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REMO CANTONI

CHE COSA HA VERAMENTE DETTO KAFKA

Alcuni critici abbracciano il loro autore con una stretta che lo soffoca. Non lo lasciano parlare e non sono disponibili per l’ascolto di “ciò che ha veramente detto». Io ho cercato di lasciar parlare Kafka senza sovrappormi alla sua voce. Per questo motivo le citazioni di Kafka sono in questo libro così frequenti. I suoi testi ricreano infatti la sua atmosfera e Kafka è tutto nella sua atmosfera fiabesca, magica, percorsa da misteriose allusioni, sebbene il suo linguaggio sia sempre lucido, stringato, preciso fino alla meticolosità.
I suoi scritti, per lo più frammentari, sono parabole, pantomime, trascrizioni metaforiche di una sognante vita interiore in cui peraltro il dato biografico, che è una nota costante, si sublima in rappresentazione emblematica di una condizione umana più universale.
Ho, per lo più, diffidato del Kafka troppo allegorico e ‘positivo’ perché nella dolorosa musica kafkiana i motivi dominanti, e quelli più validi poeticamente, sono le confessioni amare e le immagini tormentate di un enfant du siècle che ha potentemente assunto e trasfigurato nell’arte il negativo del suo tempo. Kafka ha descritto, con estrema sincerità, la sua battaglia per l’esistenza, ma non è uno scrittore edificante. È uno scrittore tragico.
È un ebreo che non si chiude nell’ebraismo, un borghese transfuga e in atteggiamento critico, un ammalato di polmoni e di nervi sempre vicino al crollo, un solitario che invano ma ostinatamente cerca la famiglia, la comunità e il suo ubi consistam, ma è anche molto di più. Ciò che conta, in ultima analisi, è l’opera kafkiana, che trascende la biografia e diviene documento.
Non ho visto in Kafka solo la vittima di un complesso paterno o un caso clinico, come vuole la critica psicoanalitica, perché il mondo è pieno di complessati e di nevrotici che non diventano Franz Kafka. E non credo al carattere solo allegorico e sociologico dell’hic et nunc kafkiano. Se fosse vero, come afferma Lukacs, che «il mondo del capitalismo odierno come inferno, e l’impotenza di tutto ciò che è umano davanti alla potenza di questo inferno, costituisce il contenuto dell’opera di Kafka», tutti gli scrittori tragici sarebbero in qualche modo complici o vittime del capitalismo, ossia borghesi decadenti che si perdono nello smarrimento, nella disperazione e nell’angoscia. Un uomo che non conosca, per principio, alcuna forma di smarrimento, disperazione o angoscia, è, secondo me, un retore, quale che sia la sua scelta politica. Sappiamo ormai che i buoni sentimenti, immemori del tragico e installati in un paradiso ave sono definitivamente scomparsi il male, il dolore e la morte, producono soprattutto la cattiva letteratura e la cattiva filosofia. Kafka ha scritto per tutti, come Sofocle, Shakespeare o Dostoevskij, e, come i grandi tragici che lo hanno preceduto, trasfigura l’hic et nunc in una sfera che non può coincidere con l’allegoria di un mondo che è solo il mondo borghese e capitalistico, o solo il mondo della nevrosi. Il male, il tragico, la negatività, l’angoscia stessa, si trovano a un livello che non è quello del mero caso clinico individuale o della singola società malata. Si trovano in una zona più profonda e radicale che la medicina, la sociologia e la politica, paghe delle loro diagnosi e delle loro terapie, considerate esaustive e conclusive, troppo spesso non vogliono scorgere o dichiarano inesistente.
Le esigenze specifiche di questo libro, destinato a mettere l’accento soprattutto sul pensiero di Kafka e sulla sua visione del mondo e dell’uomo, mi hanno indotto a mettere in evidenza e rilievo alcuni testi kafkiani lasciandone altri deliberatamente nell’ombra. America, Il Processo, Il Castello, gli Aforismi, i Diari, i nuclei centrali dell’Epistolario, La tana, La metamorfosi, stanno sul proscenio. I primi delicati racconti, molte bellissime fiabe e parabole, molti stupendi apologhi, bozzetti o frammenti sono lasciati nello sfondo. È stata una scelta e un sacrificio. Non volevo appesantire la mole di questo libro. Ma il lettore esperto di letture kafkiane avvertirà la presenza latente di questo Kafka che non viene alla ribalta. Non esiste per me un Kafka minore e un Kafka maggiore, anche se, ovviamente, non tutto è perfetto e riuscito nell’opera dello scrittore.
Non credo che il 1917, l’anno dell’emottisi e degli Aforismi, capovolga il senso dell’opera kafkiana e contrassegni una svolta radicale dal negativo al positivo. Tra il primo e il secondo Kafka esistono continuità e raccordi profondi, anche se intervengono ricerche e temi nuovi. Non si dimentichi che Kafka è già se stesso nella Condanna, nella Metamorfosi, scritte nel 1912, nella Colonia penale, che è del 1916. Ma in una atmosfera non diversa ci porta quel grande capolavoro del 1923 che è La tana. Non vi sono dunque brusche cesure o salti, anche se la crisi del 1917 accentua la ricerca del positivo.
Ho sottolineato pertanto l’unità del mondo kafkiano, pur sapendo che unità non signica identità o ripetizione. Un indugio del critico nei brevi racconti avrebbe consentito di scorgere in essi microcosmi che poi ritroviamo in forme più analitiche e meno concentrate nei macrocosmi rappresentati dai racconti lunghi o dai romanzi. Mi limiterò a pochi esempi. Il misterioso Cacciatore Cracco, un metafisico nocchiero che dopo la morte erra per tutti i paesi della terra in una sua vecchia e desolata barca, ha commesso una colpa che non comprendiamo. Al sindaco che ha nome Salvatore e gli chiede di chi sia infine la colpa, il cacciatorenocchiero risponde: “Del nocchiero. Nessuno leggerà ciò che io scrivo qui, nessuno verrà ad aiutarmi; se fosse imposto come compito di darmi aiuto, tutti giacerebbero a letto, le coltri tirate sopra la testa, tutta la terra un albergo notturno. Con ragione, poiché nessuno sa della mia esistenza, e se lo sapessero non saprebbero la mia dimora, e se sapessero la mia dimora non saprebbero come trattenermici, non saprebbero come venirmi in aiuto. Il pensiero di volermi venire in aiuto è una malattia da curarsi stando a letto. Lo so e quindi non grido per invocare aiuto, anche se in certi momenti - indomito come sono, per esempio appunto ora - ci pensi fortemente. Ma a scacciar questi pensieri basta che mi guardi intorno e mi renda conto del luogo ave sono e dove - questo posso ben affermarlo - io abito da secoli.»
