Paesista per grazia di Dio e di fortissimo istinto (fors'anche per le condizioni sociali), Filippo Franzoni ha pur lasciato alcune insigni opere di ritrattistica. Molto freschi e vivi i tanti ritratti di un bambino biondo e rosso (uno con un'arancia in mano): e uno della sorella del bambino: documenti oltre tutto del suo amore per l'infanzia, per le nipotine che compaiono in certi ariosi paesaggi, sotto gli alberi dell'Isolino. Ma non si ricorda un solo preciso ritratto di Lulu o di Mircelle: se non una piccola preziosa tela, con la cognata e le due bambine, condotta in pasta piena, con un ritmo vorticoso del pennello: felici creature sedute e come affondate nell' erba e nel sole.
In rapidi disegni e sul retro di tavolette compaiono spiritosi schizzi e caricature di amici: del dottor Vivanti, del pianista Hegner (del quale è forse un ritratto, vivace ma scarnito dal pittore stesso: e sicuramente un impetuoso schizzo che lo raffigura al piano.)
Ma il pezzo maggiore è
il ritratto della madre («La mamma ti avrà detto che sto facendole un ritratto»: lettera al fratello, dicembre 1890; nel gennaio seguente, nella citata lettera in dialetto, accenna a certe fotografie della madre, sulle quali «fui fa un quater ... »). Rimane appunto una di quelle fotografie, la donna china sul giornale spiegato, nell'identica posa del ritratto definitivo. Documenti di un'assidua ricerca, schizzi e disegni a carboncino e un abbozzo, di minori dimensioni, condotto a tinte piatte e dedicato alla Margherita. Tutto questo sforzo di preparazione è approdato felicemente nella redazione definitiva, bellissima: dove intorno alla figura della madre china sul giornale - imponente figura nella veste blu scuro, la luce colpisce da destra il volto intelligente intento alla lettura - sono ammirevoli certi particolari o nature morte, vasi e ventagli sul caminetto, di evidente derivazione e gusto impressionista, in primo piano un bicchiere con fiori che già al Janner faceva dire Manet; festosa cornice alla figura della madre e all'invenzione ardita del giornale, taglio obliquo e luminoso nella composizione.
Altro ritratto femminile (forse la sorella Paolina), volto levigato, essenziale, gamma cromatica bassa, grandi occhi spalancati, intensissimi; leggero tocco rosa, una sciarpetta al collo: piccolo squisito capolavoro dipinto con estrema rarefazione di mezzi pittorici, con l'alito sospeso più che con i pennelli e i colori di certi ultimi paesaggi, d'una estenuazione ed essenzialità poeticissime.
Ma come sempre nei grandi solitari, il modello che più insistentemente ricompare è l'artista stesso, la sua effige scalata lungo gli anni: sempre più penetrante, quasi a misurare una progressiva interiorizzazione, un'imperterrita esplorazione dell'animo. Rimane un autoritratto del periodo accademico; un altro piccolo, frontale, molto colorito e si direbbe mondano, parallelo a un ritratto di signora; uno in maniche di camicia e altri minori, fuggevoli appunti o disegni: fino ai due estremi impressionanti come gridi o come violenta accusa: uno già intensamente allucinato, frontale, dallo sguardo ossessivo (che la bisnipote non può sopportare ... ): d'un tono si direbbe eroico, hodleriano, forme decise e colori intensi. L'altro, certamente l'estremo, quasi monocrono, d'un grigio allusivo alla cenere degli anni, qualche cauto tocco di rosso, di giallo; condotto con un pennello che si direbbe effervescente, spumoso, muffe di una disperazione ancora e per poco dominata; lo scatto ferino della testa scarruffata, gli occhi spiritati (una narice quasi terzo occhio), lo sguardo inevitabile che interroga e denuncia: sguardo di un uomo abitato da oscuri démoni, senza più pace, sulla soglia della follia. In una frase di un suo precoce testamento (1896, citata dal Gilardoni) Filippo Franzoni dichiara di non nutrire odio per nessuno, e continua «augurando a tutti quella pace che non ho mai potuto conseguire». Si pensa a uno dei soggetti che tornano assiduamente nella sua attività estrema, l'arcobaleno. Bellissima la redazione con in primo piano il cimitero selvaggio, una pittura violenta e come scarruffata (con i pennelli dell'ultimo autoritratto). L'arcobaleno: quel variopinto nastro che si incurva sulla terra ancora stravolta dalla bufera che l'ha flagellata: biblico segno di alleanza e di pace, di quella agognata pace che la morte amica stava per finalmente concedere alla tormentata anima di Filippo Franzoni. [Bianconi, 22-25]