere a Boito la promessa di cederlo. Ecco che cosa scrisse a Verdi il 26 gennaio:

Ieri Boito fu da me ed io, pum!, sparai la cannonata. Boito mi domandò una notte di riflessione, e stamane fu qui, e si trattenne lungamente meco di quest'affare... La conclusione è che [...] Boito si riputerebbe l'uomo più felice, il più fortunato, se potesse scrivere il libretto del Nerone per Lei; e rinuncerebbe subito e con piacere all'idea di fare la musica. Boito mi disse francamente che si sentirebbe in caso di soddisfare a tutte le di lei esigenze, che mai non si sarebbe accinto con tanta lena, con tanto entusiasmo come per questo lavoro, e presentarsi poi la combinazione rarissima del poeta e del maestro convinti entrambi della bellezza del soggetto, ed esso ritiene che mai trovi un soggetto così vasto, così bello, così adatto al genio di Verdi, come questo Nerone. [...] Io so ormai quale sia la di lei parte nella fattura di un libretto, e Boito, sotto la di lei direzione, farebbe bene, molto bene!... ancorché difficilmente possa trovarsi un verseggiatore più splendido e più elegante di lui, nella forma e nella sostanza.

Verdi scriveva brevemente, da Genova, il 28 febbraio:

Non posso ora rispondervi sull'affare Nerone! Non ho un minuto da perdere. Gran progetto, voi dite!... verissimo, ma è realizzabile? Vedremo! Appena abbia un'ora di tempo, domani o dopo, vi scriverò a lungo. Pazienza intanto...

Proprio mentre riceveva questa lettera o poco prima, il 29 gennaio, Ricordi non poteva trattenersi dall'esercitare la sua forza di lusinga e persuasione:

L'affare del Nerone è cosa talmente importante, che occorre pensarla seriamente; poi c'è in campo ancora l'Aida: dunque, come io capisco benissimo, non è affare da decidersi a tambour battant, e anche una volta deciso ci vorrà tempo prima di condurlo a fine. Tuttavia io ho creduto opportuno parlarne, addirittura, perché nel caso fortunato che si possa combinare, è inutile che Boito continui nel suo lavoro, come sarebbe stato un danno irreparabile, immenso, incommensurabile s'Ella, piacendole il soggetto, ne avesse dismesso l'idea per un più che gentil riguardo verso Boito. Io non ho fatto che tener viva l'idea, e c'è tempo e modo di accarezzarla e studiarla, e son certo, s'ella farà il Nerone, farà cosa da sbalordire il mondo, ché davvero più bel soggetto non saprei ove trovarlo, né passioni più atte a far risplendere il di lei Genio portentoso!

Nessun elogio sarebbe troppo alto per il comportamento di Boito in questa vicenda. Il fatto che alla fine non si concludesse nulla, non diminuisce in alcun modo la generosità della sua rinuncia, a favore di Verdi, di un sogno che gli stava molto a cuore.
Ritardata la rappresentazione dell'Aida dalla guerra franco-prussiana e dalle sue conseguenze, Verdi temporeggiava circa il Nerone:

È inutile che ripeta quanto io ami questo soggetto. È inutile altresi che aggiunga quanto mi sarebbe grato aver a collaboratore un giovane poeta, di cui ho avuto anche ultimamente, in quest'Amleto, occasione di ammirare il moltissimo talento. Ma voi conoscete abbastanza bene le cose mie, ed i miei impegni, per capire quale grave pensiero sarebbe per me addossarmi questo nuovo carico. Io mi trovo in una posizione ben singolare. Non ho il coraggio di dire: facciamo, né oso rinunciare a così bel progetto. Ma ditemi, caro Giulio, non potremmo lasciare sospeso per qualche tempo questo affare, e riprenderlo più tardi? Non pretendo che Boito stia a mia disposizione. Dio me ne guardi! Non lo vorrei a qualunque costo. Ch'egli continui l'opera sua, come se non ne avessimo mai parlato. Più tardi se la cosa sarà ancora fattibile e conveniente ad entrambi la riprenderemo e la combineremo in due parole.

Verdi, nel 1871, non poteva sapere tutto quello che il Nerone significava per Boito: e certamente gli dimostrò più considerazione di quanto non avesse fatto Ricordi. Ma come poteva Boito continuare a lavorare alla sua opera, quando esisteva la possibilità di un'opera di Verdi sullo stesso soggetto? Soltanto l'idea doveva paralizzarlo. È certamente significativo che più tardi, in quello stesso anno, Boito scrivesse per sé un nuovo libretto, Ero e Leandro, e cominciasse a musicarlo. Verdi aveva dunque accettato la possibilità di una collaborazione con Boito. Man mano che il tempo passava, era sempre più chiaro che Verdi non si sarebbe lasciato tentare dal Nerone, né, almeno pareva, da nessun altro progetto operistico.
Tanto Faccio che Boito, nel frattempo, avevano di nuovo riveduto le loro opinioni su Wagner, giungendo alla fine a una giusta valutazione, dopo aver visto rappresentati quei lavori che avevano dapprincipio giudicato soltanto dagli spartiti. Faccio aveva sentito Lohengrin e Tannhäuser a Berlino, nel febbraio del 1867; Boito aveva assistito a più d'una delle famose esecuzioni di Mariani del Lohengrin, a Bologna il 19 novembre 1871, primo passo della fortuna di Wagner in Italia. Fu a lui che sei giorni dopo la prima rappresentazione, Wagner indirizzò la sua "Lettera a un amico italiano", che inizia: "E poiché m'è dato di potermi manifestare con voi in lingua tedesca, piglio profitto da ciò per pregarvi di essermi interprete presso i vostri compatrioti e di tradurre ad essi nel vostro materno idioma l'espressione dei cordiali miei ringraziamenti."
Tradurre la lettera di Wagner e pubblicarla sulla Perseveranza, da dove ebbe poi larga diffusione, era fare semplicemente quello che gli era stato richiesto da Wagner; e tali azioni non implicano alcun tradimento e indebolimento della sua fedeltà a Verdi.
Accadde che Boito assistesse alla stessa rappresentazione del Lohengrin alla quale presenziò anche Verdi che si sistemò nel fondo di un palco con uno spartito sul quale scarabocchiò un centinaio di appunti durante la recita che non doveva essere eccellente (come confermerà lo stesso Mariani). Tra le varie osservazioni tornano spesso i "brutto", "malfatto", "cattivo", "duro", "orribile", "noioso", "pasticcio"; in fine del preludio: "bello ma riesce pesante con le continue note acute dei violini"; all'arrivo del cigno: "bene la fine"; d'una parte della scena fra Ortruda e Telramondo: "tutto brutto fin qui, non si capisce niente"; solo al Vendetta avrai: "Questo finale è bello e misterioso"; e via dicendo fino alla conclusione: "Totale - Impressione mediocre. Musica bella, quando è chiara e vi è il pensiero. L'azione lenta come la parola. Quindi noia. Effetti belli d'istromenti. Abuso di note tenute e riesce pesante. Esecuzione mediocre. Molta verve, ma senza poesia e finezza. Nei punti difficili cattiva sempre." In sostanza fu questo il suo giudizio definitivo scritto sullo spartito che si conserva a Sant'Agata. Alcuni giudizi di Verdi su Wagner ci sono ora noti attraverso alcune sue interviste [cfr. 1875 - 1883 - 1889]. Verdi e Boito si incontrarono però soltanto nella sala d'aspetto della stazione di Bologna, alle tre del mattino e pare che la conversazione vertesse principalmente sulle difficoltà di poter dormire in vagone... Passarono quasi otto anni da quell'incontro nella sala d'aspetto della stazione ferroviaria di Bologna, prima che i due uomini s'incontrassero ancora.

La prima recita di
Aida, il 24 dicembre, fu un avvenimento. Il Khedive aveva invitato al Cairo i più importanti critici francesi e italiani, e uno di loro, Filippo Filippi, avvicinò Verdi in anticipo offrendosi per sostenere l'opera. Verdi fu così offeso che scrisse al suo editore minacciando di distruggere la partitura e insistendo che non si doveva organizzare alcuna pubblicità, cosa che considerava come la più mortificante umiliazione. A Filippi rispose con durezza e abbastanza ampiamente: "Ella al Cairo? È questa una delle più potenti réclames che si potessero immaginare per Aida!", dichiarava sarcasticamente. La lettera così si concludeva:

Giornalisti, artisti, coristi, direttori, professori, etc. etc., tutti devono portare la loro pietra all'edifizio della réclame, a formare così una cornice di piccole miserie che non aggiungono nulla al merito di un'opera, anzi ne offuscano il valore reale. Ciò è deplorabile: profondamente deplorabile!! La ringrazio delle cortesi offerte pel Cairo. Scrissi l'altro jeri a Bottesini [Giovanni Bottesini, che diresse la prima esecuzione, era un virtuoso di contrabbasso e compositore] su tutto quanto riguardava l'Aida. Desidero solo per quest'opera una buona e sopratutto intelligente esecuzione vocale, strumentale e di mise en scène. Per il resto: à la grace de Dieu, ché cosi ho cominciato, e così voglio finire la mia carriera.

Verdi non andò al Cairo. Rimase in Italia a preparare i cantanti per l'esecuzione alla Scala che fu diretta da Franco Faccio il quale diresse poi anche la prima esecuzione di Otello, quindici anni dopo. Per questa esecuzione Verdi scrisse una sinfonia che doveva sostituire il preludio, ma poi decise di non usarla. Scrisse inoltre un nuovo recitativo e una nuova aria per Aida: "O patria mia... O cieli azzurri".
Le prime esecuzioni del Cairo e di Milano furono accolte con entusiasmo. Il compositore francese, e seguace di Wagner, Ernest Reyer, scrivendo dopo la recita del Cairo, si mostrò colpito dalla sensibilità armonica di Verdi, dalle sue inaspettate modulazioni, dall'originalità della sua linea melodica e dalla ricchezza della sua tavolozza strumentale.


1872 Per l'esecuzione milanese Verdi fu molto impegnato. Si preoccupò della scelta del direttore e dei cantanti, di ogni particolare dell'orchestra, adottando anche un'idea di Wagner come rivela questa lettera a Giulio Ricordi:

Voi conoscete il libretto d'Aida e sapete che per Amneris ci vuole un'artista di sentimento altamente drammatico e padrona della scena. Come sperare in una quasi-debuttante questa qualità? La voce sola, per quanto bella (cosa ben difficile a giudicare in sala o in teatro vuoto), non basta per quella parte. Poco m'importa della così detta finitezza del canto; io amo far cantare le parti come voglio io; però, non posso dare né la voce né l'anima né quel certo non so che, che dovrebbe chiamarsi scintilla e vien comunemente definito colla frase "aver il diavolo adosso". [...] Abbiate ben per fermo, mio caro Giulio, che se io vengo a Milano non è per la vanità di dare una mia opera: è per ottenere una vera esecuzione artistica. Per riescire a questo, bisogna che io abbia gli elementi necessarj; pregovi dunque di rispondermi categoricamente, se oltre la compagnia di canto: 1) È nominato il Direttore d'orchestra. 2) Se sono scritturati i Coristi che io indicai. 3) Se l'orchestra verrà composta come io pure indicai. 4) Se i Timpani e Gran cassa verranno cambiati in istromenti di molto più grossi di quelli che non erano due anni fa. [...] 6) Se la collocazione degli strumenti d'orchestra sarà fatta come io, fino dall'inverno passato in Genova, ho indicato in una specie di quadro. Questa collocazione d'orchestra è d'un'importanza ben maggiore di quello che comunemente si crede, per gl'impasti degli stromenti, per la sonorità e per l'effetto. Questi piccoli perfezionamenti apriranno poi la strada ad altre innovazioni, che verranno certamente un giorno; e fra queste, quella di togliere dal palcoscenico i palchetti degli spettatori, portando il sipario alla ribalta, l'altra: di rendere l'orchestra invisibile. Quest'idea non è mia, è di Wagner: è buonissima. Pare impossibile che al giorno d'oggi si tolleri di vedere il nostro meschino frack e le cravattine bianche, miste per es. ad un costume egizio, assiro, druidico etc. etc...: e di vedere, inoltre, la massa d'orchestra, che è parte del mondo fittizio, quasi nel mezzo della platea fra il mondo dei fischianti o dei plaudenti. Aggiungete a tutto questo, anche lo sconcio di vedere per aria le teste delle arpe, i manichi dei contrabassi, ed il molinello del Direttore d'orchestra.

Verdi annotava che le qualità di Amneris dovevano essere quelle di una autentica artista drammatica e musicale. E si sarebbe tentati di aggiungere: di una drammaticità wagneriana. Ma le sue richieste di un quarto di secolo prima, per il Macbeth, costituiscono una prova che corregge subito questa impressione. Vale la pena di ripetere: fin dall'inizio Verdi fu un uomo di teatro. Anche cambiando i suoi metodi, e maturando il suo stile, la sua meta rimane costante: niente di meno che la creazione di un teatro musicale italiano. Nell'arco di una vita, lo scopo fu raggiunto; ma, sebbene Verdi fosse arrogante nelle cose di poco conto, era intrinsecamente troppo modesto per vantarsi di una tale conquista. Ebbe occasione di scrivere a Giulio Ricordi:

Non posso prendere che per uno scherzo la vostra frase "La salvezza totale del Teatro e dell'Arte sta in Lei!!!" Oh no! non dubitate, non mancheranno mai compositori, e ripeterò anch'io quello che disse Boito in un brindisi a Faccio dopo la sua prima opera... "e forse è nato colui che spazzerà l'altare"... Amen!

Il giorno dopo la prima di Aida a Milano, Verdi così brevemente scriveva al conte Arrivabene:

Ieri sera Aida benissimo. Esecuzione d'insieme e di parti buonissima, mise en scène idem; Stolz [Aida] e Pandolfini [Amonasro] benissimo. Waldmann [Amneris] bene. Fancelli [Radames] bella voce e nient'altro. Gli altri bene, e benissimo poi orchestra e cori. In quanto alla musica poi te ne parlerà Piroli. Il pubblico le ha fatto buon viso. Non voglio con te affettare modestia e certamente questa è fra le mie delle meno cattive. Il tempo poi le darà il posto che le conviene.

Verdi fu costretto a presentarsi varie volte alla ribalta. Ma le accuse di wagnerismo da parte di alcuni critici lo angustiavano e lo infastidivano: "Bel risultato" si lamentava con Ricordi "dopo 35 anni di carriera finire Imitatore!!!"
La Scala ospitò Aida, con un successo pari a quello ottenuto al Cairo. Verdi era molto assiduo con la Stolz, destando il dignitoso risentimento della moglie. Stava entrando in uno dei suoi periodi più difficili: l'enorme successo dell'Aida, al Cairo, a Milano e ovunque sembrava non gli importasse affatto.

Questa sera, finalmente, l'ultima rappresentazione dell'Aida! Respiro! Non se ne parlerà più, od almeno si diranno poche ed ultime parole. Forse qualche nuovo insulto, accusandomi di wagnerismo, e poi... Requiescat in pacem! [Lettera a Giulio Ricordi, 31 marzo]

Quell’anno fu rappresentata anche l’Edizione II (cfr. 1867) del Don Carlo: sul corpo musicale della versione italiana, Verdi intervenne in occasione della prima rappresentazione a Napoli, modificando profondamente il duetto Filippo-Posa e praticando un taglio (la sezione "Sì, l'eroismo è questo") nel duetto Elisabetta-Carlo dell'ultimo atto.

Una corrispondenza di eccezionale interesse è quella del 1872 fra Giuseppina e Cesare Vigna, alienista a Venezia, al quale, vent'anni prima, Ricordi aveva dedicato La traviata. Vigna, il 2 maggio, mandava a Sant'Agata un opuscolo da lui scritto, con l'intenzione di confutare l'opinione di Verdi ch'era impossibile per un dottore essere uno spiritualista: "Io lo sono né mi vergono di esserlo, perché vedrà, se Dio le accorda la pazienza di leggermi, che la scienza non è già tutta dalla parte degli avversari, come si pretenderebbe dagli odierni positivisti". La lettera di risposta di Giuseppina, del 9 maggio, è molto nota, essendo stata pubblicata da Luzio assieme alla sua scelta delle lettere a Clarina Maffei:

Per la stima che Verdi ha del vostro carattere, credo sia dispostissimo a dar fede alle vostre parole e tenervi, quantunque Medico, nel numero dei spiritualisti, ma, sia detto fra noi, Egli presenta in questo genere, il più strano fenomeno del mondo. Non è medico, è artista, tutti s'accordano nell'accordargli il dono divino del genio; è una perla d'onest'uomo, capisce e sente ogni delicato, ed elevato sentimento, con tutto ciò questo brigante si permette d'essere, non dirò ateo, ma certo poco credente, e ciò con una ostinazione ed una calma da bastonarlo. Io ho un bel parlargli delle meraviglie del cielo, della terra, del mare, etc. etc. Mi ride in faccia e mi gela in mezzo del mio entusiasmo tutto divino col dirmi: siete matti! e sfortunatamente lo dice in buona fede.

È stato fatto ogni genere di tentativo per falsare il chiaro significato di questo brano, da coloro che, a tutti i costi e di fronte a testimonianze contrarie, desiderano far passare Verdi per cristiano e cattolico. Essi ci spiegano che l'esclamazione "Siete tutti matti" non si riferisce alla sostanza del discorso di Giuseppina, ma al suo poetico modo di parlare. Tuttavia il brano, che stanno ben attenti a non citare integralmente, non comporta una simile interpretazione. Inoltre la brutta copia nel copialettere mostra una variante cruciale. Infatti vi si legge: "questo brigante si permette di essere un ateo con una ostinazione e una calma da bastonarlo". Poi scelse la forma meno drastica, ma prima aveva scritto "ateo".
Venne sempre detto che Giuseppina stessa fu cattolica devota per tutta la vita. I copialettere, con grande sorpresa, non sostengono quest'idea.
Essa diceva a Vigna che, se avessero potuto incontrarsi, egli sarebbe stato un potente alleato nelle discussioni con Verdi sulla religione. Vigna dapprima raccolse il suggerimento con entusiasmo. Rispondeva, il 12 maggio:

Chi sa scrivere una lettera come l'ultima, può essere qualcosa di più di un semplice intermediario nella vitalissima questione che intenderei di svolgere in compagnia di Verdi... Se assistendoci reciprocamente, mentre egli senza saperlo è assai più forte di me anche in tale argomento, riuscissimo a scemare quel vuoto doloroso, quel crudele scetticismo, che massime in certi istanti avvelena le gioie più pure, le compiacenze più nobili, le aspirazioni più sublimi della vita, non potrei dirmi fortunato nell'essere a tant'opera occasione e strumento? Lasciamogli pure rappresentare la parte dell'avversario; nulla di meglio, è la parte più difficile. Potrebbe verificarsi il caso di quel filosofo, il quale non essendo riuscito mai a dimostrare l'esistenza di Dio, divenne poi un fervido credente quando si studiò a tutt'uomo di negarla. Siete matti! Le ha ripetuto più volte Verdi, ma io che di matti almeno devo intendermi più di lui potrei soggiungere che spesso in delirio veritas e che qualche volta vanno ascoltati anche i matti.