Un altro perfetto microcosmo fiabesco e parabolico dei grandi temi del Processo e del Castello si trova nel racconto Dinanzi alla legge, che compendia e sintetizza in immagine o parabola tutti i temi e i motivi dell’arte kafkiana. Lo trascrivo per intero come preludio che il lettore può ascoltare come una mirabile sinfonia che funge da ouverture per la comprensione del mondo kafkiano.
“Davanti alla Legge c’è un guardiano. A lui viene un uomo di campagna e chiede di entrarvi. Ma il guardiano dice che per il momento non gli può concedere di entrare. L’uomo ci ripensa e chiede se almeno potrà entrare più tardi. ‘Può darsi’ risponde il guardiano ‘ora però no’. E poiché la porta che conduce alla Legge è aperta come sempre e il custode si fa da parte, l’uomo si china per dare un’occhiata, dalla porta, nell’interno. Quando il guardiano se ne accorge, si mette a ridere e dice: ‘Se ne hai tanta voglia, prova pure a entrare, nonostante la mia proibizione. Bada però: io sono potente, e sono l’ultimo tra i guardiani. Davanti a ogni sala sta però un guardiano, uno più potente dell’altro. E neppure io riesco a sopportare la vista del terzo.’ L’uomo di campagna non si aspettava tali difficoltà; la Legge dovrebbe pur essere accessibile a tutti e sempre - pensa tra sé - ma a guardar ora il guardiano chiuso nel suo mantello di pelliccia, col gran naso a punta, la lunga, sottile barba nera alla tartara, risolve di attendere piuttosto sinché non abbia ottenuto il permesso di entrare. Il guardiano gli dà uno sgabello e lo lascia sedere da un lato presso la porta. Là resta seduto per giorni e anni. Tenta diverse volte di passare e stanca il guardiano con le sue richieste. Il guardiano spesso gli concede piccole udienze, gli chiede notizie della sua patria e di molte altre cose, ma san domande prive di interessamento, come le fanno i gran signori, e alla fine torna sempre a ripetere che non lo può ancora far entrare. L’uomo, che per il viaggio si è provveduto di molte cose, dà fondo a tutto, per quanto prezioso sia, per corrompere il guardiano. Questi accetta ogni cosa, dicendo però: ‘Lo accetto solo perché tu non creda di aver trascurato qualcosa’. Per tutti quegli anni l’uomo osserva senza interruzione il guardiano, e dimentica gli altri, e solo il primo gli appare come l’unico ostacolo all’ingresso nella Legge. Maledice il caso disgraziato, nei primi anni, senza riguardi e ad alta voce, poi, quando invecchia, brontola solo tra sé. Diventa come un bambino, e poiché nel lungo studio compiuto sul guardiano ha imparato a conoscere anche le pulci del suo bavero di pelliccia, implora anche loro, di aiutarlo a far cambiare parere al guardiano. Infine gli occhi gli si indeboliscono ed egli non sa, se veramente fa più buio intorno a lui, o se il suo sguardo lo inganni. Ma ancora egli distingue bene nell’oscurità un certo splendore, che proviene senza mai estinguersi dalla porta della Legge. Ormai non gli resta molto da vivere. Prima di morire tutte le esperienze di tutti quegli anni sfociano nella sua testa in una domanda, che sinora non ha rivolto al guardiano. Gli fa un cenno, poiché non può ergere più il corpo che si sta irrigidendo. E il guardiano si deve piegare profondamente verso di lui, poiché la differenza di statura è mutata molto a sfavore dell’uomo di campagna. ‘Cosa vuoi sapere ancora?’ chiede il guardiano ‘sei proprio insaziabile’. ‘Tutti tendono verso la Legge’ dice l’uomo
‘come mai in tutti questi anni nessun altro ha chiesto di entrare?’. Il guardiano si rende conto che l’uomo è prossimo alla morte, e per farsi intendere da quelle orecchie che stanno per diventar insensibili, grida: ‘Nessun altro poteva passare di qui, perché questa entrata era destinata a te soltanto. Ora vado a chiuderla’.

Ogni commento è superfluo. Mi limiterò a dire che chi ama le risposte perentorie e apodittiche, chi già possiede la verità, chi disdegna la ricerca lunga, problematica e paziente, chi non medita sul significato della vita e della morte, chi ha già concluso insomma sul bene e sul male, sui mezzi e sui fini, può non leggere Kafka. E ancor più superflua per lui è questa mia modesta introduzione a Kafka.

1. L’esistenza come ricerca

Le poche notizie che qui riportiamo della vita di Franz Kafka hanno l’unico scopo di offrire al lettore qualche indicazione utile per interpretare con meno arbitrio un’opera e un autore che attingono sempre dall’esperienza vissuta le loro suggestioni più tipiche e valide. La vita di Kafka non presenta grandi eventi esteriori, può, anzi apparire monotona e scialba, se la misuriamo con i soliti criteri mondani che ricercano nelle avventure sensazionali, nei pittoreschi viaggi, nella partecipazione attiva e vistosa al mondo politico e intellettuale il significato di una esistenza.
Nella vita di Kafka, che è uomo schivo e solitario, hanno importanza decisiva gli eventi interiori o, per dir meglio, i riflessi intimi di alcune vicende della sua cronaca personale. Si comprende meglio Kafka quando si conoscono, ad esempio, l’ambiente familiare ebraico, pieno di contraddizioni, in cui egli è vissuto, la sua esasperata esistenza di studente e di modesto impiegato, i suoi difficili amori e i suoi ripetuti e sfibranti fidanzamenti, che non hanno mai conclusioni felici, le malattie del suo corpo e dei suoi nervi troppo tesi e fragili, le poche amicizie della sua vita trascorsa nel raccoglimento e quasi nella fuga da tutto ciò che è ufficiale e pubblico. Soprattutto i suoi penosi e sempre falliti tentativi di inserirsi in un mondo regolare attraverso il matrimonio, il lavoro e la ricerca di una comunità che si fondi su una salda legge, incidono fortemente nel suo destino di uomo e di scrittore.