Successive note sono di importanza vitale. La seguente è di una lettera del 29 maggio:

Credo in Dio, prima, ignota, unica, onnipotente causa di tutto il Creato. Sento in me quella favilla, quell'atomo emanato dal Grande Spirito che dà vita e moto all'universo e noi chiamiamo anima. Il pensiero, la conoscenza, il cuore, misteriose potenze che m'agitano mi approvano e mi condannano, son superiori sopravviveranno al mio corpo destinato alla morte. La morte!!! Le scienze, i sofismi, le sottigliezze metafisiche, dei Teologi dei Dotti di tutte le religioni, di tutti i tempi, infrangono contro questo mistero della morte come contro quello della vita e nulla san dire come non han potuto mai dire, credendolo e provandolo: Dio non esiste! Fin lo scettico Rebelais negli ultimi suoi momenti esclamò Je vais querir le grand peut être! Dunque ha riso tutta la vita per morir col dubbio nel cuore. Altri scettici, o sofisti, mentono anche morendo, e gridano con orgoglio non convinti: Dio non c'è!!! Le religioni... mio caro Vigna, non spaventatevi, vi fo' grazia delle mie idee, delle mie convinzioni sulle religioni. Se siete arrivato a leggermi fino a questo punto, ammiro la vostra pazienza e vi domando indulgenza per la mia baldanza.

Questi scritti, sul lato destro della pagina divisa in due, sembrano essere una serie di appunti in preparazione del proposto dibattito, piuttosto che la brutta copia di una lettera:

Io ho un certo attaccamento direi quasi infantile per la religione in cui son nata, rimontando però, al Vangelo di Cristo. Non cambierei perché le apostasie mi urtano in religione, in politica, in tutto. La convinzione può solo far perdonare certi cambiamenti, i quali troppo spesso hanno la loro origine nelle passioni o nell'interesse. Io credo che le religioni siano l'opera dell'uomo furbo o superiore che per dominare i suoi simili o per far il loro bene, hanno approfittato della debolezza, del terrore, delle sventure, ecc. Al postutto noi abbiamo bisogno d'invocare un ente supremo, e l'uomo tende sempre a materializzarlo, a dargli una forma sensibile. È questa forma e le leggi teocratiche secondo i climi e la natura degli uomini che ricevono queste leggi. Da questo un sacerdozio in origine convinto, esaltato, poi corrotto, furbo e venale.

Da parte di Giuseppina, sono osservazioni stupefacenti. Da Verdi, sarebbero meno sorprendenti, ma non sono certamente sue. Il participio passato del secondo paragrafo è al femminile: nata.

Il 3 settembre, a Clarina Maffei, Giuseppina scrisse:

Verdi s'occupa della sua grotta, del suo giardino. Sta benissimo ed è di umore lietissimo. Felice lui, e Dio lo faccia felice per lunghissimi anni. Vi sono delle nature virtuosissime che hanno bisogno di credere in Dio: altre, ugualmente perfette, che sono felici, non credendo a niente ed osservando solo rigorosamente ogni precetto di severa moralità. Manzoni e Verdi!... Questi due uomini mi fanno pensare, sono per me un vero soggetto di meditazione. Ma le mie imperfezioni e la mia ignoranza mi rendono incapace di sciogliere l'oscuro problema.

Sembra assolutamente fuori discussione che a quell'epoca Verdi fosse un ateo impenitente, e Giuseppina stessa, sebbene profondamente religiosa, nel senso che credeva in Dio, essere supremo, era però assai lontana dall'essere una cattolica ortodossa.


1873 Il 2 gennaio scrisse a Tito Ricordi:

Guardate come sono stato trattato dalla stampa durante quest'anno in cui mi sono preso tante brighe, spendendo danaro e dura fatica! Critiche stupide, ed elogi più stupidi ancora: non un'idea elevata, artistica; non uno che abbia voluto rilevare i miei intendimenti; spropositi e sciocchezze sempre, e in fondo a tutto un certo non so che d'astioso come se avessi commesso un delitto scrivendo e facendo eseguir bene Aida. Nissuno, infine, che abbia voluto rilevare almeno il fatto materiale d'un'esecuzione e d'una mise en scène insolite! Non uno che m'abbia detto: Cane, ti ringrazio!

L'opera era andata in scena al San Carlo di Napoli il 30 marzo; la Stolz ne era la protagonista e Verdi stesso ne aveva diretto le prove così come in precedenza, il 2 dicembre, aveva fatto per il Don Carlo, pure con la Stolz. Alla contessa Maffei, da Napoli, mercoledì 9 aprile, scrisse:

Il successo d'Aida, poiché lo sapete, fù franco, deciso, non avvelenato coi se coi ma... e colle vecchie frasi di Vagnerismo di Avvenire; di melopea etc. etc. Il pubblico si è abbandonato alle sue impressioni ed ha applaudito. Ecco tutto!. Ha applaudito, e si è abbandonato anche a trasporti che io non approvo; ma infine Egli ha manifestato quello che ha sentito senza restrizioni, e senza arrière pensée! e sapete perché? Perché qui non vi sono i critici, che la fanno da apostoli; non la turba dei Maestri che sanno di musica soltanto quella che studiano sulla falsariga di Mendelson Schumann Vagner [sic].

Per alcuni mesi, dopo l'esecuzione milanese di Aida nel febbraio 1872, Verdi, che aveva cinquantotto anni, divise le sue occupazioni tra i campi e l'esecuzione delle sue opere a Parma, Padova e altre città. Verso la fine dell'anno andò a Napoli, dove aveva accettato di mettere in scena Don Carlo e Aida. Teresa Stolz, l'Aida della rappresentazione di Milano, cantò in tutte e due le opere; ma, ammalatasi dopo il Don Carlo, le prove di Aida furono rinviate. Trovandosi con un po' di tempo a disposizione, Verdi scrisse un quartetto per archi. Dopo la trionfale prima dell'Aida a Napoli (1º aprile) invitò gli intimi in casa sua e offerse loro, nella forma meno "pubblicitaria", la primizia del suo Quartetto che fu una sorpresa per tutto il mondo musicale. Da S. Agata, il 16 aprile, ne informò l'Arrivabene:

Ho scritto proprio nei momenti d'ozio di Napoli un quartetto. L'ho fatto eseguire una sera in casa mia senza dargli la minima importanza
e senza fare invito di sorta. Erano presenti soltanto sette od otto persone solite a venire da me. Se il quartetto sia bello o brutto non so... so però che è un quartetto! Non t'ha detto il vero chi ha fatto troppo lo schizzinoso sull'esecuzione dell'Aida a Napoli. Nulla vi è di perfetto, ma questa esecuzione fu nel complesso migliore di quella di Milano e Parma.

Il 22 maggio Alessandro Manzoni, che Verdi venerava, moriva a Milano all'età di ottantanove anni: "Ora tutto è finito!" disse Verdi "e con Lui finisce la più pura, la più santa, la più alta delle glorie nostre." L'espressione non concordava con le idee, in proposito, della Chiesa Cattolica: le necrologie dei giornali clericali velatamente attaccavano lo scrittore, pianto invece dalla gente semplice e da Verdi che, troppo turbato per presenziare al funerale, si recò a Milano per onorare la tomba da solo, dopo una settimana.

Da S. Agata, il 23 maggio, scrisse a Giulio Ricordi:

Sono profondamente addolorato della morte del nostro Grande! Ma io non verrò domani a Milano ché non avrei cuore d'assistere a suoi funerali. Verrò fra breve per visitarne la tomba, solo e senza essere visto, e forse (dopo ulteriori riflessioni, e dopo aver pesate le mie forze) per proporre cosa ad onorarne la memoria. Tenete il segreto, e non dite pure parola sulla mia venuta, ché mi tanto penoso sentire i giornali parlare di me, e farmi dire e fare, quello che non dico e faccio.

E alla Maffei il 29 Maggio 1873:

Io non era presente, ma pochi saranno stati in questa mattina più tristi e commossi di quello che era io, benché lontano!. Ora tutto è finito! E con Lui finisce la più pura, la più santa, la più alta delle glorie nostre! Molti giornali ho letto!... nissuno ne parla come si dovrebbe! Molte parole, ma non profondamente sentite... Non mancano però i morsi!... Persino a LUI!!! Oh la brutta razza che siamo!

Tramite Giulio Ricordi, propose al sindaco di Milano di comporre una Messa da Requiem da eseguire nel primo anniversario della morte del Manzoni. Avrebbe sostenuto le spese della pubblicazione se la città si fosse assunto l'onere della esecuzione. Il sindaco accettò e, durante una vacanza estiva a Parigi con Giuseppina, Verdi incominciò a comporre la Messa. Il 9 giugno scrisse al Sindaco di Milano [conte Giulio Belinzaghi]:

Non mi si devono ringraziamenti né da Lei, né dalla Giunta, per l'offerta di scrivere una Messa funebre per l'Anniversario di Manzoni. È un impulso, o dirò meglio, un bisogno del cuore che mi spinge ad onorare, per quanto posso, questo Grande che ho tanto stimato come Scrittore, e venerato come Uomo, modello di virtù e di patriottismo. Quando il lavoro musicale sarà bene inoltrato non mancherò di significarle quali elementi saranno necessaj onde l'esecuzione sia degna e del paese, e dell'Uomo di cui tutti deploriamo la perdita.

Manzoni, l'autore de I promessi sposi, fu una delle grandi figure del Risorgimento. Lontano dall'essere un ardente rivoluzionario, fu comunque un poeta che, dopo una giovinezza fieramente anticlericale, a venticinque anni si convertì al cattolicesimo, scrivendo un paio di volumi di apologia cattolica, due tragedie in versi su temi patriottici, un'ode sulla morte di Napoleone e dedicò poi la sua vita a scrivere I promessi sposi. Il risultato, dopo la prima edizione del 1827, fu straordinario e il successo immediato. Manzoni continuò a rivedere il romanzo, edizione dopo edizione fino alla versione definitiva del 1840. È il più popolare romanzo italiano. Fin dal suo primo apparire l'opera fu amata non solo dalla classe colta, ma praticamente da tutti quelli che sapevano leggere o potevano farsela leggere. Anche se non era un vero e proprio romanzo di propaganda, parlava in modo diretto al patriottismo italiano emergente. Indubbiamente, l'enorme reazione suscitata da I promessi sposi fu extra-estetica, essendo molti lettori indotti emotivamente ad aderire alla causa liberale. Il romanzo narra di fatti avvenuti in Lombardia nella prima metà del XVII secolo, nel periodo dell'oppressione spagnola. Ma i lettori ottocenteschi del Manzoni non esitarono ad operare una trasposizione all'Italia del tempo, che era sotto il dominio austriaco. Il patriottismo locale che trapelava dal romanzo agiva sul sentimento del pubblico come le prime opere di Verdi.

Al Conte Arrivabene da S. Agata, il 25 ottobre scrisse:

A Parigi ho passato bene il mio tempo anzi meglio delle altre volte perché nulla avendo a fare coi teatri e colla musica aveva comodo di vedere e di osservare tutto. Da tutto quello che ho potuto vedere e sentire si è (tutti lo sanno) che noi siamo profondamente detestati anche da quelli che dicono d'amarci, che quando potessero ci divorerebbero vivi, e che per parte mia son costretto ad ammirare e deplorare le nostre tenerezze coi nordici. Brutta cosa per la nostra natura aver a fare con quella gente di ferro e senza cuore. Lo strano si è che noi non solo diciamo "Aiutateci nel caso col vostro potente braccio" ma li ammiriamo, li aduliamo, li imitiamo anche dove non sono da ammirarsi né da imitarsi. Lasciamo da parte le cose teatrali di cui io non voglio né devo parlarne, tanto che io non la penso su questo rapporto come gli altri, ma letteratura, scienza, medicina etc. etc. tutto è tedesco. Lasciamo andare... e non parliamo più di quella gente che un giorno o l'altro ci stritolerà. Qui piove a diluvio dopo una siccità spaventosa. Io starò qui lungo tempo, finché la stagione non mi scaccierà.

In politica interna liberale di destra, - per usare una definizione parlamentare d'altri tempi - vide la fonte d'ogni male nell'avvento delle Sinistre [ovvero l'ala sinistra dello schieramento moderato contrapposta alla "destra storica" e guidata da Antonio Depretis] (1876) e nel "trasformismo" di Depretis. Non vi è accenno alla politica del Governo che non sia una deplorazione. Largo, negli ultimi anni di sua vita, di opere di pietà e d'assistenza generosissime, fu fieramente ostile ad ogni movimento popolare per la conquista di maggiori libertà, politiche ed economiche. La colpa era sempre dell'insipienza dei governi; e sempre quelle erano le conseguenze: all'interno un disordine che avrebbe condotto alla rovina, all'estero una debolezza che esponeva il Paese a tutte le prepotenze e a tutte le vergogne.
Nelle lettere di quel periodo ripetutamente deplora la crescente influenza germanica sia in politica, sia nelle scienze e nell'arte. Nella musica, naturalmente, secondo il modo di pensare di Verdi, essa era più forte e più pericolosa che negli altri campi e si presentava i come impronta wagneriana sui più giovani compositori italiani.


1874 Nell'aprile, Verdi aveva finito il Requiem. Per l'esecuzione aveva scelto, a Milano, la chiesa di S. Marco per la sua buona acustica, e provò assiduamente con centoventi coristi e cento orchestrali. L'esecuzione ebbe luogo il 22 maggio, anniversario della morte di Manzoni, e riscosse un enorme successo. La Messa da Requiem fu considerata un capolavoro; tre giorni dopo Verdi diresse alla Scala una seconda esecuzione e Faccio ne diresse altre due. Nessuna Messa da Requiem ebbe tali accoglienze, ma nessuna Messa da Requiem è come questa: agnostica, drammatica e popolare. Il direttore d'orchestra tedesco e wagneriano, Hans von Bülow, si trovava a Milano il giorno della prima esecuzione. Il giorno seguente faceva pubblicare su un quotidiano questa inserzione:

Hans de Bülow non assisteva ieri alla rappresentazione (!) che ha avuto luogo in Chiesa San Marco. Hans de Bulow non deve essere annoverato fra i forestieri accorsi a Milano per udire la musica sacra di Verdi.

Altrove Bülow aveva definito il Requiem come: "La sua ultima opera in veste chiesastica" (cfr. infra): un sarcasmo ignorante che, tuttavia, è citato e condiviso talvolta dagli ammiratori dell'opera. Brahms, quando venne a conoscenza dell'affermazione di Bülow, volle esaminare uno spartito del Requiem e dichiarò: "Il Bulow ha preso una cantonata, giacché un'opera simile non la può scrivere che il genio." Il Requiem fece un trionfale giro in Europa. Verdi diresse sette esecuzioni all'Opéra-Comique di Parigi e una ottava nell'anno seguente, 1875, quando il Governo Francese lo nominò Commendatore della Legion d'Onore; quattro esecuzioni alla Hofoper di Vienna, dove ricevette l'ordine di Francesco Giuseppe, e ascoltò una esecuzione del Tannhäuser; tre esecuzioni alla Royal Albert Hall di Londra dove la critica fu spassosamente divisa. La Pall Mall Gazette affermò che l'opera costituiva la più bella musica sacra dopo il Requiem di Mozart, mentre il Morning Post deprecò le "urla del coro nel Dies Irae" e la "canina vociferazione" del Libera me per proseguire: "Non c'è melodia che la mente possa recepire unitamente alle parole, e la frattura di queste parole nelle brevi, rapide esclamazioni, come una serie di latrati o di urli non sta certo a indicare reverenza." Il Daily Telegraph era entusiasta facendo riferimento ai "puritani che credono che tutta la musica sacra debba essere conforme ai modelli inglesi". Esatto il commento di Giuseppina in merito alle critiche:

Hanno parlato molto dello spirito più o meno religioso di Mozart, Cherubini, ecc. Io dico che un uomo come Verdi deve scrivere come Verdi, cioè secondo il suo modo di sentire e d'interpretare i testi. Lo spirito religioso e la maniera di esprimerlo devono portare l'impronta dell'epoca e della individualità. Io avrei, per così dire, rinnegato una Messa di Verdi che fosse stata scritta dietro il modello A, B e C.

Tornando a Bülow, grande direttore d'orchestra e grande pianista - rotti i rapporti con Wagner e con Cosima, già sua moglie e a quel tempo legalmente unita a Wagner - voleva rifarsi una vita in Italia. Nel marzo del 1870 aveva dato due concerti di musica da camera alla Società del Quartetto, nel dicembre diresse due concerti beethoveniani, per il Centenario celebrato dalla stessa società. Sorse allora l'idea di chiamare lui alla direzione del Conservatorio di Milano, vacante per il passaggio di Lauro Rossi a Napoli, e di dargli anche la direzione dell'orchestra della Scala. La proposta, e il contegno di Bülow, insolente e sprezzante verso la musica italiana moderna, scatenarono una polemica, nella quale Verdi, pur non partecipandovi, fu dalla parte di coloro che non volevano saperne della nomina di Bülow. Di questo si riparlò proprio nel 1874, quando il Bülow, ch'era scrittore elegante e violentissimo, osò scrivere alla vigilia della Messa:

Il Requiem, col quale l'onnipotente corruttore del gusto artistico italiano spera di spazzare via gli ultimi resti dell'immortalità di Rossini a lui mal comoda. Il suo ultimo melodramma in veste chiesastica, dopo il primo fittizio omaggio alla memoria del Poeta, verrà offerto per tre sere all'ammirazione mondiale; dopo di che, coi solisti ammaestrati, sarà intrapreso il viaggio a Parigi, la Roma estetica degli Italiani. Un'occhiata di contrabbando a questa nuova emanazione del Trovatore e della Traviata ci ha tolto ogni volontà di assistere a questo Festival.

Verdi, naturalmente, non partecipò alla polemica sorta per queste parole riuscite ostiche ad ogni italiano. Solo privatamente scriveva, rivolgendosi a Giulio Ricordi il 16 giugno:

Sarebbe meglio per tutti e più dignitoso di non parlare più dell'affare Bülow; e a dir vero se questi tedeschi sono così insolenti la colpa è principalmente nostra. Quando essi vengono in Italia noi gonfiamo talmente la loro boria naturale colle nostre smanie, coi nostri entusiasmi, coi nostri epiteti sragionati, che essi naturalmente devono ben credere che noi non sappiamo respirare né vedere la luce senza che essi portino il loro sole. E diciamo tutta la verità, gli entusiasmi specie di Milano per Bülow e Rubinstein non sono per 99 gradi più del loro merito? Infine, cosa sono? Pianisti ad una distanza immensa da Liszt e Chopin, e musicisti di terz'ordine.

Quale meraviglia suscitò in Verdi una pazza lettera di Bülow, convertito all'ammirazione del melodramma italiano dell'Ottocento, scritta qualche anno dopo (cfr. 1892).

Nell’autunno Verdi fu nominato a senatore del Regno. Su ciò scrisse a Clarina Maffei il 26 novembre:



Ma a dirla qui fra i noi, non era meglio che un'altro andasse ad occupare quel posto? Cosa ho fatto io? e cosa potrò far io? - Non so che dire: o per dir meglio, dirò che è un grande imbarazzo per me, e non giova a nissuno. Tutto questo dico a Voi, a Voi sola, perché se altri mi sentisse direbbero che sono scortese ed ingrato. Dunque passi per il Senatore, e non ne parliamo più.

La lettera fu spedita da Genova ma non da Palazzo Sauli, bensì da Palazzo Doria, nuovo domicilio che accoglierà Verdi sempre più spesso, fino all'estrema vecchiaia.


1875 Troviamo di nuovo il nome di Boito in una lettera a Giulio Ricordi dell'aprile 1875, dopo un violento scoppio d'ira per quello che Verdi considerava il massacro dell'Aida a Roma:

Voi mi parlate di risultati ottenuti!!!!!!!! Quali?... Ve li dirò io. Dopo venticinque anni che io era assente dalla Scala ho ottenuto un fischio dopo il primo atto nella Forza del Destino. Dopo l'Aida ciarle infinite: che non era più il Verdi del Ballo (di quel Ballo che fu fischiato la prima volta alla Scala); che guai se non si arrivava al quart'atto (così d'Arcais); che non aveva saputo scrivere pei cantanti; che non vi era che qualche cosa di tollerabile nel secondo e quarto atto (il terzo nulla) e che infine era un imitatore di Wagner!!! Bel risultato dopo 35 anni di carriera finire imitatore!!! Certo che queste ciarle non mi fanno, come non mi hanno mai fatto deviare d'un punto da quello che volevo fare, ché io ho sempre saputo quello che volevo, ma arrivato al punto che sono, sia alto sia basso, posso ben dire: 'Se è così, servitevi' e quando vorrò fare della musica potrò ben farla nella mia stanza, senza udire le sentenze dei dotti, e degli imbecilli. Non posso prendere che per uno scherzo la vostra frase 'La salvezza totale del Teatro e dell'arte sta in Lei'!! Oh no: non dubitate, non mancheranno mai compositori, e ripeterò anch'io quello che disse Boito in un Brindisi a Faccio dopo la sua prima opera... "Forse è nato colui che spazzerà l'altare". Amen.

L'ode non era stata dimenticata del tutto, anche dopo quasi dodici anni. Verdi non la cita mai con esattezza, ma vi trova sempre delle varianti interessanti.
Spesso affermava che la gente poteva dire e scrivere quello che voleva sulle sue opere, che per lui era assolutamente indifferente, ma non era vero, perché era invece vulnerabilissimo. Alcuni fischi o segni di dissenso fra uragani d'applausi alla Scala nel gennaio del 1869, dopo il primo atto della Forza del destino, non erano dimenticati né perdonati; e tutto quello che i critici scrivevano delle sue opere, nella sua mente veniva esagerato e distorto.
Un grande cambiamento s'operò nella vita di Boito con la ripresa, coronata da successo, del Mefistofele, a Bologna, nel 1875, dopo una drastica revisione di tutta l'opera. Gli ulteriori successi dell'opera lo sollevarono al di sopra del giornalismo, delle traduzioni mal pagate e dei libretti scritti per terzi. Ero e Leandro era stata accantonata, a quel che pareva, quando la musica era già terminata.
Nel mese di giugno, trovandosi a Vienna, Verdi dichiarava a un giornalista della Neue Freie Presse che Wagner ha reso incalcolabili servigi all'arte melodrammatica, poiché ha avuto il coraggio di sbarazzarsi delle tradizionali forme baracche; e osservava:

Anch'io ho tentato la fusione della musica con il dramma,e precisamente nel Macbeth, ma non potei scrivere da solo i libretti come fa Wagner. Wagner supera tutti i compositori nella varietà dei colori della strumentazione. All'inizio egli combatté con successo il realismo, più tardi però si allontanò con esagerazione dalla poesia ideale e incorse nel medesimo errore che si era inizialmente fatto un dovere di correggere. La monotonia, dunque, che egli combatté si vittoriosamente, minaccia da qualche tempo di dominarlo.

Il 16 luglio scrisse al Conte Arrivabene, da S. Agata:

Non saprei dirti cosa sia per uscirne da questa fermentazione musicale. Chi vuol essere melodico come Bellini, chi armonista come Meyerbeer. Io non vorrei né l'uno né l'altro, e vorrei che il giovane quando si mette a scrivere, non pensasse mai ad essere né melodista, né armonista, né realista, né idealista, né avvenirista, né tutti i diavoli che si portino queste pedanterie. La melodia e l'armonia non devono essere che mezzi nella mano dell'artista per fare della Musica, e se verrà un giorno in cui non si parlerà più né di melodia né di armonia né di scuole tedesche, italiane, né di passato né di avvenire etc. etc. etc. etc. allora forse comincierà il regno dell'arte. Un altro guaio dell'epoca si è che tutte le opere di questi giovani sono frutti della paura. Nissuno scrive con abbandono, e quando questi giovani si mettono a scrivere, il pensiero che li predomina si è di non urtare il pubblico e di entrare nelle buone grazie dei critici! Tu mi dici che i miei successi li devo alla fusione delle due scuole. Io non vi ho mai pensato. Del resto è una vecchia storia che si è ripetuta per altri, e per un certo tempo! Del resto, mio caro Arrivabene, sta tranquillo, l'arte non perirà; e fidati pure che anche i moderni han fatto qualche cosa...

Il giorno di Natale si sfoga di nuovo con il Conte ma questa volta sulla presunta ingratitudine dei bussetani nei suoi confronti:

Tu sai che io sono una specie di Paria per quel paese. Io ho commesso tanti peccati verso di loro!!! Essi non m'hanno più assolto perché non ho scritto un'opera espressamente per l'apertura del loro Teatro [fu rappresentato Rigoletto]; perché regalai allora 10.000 L! (che essi però accettarono) e perché non feci venire a cantare la Patti, Fraschini, Graziani etc. (è storia!)... Come diavolo io doveva andare a prendere pel collo quelli artisti ed obbligarli a cantare a Busseto!!! Tu capirai da questo che io non m'occupo affatto delle cose di Busseto e quando gridano li lascio gridare, quando cantano, recitano, ballano li lascio cantare e ballare a loro modo e se fanno qualche cosa di buono ed utile, mando il mio obolo e felice notte!

Meno rassegnata di lui - che, del resto, era così calmo solo mentre ne scriveva all'Arrivabene! - appare da molte pagine del suo copialettere Giuseppina, che, trattata dai bussetani nel modo che s'è accennato, non lasciava passare occasione di dirne male. "Povero Mago!" - scriveva a Verdi il 23 febbraio '53. - E dire che quella tua anima così alta è venuta spontaneamente ad alloggiare in un corpo Bussetano". E nel '65, quando più ardevano le polemiche per il teatro di Busseto, scriveva, un po' melodrammaticamente come le capitava spesso:

A G. Verdi che riempì il mondo della sua gloria musicale, i Bussetani lo ricompensano avvelenandogli la vita con ogni sorta di vili azioni... Ahimé ad ogni ora l'albero delle illusioni va sfrondandosi... io povera donna son quasi giunta a desiderare il riposo dei più e le tenebre della morte per non veder più oltre l'opera degli uomini. Il mio bel pavone che sta guardandomi mi dice che gli animali sono i migliori tra gli esseri viventi. Così mi diceva sempre il mio povero Loulou [il loro cane] con que' suoi occhioni pieni d'affetto e di fedeltà.

Parole d'un pessimismo un po' enfatico, che però variano di poco uno dei Leimotive di Sant'Agata, caro alla Giuseppina non meno che a Verdi.


1876 Il 15 febbraio, poco più di quattro mesi dopo la ripresa del Mefistofele, Boito scriveva al conte Agostino Salina che egli viveva "tuffato nel sangue e nei profumi della decadenza romana" e riteneva possibile che il Nerone potesse essere rappresentato entro un anno. Il 22 novembre scriveva al figlio di Salina:

Vostro padre ha diritto di sapere cosa faccio e se lavoro, ditegli vi prego che la mia nuova opera mette quasi ogni giorno una foglia e che se non dovessi andare a Torino e a Roma per tutelare le sorti del Mefistofele, e perdere così un paio di mesi preziosi, potrei forse aver compiuto il Nerone per l'anno venturo.

Un teatro stabile sarebbe rimedio adeguato ai mali che affliggono l'opera italiana? Verdi è convinto che no. O meglio: "sarebbe ottima cosa" purché rispondesse in tutto alle più alte esigenze dell'arte; ma così com'è realizzato all'estero, non va. In Italia, poi, quasi non è pensabile; certo è inattuabile.


Da Genova, il 5 Febbraio scrisse al Conte Arrivabene:

Di quelli che conosco io quello che può far meglio è Ponchielli, ma ahimè, non è più giovane, credo sia sulla quarantina ed ha visto e sentito troppo. Tu sai le mie opinioni sul sentir troppo... te ne dissi a Firenze. Quando i giovani si saranno accorti che non bisogna cercar la luce né in Mendelson (sic), ne in Chopin, ne in Gounod, allora forse troveranno. È cosa però curiosa che prendano a modello pel Dramma gli Autori che non son drammatici. Tu sarai sorpreso che io parli in tal modo dell'autore del Faust! Che vuoi che ti dica: Gounod è un grandissimo musicista, il primo Maestro di Francia, ma non ha fibra drammatica. Musica stupenda, simpatica, dettagli magnifici, ben espressa quasi sempre la parola... intendiamoci bene, la parola, non la situazione, non bene delineati i caratteri, e non impronta e colore particolare al Dramma, o ai Drammi. Questo inter nos. Ottima cosa sarebbe il Teatro a repertorio, ma non lo credo realizzabile. Gli esempi dell'opera e della Germania hanno per me pochissimo valore perché in tutti questi teatri gli spettacoli sono deplorabili. All'Opéra splendida la mise en scène, superiore per esattezza di costume e di buon gusto a tutti i Teatri, ma la parte musicale pessima. Cantanti sempre mediocrissimi (toltone da qualche anno Faure), orchestra e cori svogliati e senza disciplina. Io ho sentito a quel teatro spettacoli a centinaia, e mai e poi mai una buona esecuzione musicale. Ma in una città di 3.000.000 d'abitanti vi sono sempre duemila persone per riempire la sala anche con cattivo spettacolo. In Germania le Orchestre ed i cori sono più attenti e coscienziosi; eseguiscono esattamente e bene; malgrado ciò io ho visto a Berlino spettacoli deplorabili. L'orchestra è grossa e suona grosso. I Cori non buoni, mise en scène senza carattere e senza gusto. Cantanti... oh cantanti poi, cattivi, assolutamente cattivi. Ho sentito quest'anno a Vienna la Mallinger che passa per la Malibran della Germania. Dio eterno! Misera voce e stanca; canto barocco e sguaiato, azione conveniente. Le nostre tre o quattro prime donne di cartello sono infinitamente superiori per voce, e per stile di canto, e per lo meno eguali di azione. A Vienna (è ora il primo teatro di Germania) le cose sono migliori dal lato dei Cori e Orchestra (eccellentissimi). Io ho assistito a diversi spettacoli, ed ho trovato esecuzione delle masse buonissima, mise en scène mediocre, cantanti al di sotto del mediocre, ma lo spettacolo ordinariamente costa poco, il Pubblico (lo mettono all'oscuro durante lo spettacolo) dorme e s'annoia, applaude un po' alla fine d'ogni atto, ed alla fine dello spettacolo se ne va a casa senza disgusto e senza entusiasmo. E ciò può andar bene per quelle nature nordiche; ma porta un po' uno spettacolo simile in uno dei nostri teatri, e vedrai che sinfonie ti comporrà il Pubblico! Il Pubblico nostro è troppo inquieto e non si contenterebbe mai d'una prima Donna come in Germania, che costa 18 o 20 mila fiorini all'anno. Ci vogliono le prime donne che vanno al Cairo, a Pietroburgo, a Lisbona, a Londra etc. per 25 o 30 mila franchi al mese, ed allora come si fa a pagarle? Vedi per es. alla Scala hanno quest'anno una compagnia che non si può trovare migliore. Una prima donna che ha bella voce, che canta bene, animatissima, giovane, bella e di più Nostra [Maddalena Mariani Masi]. Un tenore che è forse il primo, ma certamente fra i primissimi [Julian Gayarre]. Un baritono che non ha che un rivale, Pandolfini [Gottardo Aldighieri]. Un basso che non ha rivali [Ormondo Maini], eppure il teatro fa magri affari. L'anno passato, della Mariani si diceva molto bene! in quest'anno si è cominciato a dire che è un po' stanca (nota bene che lion è vero). Ora si dice che canta bene ma che non attira gente etc... etc... se tornasse l'anno venturo tutti direbbero.., oh sempre la stessa etc... etc... Io mi ricordo d'aver conosciuto a Milano un certo Villa antico impresario al tempo in cui vi erano alla Scala la Lalande, Rubini, Tamburini, e Lablache, che mi diceva che dopo i gran fanatismi, il Pubblico aveva finito coi fischiare Rubini e col non andar più a Teatro al punto che l'impresa in una certa sera non ha incassato che sei biglietti!! incredibile!! Ora ti domando se coi nostri Pubblici è possibile una compagnia fissa stabile almeno per tre anni! E poi sai cosa costerebbe all'anno una compagnia come quella che ora alla Scala?

Da Sant'Agata, il 20 ottobre scrisse a Clarina Maffei una interessante lettera sulla differenza tra "copiare il Vero" e "inventare il Vero":

Sentii a Genova Color del Tempo [commedia verista di A. Torelli] qualità grandi, soprattutto un fare svelto che è una particolarità francese; ma v'è poco in fondo. Copiare il Vero può essere una buona cosa, ma Inventare il Vero è meglio, molto meglio. Pare vi sia contradizione in queste tre parole: inventare il vero, ma domandatelo al Papà [Shakespeare]. Può darsi che Egli, il Papà si sia trovato con qualche Falstaf, ma difficilmente avrà trovato un scellerato così scellerato come Jago, e mai e poi mai degli angioli come Cordelia Imogene Desdemona etc. etc... eppure sono tanto veri!... Copiare il vero è una bella cosa, ma è fotografia, non Pittura.


1877 Il primo commento di Verdi sul Mefistofele, che egli non aveva sentito, è in una lettera ad Arrivabene del 21 marzo, in seguito alla notizia mandatagli da quest'ultimo del successo dell'opera a Roma:

Ora è difficile dire se Boito potrà dare all'Italia dei capolavori! Ha molto talento, aspira all'originalità ma riesce piuttosto strano. Manca di spontaneità e gli manca il motivo: molte qualità musicali. Con queste tendenze si può riuscire più o meno bene in un soggetto così strano, e così teatrale come il Mefistofele, più difficile nel Nerone!

Pare che due atti e mezzo del Nerone, a quell'epoca, fossero già scritti.
Giulio Ricordi, frattanto, continuava a sperare nel ritorno di Verdi al teatro e non perdeva occasione per ingraziarselo e persuaderlo, per blandirlo e adularlo. Sapendo della grande ammirazione di Verdi per Adelina Patti, avanzò l'idea che scrivesse per lei una nuova opera. Incontrato un rifiuto, rinnovò i suoi assalti attraverso Giuseppina, alla quale mandò una lettera lunga e convincente da passare a Verdi al momento opportuno. Ma il 14 novembre ella doveva confessarsi sconfitta:

Presentai, dunque, con la miglior grazia che mi riuscì di trovare, la lunga lettera di cui voi sapete al celebre compositore in questione; la lesse con calma e mi disse: "Quando gli scriverai, di' a Giulio che mi dispiace non poter dare una risposta diversa da quella che ho già dato." Anche Clarina Maffei perorò la causa di Ricordi, ma con lo stesso risultato, e ogni accenno a questo argomento risvegliava le stesse ferite, sollevava lo stesso risentimento.


1878 Come come come!!!A proposito di una ripresa dell'Aida Verdi esclamava il 19 marzo:
Si rimpiange ora la forza e la passione della Stolz?!! Ma se allora non poteva cantare quella parte... se allora era sacrificata... se allora io non aveva saputo scrivere, etc.! E dopo cinque anni!!! Vedete un po'!... Scherzi del tempo!... Voi, proprio voi, mi consigliate a scrivere? Ma parliamo sul serio: per qual motivo scriverei? a cosa n'escirei? e cosa ci guadagnerei io? Il risultato sarebbe men meschino. Sentirei da capo dirmi che non ho saputo scrivere e che son diventato un seguace di Wagner. Bella gloria! Dopo quasi quarant'anni di carriera finirei imitatore!