L’esistenza di Kafka è umbratile, sotterranea, quasi clandestina. La fama sopravvenne solo dopo la morte ed egli non ebbe coscienza chiara della propria grandezza letteraria. Si considerò, anzi, un fallito come uomo e come artista, pur avendo sempre cercato nello scrivere rifugio e salvezza. Porse non si accorse neppure, con lucida consapevolezza, che non stava solo raccontando la propria amara cronaca di uomo inquieto e sradicato che invano cerca una normale e confortante immatricolazione in una comunità familiare, sociale o in un valido ordinamento etico e religioso. Spirito più attento all’esplorazione interiore, ai propri tormentati sogni, alle proprie fiabe che non alla ricognizione scrupolosa e metodica del mondo esterno e dell’hegeliano ‘spirito obiettivo’, Kafka rimase vittima di un errore prospettico.
Attraverso quelle che giudica “scribacchiature private», non degne di sopravvivere alla sua morte e affidate per testamento alle fiamme, Kafka ha narrato non soltanto la cronaca di un suo fallimento interiore bensì la storia, trasfigurata e fiabesca, di un’epoca che non trova il suo ubi consistam e si sente frustrata e ansiosa. Attraverso le sue Lettere, i suoi Diari, i suoi bozzetti e i suoi frammenti, le sue parabole e le sue metafore, egli non ha solo scritto le sue confessioni o trascritto i suoi sogni, ma è divenuto il testimone e l’interprete dell’uomo contemporaneo, smarrito nel labirinto di tensioni o contraddizioni sociali e metafisiche non risolte e angosciose. La Metamorfosi, La tana, Il Processo, Il Castello, sono la cronaca, anche psicologica e biografica, dell’uomo Franz Kafka che rincorre la propria identità, la propria certezza, le proprie mete esistenziali, ma sono, soprattutto, ed è quello che più importa per noi, la storia simbolica e trasfigurata, in minuziosi e caricaturali apologhi, della società, della cultura, dell’uomo del nostro tempo.
Tutto ciò che si è scritto su Kafka, da parte di critici, ammiratori e biografi, serve a gettar qualche luce su aspetti singolari dell’uomo Franz Kafka che non è lecito sradicare dalle tradizioni ebraiche, dalla memoria dei ghetti e delle persecuzioni, dal milieu della Boemia e di Praga, dalla cultura espressionistica della Mitteleuropa, dalle vicende che variamente lo legano, e qualche volta lo condannano, ai drammatici rapporti familiari, ad amori impossibili, a penosi soggiorni in luoghi di cura o in cliniche. Non avrebbe senso negare che il moltissimo che si è scritto ci offre materiali utili per mettere meglio a fuoco l’immagine dell’uomo e dell’opera. Ma su Kafka si è forse scritto troppo, quasi miticizzando ogni piccola notizia, ogni episodio sporadico, ogni appunto casuale, ogni frammento anche insignificante della sua esistenza di uomo e di scrittore. Tutto questo profluvio di scritti è una testimonianza dell’interesse e della passione suscitati da Kafka, ma rappresenta anche una ragione di sazietà e disorientamento per il critico che sia soprattuto attento ai testi e non sia disposto a vederli deformare da cifrari, crittogrammi, ossessioni allegoriche, alchimie teologiche, astruserie, arzigogoli o esoterismi.
Per quanto attiene alla vita è bene rifarsi alle biografie di Max Brod e di Klaus Wagenbach, ricche di informazioni preziose. È doveroso mettere in rilievo i grandi meriti di Max Brod, amico, biografo, conservatore e curatore delle opere kafkiane. Senza il concorso infaticabile di Max Brod noi avremmo ben poco dell’opera kafkiana. È tuttavia motivo di perplessità e di rammarico l’insistenza con cui Max Brod ha voluto fare di Kafka uno scrittore edificante, illuminato da una fede religiosa positiva, riconducibile nell’alveo della tradizione metafisica ebraica e del sionismo militante.

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Kafka non frequentò i grandi scrittori austriaci suoi contemporanei, come Musil, Hoffmanstahl, Rilke o Trakl, anche se ne leggeva le opere. Era un lettore entusiasta (per esempio di Thomas Mann), ma tutt’altro che sistematico, e non prese mai parte alla vita letteraria di alto livello. Era un ascoltatore laconico e riservato di un colloquio letterario al quale non prendeva parte diretta. Mandava solo su invito manoscritti a riviste e case editrici, e limitava a pochi amici i suoi contatti. La sua, ci dice Wagenbach, è una esistenza provinciale e locale come quella di Stifter o di Yeats. Nato a Praga il 3 luglio 1883, non si allontanò che raramente dalla città natale. Morì a 41 anni, tubercolotico, il 3 giugno 1924 nel sanatorio di Kierling e fu sepolto a Praga l’11 giugno. Laureatosi in Legge nel 1906, fu impiegato per quattordici anni nell’«Istituto d’assicurazioni contro gli infortuni dei lavoratori del regno di Boemia» e andò in pensione nel luglio 1922. Detestò sempre l’ufficio, e il suo unico desiderio, la sua unica vocazione fu la letteratura alla quale dedicava le ore serali e notturne.
La sua prosa, nata fuori dalle ‘ore d’ufficio’ è ormai famosa in tutto il mondo, ma ancor oggi non mancano ostracismi e diffidenze nei confronti del suo presunto decadentismo. Lo apprezzarono dapprima, negli anni venti, pochi letterati tedeschi d’avanguardia, poi, in Francia soprattutto, André Breton e il gruppo del ‘Minotaure’. Dopo i surrealisti e gli espressionisti, lo riscoprirono gli esistenzialisti Camus e Sartre. Il suo maggior trionfo lo ha però avuto in Inghilterra e in America. Appena nel 1950 le sue opere rientrano in Germania e, negli anni successivi, appare la prima edizione completa in lingua tedesca. Soltanto nel 1957, dopo alcuni tentativi degli anni venti, vengono pubblicate, le prime traduzioni ceche a Praga. Ma ancor oggi Kafka è quasi un autore proibito in Cecoslovacchia. E occorre attendere il 1963 per la traduzione russa della Colonia penale.