Nel corso del mese di aprile, Verdi scrisse a destinatario ignoto:

Tutti concorriamo senza volerlo alla rovina di questo nostro teatro. Forse io, voi, ecc., ecc., siamo del numero. E se volessi dirvi cose che apparentemente non hanno senso comune, vi direi che causa prima in Italia furono le Società di Quartetto [...]. L'ho detta: non lapidatemi... Troppo lungo sarebbe dirne le ragioni. Ma in nome del diavolo, se siamo in Italia perché facciamo dell'arte tedesca? 12 o 15 anni fa, non ricordo se a Milano o altrove, mi nominavano Presidente d'una Società del Quartetto. Rifiutai e dissi: Ma perché non istituite una Società di Quartetto vocale? Questa è vita italiana. L'altra è arte tedesca. Era forse anche allora bestemmia come adesso, ma un'istituzione di Quartetto vocale che avesse fatto sentire Palestrina, i migliori suoi contemporanei, Marcello, ecc., ecc., avrebbe tenuto vivo in noi l'amore del canto, la cui espressione è l'opera. Ora, tutti tendono ad istromentare, ad armonizzare. L'alpha e l'omega: la Nona Sinfonia di Beethoven (sublime nei primi tre tempi, pessima come fattura nell'ultima parte). Non arriveranno mai all'altezza della prima parte; imiteranno facilmente la pessima disposizione del canto dell'ultima e coll'autorità di Beethoven si griderà: così si deve fare... Sia pure; si faccia pur così! Sarà anche meglio; ma questo meglio è la rovina dell'opera indubitatamente. L'arte è universale, nessuno più di me lo crede; ma sono gli individui che la esercitano; e siccome i Tedeschi hanno dei mezzi diversi dai nostri, c'è qualche cosa di diverso anche di dentro. Noi non possiamo, dirò anzi, non dovremmo scrivere come i Tedeschi, né i Tedeschi come noi. Che i Tedeschi si appropriino le nostre qualità come fecero a' loro tempi Haydn, Mozart restando però sempre quartettisti; che Rossini si approprii perfino alcune forme di Mozart restando però sempre melodista, sta bene; ma che si rinunci per moda, per smania di novità, per l'affettazione di scienza, si rinneghi l'arte nostra, il nostro istinto, quel nostro fare sicuro spontaneo naturale sensibile abbagliante di luce, è assurdo e stupido.

Tra il 1878 e il 1879 scorrono, nell'epistolario verdiano, alcune vigorose inquadrature della popolazione affamata. A Piroli, nel marzo '78:

Nelle grandi città anche nelle più ricche come Genova, Milano, ecc. ecc. il commercio è diminuito d'assai; i fallimenti frequentissimi, e quindi mancanza di lavoro. Nelle piccole nostre città come Parma, Piacenza, Cremona, il proprietario non ha denari, e se ne ha qualche poco lo tiene ben stretto in tasca perché ha paura dell'avvenire; e così troppo aggravato di contribuzioni fa i lavori i più grossi, ed i più strettamente necessari, non dà lavoro ai giornalieri, il fondo peggiora, ed intanto la ricchezza pubblica decresce. Se voi vedeste, mio caro Piroli, da noi quanti poveri, e fra questi quanti giovani robusti, che domandano lavoro, e non trovandolo domandano la carità di un tozzo di pane! E ciò dovrebbe pure essere noto al Governo, perché per non citarvi che i dintorni, a Zibello, a Soragna, Busseto, ecc. ecc. i Prefetti hanno mandato rinforzi di Carabinieri a cavallo, di Bersaglieri, ecc. per prevenire qualche dimostrazione. Così la povera gente dice "Noi domandiamo lavoro e pane. Essi ci mandano soldati e manette". Così è. Io non vi parlerò di industria, di alto commercio, ma essendo contadino, vi parlerò soltanto d'agricoltura. È certo che la terra da noi non produce quello che dovrebbe: ed è certo che al proprietario mancano i mezzi per farla produrre.

E nel maggio all'Arrivabene, parlando dei lavori fatti alla casa di Sant'Agata:

Ho speso qualche soldo che ha dato da mangiare a molti poveri operai, perché dovete sapere voi abitanti delle Capitali che la miseria nelle classi povere è grande, grande, grandissima; e se non ci sarà una Provvidenza sia dall'Alto o dal basso una volta o l'altra succederanno guai gravissimi. Vedi, se io fossi Governo non penserei tanto al partito, al bianco, al rosso, al nero, penserei al pane da mangiare... Ma non parliamo di politica perché non me ne intendo e perché la detesto... almeno quella che è stata fatta finora...


1879 Nell'estate di quell'anno, sempre a Piroli, Verdi scrisse:

Le nostre disgrazie non sono così forti come nel Mantovano e Ferrarese, ma in ogni modo i raccolti tutti sono quasi perduti. [...] Quest'inverno sarà carestia e morte di fame. So bene che arriveranno i grani dall'estero, e le solite velenose che il Governo lascia facilmente entrare. Ma come comprare questi generi? Ed intanto il Governo pensa ad aumentare le imposte, a far Strade Ferrate non di prima necessità col pretesto di dar lavoro alla gente? È veramente uno scherno. Ma per Dio se avete milioni, spendeteli a fare tutti i lavori ai fiumi prima che ci allaghino tutti! Poveri noi, in che mani siamo!... O ambiziosi, o ignoranti. A me poco importa dei bianchi, dei rossi, dei destri, dei sinistri, ma vorrei degli uomini capaci e pratici. Del resto se ne accorgeranno loro stessi più tardi, perché le imposte non si potranno pagare.

È inutile sottolineare che la questione degli argini, dello scolo delle acque, del dragaggio dei fiumi rappresentava una delle spine più dolorose nel corpo dell'agricoltura italiana. Dall'infanzia Verdi aveva assistito ai disastrosi effetti delle inondazioni, e da quel tempo ancora nessuno aveva trovato un rimedio sicuro. Il maestro si riteneva infatti un piccolo esperto:

Se si trattasse di arginature al Po, di espurgare i piccoli torrenti che scendendo dall'Appennino minacciano continuamente, e finiranno un giorno o l'altro per inondarci tutti, io potrei dirvi, o bene o male, la mia opinione,

scriveva sempre a Piroli in una lettera del 1º luglio dove tornava al doloroso tema della miseria, alludendo al palliativo proposto dal ministero Cairoli di abolire la tassa sui cereali inferiori:

In quanto alla soppressione del secondo palmento la povera gente ne sentirà ben poco sollievo. Ci vuol altro, ben altro. Bisogna trovar del lavoro, e bisogna che i piccoli proprietari non siano troppo aggravati per aver mezzi di migliorare l'agricoltura, aumentare i prodotti, e dare così del pane alla povera gente.

Alcuni mesi prima i Verdi, come sempre, si erano trasferiti nella dimora invernale di Genova a palazzo Doria e compirono due brevi viaggi a Parigi. La figlia adottiva Maria sposò Alberto Carrara, donde la discendenza e l'eredità verdiana.

È l'anno dell'incontro con Boito, "recuperato" alla via maestra dopo le intemperanze di gioventù: un incontro propiziato da Giulio Ricordi (Verdi non avrebbe mai fatto il primo passo, e attenderà due anni per aprire a Boito le porte di Sant'Agata), con i buoni uffici di Clarina Maffei. Nel mese di marzo fu rappresentato a Genova il Mefistofele di Boito che andò a trovare Verdi a palazzo Doria. Fu ricevuto cordialmente, ma non s'avventurò a discutere ciò che gli stava più a cuore. Per quanto se ne sa, fu questo il solo incontro con Verdi, a parte quello occasionale del 1871 nella sala d'aspetto della stazione di Bologna, da quando lo aveva conosciuto a Parigi, nel 1862. I rapporti fra Verdi, Faccio e Ricordi erano diventati così cordiali che è molto strano che Boito fosse rimasto così a lungo quasi completamente un estraneo. La sua diffidenza, assieme a quella di Verdi, avevano certamente contribuito a questo stato di cose.
A Genova, Verdi e Giuseppina andarono ad un'insoddisfacente rappresentazione del Mefistofele, e i commenti da parte di entrambi erano poco entusiasti.
L'origine dell'Otello data dal viaggio di Verdi a Milano nel giugno, di quell'anno, per dirigere un'esecuzione della Messa di Requiem a beneficio delle vittime delle recenti inondazioni. Fu in quell'occasione che Teresa Stolz e Maria Waldmann riemersero dal loro ritiro per cantare insieme per l'ultima volta. La rappresentazione, avvenuta il 30 giugno, fruttò un incasso di non meno di 37.000 lire e Verdi ne fu deliziato. Ebbe anche un'accoglienza entusiasta dai milanesi e ciò certamente ottenne l'effetto di persuadere Verdi che egli non era un dimenticato, e che non soltanto per gli stranieri si dimostrava entusiasmo. Quando Ricordi fece un successivo tentativo per indurre Verdi a ritornare al teatro e a considerare la possibilità di una nuova opera, le condizioni si dimostrarono più favorevoli. Faccio condusse Boito da Verdi e, tre giorni dopo, Boito ritornò con lo schema del libretto e venne incoraggiato a completarlo. Tralasciò immediatamente ogni altro impegno e si mise al lavoro, dapprima a Milano poi a Venezia. Intanto Verdi fece ritorno a Sant'Agata.
Ricordi espresse la speranza di poter andare a Sant'Agata "con un amico" nella prima metà di settembre. Verdi, cautamente, s'oppose a questa manovra:

Sarà sempre gradita una vostra visita in compagnia d'un amico, che ora sarebbe s'intende, Boito. Permettetemi però che su quest'argomento vi parli molto chiaro e senza complimenti. Una sua visita m'impegnerebbe troppo ed io non voglio assolutamente impegnarmi. Come sia nato questo progetto del Cioccolatte [Otello] voi lo sapete. Pranzavate meco insieme ad alcuni amici. Si parlò d'Otello, di Sheaspeare [sic], di Boito. Il giorno seguente Faccio mi condusse Boito all'Albergo. Tre giorni dopo Boito mi portò lo schizzo d'Otello che lessi e trovai buono. Fatene, gli dissi, la poesia; sarà sempre buona per voi, per me, per un altro, ecc. ecc. Ora, venendo qui con Boito, io mi trovo obbligato necessariamente a leggere il libretto che Egli porterà finito. Se trovo il libretto completamente buono io mi trovo in certo modo impegnato. Se trovandolo buono, suggerisco modificazioni che Boito accetta, io mi trovo anche maggiormente impegnato. Se poi, anche bellissimo, non mi piace, sarebbe troppo duro dirgli in faccia quest'opinione. No no... voi siete già andato troppo oltre, e bisogna fermarsi prima che nascano pettegolezzi e disgusti. A mio avviso, il miglior partito (se lo credete e conviene a Boito) è quello di mandarmi il poema finito, affinché io lo possa leggere, e manifestare con calma la mia opinione senza che questa impegni nissuna delle due parti.

Boito scrisse il libretto dell'Otello, nella sua forma originale, negli intervalli di terribili attacchi di una nevralgia facciale e mal di denti, culminanti in un dolorosissimo ascesso. La cattiva salute e la preoccupazione lo obbligarono a ritardi che provocarono, fino alla metà di ottobre, una serrata corrispondenza a tre, fra poeta, editore e compositore. Ricordi tempestava Boito d'esortazioni, suppliche, scongiuri e ammonimenti; Boito replicava con spiegazioni, scuse e assicurazioni, la sostanza delle quali era trasmessa a Verdi da Ricordi:

Oggi mi sono alzato alle sette e mezzo e mi son messo al tavolo, lavoro più che posso, ma fino a ieri dopo mezzodì la postema che mi tormenta non era scoppiata e lavorare con quell'inferno in bocca non potevo. Spero che quella postema sia stata la scadenza definitiva dei miei mali. Io non ho altro in mente che di finire bene e più presto che posso, il lavoro. Nessun'altra intrapresa della mia vita mi ha cagionato le inquietudini, le agitazioni che ho provato in questi mesi di lotta intellettuale e fisica... Mi basterebbe il dare una prova a Verdi che io gli sono assai più veracemente affezionato che egli non creda.

Soltanto Verdi, dietro la sua barriera di riservatezza difensiva, rimaneva apparentemente tranquillo. Ma il "progetto del cioccolatte" lo attirava senz'altro.
Boito finì il libretto, ma non ne era del tutto soddisfatto e desiderava rivederlo. Sembra che Ricordi insistesse per mandarne, almeno una parte, subito a Sant'Agata. Attesero con ansietà le reazioni di Verdi e invocarono l'aiuto di Giuseppina. Ella replicò, il 7 novembre:

Io conosco pochissimo Boito, ma credo averlo indovinato. Natura nervosa, eccitabilissima! Quando invaso dall'ammirazione, capace di sconfinati entusiasmi e fors'anco talvolta "per effetto di contrasti" capace di eccessive antipatie! Tutto ciò però a brevi parossismi e sol quando vi è lotta fra la mente ed il cuore, o meglio fra contrarie passioni, o potenze. La lealtà, la giustizia del suo carattere devono presto avere il predominio e rimettere in equilibrio ogni sua facoltà. Fermo nell'amicizia e nello stesso tempo mite e pieghevole come un fanciullo, quando la sua fibra non sia, per così dire, pizzicata. Tutto questo lo dico, per farle capire che parmi aver capito l'uomo; per cui non mi sorprende il suo stato febbrile nell'ora presente. [...]
Non scriva né parli a Verdi di timori, desideri, titubanze: aggiungo: non dica, neppure a Verdi, ch'io le ho scritto su questo argomento. Lo credo il miglior modo per non suscitare nell'animo di Verdi, l'idea d'una benché lontana pressione. Lasciamo che la corrente se ne vada diritta per la sua via al mare. È negli ampi spazi che certi uomini sono destinati ad incontrarsi ed intendersi.

Il 18 novembre Verdi diceva a Ricordi: "Ricevo in questo momento il Cioccolatte"; pochi giorni dopo egli e Giuseppina erano a Milano. Il 18 dicembre, rispondendo a una domanda probabilmente sgradita di un vecchio amico di Verdi, Giuseppina ammetteva che il libretto era completo:

Pare che a Verdi possa esser piaciuto, perché dopo letto lo comperò; ma... lo mise accanto al Re Lear che dorme da trent'anni nel suo portafogli sonni profondi e non turbati. Cosa succederà di quest'Otello? 'Se sa minga'. Vorrei che Verdi potesse lasciarlo dormire come il Re Lear altri trent'anni, e poi si sentisse tanto vigore e coraggio da musicarlo a gloria dell'arte e sua.

Verdi, tramite Giulio, seguiva il lavoro di Boito, dandosi un'aria distratta e mai dimenticando quell'Altare dell'Arte "bruttato come un muro di lupanare".
Dichiarava l'intenzione di scrivere un'opera buffa (non è la prima volta che l'idea si affaccia alla sua mente, dopo le sventure del Finto Stanislao o Un giorno di Regno), scrisse invece un Pater noster e un'Ave Maria come per passatempo e non senza prendersi gioco della moda che ama il difficile ("Nissuno si spaventi dei diesis che sono nelle prime pagine. Si danno l'aria di essere qualche cosa, e sono niente. Con un po' di studio tutto riescirà facilissimo"). Il primo personaggio della celebre tragedia, che affascinava Verdi non era Otello, bensì Jago, questa larva molle con l'aculeo dello scorpione. Gonfio di rimorsi infingardi, seduto al tavolo di una morale spietata e irritante (che è poi quella dei vinti o dei predicatori), Verdi lo conosceva da anni come controfigura dei suoi ideali romantici e libertari. E dal momento che la spregiudicata malvagità di Jago si inchina al più gretto conformismo - il rifiuto che egli oppone all'amore di due giovani di razza diversa - il compositore non esita ad aggredirlo come una cosa che gli appartiene. È lo specchio di tutto quello che lui ha odiato nella sua vita: il filisteo che pontifica sui difetti umani, che arresta con la sua natura accidiosa e ingenerosa lo scorrere della vita.
Quasi altri cinque anni passarono prima che cominciasse a comporre l'Otello.
Aveva sessantasei anni, Giuseppe Verdi, e la sua vita creativa era apparentemente finita. Pessimistico sul futuro dei teatri operistici italiani, date le condizioni di allora, fu difficile persuaderlo che il Don Carlos, ripreso alla Scala nella stagione di carnevale del 1879, era un successo; egli scriveva a Faccio:

Quello che importa ora è di badare attentamente alle condizioni del nostro teatro. È ammalato che si muore e che bisogna tenere in vita ad ogni costo. E voi e Giulio che siete onnipotenti, badate a non mettere piede in fallo con insuccessi. Trovate opere buone o cattive (pel momento s'intende) basta che attirino gente. Voi direte che ciò non è degno, non è artistico, e imbratta l'altare; non importa, netterete dopo. Intanto bisogna vivere. Se i teatri si chiudono, non si aprono più. E se il D. Carlos non fa denari, mettetelo da parte e sollecitate il Roi de Lahore [di Massenet]. E diceva a Clarina Maffei:

Questo fracasso per un'opera, tutte queste lodi e adulazioni mi fanno ripensare al passato (si sa che i vecchi lodano sempre i loro tempi) quando noi senza reclame, senza quasi conoscere persona presentavamo il nostro muso al pubblico, e se ci applaudiva si diceva, o non si diceva, "grazie ", se ci fischiava "a rivederci un'altra volta". Non so se questo era più bello, ma era certamente più degno.

Nel 1879 ebbe luogo la prima rappresentazione integrale del Ring des Nibelungen di Wagner. Fu anche rappresentata per la prima volta La Gioconda di Ponchielli, che ebbe qualche influsso nella composizione di Otello (soprattutto il personaggio di Bàrnaba ha qualche punto in comune con Jago)

1880 Trionfale debutto di Aida all'Opéra di Parigi (il 22 marzo), con l'ampliamento delle danze. Il 18 aprile Franco Faccio diresse alla Scala il Pater noster per coro a cinque voci e l'Ave Maria per soprano e archi, composti l'anno precedente. Parole amare sul verismo:

Ah, il progresso, la scienza, il verismo...! Ahi, ahi! Verista finché volete, ma... Shakespeare era un verista, ma non lo sapeva. Era un verista d'ispirazione; noi siamo veristi per progetto, per calcolo. Allora tanto fa: sistema per sistema, meglio ancora le cabalette. Il bello si è che, a furia di progresso, l'arte torna indietro. L'arte che manca di spontaneità, di naturalezza, di semplicità, non è più arte.

Anche il Mefistofele riscosse molto successo a Londra in giugno. Fino a quel momento Boito non aveva mai scritto direttamente a Verdi. Ricordi, l'intermediario e capo della cospirazione, ritenne che fosse giunto il momento per un'altra mossa. "È necessario svegliare un poco il nostro Verdi", scriveva a Boito, il 24 luglio. "Rammentati che per tuo incarico gli scrissi che al tuo ritorno ti saresti occupato del noto finale... [...] Dunque fammi il santissimo favore di mandare a Busseto questo benedettissimo tuo finale." Il finale era quello del terzo atto dell'Otello, che non aveva soddisfatto Verdi nella sua forma originale. L'arrivo della seconda versione di Boito, circa quindici giorni dopo, provocò una risposta la quale provava che il Moro era ben lungi dall'essere inattivo nell'immaginazione del compositore. Questa lettera, la prima di Verdi a Boito dopo il 1862, segna il vero inizio della loro corrispondenza come collaboratori:

Dopo che Otello ha insultato Desdemona, non vi è più nulla a dire, tutt'al più una frase, un rimprovero, una maledizione contro il barbaro che ha insultato una donna! [...] Ad un tratto odonsi da lontano Tamburi, Trombe, Colpi di cannone etc. etc. I Turchi! I Turchi! Popolo e soldati invadono la scena, sorpresa e spavento in tutti! Otello si scuote e si drizza come un leone; brandisce la spada e volgendosi a Lodovico: "Andiamo vi condurrò di nuovo alla vittoria. Venezia mi compenserà poi con una destituzione!"

Boito era sconcertato dal suggerimento di Verdi, che egli non poteva approvare, e Ricordi proponeva allora una discussione per superare le difficoltà. Boito riscrisse tutto il nuovo finale, proprio come auspicato da Verdi, e lo mandò a Sant'Agata, senza commenti. Ma poi, sollecitato da Verdi stesso:

Quell'attacco dei Turchi mi dà l'impressione come di un pugno che rompe la finestra di una camera dove due persone stavano per morire asfissiate. Quell'ambiente intimo di morte, creato con tanto studio da Shakespeare, è d'un tratto svanito. [...] In altri termini: abbiamo trovato la fine di un atto, ma a scapito dell'effetto della catastrofe finale.

Il discorso era assolutamente convincente, e l'idea venne abbandonata. L'episodio ci dà una chiara idea della natura straordinaria di questa collaborazione. Verdi non dominava Boito, come aveva dominato i suoi librettisti precedenti, quali il povero Piave; quando prendeva la strada sbagliata, doveva con molta gentilezza essere ricondotto sulla giusta, come in questo caso.
Uno dei primi tentativi di Ricordi per riportare Verdi al teatro, riguardava la revisione del Simon Boccanegra [cfr. 1857] una notevole partitura che non aveva mai avuto molto successo. Ricordi lo rassicurò che Boito era pronto a fare qualsiasi cosa egli desiderasse.
Verdi paragonava il vecchio libretto ad un tavolo traballante, cui bisognava sostituire una delle gambe per farlo star saldo. Ma non era preparato a una revisione estesa. Boito modificò la Scena del Senato alla fine del primo Atto e Verdi gli rispose alla fine dell'anno, il 28 dicembre:

Bellissima questa scena del Senato, piena di movimento, di colore locale, con versi elegantissimi e potentissimi come al solito Lei fa. Sta bene per i versi da cambiare nel principio del terz'atto, e benissimo l'avvelenamento del Doge in quel modo. Ma per disgrazia mia, il pezzo è vasto assai, difficile a musicare, e non so se avrò il tempo per rimettermi in sella per far questo, ed accomodare tutto il resto.


1881 Verdi e Giuseppina trascorsero l'inverno a Genova. Continuava lo scambio di lettere con Boito sul Simon Boccanegra. Verdi stava forse inconsciamente mettendo Boito alla prova pratica della collaborazione del Simone, prima di decidersi definitivamente per l'Otello. Ma effettivamente tale revisione fu un'esplorazione delle possibilità di lavorare assieme, ed alcuni dei risultati, quali la magnifica scena nella camera di Consiglio e i recitativi del furfantesco Paolo, sul genere di quelli di Jago, preannunziano l'opera che doveva seguire. L'intelligenza di Boito e il modo in cui risolse le difficoltà del vecchio libretto, fecero una favorevolissima impressione su Verdi. Per la storia dei rapporti di questi due uomini, è importante tuttavia notare la sempre crescente cordialità e il senso d'umorismo che da entrambe le parti aiutò a superare ogni difficoltà.

Ella, caro Boito, s'immagina d'aver finito? Tutt'altro! Avremo finito dopo la prova generale, se pure arriveremo fin là. Intanto nel duetto tra padre e figlio vi è cosa cui bisognerebbe dare maggior rilievo... [15 gennaio]

Una parola sola per dirle che ho ricevuto stamattina i suoi versi e che vanno benissimo. Per ora basta... In seguito poi non so... [17 gennaio]

Ho bisogno ancora d'un'altra goccia del suo inchiostro... Dico altra, non dico ultima...
[24 gennaio]

Se avessimo finito! [2 febbraio]

Non abbiamo finito! Dopo questo, forse avremo finito! [5 febbraio]

Poi Boito, coscienzioso al pari di Verdi, cominciò a suggerire anch'egli degli altri cambiamenti:

Ricorro al mio vecchio paragone del tavolo, ora è la quarta gamba che tentenna. Conviene saldarla e usare in questa operazione molta avvedutezza per impedire che, rinfrancata questa, tornino a zoppicare le altre. Da due giorni penso e ripenso al quart'atto.

E Verdi, il 6 febbraio:

Aggiustiamo pure anche la quarta gamba...

Non abbiamo ancora finito!... Il bello bellissimo finale che Egli mi ha fatto, ha pregiudicato un po' la scena dell'ultimo atto tra Fieschi e il Doge... [15 febbraio]

Poi finirono veramente e il
Simon Boccanegra riveduto fu accolto calorosamente alla Scala, il 24 marzo. Gabriele era Tamagno, Boccanegra era Maurel; della sua interpretazione Verdi fu così soddisfatto che ad una delle prove disse, in un momento d'espansione: "Se Dio mi dà salute scriverò per voi Jago!"
Due mesi dopo il Simon Boccanegra riveduto, venne rappresentato alla Scala il Mefistofele riveduto. Verdi mandò un telegramma: "Lietissimo del successo mando i più sentiti sinceri rallegramenti, e presto Nerone." Intanto i colloqui fra di loro sull'Otello continuavano.
Ebbe quindi finalmente luogo la prima visita a Sant'Agata, in compagnia di Ricordi, e Boito, il 10 luglio, diceva a Tornaghi:

Abbiamo definito assai bene col Maestro l'ultimo punto dubbio del lavoro, ed ora sto occupato a concretare il risultato di quello scambio d'idee.

Fu nella seconda metà del luglio o nell'agosto che il testo del finale venne completato e mandato a Sant'Agata con la lunga lettera d'accompagnamento.
Nella seconda metà d'agosto Verdi si trovava a Milano per vedere l'Esposizione di quell'anno. Boito venne a Milano e fu data forma definitiva al finale proprio forma definitiva proprio in quell'epoca.


1882 Il 17 marzo scrisse al Conte Arrivabene:

In fatto d'opinioni musicali bisogna esser larghi, e per parte mia sono tollerantissimo. Ammetto i melodisti, gli armonisti, i secca c..., e quelli che vogliono ad ogni costo seccarti per bon ton. Ammetto il passato, il presente, ed ammettere il futuro se lo conoscessi e lo trovassi buono. In una parola melodia, armonia, declamazione, canto fiorito, effetti d'orchestra, color locale (parole di cui si fa tant'uso, e che il più delle volte non servono che a coprire la mancanza del pensiero) non sono che mezzi. Fate con questi mezzi della buona musica, ed ammetto tutto, e tutti i generi. Per es. nel Barbiere la frase "Signor, giudizio per carità" questa non è melodia né armonia; è la parola declamata giusta vera; ed è musica... Amen...

Verdi continuava a corrispondere, di tanto in tanto, con Domenico Morelli, il pittore napoletano, a proposito dei personaggi, dei costumi e della messa in scena dell'Otello. Ricordi faceva allusioni sotto forma di dolci natalizi decorati con il volto del Moro in cioccolata e zucchero. Il critico francese, barone Blaze de Bury, s'informava circa la possibilità che gli venisse affidata la traduzione francese del libretto. Verdi scrisse a Boito:

Ma perché parlare ora d'un'opera che non esiste? un'opera che avrà proporzioni italiane, e chissà quante altre cose (apriti o terra!) Italiane?... Forse qualche melodia... (potendone trovare)... E la melodia è sempre Italiana, essenzialmente Italiana e non può essere che Italiana...

Verdi venne indotto a revisionare il Don Carlo per una esecuzione viennese. L'esecuzione non ebbe luogo e l'opera revisionata fu rappresentata per la prima volta alla Scala (l’Edizione III: cfr. 1867). Verdi ritornò con tagli e sostituzioni sullo spartito (quello francese!) dell'opera, facendosi comporre nuovi versi da Camille Du Locle, che vennero subito tradotti in italiano da Zanardini, il quale per l'occasione revisionò a fondo la precedente versione ritmica di de Lauzières, con interventi che divennero definitivi per tutte le successive rappresentazioni. Fu un lavoro che tenne Verdi impegnato per ben nove mesi, concluso non più a Vienna bensì a Milano nel gennaio 1884 quando alla Scala - in traduzione italiana - si ebbe in pratica un secondo battesimo dell'opera: tanto incisive ne erano le modifiche, tutte condotte su nodi drammatici vitali. Come puntualizza la musicologa Ursula Gunther, difatti, "con la sua radicale revisione Verdi eliminò più della metà dell'operaprecedente,e cioè: l'atto primo; i duetti Carlo-Rodrigo e Filippo-Rodrigo dell'atto secondo; inizio dell'atto terzo col successivo balletto; gran parte della scena Filippo-Elisabetta dell'atto quarto col successivo Quartetto; alcune battute della scena Elisabetta-Eboli; il finale quarto, a partire dalla morte di Rodrigo; la conclusione dell'atto quinto. In sostituzione di tale musica, nella partitura - una copia della stesura francese del 1867 - vennero inseriti sette nuovi brani, per complessive 268 pagine autografe.
Quell'anno ebbe luogo la prima rappresentazione del Parsifal di Wagner.


1883 Il 13 febbraio moriva Richard Wagner. In Verdi, la notizia destò grande impressione. Scrisse a Giulio Ricordi il 15 febbraio:

Triste! Triste! Triste! Wagner è morto!!! Leggendone ieri il dispaccio, ne fui, sto per dire, atterrito! Non discutiamo. - È una grande individualità che sparisce! Un nome che lascia un'impronta potentissima nella Storia dell'Arte!!!

In un'intervista pubblicata qualche anno più tardi (1887) nella Deutsche Revue, Verdi, su Wagner, che allora era ancora vivente, si espresse con una certa riservatezza, del resto comprensibile se si pensa ai giudizi pronunciati dal primo sulla musica italiana. Disse soltanto che in Tannhäuser e Lohengrin ammirava talune cose, ma che però gli sembrava che Wagner nelle sue più recenti creazioni avesse superato i confini delle possibilità espressive e che per lui - Verdi - la "musica filosofica" era incomprensibile.
Di quest'anno vi è soltanto una lettera a Boito, breve, ma molto cordiale. Questi aveva cominciato a passare parte dell'inverno a Nervi, ed era un ospite molto gradito di palazzo Doria, ogni qualvolta andava a Genova:

Se avessi potuto immaginare che nel giorno di San Giuseppe, Ella trovavasi ancora a Nervi, sarei venuto in persona a prenderlo per le gambe...

Nell'inverno successivo vi furono diversi incontri a Genova, e qualche altra piccola modifica fu apportata al libretto.
Da Sant'Agata, il 13 ottobre Verdi inviò a Clarina Maffei una lettera di condoglianze per la scomparsa del suo compagno e amico comune Luigi Toccagni:

Ho saputo tutto: ho ammirato il vostro coraggio e posso ora ben comprendere, passato il primo eccitamento nervoso, tutto l'abbattimento dell'animo vostro. Non vi sono parole che possano recar conforto a questa sorte di sventure. Ed io non vi dirò la sola stupida parola "coraggio": parola che ha sempre eccitata la mia ira quando diretta a me. Ci vuol altro! Il conforto lo troverete solo nella fortezza dell'animo vostro e nella solidità della vostra mente. [...] Ah la salute, la salute! Io non ci pensavo più da molti anni, ma non so cosa sarà nell'avvenire. Gli anni cominciano proprio ad essere troppi e penso... penso che la vita è la cosa più stupida, e quello che è ancor peggio inutile. Cosa si fa? Cosa abbiamo fatto? Cosa faremo? Stringendo ben tutto, la risposta è umiliante e tristissima: NULLA!

Da Genova, il 26 dicembre, Verdi scrisse a Giulio Ricordi:

Voi sapete come me, che vi sono quelli che hanno buona vista, ed amano i colori franchi, decisi e sinceri. Altri vi sono che hanno un po' di cateratta: ed amano i colori sbiaditi, e sporchi. Sono alla moda, ed io non disapprovo seguir la moda (perché bisogna essere del proprio tempo), ma la vorrei accompagnata sempre da un po' di criterio e di buon senso! Dunque né passato né avvenire! - È vero che io ho detto: "Torniamo all'antico!" Ma io intendo l'antico, che è base, fondamento, solidità. Io intendo quell'antico che è stato messo da parte dalle esuberanze moderne, ed a cui si dovrà ritornare presto o tardi infallibilmente. Per ora lasciamo che il torrente straripi. Gli argini si faranno dopo.

1884 La versione italiana di Don Carlos (Don Carlo), alla Scala, il 10 gennaio, ebbe come protagonista Francesco Tamagno ed riscosse grande successo. Come detto fu avviata nel 1882 e destinata in un primo tempo a Vienna. Sul podio Franco Faccio, divenuto ormai (con Boccanegra, con le riprese di Aida e del Requiem) il direttore di fiducia di Verdi.
In marzo, Verdi, che aveva settant'anni, incominciò a comporre Otello. Boito, il 20 marzo, scriveva a Giulio Ricordi:

Ho una buona notizia da darti, ma per carità non dirla a nessuno, non dirla neanche a casa tua, non dirla neanche a te medesimo; temo già di commettere una indelicatezza. Il Maestro scrive, anzi ha già scritto una buona parte del principio del primo atto e mi sembra infervorito.

E quasi subito dopo accadde un incidente che fu quasi fatale. In occasione della rappresentazione del Mefistofele a Napoli i giornali divulgarono la falsa notizia secondo la quale Boito avrebbe dichiarato che aveva scritto il libretto dell'Otello contro la sua volontà, ma che quando era giunto alla fine del suo lavoro gli era spiaciuto di non poterlo musicare egli stesso. Verdi s'irrigidì: la penna gli cadde dalle mani. Ma agì nel modo più generoso e delicato che gli fu possibile. Scrisse a Faccio che, pur essendo quel libretto di sua proprietà, glielo offriva in dono qualora egli intendesse musicarlo:

Il peggio si è che Boito, rammaricandosi di non poterlo musicare lui stesso, fa naturalmente supporre, com'egli non isperasse vederlo da me musicato com'egli vorrebbe. Ammetto perfettamente questo, lo ammetto completamente, ed è perciò che io mi rivolgo a voi, al più antico, al più saldo amico di Boito, affinché quando ritornerà a Milano gli diciate a voce, non in iscritto, che io senz'ombra di risentimento, senza rancore di sorta gli rendo intatto il suo manoscritto.

Poi finalmente Verdi riprese la composizione dell'Otello.

Boito, che aveva visto la dichiarazione attribuitagli dai giornali, ma che aveva sperato fosse sfuggita a Verdi, ne fu terrorizzato. La sua risposta è uno dei brani più profondamente commoventi e sentiti che egli abbia mai scritto. Il suo unico desiderio, egli diceva, era stato quello di avere il suo libretto musicato da Verdi; l'aveva scritto soltanto per la gioia di vedere Verdi riprendere la composizione, e per la gloria di diventare suo collaboratore:

Quel tema e il mio libretto le son devoluti per sacro santo diritto di conquista. Lei solo può musicare l'Otello, tutto il Teatro che Ella ci ha dato afferma questa verità; se io ho saputo intuire la potente musicalità della tragedia Shakespeariana, che prima non sentivo, e se l'ho potuta dimostrare coi fatti nel mio libretto gli è perché mi son messo nel punto di vista dell'arte Verdiana, gli è perché ho sentito scrivendo quei versi ciò ch'Ella avrebbe sentito illustrandoli con quell'altro linguaggio mille volte più intimo e più possente, il suono... [...] Ma per carità Lei non abbandoni l'Otello, non lo abbandoni. Le è predestinato, lo faccia, aveva già incominciato a lavorarci ed io ero già tutto confortato e speravo già di vederlo, in un giorno non lontano, finito. Lei è più sano di me, più forte di me, abbiamo fatto la prova del braccio e il mio piegava sotto il suo, la sua vita è tranquilla e serena; ripigli la penna e mi scriva presto: Caro Boito, fatemi il piacere di mutare questi versi ecc. ecc. ed io li muterò subito con gioia e saprò lavorare per Lei, io che non so lavorare per me, perché Lei vive nella vita vera e reale dell'Arte, ed io nel mondo delle allucinazioni.

La situazione era pericolosa perché Verdi il 26 aprile scrisse a Boito:

Se ne è parlato troppo! Troppo il tempo trascorso! Troppo i miei anni d'età! Troppo i miei anni di servizio! Che il pubblico non abbia a dirmi troppo evidentemente Basta! La conclusione si è, che tutto questo ha sparso qualche cosa di freddo su quest'Otello ed ha irrigidita la mano che aveva cominciato a tracciare alcune battute! Cosa sarà in seguito? Non lo so!

Un passo falso avrebbe condotto ad un disastro. Ma Boito lo convince finalmente a riprendere in mano la penna:

Mi sono risovvenuto che Lei non era contento d'una scena di Jago nel second'atto in doppi quinari e che desiderava una forma più spezzata, meno lirica; io Le proposi di fare una specie di Credo scellerato e ho tentato di scriverlo in un metro rotto e non simetrico. [...] Intanto se non lo crede assolutamente sbagliato, La prego di mettere questo brano insieme alle altre pagine dell'Otello. Lo ho fatto per mio conforto e per mia soddisfazione personale, perché sentivo il bisogno di farlo.