Come ha scritto Wagenbach, la vita di Kafka è poco conosciuta fino ad oggi «benché si sia svolta tutta in piena luce nei tre ultimi decenni dell’imperial-regia Duplice monarchia e nei primi anni della repubblica cecoslovacca». Ciò è dovuto in parte al fatto che Kafka volle sempre starsene nell’ombra, ma soprattutto agli avveninimenti politici degli anni 1933-1945. «Essi colpirono anzitutto l’opera: all’inizio degli anni quaranta la Gestapo sequestrò, durante una perquisizione nell’appartamento di Dora Diamant (l’amica giovanissima degli ultimi anni) un fascio di manoscritti che dobbiamo considerare perduti: la prima edizione completa, iniziata nel 1935, fu in un primo tempo ostacolata, poi vietata. Conseguenze molto peggiori ebbe l’occupazione della Cecoslovacchia da parte dei nazisti: le tre sorelle di Kafka vennero deportate nei campi di concentramento e ivi assassinate: destino condiviso da molti amici e parenti. Si distrussero archivi, si perdettero documenti (tra questi la biblioteca di Kafka e numerose lettere), testimoni della sua vita furono uccisi» (K. WAGENBACH, pp. 10-11). La ricerca dei documenti ci informa il suo biografo, finiva sempre in archivi saccheggiati e quasi tutti i testimoni, ancora viventi, perirono a Oswiecim-Auschwitz, il famoso campo di sterminio. La stessa coraggiosa Milena, non ebrea, morì nel 1944, dopo quattro anni di campo di concentramento a Ravensbrück.

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Franz Kafka era il figlio primogenito di una famiglia numerosa della quale erano però sopravvissute soltanto tre sorelle: Elli, Valli e Otila. La madre Julie Lowy era una borghese benestante, figlia di un fabbricante di birra. «Sensibilità, equità, irrequietezza» erano, secondo le dichiarazioni dello stesso Franz, i caratteri della linea Lowy e costituirono il retaggio materno dello scrittore. Il padre Hermann Kafka, di estrazione proletaria e poverissima, aveva conquistato con la sua «volontà di vita, di attività e di conquista» un certo benessere e un adeguato riconoscimento sociale. La sua lingua d’origine era il ceco e imparò, non senza fatica, il tedesco. Dopo aver esercitato il commercio ambulante, si trasferì a Praga e aprì, anche con l’aiuto economico dei mezzi della moglie, un negozio di chincaglierie. Nella guida telefonica di Praga del 1907 si definiva “commerciante in mercerie, articoli di moda, chincaglierie, ombrellini, ombrelli, bastoni, cotone» e aggiungeva, con un certo orgoglio, «perito giurato in tribunale». Socialmente il successo era simboleggiato dalla integrazione del gruppo etnico-culturale boemo in quello tedesco più ricco e più colto.
Le vicende familiari di Franz Kafka ebbero notevole peso nella formazione del suo carattere e si riflettono, senza dubbio, nella sua opera letteraria, nei romanzi e nel racconti oltre che, ovviamente, nei Diari e nell’Epistolario. Sarebbe tuttavia un errore interpretare riduttivamente l’opera e il pensiero di Kafka come una semplice transfigurazione simbolica e fantastica della sua vita familiare o della sua appartenenza al mondo ebraico. Ciò che a noi più importa non è la vita quotidiana dell’uomo Franz Kafka, ma ciò che questa vita divenne nell’universalità dell’opera, nel messaggio che l’opera rappresenta al di là della sua genesi biografica o esistenziale. L’interpretazione in chiave biografico-familiare è corretta e accettabile a condizione di comprendere che nei grandi fenomeni culturali ciò che veramente conta non è la matrice dell’esperienza vissuta ma ciò che l’esperienza vissuta diviene trasformandosi nell’opera. Ciò è vero per Goethe come per Kafka.
Che il padre fosse un ebreo proveniente dal proletariato ceco, che fosse vissuto, negli anni difficili della gioventù, abitando nei bassifondi del ghetto di Praga, che fosse autoritario, violento, egoista, incapace di comprendere la natura timida, seria, angosciata del figlio, la sua vocazione letteraria, tutto ciò ha influito grandemente su Franz Kafka. La negatività di un ambiente familiare difficile, di una educazione sbagliata, divennero, tuttavia, per paradosso e compenso, fattori positivi di un’opera che incorpora ed eleva a grandioso simbolo della condizione umana la negatività stessa.
Franz vedeva di raro i genitori e nella famosissima Lettera al padre ha descritto con grande severità la figura del padre portandola a dimensioni mitiche e ieratiche, tiranniche, probabilmente molto lontane dalla realtà. La Lettera al padre è un vero processo, avvocatesco e cavilloso, contro il padre. La lettera è del 1919 e in essa Kafka, che si sente «fallito nella vita della città, della famiglia, nella società, nell’amore, nella comunità nazionale esistente o in quella da realizzare e fallito in modo tale come non è accaduto a nessuno intorno a lui» (Lettera a Max Brod, nov. 1917), compie una vera requisitoria feroce e sofisticata contro il padre che lo ha schiacciato con la sua prepotente personalità, con il suo successo borghese, con la sua brutale vitalità. Il figlio tenta di assolvere se stesso come il prodotto di una educazione sbagliata. Kafka scrive in un passo famoso: “Tu acquistasti ai miei occhi quel qualcosa di enigmatico che hanno tutti i tiranni il cui diritto non è basato sulla logica, ma sulla loro persona». Nel finale della lettera il figlio cede la parola al padre che pronuncia, a sua volta, un duro verdetto: «Tu sei incapace di vivere, ma per poterti sistemare in questa tua incapacità comodamente, senza pensieri e senza rimorsi, dimostri che io ti ho preso tutta la tua vitalità e me la sono messa in tasca. Che ti importa ora di essere incapace di vivere, dato che ne sono io il responsabile».
È fin troppo facile scorgere nei rapporti fra Franz e il padre il modello del complesso di Edipo. In tutta l’opera kafkiana ritroviamo il prototipo dell’autorità tirannica che schiaccia arbitrariamente il servo. È anche molto probabile che vi siano nella contestazione kafkiana residui del mondo espressionistico, che proprio in quegli anni avanzava la sua utopia della «società senza padri», della comunità dei giovani che distruggono la società guglielmina e vivono appartenendo solo a se stessi in una protesta radicale e anarchica. Per la generazione dell’urlo contestatario il padre simboleggiava la tradizione e un ordine che andavano distrutti. Per Kafka il motivo del padre, contestato come paradigma dell’autorità, si complica nel senso che vi si intrecciano altri motivi. Il padre si trasfigura nella fantasia e raggiunge il mito e la leggenda. Egli diviene, secondo alcuni, l’immaginario protagonista di un dramma religioso che rappresenta la cacciata dal Paradiso terrestre.