Verdi non poteva lasciare questa lettera senza risposta:

Bellissimo questo Credo; potentissimo e shasperiano in tutto e per tutto. Naturalmente dovrete legarlo con qualche verso alla scena precedente fra Cassio e Jago: ma a questo penserete più tardi. [3 maggio]

Da Sant'Agata, il 10 giugno Verdi scrisse al Conte Arrivabene:

Ho sentito a dir molto bene del musicista Puccini [in quel periodo si rappresentavano Le Villi]. Ho visto una lettera che ne dice tutto il bene. Segue le tendenze moderne, ed è naturale, ma si mantiene attaccato alla melodia che non è moderna né antica. Pare però che predomini in lui l'elemento sinfonico! Niente di male. Soltanto bisogna andar cauti in questo. L'opera è l'opera: la sinfonia è la sinfonia, e non credo che in un'opera sia bello fare un squarcio sinfonico, pel sol piacere di far ballare l'orchestra. Dico per dire, senza nissuna importanza, senza la certezza d'aver detto una cosa giusta, anzi colla certezza d'aver detto cosa contraria alle tendenze moderne. Tutte le epoche hanno la loro impronta. L'istoria dice più tardi quale l'epoca buona e quale la cattiva.

Boito si recò a Sant'Agata, con l'amico Giacosa, per tre giorni, alla fine di settembre. Poi il 9 dicembre, di nuovo da Genova, ricevette la notizia che stava aspettando: "Pare impossibile, ma pure è vero!!! Mahh!!! M'occupo, e scrivo!" Verdi chiedeva altri versi tanto per Jago nel secondo atto. Boito, esaltatissimo, li forniva all'istante:

La sua lettera è stata una gioia che ho tenuta tutta per me, ma che non mi ha sorpreso. Non si sfugge al proprio destino e, per una legge d'affinità intellettiva, quella tragedia di Shakespeare Le è predestinata.

Tutto andava di nuovo bene.


1885 Verdi probabilmente partì da Genova alla fine d'aprile; il 2 maggio era a Milano, dove sì fermò dal dentista; annunciava il suo felice arrivo a Sant'Agata, a Clarina Maflei, il 6 maggio. Le lettere di quell'anno sono assai scarse. Interessante quella al Conte Arrivabene spedita da Milano il 2 settembre:

Ho ricevuto anche il fascicolo che m'hai mandato, Ars Nova. Io non ho avuto tempo di leggerlo attentamente ma da quanto parmi è uno dei soliti scritti che non discutono, ma sentenziano con una intolleranza incredibile. Nell'ultima pagina leggo fra le altre questa frase: "Se credi che la musica sia l'espressione di sentimenti d'amore, di dolore etc. etc. etc. abbandonala... non è fatta per te!!!" E perché non potrei credere che la musica sia espressione di amore, di dolore, etc. etc.?? E prima egli cita come non plus ultra della musica la Messa di Bach, la nona sinfonia di Beethoven, la messa di Papa Marcello. Per me non mi sorprenderebbe affatto se qualcuno venisse a dirmi che la Messa di Bach, per es., è un po' arida; che la sinfonia nona è scritta male in alcuni punti, e che fra le nove sinfonie preferisco alcuni tempi che non sono della nona; e che si trovano in Palestrina cose anche migliori della Messa di Papa Marcello. Perché no? Se uno avesse quest'opinione perché non potrebbe essere un eletto? e perché la musica non potrebbe esser fatta per lui?... Del resto io non discuto: non so nulla: non voglio saper nulla. So però che, se nascerà l'uomo dell'Ars Nova fra noi, rinnegherà molte cose del passato, e disprezzerà le pretensiose utopie del presente, che non fa altro che sostituire difetti e convenzioni nuove a difetti e convenzioni d'una volta, coprendo con una veste barocca la nullità del pensiero...

Vi fu un soggiorno a Montecatini probabilmente in luglio e a Tabiano probabilmente in agosto. Ma durante tutto questo tempo, quattro mesi e mezzo, dalla fine di aprile a metà settembre, egli non lavorò all' Otello.
Scrisse Boito a Verdi mercoledì 9 settembre 1885 (NON 1883, come sostengono alcuni biografi):

Il desiderio che ho di rivederla è grande ma il timore che ho di disturbarla è altrettanto grande. Se Lei mi assicura che non l'annoio mi decido a piombare Sant'Agata domenica ventura, ma se la mia venuta potesse turbare, anche in minimo grado, la bella tranquillità della sua casa, o ciò che sarebbe peggio, il corso de' suoi lavori, ella me lo dovrebbe dire apertamente con quella sua schiettezza che mi piace tanto, ed io sarei altrettanto lieto della sua franca parola come della sua cortese ospitalità. E la stessa raccomandazione io faccio alla Signora Giuseppina.

E Verdi il giorno dopo:

Voi non potete disturbare mai! Venite: e farete un piacere grande tanto a me che alla Peppina. E non abbiate nemmeno timore di interrompere il corso dei miei lavori, come dite voi! Ahimè; ahimè! Da che sono qui (ho rossore a dirlo) non ho fatto nulla! Un po' la campagna, i bagni, il caldo eccessivo, e... diciamolo pure, la mia inimmaginabile poltroneria hanno posto ostacolo. Dunque a domenica.

La conversazione con Boito sembra avesse avuto un potere straordinariamente stimolante, poiché il 5 ottobre, tre sole settimane dopo la sua visita, Verdi annunciava: "Ho finito il quart'atto e respiro?" Vediamo allora che l'Otello, nelle sue parti essenziali, fu completato in tre periodi relativamente brevi di composizione: il primo, brevissimo, a Genova nel marzo 1884; il secondo, il principale, a Genova dal dicembre 1884 all'aprile 1885; il terzo, a Sant'Agata dalla metà di settembre all'inizio dell'ottobre 1885. Ai primi di ottobre del 1885, Otello era composto e il musicista era pronto per la strumentazione e la revisione che occuparono un altro anno, con intervalli, e durante quel periodo vi fu qualche revisione, particolarmente del primo atto, e la messa a punto di dettagli lasciati sospesi nello schema di composizione.
Grave lutto per Verdi: la morte dell'amico Andrea Maffei, ex marito di Clarina.


1886 Nardi, il biografo di Boito, afferma che "le fatiche di Boito per l'Otello riempivano, si può dire, anche tutto l'anno '86... Ricominciavano, fin dall'11 gennaio, le lettere di richiesta di varianti al libretto. In luglio, si discuteva ancora intorno a quel benedetto pezzo d'insieme, pel concertato del terzo atto". È fuori dubbio che Boito ebbe molto da fare quell'anno, cercando una possibile Desdemona, discutendo scenari e costumi con il disegnatore di scene Edel e, nell'autunno, imbarcandosi con molto coraggio in una traduzione in francese del terzo e quarto atto (mentre Du Locle lavorava al primo e al secondo). Ma giudicando dalle lettere, la revisione del testo italiano, una volta finito lo schema di composizione, si ridusse a ben poco. L'11 gennaio Verdi chiese se Montano non dovesse prendere parte al gran finale e fu lieto di accettare la spiritosa spiegazione di Boito secondo la quale Montano era confinato a letto per le ferite riportate nei primo atto, e così non poteva essere presente. Verdi chiese pure che quattro righe venissero ridotte a due, in quegli scambi di recitativi precedenti il finale vero e proprio. Secondo una lettera di Muzio a Ricordi il duetto d'amore alla fine del primo atto venne terminato in marzo, quando fu suonato da Verdi per Boito alla presenza di Muzio. In maggio Verdi concepì la magnifica entrata di Otello nel primo atto, con l'Esultate cantato dall'alto delle fortificazioni. Qui fece un taglio di quattro righe, con l'entusiastica approvazione di Boito. In luglio il medesimo Boito propose due brevi aggiunte, di nuovo negli scambi dei recitativi precedenti il finale del terzo atto, per meglio giustificare la presenza di Desdemona, ma, nonostante quello che dice Nardi, non vi sono testimonianze di cambiamenti dell'insieme. In settembre Verdi decideva di rimettere quattro righe, che prima erano state tolte, nel duetto fra Otello e Desdemona nel terzo atto. Il 9 settembre, riferiva:

Domattina manderò alla Casa Ricordi completamente finiti tutto il Primo atto, e tutta la scena VI del Terzo; e così col quarto già spedito, sono pronti forse 3 quinti del Moro.

Il 1º novembre annunciava: "È finito!", ma poi sembra che trovasse ancora qualcosa da ritoccare. Boito gli mandò delle varianti e Verdi lo ringrazia il 18 dicembre:

Grazie dei due versi. Ho consegnato adesso, adesso a Garignani gli ultimi atti d'Otello! Povero Otello! non tornerà più qui!

Boito rispondeva:

Il Moro non verrà più a battere alla porta di palazzo Doria, ma Lei andrà a trovare il Moro alla Scala. Otello è. Il gran sogno s'è fatto realtà.

In dicembre fu anche rappresentata l’Edizione IV (cfr. 1867) del Don Carlo, a Modena. Senza intervento diretto di Verdi ma ovviamente con la sua approvazione, andò in scena un Don Carlo che ripristinava il primo atto così come era stato pubblicato da Ricordi - in traduzione italiana - subito dopo la prima parigina, e seguendo in ogni punto, dal second'atro in poi, le modificazioni apportate per la versione scaligera di due anni prima.


1887 Attesa eccitata, agitazione festosa per un avvenimento che coinvolse l'intera città. Verdi e Giuseppina si trasferirono a Milano ai primi di gennaio; la preparazione dei cantanti e le prime prove d'orchestra furono dirette da Verdi, ma la recita avvenne sotto la direzione di Faccio. A quindici anni da Aida, a quattro dalla morte di Wagner, Otello è una gioia e una rivelazione per il mondo musicale. Quando, dopo la prima rappresentazione diretta da Faccio, il 5 febbraio, Verdi prese la mano di Boito e lo condusse con sé sul palcoscenico della Scala per dividere con lui uno dei più clamorosi tributi di pubblico che quel teatro avesse mai visto. L'ode All'arte italiana, di quasi ventiquattr'anni prima, era stata finalmente espiata, seppellita e dimenticata.
Blanche Roosevelt, una cantante americana che era a Milano in quel periodo, pubblicò un libro su Verdi in cui vi è un articolo sull'attesa che precedette la prima esecuzione di Otello.

Otellopolis, 5 febbraio 1887
Finalmente, finalmente il grande giorno è venuto e passato, e Verdi ha aggiunto una corona di gioielli al suo diadema di trionfi. Non posso descrivere l'agitazione che dominava la città prima di sera. [...] Le strade non esistevano più - o per lo meno non si poteva passare e la massa delle case non dividevano architettonicamente la città, poiché ogni cosa si confondeva, come il miele, con gli esseri umani, esseri umani, esseri umani! [...] Le finestre dei palazzi erano una massa di teste in movimento: i balconi erano pieni di una umanità eccitata e i tipici attici italiani, dove la gente mangia, beve e grida erano letteralmente neri di forme in movimento. [...] La piazza della Scala era una visione da non perdere e le grida di "Viva Verdi! viva Verdi!" erano così assordanti che ho dovuto mettermi del cotone nelle orecchie. Povero Verdi! Se fosse stato qui lo avrebbero fatto a pezzi, poiché la folla, nel suo entusiasmo, raramente distingue tra la gloria e l'assassinio. [...] Ieri sera il nostro vecchio personaggio è rimasto fermo al suo posto fino a quando non ha visto entrare ogni componente dell'orchestra; quando tutti si sono seduti, aperto e disteso un fazzoletto di seta sulle ginocchia e con un amichevole cenno della mano ha salutato a destra e a sinistra i propri fratelli fossili come per dire: "Mi vedete, sono qui. Avreste mai potuto immaginare l'esecuzione di
Otello senza la mia presenza?" [...] L'apparizione di Faccio sul podio, che tiene splendidamente da tanto tempo, fu il segnale per un uragano di applausi. L'orchestra attaccò i famosi accordi che descrivono la tempesta, seguiti dall'immediato levarsi del sipario. Le scene, i costumi, i cori e l'orchestra furono quasi perfetti; la compagnia era invece piuttosto debole. Victor Maurel è l'unico autentico artista dell'opera ed è francese. [...] Cantò come non potevano immaginare nemmeno i suoi migliori amici e recitò con quel consumato mestiere che sempre sa donarci. [...] Tamagno, il tenore, nella parte di Otello, non cantava, ma belava. [...] La signora Pantaleone è una carissima persona, ma come Desdemona doveva essere protestata alla prova generale. La sua voce è, in natura, bella e drammatica ma dell'arte del canto ha le stesse cognizioni che io ho in astronomia. [...] Le ovazioni a Verdi e a Boito raggiunsero l'entusiasmo. A Verdi fu donato un album d'argento con le firme e i biglietti da visita di molti cittadini milanesi. Fu chiamato alla ribalta una ventina di volte, e all'ultima chiamata furono sventolati cappelli e fazzoletti mentre il pubblico si alzava in piedi. L'emozione raggiunse culmini indescrivibili e molti piangevano. La carrozza di Verdi fu trainata all'albergo dal pubblico. Verdi era osannato e invocato; alle cinque della mattina non mi ero ancora addormentata perché la folla gridava e strillava: "Viva Verdi viva Verdi!" Chi può dire che questo grido non sia riecheggiato in tutto il mondo? A settantaquattro anni questo secondo conquistatore poteva a buon diritto esclamare: "Veni, vidi, vici, Verdi!"

Arturo Toscanini suonava il violoncello in orchestra.
Verdi aveva settantaquattro anni: in quegli ultimi anni aveva perduto, uno a uno, la maggior parte dei suoi vecchi amici. Giulio Carcano era morto nel 1884, Maffei, come detto, nel 1885; la morte di Clarina Maffei, in seguito a meningite, il 13 luglio 1886, era stato un durissimo colpo; un altro vecchio e fido amico che non era riuscito a vedere la rappresentazione dell'Otello, era il Conte Arrivabene. Poco dopo, altri dovevano seguire. Tito Ricordi nel settembre 1888, Florimo nel dicembre dello stesso anno, e a quindici giorni l'uno dall'altro, Piroli e il fido Emanuele Muzio nel 1890. A riempire il vuoto sempre crescente attorno a lui vi era ancora Giuseppina, sempre più vecchia e fragile, con la sorella Barberina, l'eterna invalida; vi era Teresa Stolz, allegrona, ciarliera e grassa; vi era Maria Carrara Verdi con la sua famiglia in aumento; vi erano Giulio Ricordi e De Amicis a Genova, e pochissimi altri; ma soprattutto vi era Boito, che si era assicurato dal Maestro un affetto veramente paterno. È stata una fortuna per noi, e per Verdi, che egli fra la nuova generazione trovasse questo compagno dall'intelligenza così sottile, dalla devozione cosi altruistica. Più si conosce la vita di Boito, più egli ci appare come uno dei più nobili e puri spiriti dell'intero movimento romantico.
Il ricavato dell'Otello, una cifra di 150.000 lire, più le solite percentuali sui noli e la vendita delle partiture, mise Verdi in grado di continuare le notevoli opere di carità che da lungo tempo aveva progettato, ma attuato soltanto in parte. Negli ultimi anni aveva costruito un ospedale per il comune di Villanova d'Arda, di cui fa parte Sant'Agata. Villanova si trova fuori del confine della provincia di Parma, così che i contadini ammalati non erano ammessi nel vicino ospedale di Busseto, ma trasportati a più di trenta chilometri di strada a Piacenza.


1888 Dal 6 novembre di quell'anno, quando venne inaugurato il nuovo ospedale, venne loro risparmiato questo viaggio lungo e alle volte fatale. Verdi e il comune si divisero le spese del mantenimento di questo ospedale.
A Giulio Ricordi, da Sant'Agata, scrisse 3 giorni:

Vedo che i giornali stanno parlando di un Giubileo!!... [la prima rappresentazione dell'Oberto risale al 17 novembre 1839] Misericordia! Fra le tante cose inutili che si fanno al mondo, questa è la più inutile di tutte, ed io, che pur ne ho commesse tante, detesto in massa tutte le inutilità. Più è cosa impraticabile, ed è un'imitazione forestiera che fa supporre quello che non è, quello che non può essere, né deve essere! - Nei teatri organizzati a repertorio questo giubileo, inutile sempre, sarebbe però fattibile, ma da noi non può riuscire che un fatto senza importanza, e meschino. Si parla anche di Artisti Stelle! Uhm!!... La Patti, che è vera artista, potrebbe forse in un momento di pazzia, dire di sì: ma gli altri, anche senza rispondere un no, troverebbero al momento opportuno, pretesti, impegni magari in un mondo sconosciuto. Voi che siete, quando lo volete, un uomo ragionevole, combattete con due righe di stampa quest'idea come inutile, e irrealizzabile. A voi, autorevole in queste faccende, si crederà: e se pur fosse necessario fare qualche concessione, proponete di fare il Giubileo 50 giorni dopo la mia morte! Tre giorni bastano, per coprire d'oblio uomini e cose! Il Gran Poeta dice: "Cielo! morto da due mesi, e non ancora dimenticato!..." Io confido nei tre giorni addio.

Pare che l'dea fosse venuta a Boito, che l'aveva suggerita a Giulio e questi al sindaco milanese e a qualche giornalista. Allo stesso Boito scrisse il 17 febbraio: "Questo Giubileo, oltre essere sommamente spiacevole per me, non e utile né pratico."

1889 Dopo il miracolo di Otello, a Verdi venne subito e insistentemente richiesto di scrivere un'altra opera. Si diceva anche che fosse già al lavoro su un nuovo soggetto. Ma Verdi non volle parlare, ritornò alla sua vita di agricoltore a Sant'Agata. Per i due anni che seguirono si occupò dei suoi affari di campagna e, tra le altre cose, del nuovo ospedale che aveva fatto costruire a Villanova, vicino a Sant'Agata. Nel gennaio di quell'anno cominciarono anche le trattative per l'acquisto di un'area a Milano per l'ultima e la più grande delle sue opere, la Casa di riposo per musicisti. L'architetto doveva essere il fratello di Boito, Camillo, con il quale Verdi era già in contatto dal gennaio 1888; l'edificio venne però terminato undici anni dopo. La coscienza sociale di Verdi non si accontentò di un ospedale per la sua gente. Era un periodo di crisi, molti contadini dovevano cercare lavoro in città. Per rimediare alla situazione nella sua zona, Verdi ridusse gli affitti nelle sue fattorie, migliorò le proprietà introducendo un nuovo sistema di irrigazione e adottò altri provvedimenti per creare nella zona nuovi posti di lavoro.
Il 14 luglio scrisse a Franco Faccio, aveva diretto Otello a Londra il 5 luglio, da Montecatini:

Ora Voi confermate quelle notizie, e mi fà piacere, quantumque alla mia età, e nelle condizioni attuali della nostra musica, un successo non giova a nulla. Voi parlate di trionfo di arte Italiana!! V'ingannate! I nostri Giovani Maestri non sono buoni Patrioti. Se i Tedeschi partendo da Bach sono arrivati a Wagner, fanno opera di buoni Tedeschi e stà bene. Ma noi discendenti di Palestrina, imitando Wagner, commettiamo un delitto patrio-musicale, e facciamo opera inutile, anzi dannosa. So che si è parlato molto bene di Boito, e questo mi fà il più gran piacere, ché lodi tributate all'Otello nella patria di Shaspeare [sic] valgono molto.