Il Baioni si è spinto, in questa interpretazione, forse più in là di Kafka stesso quando ha scritto: «l’espulsione e l’esilio: questo è in ultima analisi l’esito del conflitto col padre e soprattutto il dramma della ricerca kafkiana sempre rivolta ad un invalicabile limite metafisica, ad una accecante figura che, come l’Angelo della Genesi, impedisce all’uomo cacciato dal Paradiso terrestre, di avvicinarsi all’Albero della Vita, di consumare i suoi frutti e di divenire con ciò veramente simile a Dio. Questa figura di guardiano e di custode, di giudice e di legislatore che respinge l’uomo che tenti di carpire il mistero della vita è senza dubbio l’esperienza religiosa fondamentale dello scrittore di cui il padre del Verdetto, il guardiano della parabola del Processo e la burocrazia del Castello rappresentano le tre successive variazioni» (G. BAIONI, pp. 68-69).
Il fatto stesso che l’opera kafkiana sia interpretabile in più registri dimostra che l’interpretazione chassidica e cabbalistica, una nuova versione della teologia ebraica di Brod, è per lo meno unilaterale e discutibile. Certamente in Kafka esiste il tema dell’ebraismo ed esiste la ricerca appassionata del positivo contro il negativo, l’assurdo e il tragico. La metamorfosi del negativo, la trasfigurazione del male e del dolore sono problemi vissuti profondamente da Kafka, ma non sono la chiave per reinterpretare ex novo, e in una direzione edificante, tutto ciò che Kafka ha scritto o descritto come alienazione e reificazione dell’uomo.

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Gli uomini kafkiani sono consapevoli del tragico in loro e fuori di loro, cercano tuttavia di contrastarlo per non soccombere. L’abbandono morboso o compiaciuto a una negatività divoratrice appartengono a un’estetica e a un’etica decadentistiche. In Kafka esiste la lotta per il positivo pur avendo egli, come spesso riconosce, incorporato in se stesso la negatività della sua epoca. Max Brod ha sottolineato fortemente questa lotta di Kafka per il positivo, anche se, a mio avviso ha interpretato questa lotta, che fu disperata, in un senso unilateralmente sionistico-ebraico.
Non c’è dubbio che in Kafka fu sempre vivo il desiderio di inserirsi regolarmente in una famiglia e in una comunità, anche se questi tentativi non furono coronati da successo. Kafka sognò per sé e per tutti gli uomini una pienezza di vita. Alcuni suoi amori, come quelli per il giardinaggio o per la falegnameria, esprimono un desiderio di purezza, di semplicità, di ‘naturalità’ che non furono soltanto accorgimenti contro l’incedere della malattia. Il tragico e l’assurdo non sono mai accettati con quella morbosità complice che caratterizza i veri nemici della ragione. Lo stesso stile limpido, essenziale, sobrio, disadorno, che fa di Kafka un Sprachmeister und Meister der kleinen Forma (un maestro di lingua e un maestro della forma dimessa), è una spia inequivocabile del suo rifiuto di una letteratura contorta, asintattica, stilisticamente partecipe del mondo deforme e violento che descrive. L’espressionismo, pur essendo spesso protesta e dissenso, rimane coinvolto, anche stilisticamente, nella deformazione e nell’orrore. Kafka padroneggia con la ragione e con il magistero della forma nitida e concisa il mondo dei mostri e degli incubi da lui evocati.
È opportuno storicizzare Kafka e non vederlo in una dimensione astorica come un poeta fuori del tempo e dello spazio. Egli va dunque riportato nella sua Praga, nella cultura d’avanguardia che rompe con il naturalismo, nell’ambiente ebraico-tedesco in cui è vissuto. Della sua Praga Kafka confida a Janouch, il giovanissimo amico da lui conosciuto nel 1920: «In noi continuano a vivere gli angoli oscuri, le bettole rumorose e le osterie chiuse. Camminiamo per le ampie strade della città recentemente costruita. Tuttavia i nostri passi e i nostri sguardi sono incerti. Il nostro cuore non sa nulla del risanamento compiuto. La vecchia malsana città ebraica è più reale in noi della igienica città nuova che ci circonda. Desti, ci muoviamo in sogno: noi stessi solo un fantasma dei tempi passati» (G. JANOUCH, p. 39).
In queste dichiarazioni rivive il mondo ebraico nel suo vecchio squallore, ma vi è anche il senso dell’arcano, il gusto del fiabesco, la ricerca di un mondo di tradizioni perdute. Kafka, a pochi anni dalla morte, va in cerca delle proprie remote e smarrite radici, di alcuni strati del suo io sepolto. Già la Lettera al padre ci mostra un Kafka senza fede, ma anche un uomo che critica la religiosità formale e astratta del padre. Pur accostandosi alle antiche tradizioni ebraiche, presenti soprattutto nel mondo ebraico orientale, Kafka rimane, a mio avviso, uno sradicato. Ebreo fra i cristiani, tedesco fra i cechi, non integrato appieno in alcuna comunità, né in quella ebraico-occidentale, né in quella cristiana, né in quella germanica, né in quella boema, egli inizia, come Proust, una recherche che non è però confortata da alcun senso di compiaciuto egotismo o di sapiente ricostruzione di un tempo perduto che la memoria ricompone.
Solo l’8% della popolazione di Praga parlava tedesco, e la maggior parte di costoro erano ebrei, odiati dai cechi per il loro atteggiamento filogermanico e per i loro rapporti con la society austroungarica, ma neppure amati dai tedeschi nei quali già serpeggia l’antisemitismo. A tutte le altre estraniazioni si aggiunge dunque, fattore non secondario per uno scrittore, anche una estraniazione linguistica. Kafka parlava perfettamente il boemo, ma il suo destino di scrittore è legato alla lingua tedesca, che diviene in Boemia simbolo di appartenenza a una minoranza detestata. Né, in quegli anni, l’uso della lingua tedesca immetteva Kafka nei grandi circoli letterari internazionali, data l’indole schiva dello scrittore, restio perfino alla pubblicazione delle sue opere.