In un incontro avvenuto fra il 1898 e il 1899 con Felix Philippi del Berliner Tageblatt, avendogli il giornalista tedesco espresso la propria ammirazione per Wagner, Verdi dichiarò:

Fate bene a onorare il vostro maestro. È uno dei più grandi geni. Egli ha reso felici gli uomini e ha donato loro tesoro di incommensurabile e inalterabile valore. Voi capirete se io come italiano non comprendo ancora tutto. Ciò deriva dalla nostra ignoranza della saga tedesca, dalla eterogeneità del materiale wagneriano, dal misticismo che vi predomina, dal mondo pagano con i suoi dei e le sue Norne, i suoi giganti e i suoi gnomi. Ma io sono ancora giovane - disse sorridendo l'ottantaseienne maestro con una bonarietà veramente genuina - cerco incessantemente di penetrare nel sublime mondo wagneriano. Gli sono debitore di innumerevoli ore di meravigliosa esaltazione.

E alla richiesta del giornalista a quali lavori wagneriani si sentisse più vicino, se appunto alle opere del primo periodo, Verdi rispose:

L'opera che ha sempre suscitato la mia più grande ammirazione è il Tristano. Di fronte a questa titanica costruzione resto sempre con immenso stupore: non si riesce a credere che l'abbia concepita e scritta un essere umano. Penso che il secondo atto sia una delle creazioni più sublimi dello spirito umano nel campo dell'invenzione musicale, in particolare per la tenerezza e la sensualità dell'espressione musicale e per la geniale strumentazione. Questo second'atto è meraviglioso e immerso completamente nei suoi pensieri, ripeteva sempre: Meraviglioso... semplicemente meraviglioso!...

La storia del Falstaff non ha quella tensione drammatica della storia della creazione dell'Otello. Vi era ormai una perfetta, reciproca fiducia fra il compositore e il poeta e fu relativamente facile persuadere Verdi ad imbarcarsi, in tutta segretezza e per suo proprio divertimento e piacere, in un'opera comica. Boito sembra aver considerato tutto fin dall'inizio; sapeva che Verdi, all'età di quasi ottant'anni, poteva ancora creare quella partitura scintillante. Il progetto venne prima discusso fra di loro a Milano, nelle sue visite per l'acquisto dell'area per la Casa di Riposo. Poi Verdi era partito per la sua cura estiva annuale a Montecatini, dove ricevette lo schema del libretto del Falstaff da Boito:

Nei primi giorni ero disperato. Schizzare i tipi con pochi segni, mover l'intrigo, estrarre tutto il sugo di quella enorme melarancia Shakespeariana senza che nel piccolo bicchiere guizzino i semi inutili, scrivere colorito e chiaro e corto, delineare la pianta musicale della scena affinché ne risulti un'unità organica che sia un pezzo di musica e non lo sia, far vivere l'allegra commedia da cima a fondo, farla vivere d'un'alleria naturale e comunicativa, è difficile, difficile, difficile, ma bisogna che sembri facile, facile, facile.

Verdi fu entusiasta dell'abbozzo. Era la commedia che aveva sempre sperato di trovare dal tempo di Un giorno di regno, cinquant'anni prima. Cominciò immediatamente una vivace corrispondenza.
Ricevuto l'abbozzo di Falstaff Verdi scrisse immediatamente a Boito:

Benissimo! Benissimo! Prima di leggere il vostro schizzo ho voluto rileggere Le Allegre Comari, le due parti dell'Enrico IV, e l'Enrico V; e non posso che ripetere benissimo, ché non si poteva far meglio di quello che avete fatto voi. Peccato che l'interesse (non è colpa vostra) non aumenti sino alla fine. Il punto culminante è al finale del second'atto; ed è vera trovata comica l'apparizione del muso di Falstaff fra la biancheria ecc. Temo anche che l'ultimo atto, malgrado quel po' di fantastico, riesca piccolo in tutti quei piccoli pezzi, canzoni, ariette ecc. ecc. Voi fate ricomparire Bardolfo!... e perché non fareste ricomparire anche Pistola e tutti e due, per commettere qualche piccola o grossa biricchinata? Dei matrimonj ne fate due soli! Tanto meglio ché si legano poco all'intrigo principale. Le due prove dell'acqua e del fuoco bastano per ben punire Falstaff: nonostante mi sarebbe piaciuto di vederlo anche ben bastonato. Dico così per dire... e non badate a quel che dico. Ora abbiam ben altre cose a comunicarci, onde questo Falstaff o Comari che era due giorni fa nel mondo dei sogni, ora va prendendo corpo, e può diventare una realtà! Quando? Come?... Chi sà! Ve ne scriverò domani o dopo. [6 luglio]

Il giorno seguente Verdi espresse un paio di dubbi sul progetto. Si rendeva conto della sua tarda età e desiderava che l'amico portasse a termine il suo Nerone (che fu rappresentato incompiuto e postumo nel 1924; Boito morì nel 1918):

Voi nel tracciare Falstaff avete mai pensato alla cifra enorme de' miei anni? So bene che mi risponderete esagerando lo stato di mia salute, buono, ottimo, robusto... E sia pur così: ciò malgrado converrete meco che potrei esser tacciato di grande temerità nell'assumermi tanto incarico. E se non reggessi alla fatica? E se non arrivassi a finire la musica? Allora voi avreste sciupato tempo e fatica inutilmente! Per tutto l'oro del mondo, io non lo vorrei. Quest'idea mi riesce insopportabile; e tanto più insopportabile, se voi scrivendo Falstaff, doveste, non dico abbandonare, ma solo distrarre la vostra mente da Nerone, o ritardare l'epoca della produzione. [7 luglio]

Ma nonostante la prudenza che aveva tentato di dimostrare, la gioia di Verdi era incontenibile: "Che gioia! poter dire al pubblico: Siamo qua ancora!! A noi!" Boito lo rassicurerà:

Lo scrivere un'opera comica non credo che la affaticherebbe. La tragedia fa realmente soffrire chi la scrive, il pensiero subisce una suggestione dolorosa che esalta morbosamente i nervi. Ma lo scherzo e il riso della commedia esilarano la mente e il corpo. "Un sorriso aggiunge un filo alla trama della vita". Non so se questo sia il periodo esatto del Foscolo, ma è certo una verità. Lei ha una gran voglia di lavorare, questa è una prova indubbia di salute e di potenza. Le Ave Marie non le bastano, ci vuol dell'altro! Lei ha desiderato tutta la vita un bel tema d'opera comica, questo è un indizio che la vena dell'arte nobilmente gaia esiste virtualmente nel suo cervello; l'istinto è un buon consigliere. C'è un modo solo di finir meglio che coll'Otello ed è quello di finire vittoriosamente col Falstaff.

Verdi non aveva bisogno di essere convinto e, a giro di posta scriveva:

Amen; e così sia! Facciamo dunque Falstaff! Non pensiamo pel momento agli ostacoli, all'età, alle malattie! Desidero anch'io di conservare il più profondo segreto: parola che sottoscrivo anch'io tre volte per dirvi che nissuno deve saperne nulla!... [10 luglio]

E incoraggiava Boito perché incominciasse subito il libretto. Poche settimane dopo scriveva sperando che Boito fosse al lavoro, perché si era sorpreso di aver già incominciato a comporre. Il 18 agosto Verdi ne informò il librettista: 



Voi lavorate, spero? Il più strano si è che lavoro anch'io!... Mi diverto a far delle fughe!... Sì signore; una fuga... ed una fuga buffa, che potrebbe star bene in Falstaff. Ma come una fuga buffa? perché buffa? direte voi?... Non so come né perché ma è una fuga buffa! 



Sembra così probabile che la fuga conclusiva, "Tutto nel mondo è burla", sia stata la primissima parte dell'opera che egli scrisse, perfino prima di averne le parole. Boito scrisse il libretto che Verdi accettò senza alcuna variante e che incominciò subito a musicare. A marzo aveva finito il primo atto. Per mesi si adoperò affinché la composizione di Falstaff rimanesse segreta: non ne sapeva nulla nemmeno Giulio Ricordi. Boito aveva promesso di portare "almeno i primi due atti" a Sant'Agata in ottobre. Aveva bisogno di tutto luglio, diceva, per fissare alcuni dettagli del suo lavoro. Il 1° agosto mandava un biglietto: "Eccomi pronto. La prego di rinviarmi lo schema del Falstaff: rileggendolo e ripensandolo lavorerò più facilmente." Per la fine di ottobre i primi due atti del libretto erano quasi pronti e, all'inizio di novembre, Boito li portò a Sant'Agata, dove si fermò una settimana.


1890 Il terzo atto fu terminato da Boito nella prima settimana del mese di marzo. L'8 dello stesso mese Verdi mandò al librettista la somma convenuta "non come compenso, ma come segno di gratitudine d'aver scritto per me questo stupendo Falstaff". Nel frattempo non era stato in ozio. Il 17 marzo Verdi annunciava:

Il primo atto è finito senza nissun cambiamento della poesia; tale e quale me l'avete dato voi. Credo che lo stesso avverrà del secondo atto a meno di qualche taglio nel Concertato come voi stesso diceste. Non parliamo ora del terzo, ma credo che non vi sarà molto da fare nemmeno in questo.

Un'ombra s'addensò sopra questa gioiosa collaborazione con la malattia di Faccio, il quale, se tutto fosse andato bene, avrebbe probabilmente diretto la prima esecuzione della nuova opera. Gran parte delle preoccupazioni e responsabilità derivanti da questa tragedia ricaddero sulle spalle di Boito. Tutto questo accadeva durante il lungo "romanzo d'amore" con Eleonora Duse. La sua angoscia, che nascondeva agli altri, trapela da alcune lettere scritte a lei:

Se tu sapessi in quanto dolore e in quanto orrore io vivo, mi risparmieresti le tue parole cattive e i tuoi sospetti. L'amico malato è ritornato pazzo. Non c'è più speranza. È uno spavento vederlo. Passo le mie giornate, tutte le mie ore, accanto a lui... È una cosa d'orrore. Continuerò a stargli vicino più che potrò, spero di potermi abituare a quel supplizio.

Mentre Verdi stava lavorando al Falstaff anche Emanuele Muzio, "amico sincero, devoto da circa cinquant'anni", moriva a Parigi. "Lascio considerare a voi il dolore" scriveva alla cantante Maria Waldmann. "E così ho ben poca volontà per scrivere un'opera che ho cominciata, ma poco avanzata." Ma andava avanti, anche se era vicino agli ottanta, anche se soffriva di frequenti depressioni. Circostanze del genere erano tutto fuorché favorevoli per lavorare ad un'opera buffa, ma il 21 maggio Boito mandava a Verdi una variante del testo della fuga finale. Sarebbe andato a Sant'Agata dopo un viaggio a Parma, diceva, e sperava di sentire della musica nuova. Ma Verdi dovette dirgli: "Ahi! Ahi! Non ho fatto nulla!... salvo qualche punto e virgola aggiunti e cambiati in quello che era già fatto."
Annunciando un'altra visita a Parma, più tardi in quello stesso anno, Boito scriveva:

Questo mondo è un ammasso di tristezze, le condizioni del nostro amico si fanno sempre più fatali, il vecchio padre minaccia di andarsene, è ammalatissimo. Vediamo di star sani, caro Maestro, più che possiamo, e di dimenticare la vita lavorando.

Rispondendo alle domande della gente, Verdi insisteva sul fatto che si stava solo divertendo a scrivere della musica, e in generale minimizzava i progressi in atto.


1891 Finalmente Ricordi fu messo al corrente, ma Verdi si rifiutò di discutere la possibilità di rappresentare l'opera alla quale attendeva con tanto entusiasmo:

Io mi sono messo a scrivere Falstaff semplicemente per passare il tempo, senza idee preconcette, senza progetti; ripeto, per passare il tempo! Nient'altro! Ora il parlare che se ne fa e le proposizioni che vi fanno, quantunque vaghe, le parole che vi strappano, finiscono a diventare obbligazioni ed impegni che io non voglio assolutamente assumermi.

Qualche mese più tardi, comunicava a Ricordi che non era convinto di rappresentare il Falstaff in un teatro grande come La Scala: "Ho scritto per piacer mio e per conto mio, e credo che invece della Scala bisognerebbe rappresentarlo a S. Agata?" Nulla fu fatto nei primi mesi dell'anno. "Io non ho ancora potuto riscaldare la macchina" scriveva a Boito. Ma le ruote tornarono lentamente a mettersi in moto:

Il Pancione [Falstaff] dopo quella tal malattia di 4 mesi è smilzo, smilzo! Speriamo di trovare qualche buon cappone per rigonfiargli l'epa!... Tutto dipende dal medico!... Chi sa! Chi sa!

Le visite di Boito avevano sempre un effetto stimolante. In maggio, a Sant'Agata, Boito lesse a voce alta il libretto del suo Nerone, che Verdi trovò "splendido", e del quale scrisse entusiasticamente a Ricordi. Quindi, in giugno, arrivò questo annuncio:

Il Pancione è sulla strada che conduce alla pazzia. Vi sono dei giorni che non si muove, dorme ed è di cattivo umore; altre volte grida, corre salta, fà il diavolo a quattro... Io lo lascio un po' sbizarrire, ma se continuerà gli metterò la museruola e la camicia di forza.

E Boito:

Evviva! Lo lasci fare, lo lasci correre, romperà tutti i vetri e tutti i mobili della Sua camera, poco importa: Lei ne comprerà degli altri. Sfracellerà il pianoforte; poco importa: Lei ne comprerà un altro; vada tutto a soqquadro! Ma la gran scena sarà fatta! Evviva! Dai! Dai! Dai! Che pandemonio!!! Ma un pandemonio chiaro come il sole e vertiginoso come una casa di pazzi!

Faccio morì il 21 luglio. "L'amico riposa in pace" scrisse Boito. "Non poteva guarirlo che la morte e la morte lo ha veramente guarito." Gran parte delle preoccupazioni e responsabilità derivanti da questa tragedia ricaddero sulle spalle di Boito. "Tristi giornate, caro Maestro" egli scriveva. "Era così buono e cosi schiettamente onesto. Avevamo studiato insieme..."
Due atti e mezzo erano completati per settembre, e Verdi decideva di procedere con l'istrumentazione. Scrisse a Boito il 10 settembre:




Caro Boito una parola sola: Rettifico: Non è vero che io abbia finito il Falstaff. Sto lavorando a mettere in partitura tutto quello che ho fatto perché temo di dimenticare alcuni squarci ed impasti d'istromenti. Dopo farò la prima parte del Terz'atto... ed allora amen!... Questa parte è più breve e meno difficile delle altre...


1892 In aprile interruppe il lavoro per recarsi a Milano a dirigere l'orchestra della Scala per il centenario della nascita di Rossini: fu l'ultima volta che Verdi diresse una orchestra in pubblico. Il primo atto dell'opera di Verdi, completo di partitura, fu inviato a Ricordi in agosto; il terzo atto seguì in settembre. Non è chiaro quando sia stata scritta la musica della prima parte del secondo atto, l'ultima ad essere composta, né precisamente quando sia stata completata anche la partitura di questo atto. Boito, come nel caso dell'Otello, stava pensando agli interpreti, ai costumi, agli scenari; stava anche accingendosi al compito estremamente difficile della traduzione del libretto in francese, questa volta in collaborazione con Paul Solanges. Ma nel corso del mese di maggio Verdi si rifiutava ancora a qualsiasi sollecitazione:

Troppo presto, troppo presto pensare ai costumi e scenari per Falstaff. E prima di tutto: Si darà? Dove si darà? Quali saranno i cantanti? Quale il teatro? Quale l'impresario? E poi... finirò io quello che mi resta a fare?... In questo momento mi sento così stanco, così svogliato che mi pare impossibile io possa arrivare a finire il lavoro che resta a fare!... Quando Giulio tornerà ne parleremo allora!

A settembre l'opera era terminata e Verdi inviò a Ricordi l'ultimo atto unitamente a un affettuoso addio a Falstaff, annotato sulla partitura, che parafrasava un passo del libretto di Boito:

Tutto è finito. / Va, va vecchio John. / Cammina per la tua via / Fin che tu puoi. / Divertente tipo di briccone / Eternamente vero sotto / Maschera diversa in ogni / Tempo, in ogni luogo. / Va, va, /Cammina, cammina, / Addio.

All'inizio d'ottobre Ricordi e Boito portarono a Sant'Agata un modellino di teatro, per fissare tutti i dettagli della messa in scena. In novembre e dicembre, a Genova, Verdi istruiva alcuni dei cantanti sui rispettivi ruoli. Aveva già portato a termine due atti e mezzo di Falstaff, ma interruppe la composizione per strumentare quello che aveva già scritto temendo di poter dimenticare qualche particolare dell'orchestrazione che aveva immaginato.

Nei primi giorni di aprile Verdi ricevette una sorprendente lettera di Hans von Bülow, detrattore della Messa da Requiem (cfr. 1874), convertito all'ammirazione del melodramma italiano dell'Ottocento. Pentito, vergognoso, accusandosi di cecità, bestialità giornalistia, fanatismo wagneriano ecc., Bülow si dichiara "toccato dalla grazia". Aveva studiato a fondo Aida, Otello e la Messa "di cui ultimamente un'esecuzione piuttosto debole mi ha commosso fino alle lagrime", e la sua ammirazione si riassunse in questo grido: "Evviva Verdi, il Wagner dei nostri cari alleati." Sfuggì a Verdi quel che c'era d'incoerente, di quasi folle in questo scritto, e rispose con questa letterina (14 aprile), troppo seria per lo stato mentale dell'uomo cui era diretta.