Sgradito a se stesso, rinchiuso nella propria tana come un animale braccato, Kafka ricerca negli ebrei orientali, poverissimi e fedeli alle tradizioni, quel che non trova negli ebrei occidentali ormai integrati. Isolatissimo e incapace di rompere questo isolamento, nel quale spesso si avvolge, comprende tuttavia il valore dell’ordine talmudico di non isolarsi dalla comunità. Vi è in lui il dramma dell’uomo solitario che si sente colpevole. Lo scapolo cerca la donna e il matrimonio. Si fidanza in due riprese con la ‘berlinese’ Felice Bauer e questa relazione difficile dura cinque anni, dal 1913 al 1917. Nel 1919 si fidanza con Julie Wohryzek. Dopo la rottura di questo nuovo fidanzamento vi è l’incontro con Milena Jesenskà. Nell’ultimo anno della sua vita gli è vicina Doria Diamant, una giovane ventenne, d’origine polacca, una donna ingenua e generosa, che aveva avuto una educazione chassidica. Con lei Kafka vivrà alcuni mesi a Berlino, finalmente accasato e felice. E Dora assisterà l’amico, giorno e notte, negli ultimi mesi che Franz trascorre nel sanatorio di Kierling.
Il proscritto che ha cercato vanamente il matrimonio, cerca anche una comunità, e in mancanza di una comunità reale si abbranca ai brandelli di una comunità in larga parte destorificata e fiabesca come quella superstite degli attori girovaghi e guitti del teatro ebraico-orientale, da lui conosciuti nel 1910. Un attore jiddisch, Jizschak Lowy, gli fa intravedere il sentimento, prima sconosciuto, di una solidarietà ebraica, e lo avvicina alle abitudini degli ebrei orientali. Verso la fine della sua vita Kafka impara l’ebraico e si compiace nel vivere accanto a un piccolo mondo antico alla Chagall, in uno scenario di folklore ebraico.
Ma gli ebrei stessi li guarda come l’espressione di un mondo estraneo, insolito, fonte di ininterrotto stupore. Vive tra essi come un Tonio Kroger, incapace di abbandono e di fusione, senza fede. Proprio Kafka ha scritto: «Che ho in comune con gli ebrei? Ho in comune appena qualcosa con me stesso». Se ebreo in qualche modo si sente, vive in lui, più che altro il senso della diaspora, dell’esilio, della proscrizione, dell’ostracismo. Estremamente sensibile ai valori della tradizione e della leggenda, interessato culturalmente a tutto ciò che è arcaico e fiabesco, misterioso e rituale, Kafka si accosta al mondo ebraico e chassidico, ma non per questo cessa di essere largamente partecipe della cultura occidentale, ed è imbevuto di spirito razionale e critico, scettico e nichilistico. Né si deve mai dimenticare che l’ossessione burocratica e gerarchica, con i suoi processi di ‘razionalizzazione’ caratterizza soprattutto, come ha visto Max Weber, l’epoca industriale e capitalistica. Il problema ebraico, come esperienza decisiva incomincia per Kafka nel 1910, con l’incontro degli attori di Leopoli. Anche se avvertì e partecipò al conflitto tra ebraismo occidentale e orientale, schierandosi dalla parte degli ebrei orientali, Kafka non fu mai, come il suo amico Brod, un sionista convinto o un convertito alla fede dei padri.
L’ebraismo di Kafka esiste, perché Franz era ebreo ed era, come ho detto, vivamente interessato alla tradizione e a ciò che vi era in essa di fiabesco e di leggendario. Ma l’ebraismo di Kafka non è quello di Max Brod. Nella Lettera al padre vediamo che l’adolescenza di Kafka non è religiosa, anche se egli si reca quattro volte all’anno nel Tempio con il padre. In seguito «le questioni ebraiche lo occupavano più di prima», ma egli non sembra aver attribuito a questo rinnovato interesse per le scritture ebraiche alcun significato risolutore per la propria esistenza.
Quando Max Brod, che vede l’amico assai più simile a sé di quanto non sia, trasforma Kafka in un teologo ebraico o in un sionista, egli forza le tinte. E le forza anche quando sottolinea, nel mondo spirituale di Kafka, la positività, l’affermazione della vita, la religiosità come fede attiva. Per quanto a me pare, Kafka non esce mai dalla disperazione, dalla posizione tragica, anche se in alcuni momenti della sua esistenza la tragicità sembra illuminarsi con fiammelle di speranza. Max Brod stesso sembra rendersi conto dei limiti della sua interpretazione quando scrive: «Mentre nell’opera di Kafka attribuisco particolare importanza al lato della speranza e della gioiosa attività, cioè alla fondamentale intuizione che con la sua piccola favilla di intelletto, di volontà e di nozioni etiche l’uomo non è affatto uno zimbello di forze strapotenti le quali giudicano secondo leggi diverse dalle sue, leggi che egli non comprende, non comprenderà mai, davanti alle quali è perduto e costretto ad arrendersi a discrezione (è il vecchio problema di Giobbe): mentre dunque sottolineo in Kafka la posizione della libertà umana, non dimentico beninteso che questa posizione di Kafka è soltanto una favilla e che il lettore assorbe in stragrande maggioranza le affermazioni che spodestano l’uomo. Senonché le tesi della libertà e della speranza ci sono anch’esse» (M. BROD, F. Kafka, pp. 192,193).
Non abbiamo mai il diritto di dimenticare - in ogni interpretazione troppo costruttiva e ‘positiva’ di Kafka, in ogni inquadramento teologico-religioso del suo pensiero, sia in chiave cristiana e kierkegaardiana, come teologo della crisi, sia in chiave ebraica talmudica o chassidica la confessione inequivocabile dello scrittore nei suoi Tagebucher: «Io ho potentemente assunto il negativo del mio tempo (das Negative meiner Zeit) che mi è certo assai vicino e che io non ho il diritto di combattere, ma, in certo modo, di rappresentare. Né al pochissimo di positivo, né al negativo estremo che si rovescia in positivo, io ho partecipato in alcun modo. Io non sono stato introdotto nella vita, come Kierkegaard, dalla mano già cadente del cristianesimo, e neppure ho afferrato l’ultimo lembo dileguante del mantello ebraico da preghiera. Io sono una fine o un principio».
È un testo di una lucidità e di una consapevolezza straordinarie. E per tale motivo ho ripetuto di proposito la citazione in un altro capitolo di questo mio libro. Raramente uno scrittore ha raffigurato con tanta chiarezza e precisione il significato della propria opera e il valore della propria testimonianza nella storia della propria epoca e della propria cultura. Kafka rappresenta davvero, in forma esemplare e simbolica, il ‘negativo’ del suo tempo, tutto ciò che il suo tempo ha di tragico, di irrazionale, di disumano. L’alienazione e la reificazione dell’uomo, il suo avvilimento e la sua degradazione trovano nelle sue pagine una raffigurazione fiabesca e inorridita. Proprio al socialismo e al marxismo, a quelle visioni del mondo che contengono una radicale protesta contro la condizione storica dell’uomo nell’epoca del grande capitalismo industriale, Kafka offre l’immagine più allucinata e straziante di tale condizione. Questo non significa, naturalmente, che Kafka sia trascrivibile in questi schemi sociologici semplificati o che Kafka, poeta del negativo, sia un fenomeno parasocialistico e o paramarxistico da integrare e cor-reggere con ciò che il socialismo e il marxismo hanno di positivo e di edificante.
L’opera kafkiana, proprio per il suo livello di originalità e profondità, non si lascia risolvere o dissolvere nelle dimensioni di un sociologismo frettoloso, per le stesse ragioni per cui non si lascia esplorare o definire esaustivamente con le tecniche interpretative della psicoanalisi - che vi vede la storia di un complesso di colpa o di un complesso paterno - della teologia della crisi che vi ravvisa la simbolizzazione artistica dell’infinita distanza qualitativa dell’uomo dal mistero di Dio - del positivismo volgare - che trova la chiave dell’opera nell’insonnia, nella nevrosi, nella malattia cerebrale e polmonare - né nell’interpretazione misticheggiante - secondo cui l’ebreo Kafka narra, attraverso i misteriosi veli della Cabbala e delle leggende chassidiche, la storia tormentata, dolorosa, non priva di luce e speranza, del proprio errante popolo.
Tutti i motivi accennati risuonano nella musica kafkiana e sarebbe difficile individuare nello spartito quali siano i temi dominanti. Vi risuona inequivocabile il tema storico della negatività del nostro tempo e della alienazione dell’uomo, ma nell’armonia kafkiana, in questo vasto contrappunto in cui si alternano audaci consonanze e dissonanze, non si può mai dire: ecco il tema fondamentale! è questo il motivo centrale! Kafka illude e delude tutti gli interpreti più sottili e ingegnosi, tutti i ricercatori di miti e misteri riposti. Possono avere tutti ragione ma non vi è dubbio che la ragione si converte nel torto quando un criterio ermeneutico la fa da padrone e scaccia o disdegna i motivi di legittimità di altri criteri. È probabile che l’ermeneutica più valida sia quella meno alchimistica e più universale, meno arzigogolata e più umana. Il Kafka più vero è quello in cui più schiettamente si riconoscono gli uomini del nostro tempo, che non è certo un tempo felice. L’uomo di Kafka è l’uomo in genere più che l’uomo specifico del mondo borghese o capitalistico, l’uomo partecipe di una condizione umana alienante e reificante più che l’uomo delle cliniche psichiatriche o neurologiche o l’uomo piagato nella mente e nel corpo ed escluso dalla società per le proprie insufficienze o tare psichiche e somatiche. È l’uomo degli umili e dei sofferenti, molto vicino all’uomo dostoevskijano, non l’uomo dei dotti e dei teologi che disquisiscono su Kierkegaard, su Barth e sui loro eredi. La nota fondamentale è accompagnata da suoni armonici che indubbiamente esistono, ma questa nota fondamentale - è qui la grandezza di Kafka e la sua universalità - è avvertita dall’uomo meno provvisto di cultura e più sensibile al disagio della nostra epoca, anche se i suoni armonici sono percepiti soltanto dall’orecchio esercitato degli esperti di sociologia più o meno marxista, di diagnosi freudiane, di argomentazioni teologiche protestanti o ebraiche.
Proprio per il fatto che siamo tanto debitori a Max Brod, biografo ed editore di Kafka, custode attento e scrupoloso dei manoscritti e della fama kafkiani, amico intimo dello scrittore, dobbiamo respingere senza equivoci l’interpretazione, senza dubbio autorevole, che Max Brod ha dato dell’opera kafkiana. Questa interpretazione non può tuttavia essere respinta senza essere discussa con una certa ampiezza perché nessun critico fu più vicino a Kafka. Né può essere respinta senza accettare alcuni validi motivi che essa contiene.
Quando Max Brod porta con sé l’amico Franz a uno dei pasti rituali ebraici accompagnati da canti chassidici, Kafka gli dice, mentre ritornano a casa: «A rigore, pareva di essere in mezzo a una tribù selvaggia africana. Niente altro che superstizione». È Max Brod stesso a riferire l’episodio, osservando che queste parole «segnavano... un gelido rifiuto» (Cfr. M. BROD, F. Kafka, p. 173). È vero che Kafka impara l’ebraico nel 1917 e si preoccupa, sempre più vivamente, di temi etici e religiosi, come attestano i suoi studi sempre più intensi su Kierkegaard. È vero che esiste in Kafka una «battaglia per il bene nonostante tutto “, ma questi frammenti di fede morale, questa lotta disperata contro l’assurdo e il tragico, non sono l’espressione di una fede religiosa raggiunta e consolatrice. Max Brod ritiene di poter riassumere la concezione fondamentale di Kafka in questa formula: «Quasi tutto è incerto, ma a partire da un dato grado di conoscenza non si erra più». E trova analogie tra il pensiero di Kafka e la dottrina platonica che nel Fedro assicura «che coloro i quali abbiano preso il sentiero superiore non sono destinati a scendere sull’inferiore». Ma non ci dà alcuna prova testuale di queste dichiarazioni. Anzi, ciò che Brod scrive a sostegno della tesi che per Kafka esistono verità incrollabili sembra, piuttosto, provare il contrario. Si esamini, ad esempio, questo testo di Brod riguardante la fede positiva di Kafka:
«Nonostante il dolore per l’imperfezione e l’impenetrabilità delle azioni umane, Kafka era convinto che esistono verità incrollabili. Non lo disse a parole bensì attraverso il comportamento di tutta la sua vita. Appunto perciò ci si sentiva infinitamente bene accanto a lui ad onta della depressione che da lui emanava. L’«indistruttibile» si manifestava, il contegno silenzioso e non invadente ma deciso di Kafka era, per così dire, il pegno delle eterne leggi dell’amore, della ragione e della bontà. Egli fu, è vero, quasi sconfinatamente scettico e ironico ma per lui non c’era, ad esempio, alcuno scetticismo circa la natura e la linea essenziale di Goethe. Dunque non era ‘sconfinatamente scettico’? No, c’era un limite, un limite molto remoto ma pur sempre un limite» (M. BROD, op. cit., p. 195).