Illustre Maestro Bülow, non vi è ombra di peccato in Voi! - e non è il caso di parlare di pentimenti, e di assoluzioni! Se le vostre opinioni d'una volta erano diverse da quelle d'oggi, Voi avete fatto benissimo a manifestarle; né io avrei mai osato lagnarmene. Del resto, chi sa... forse avevate ragione allora. Comunque sia, questa vostra lettera inaspettata, scritta da un musicista del vostro valore, e della vostra importanza nel mondo artistico, m'ha fatto un gran piacere! E questo, non per mia vanità personale, ma perché vedo che gli artisti veramente superiori, giudicano senza pregiudizj di scuole, di nazionalità, di tempo. Se gli artisti del Nord e del Sud hanno tendenze diverse, è bene sieno diverse. Tutti dovrebbero mantenere i caratteri propri della loro nazione, come disse benissimo Wagner. Felici voi che siete ancora i figli di Bach!... E noi?... Noi pure, figli di Palestrina, avevamo un giorno una scuola grande... e nostra! Ora s'è fatta bastarda, e minaccia rovina! Se potessimo tornare da capo!


1893 Ai primi di gennaio del 1893, Verdi e Giuseppina si trasferirono a Milano e Verdi incominciò a provare Falstaff anche per otto ore al giorno. I colleghi erano meravigliati dell'energia e della lucidità del compositore che, ottantenne, sembrava più giovane e più vitale di molti di loro e, come sempre, un perfezionista. Avvicinandosi la data della prima esecuzione, incominciarono ad arrivare a Milano giornalisti di tutto il mondo e l'eccitazione aumentava. Il baritono francese Victor Maurel, il primo Jago di Otello, doveva sostenere la parte di Falstaff. Verdi lo ammirava per la sua abilità di attore e per la sua voce. Morto Faccio, la prima di Falstaff fu diretta da Edoardo Mascheroni. Qualche giorno prima del grande evento Giuseppina scriveva a sua sorella:

I seccatori, gli ammiratori, gli amici e i nemici, i veri musicisti, quelli che vorrebbero far credere di esserlo, i critici veri, i parolai maldicenti sbucheranno a frotte da tutte le parti del mondo! Le domande di posti continuano come se il Teatro dovesse essere grande come la piazza d'armi!

Il successo della prima mondiale, il 9 febbraio, fu trionfale. Verdi, dividendo con Boito gli applausi, fu chiamato molte volte al proscenio. Alla fine Verdi, Boito e Giuseppina lasciarono la Scala da una uscita secondaria per evitare la folla che si accalcava alla porta del palcoscenico. Ma al Grand Hotel Verdi era atteso da un'altra folla acclamante. Anche se riuscì a guadagnare l'ingresso dell'albergo, fu costretto a presentarsi tre volte al balcone prima che la gente si disperdesse. L'opinione dei critici internazionali confermava, soprattutto, il successo della nuova opera, anche se l'esecuzione scaligera era lontana dalla perfezione. Molti critici furono colpiti dalla bellezza e dalla finezza della strumentazione. Un critico francese, dopo aver osservato che alla prima qualcuno alludeva a I maestri cantori di Wagner, affermava invece che l'opera si poteva collocare tra Haydn e Mozart. Il compositore inglese Sir Charles Villiers Stanford, che scrisse un articolo acuto e dettagliato sul Daily Graphic sottolineò, nella partitura, notevoli elementi beethoveniani.
Le prime impressioni dello stesso Boito sono riferite in una sua lettera a Camille Bellaigue, il critico francese:

Cosa devo, dire? da dove cominciare? Nella vostra lettera toccate, con mirabile chiaroveggenza, e con una straordinaria sensibilità, l'essenza stessa dell'opera. Voi dite: 'Ecco il vero dramma (o la commedia) lirico, moderno e latino.' Ma quello che non potete immaginare è l'immensa gioia intellettuale che questa commedia lirica e latina produce sulla scena. È una vera effusione di grazia, di forza e di allegria. La scintillante farsa di Shakespeare è riportata, per il miracolo dei suoni, alla sua chiara fonte toscana di Ser Giovanni Fiorentino'. Venite, venite, caro amico, venite a sentire questo capolavoro: venite a passare due ore in questi giardini del Decamerone... Se verrete presto, può darsi che vi sia ancora Verdi; non partirà che verso la metà della settimana prossima. Sentirete una esecuzione che conserva ancora tutta la freschezza e il fascino delle cose nate da poco.

Si ammirò la vitalità del "gran vecchio" ma sfuggì - se non a pochissimi - la portata, il valore profetico di questo congedo.


1894 Terminato il Falstaff, nella mente di Verdi rimaneva una domanda: esisteva ancora qualche possibilità di ulteriori collaborazioni? Dopo la prima rappresentazione del Falstaff a Roma, più tardi nello stesso anno, Boito suggerì Antonio e Cleopatra, che aveva già tradotto per Eleonora Duse, come un nuovo soggetto d'opera. Vi erano anche voci persistenti sul Re Lear, e senza dubbio lavorò su questo soggetto. Ma, alla fine, non se ne fece niente dopo che Giuseppina aveva dato il preoccupato avvertimento: "Verdi è troppo vecchio, troppo stanco." Intanto aveva intrapreso la maggior parte delle trattative preliminari per le esecuzioni, a Parigi, del Falstaff e dell'Otello, rispettivamente nella primavera e nell'autunno del 1894, entrambe presenziate da lui stesso.


1895 Le ultime opere furono il Te Deum (1895-96) e lo Stabat mater (1896-97), che, assieme all'Ave Maria "su scala enigmatica" (1889) e alle Laudi alla Vergine Maria (composte in una data imprecisa fra l'Otello e il Falstaff) formano i Quattro pezzi sacri.


1896 Parecchie lettere a Boito accennano a queste ultime composizioni. L'11 giugno 1896 da Da S. Agata scrisse a Boito:

La Peppina è alzata, non sta male, ma non mangia; le forze quindi si rimettono con gran fatica. In quanto a Montecatini non è affare per ora da parlare; se si potrà effettuare quel viaggio ci vedremo prima a Milano. [...] Una volta che avrò finito [il Te Deum], ché non mancano che pochi squarci d'istromentale, lo unirò alle Ave Maria e dormiranno insieme senza veder mai la luce del sole... amen.


1897 Da Genova, il 17 Aprile 1897 scrisse a Boito:

Non ho più pensato allo Stabat di cui l'orchestrazione è allo stata quo. Non vi ho piá pensato né vi penso!.. e se vi penso mi ripugna espormi di nuovo al pubblico. Difatti perché affronterei giudizi, ciarle inutili, critiche, lodi, odii, amori cui non credo? Ora proprio non saprei dire cosa desideri di farei. Tutto quello che farei mi pare cosa inutile!.. Ora non ho testa a decidere nulla!.. Nel caso finisca d'istromentare ve lo scriverò!

In ottobre a Parigi assistette all'edizione francese di Otello e al debutto di Falstaff. Ricevette poi la Legion d'Onore. 

Il compito di Boito era ora quello di persuadere Verdi a lasciare che i Pezzi sacri venissero eseguiti e pubblicati. 
Nei mesi successivi troviamo una corrispondenza con Ricordi su questi lavori: Verdi esitò a lungo prima di lasciarsi persuadere a pubblicarli; finalmente li mandò a Ricordi, in ottobre.
Boito fu invitato in autunno per la sua solita visita:




Voi siete solito di venire a S. Agata quando non c'è più nissuno! Ora siamo soli; e se venite troverete S. Agata ancora più noiosa del solito. Peppina fu ammalata, condannata al letto per qualche settimana. Ora la tosse è quasi sparita, ma non si nutre ed è di una debolezza estrema; non è lieta, parla pochissimo, e quasi ci dà fastidio il sentir parlare. Io senza essere molto malato, ho mille malanni addosso. Le gambe mi portano a stento e non cammino quasi più: la vista indebolita e non posso leggere a lungo: di più sono anche un po' sordo. Insomma mille malanni!

Le forze di Giuseppina, e assieme a esse la vita, stavano lentamente andandosene. La sua ultima lettera conosciuta è alla sorella:

Io non arrivo a forzarmi di cacciar giù qualche raro boccone e per conseguenza, le forze vanno sempre diminuendo! Basta! bisogna rassegnarsi e sarà quello che Dio vorrà!

Sopravvenne una polmonite e il 14 novembre fu la fine. Boito si trovava a Parigi, probabilmente per le trattative riguardanti la programmata esecuzione dei Pezzi sacri e s'affrettò a ritornare quando ricevette la notizia. Maria Carrara Verdi e la sua famiglia, Teresa Stolz, i Ricordi e Boito fecero quello che poterono per il compositore: egli se ne stava muto, ritto, rifiutandosi di sedere, incapace di parlare, come una grande quercia ancora diritta dopo esser stata colpita da un fulmine. Nel testamento di Giuseppina "prega l'Altissimo" di proteggere il marito "in vita e in morte ed a riunirlo a me per l'eternità in un mondo migliore". Infine: "Ed ora, addio, mio Verdi. Come fummo uniti in vita, ricongiunga Iddio i nostri spiriti in cielo." Che cosa provò Verdi, a leggere tutto ciò? Lo aveva ella ricondotto, come alcuni credono, alla fede cristiana? È significativo che la sua ultima forza creativa fosse dedicata a lavori religiosi? Nel senso ideale, morale e sociale, era un grande cristiano, ma bisogna bene guardarsi di presentarlo come un cattolico nel senso politico e strettamente teologico della parola; nulla sarebbe più contrario al vero.


1898 I preparativi per l'esecuzione dei Pezzi sacri furono provvidenziali per distrarre Verdi nei mesi successivi alla morte di Giuseppina. Acconsentì ad andare a Parigi egli stesso, ma alla fine, su consiglio del medico, decise che Boito andasse in vece sua. Durante le prove scrisse lunghe lettere, quasi giornalmente, sui solisti, sul coro, sull'orchestra e sui punti più importanti dell'interpretazione. Quando tutto andò bene, ne fu profondamente sollevato e grato.
I Pezzi sacri (senza l'Ave Maria) vennero stampati ed eseguiti il 7 aprile (Stabat Mater per coro e orchestra, le Laudi alla Vergine Maria per coro femminile, il Te Deum per doppio coro e orchestra).
Il 2 maggio, Verdi scrisse al critico francese Camille Bellaigue:

Io non parlerò che di musica, semplicemente di musica, ed applaudo con voi ai tre colossi, Palestrina, Bach, Beethoven... e quando penso alla scarsità e miseria melodica ed armonica dei tempi, Palestrina mi pare un miracolo! Tutti sono della vostra opinione quando parlano di Gluck, ma io confesso, non posso a meno di credere che malgrado il suo potente sentimento drammatico, Egli non era di molto superiore ai migliori del suo tempo, e musicista inferiore a Haendel. [...] Di Rossini e Bellini dite molte cose che forse saranno vere, ma io confesso che non posso che credere il Barbiere di Siviglia per abbondanza di idee, per verve comica e per verità di declamazione, la più bella opera buffa che esista. Anch'io con voi ammiro il Guglielmo Tell, ma quante altre cose altissime, di getto, sparse con profusione nella maggior parte delle sue opere. Bellini, povero, è vero, nell'armonia e nell'istromentazione, ma ricco di sentimento, e di una tinta melanconica tutta sua propria! Anche nelle sue opere meno conosciute nella Straniera, nel Pirata, vi sono melodie lunghe, lunghe, lunghe, come nissuno ha fatto prima di Lui. [...] Badate, mio caro Bellaigue, che non intendo (Dio me ne guardi) dare giudizi e dico soltanto le mie impressioni. Voi parlate con somma indulgenza d'Otello e di Falstaff. L'autore non se ne lamenta...


1899 L'Opera Pia Casa di Riposo per Musicisti ideata e fondata da Verdi divenne Ente Morale. Piccolo ma non curvo, incanutito ma non bianco, Verdi aveva uno sguardo di "straordinario calore". In quegli ultimi anni passava più tempo a Milano, dove Boito e i suoi amici erano fedelmente ad attenderlo. Le sue lettere erano piene di lamentele sulla sua salute, ma agli altri sembrava che, a ottantacinque anni, fosse ancora pieno di vita. "Verdi se porte à merveille" Boito raccontava a Bellaigue. "Il joue du piano, il chant; il mange à souhait, il se promène, il est gai comme un pinson; je le verrai ce soir."


1900 Il 14 maggio Verdi fa testamento, nominando erede universale Maria Verdi Carrara e predisponendo amplissime beneficenze a favore di persone ed enti. Nel novembre si reca a Milano, scendendo al solito Hotel Milan. Qualche giorno prima (21 ottobre), da Sant'Agata scrisse a Boito:

Sarò breve perché lo scrivere m'affatica; è già detto una volta per sempre, qualora vi piaccia ed i vostri impegni lo permettano di venire a S. Agata sarà sempre un regalo per me e per tutti. Io sto come Dio vuole! Non sono veramente ammalato, ma le gambe non mi portano quasi più, e le forze diminuiscono di giorno in giorno! Il medico viene pel
massage due volte al giorno, ma non sento nissun giovamento. Non so quando potrò venire a Milano.

Si trasferì a Milano in dicembre, nel suo solito appartamento dell'Hotel Milan.


1901 Dopo una settimana di agonia per un ictus cerebrale, il 27 gennaio muore a Milano e il 30 viene sepolto nel Cimitero Monumentale. Il 27 febbraio, scortata da trecentomila persone, la salma viene traslata nella cappella della Casa di Riposo (accanto, gli si colloca la salma della Strepponi). In vita, Verdi aveva ricevuto numerosissimi riconoscimenti e decorazioni, fra gli altri dagli ordini dei SS. Maurizio e Lazzaro, di S. Stanislao, della Rosa, di Francesco Giuseppe, della Madonna della Guadalupa, del Merito Civile di Savoia. Alla sua morte, le sue opere erano rappresentate regolarmente e assiduamente sui palcoscenici di tutto il mondo. La morte di Verdi è descritta da Arrigo Boito in una magnifica lettera (originale in francese) al musicologo, biografo di Verdi, Camille Bellaigue:

Ecco il giorno che fra tutti i giorni dell'anno egli preferiva. La vigilia di Natale gli ricordava i santi magi dell'infanzia, gli incanti della fede che non è veramente celeste se non quando arriva alla credulità del prodigio. Questa credulità, ahimè, egli l'aveva perduta, come tutti noi, molto presto, ma ne conservò, forse più di noi, un amaro rimpianto per tutta la vita. Egli ha dato l'esempio della fede cristiana per la commovente bellezza delle sue opere religiose, per l'osservanza dei riti (devi ricordarti della sua bella testa abbassata nella cappella di Sant'Agata), per il suo omaggio illustre al Manzoni, per le disposizioni per i suoi funerali, trovate nel suo testamento: un prete, un cero, una croce. Sapeva che la fede è il sostegno dei cuori. Al lavoratori dei campi, agli afflitti che lo circondavano, s'offriva come esempio, senza ostentazione, umilmente, severamente, per esser utile alle loro coscienze.
Oggi è il giorno del Perdono; bisogna dunque perdonarmi. Passavo tutti gli anni questo giorno a Genova con lui, arrivavo il Venerdì Santo (conservava nel cuore il culto delle grandi feste del Cristianesimo: Natale e Pasqua); e mi fermavo fino al lunedì. Il fascino tranquillo di questa visita annuale mi riprende lo spirito insieme all'ospitalità del Maestro, la tavola patriarcale strettamente rituale con i cibi tradizionali, la dolcezza così penetrante dell'atmosfera di questo Palazzo Doria di cui egli era il Doge.
È la prima volta che oso parlare di Lui in una lettera. Vedete dunque che bisogna perdonarmi. Ero vittima di una specie di abulia parziale; il mio pensiero correva quasi giornalmente a voi sotto la forma di un rimorso vero. Voi mi scrivevate delle così belle lettere, avevo letto le vostre belle parole sul Temps, così commosse e così nobilmente commoventi; la mia volontà non poteva rispondervi poiché bisognava dirvi qualcosa di questa morte grandiosa ed io non vi riuscivo. Ne soffrivo, n'ero quasi ammalato.
Mi sono gettato nel lavoro come in un mare, per salvarmi, per entrare in un altro elemento, per raggiungere chissà quale sponda o per essere inghiottito col mio fardello in uno sforzo (compiangetemi, caro amico) che è superiore alle mie forze.
Verdi è morto; si è portato con lui una dose enorme di luce e di calore vitale; eravamo tutti illuminati dalla sua olimpica vecchiezza.
È morto con la magnificenza di un lottatore formidabile e muto. Il silenzio della morte era calato su di lui una settimana prima che spirasse.
Conoscete voi l'ammirevole busto del Maestro eseguito da Gemito? M. Cain (il compositore che voi conoscete) lo possiede nella sua casa. Questo busto scolpito quarant'anni fa, è l'immagine esatta del Maestro quale era quattro giorni prima della fine. La testa inclinata sul petto e le sopracciglia severe guardava in basso e sembrava soppesare collo sguardo un avversario sconosciuto e potente e calcolare mentalmente le forze necessarie per affrontarlo.
Ed egli ha opposto una resistenza eroica. L'ansito del suo ampio petto l'ha sostenuto per quattro giorni e tre notti. Ancora la quarta notte il suo respiro riempiva la camera, ma la fatica... Povero Maestro, com'è stato coraggioso e bello fino all'ultimo momento. Non importa, la vecchia mietitrice ha dovuto portar via la sua falce ben sbeccata.
Mio caro amico, nella mia vita ho perduto persone idolatrate, il dolore ha sopravvissuto alla rassegnazione, ma non ho mai sorpreso in me stesso un sentimento d'odio contro la morte e di sprezzo per questa misteriosa potenza, cieca, stupida, trionfante e laida. Doveva essere la morte di questo nonagenario a risvegliarmi questi sentimenti. Anch'egli l'odiava, essendo egli la più potente espressione di vita che si possa immaginare; l'odiava come odiava la pigrizia, l'enigma e il dubbio.
Ora è tutto finito. Dorme come un Re di Spagna nel suo Escurial sotto una lastra di bronzo che lo ricopre completamente.
Caro Bellaigue, immaginate quale consolazione sarebbe per me collaborare con voi e presso di voi a un lavoro su Verdi. Per ora mi è impossibile.
Quando avrò finito il mio lavoro crudele, verrò a reclamare questa grande gioia, siatene certo. Intanto fate qualcosa voi da solo.

Per scrivere bene occorre scrivere quasi d'un fiato, riservandosi poi di accomodare, vestire, ripulire l'abbozzo generale; senza di che si corre il rischio di produrre opera a lunghi intervalli, con musica a mosaico, priva di stile e di carattere. (Giuseppe Verdi, frammento di lettera, senza luogo e senza data)

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