Il lettore non prevenuto non può non rendersi conto della vaghezza e della fragilità di argomentazioni di questo genere. I testi tacciono, ma la fede di Kafka sarebbe provata dalle manifestazioni del suo comportamento! La consapevolezza dell’insufficienza umana, «il senso della lontananza da Dio che si manifesta così decisamente in tutti i suoi scritti», il profondo, nostalgico desiderio di una regolare immatricolazione in una vita giusta, sancita da un vincolo matrimoniale, da un lavoro riconosciuto; da una partecipazione a una comunità, non costituiscono la prova che per Kafka l’assoluto esista come termine di una fede conquistata o che «l’indistruttibile» fosse per lui, come afferma Brod «certezza immediata e centro della sua esistenza». La cosa migliore è, forse, criticare Brod con le sue stesse parole, dato che Brod è un critico onesto e non nasconde tutto ciò che, a mio avviso, finisce per demolire le sue stesse tesi:
Ecco quanto scrive:
«L’assoluto esiste ma è incommensurabile rispetto alla vita umana: questa sembra l’esperienza fondamentale di Kafka, ricavata in sempre nuove variazioni dalla profondità dei fatti vissuti: nella più amara ironia, nella disperazione, nell’inaudita denigrazione di sé e in una tenue speranza che trapela da tutto lo sfrenato scetticismo, non spesso, ma qua e là e con tanto maggiore chiarezza. Il tema principale è sempre l’enorme pericolo di perdere la via giusta, un pericolo d’importanza così grottesca che, a rigore, soltanto un caso (gratia praeveniens) ci può indurre a entrare nella ‘legge’, cioè nella vita giusta e perfetta, nel ‘tao’. Per contro è molto più probabile che si sbagli la via. ‘Una volta seguito il falso allarme del campanello notturno, non si può mai più rimediare’. Il perpetuo malinteso fra l’uomo e Dio spinge Kafka a rappresentare più volte questa sproporzione sotto l’aspetto di due mondi che non si possono mai comprendere fra loro: perciò l’infinita distanza fra la bestia muta e l’uomo è uno dei suoi argomenti principi in tutte quelle storie di animali che la sua opera contiene non a caso. Lo stesso vale per il muro che divide padre e figlio. Su tutto ciò che esprime una incommensurabilità lo sguardo di questo scrittore si fissa con infinita pietà e comprensione stabilendo un muto legame col più grande e fatale di tutti i malintesi, col fallimento dell’uomo di fronte a Dio» (M. BROD, op_ cit., pp. 196-197)_.
Disperazione, autodenigrazione, sfrenato scetticismo, perpetuo malinteso, muro, incommensurabilità, fallimento, le parole che Max Brod giustamente adopera per descrivere il mondo kafkiano, non sono testimonianze irrefutabili che «al di là» vi sia la fede in un mondo assoluto e perfetto che il credente deve chiamare Dio. Nessuno ha insistito più di Kierkegaard, uno scrittore amato da Kafka, sulla finitezza, sulla temporalità, sul peccato dell’uomo, posto a una infinita distanza da Dio. Ma il Dio trascendente, qualitativamente ‘altro’ dall’uomo, irraggiungibile dai comuni strumenti della ragione, è il Dio che continuamente vive nel cuore di Kierkegaard. Per Kierkegaard e per i teologi della crisi che da lui muovono, la distanza qualitativa tra Dio e l’uomo è sempre superata e colmata dalla fede. Non ci sono dubbi che la negatività kierkegaardiana si capovolga nella positività di un cristianesimo accettato integralmente, nella dialettica paradossale della vita religiosa. Niente di tutto questo in Kafka. Brod assume in proprio una interpretazione teologico-kierkegaardiana del pensiero di Kafka, spostando l’asse della religiosità dal cristianesimo all’ebraismo, ma non è ben consapevole dell’operazione ermeneutica che compie. Mentre rifiuta, in apparenza, quelle che chiama, con un certo disprezzo, le «architetture teologiche» costruite sul pensiero kafkiano, non si accorge di costruire, a sua volta, una architettura teologica giudaico-sionistica. Se è vero che agli occhi acuti dello spirito di Kafka non sfuggivano «nessuno degli infiniti e disgustosi errori, nessun peccato, nessuna delle ridicolaggini con le quali gli uomini si amareggiano la vita a vicenda, anzi se la rendono impossibile, e con le quali si scostano sempre più dalla fonte della vita» (M. BROD, op. cit., p. 197), questa negatività non è il preannuncio inevitabile di una trascendenza divina, che può apparire estranea, paurosa, illogica, al di là dei nostri comuni parametri razionali ed etici, ma è, sostanzialmente, il mondo degli assoluti e perfetti valori in cui l’anima trova rifugio e salvezza.
Ciò che mi pare, in qualche misura, accettabile e convincente nelle tesi di Brod è la scoperta di un orientamento etico che caratterizza fortemente la vita e l’opera di Kafka. La lotta dello scrittore consiste nel rifiutare il proprio assenso, la propria condiscendenza al mondo da lui descritto come un girone infernale. L’uomo kafkiano è una specie di Faust in costante ricerca. Il suo itinerario non si conclude in un paradiso celeste, in una salvezza finale confortata da cori angelici, ma in una denuncia dell’iter impossibile che l’uomo è costretto a percorrere senza alcuna gioia o vera partecipazione. Il senso della filosofia kafkiana, se di filosofia si può parlare in questo caso, è un no, una protesta, un atto di accusa contro una condizione umana viziata da ciò che oggi si vuole chiamare alienazione o reificazione, in gergo marxista. L’uomo è l’ente che costantemente lotta per il proprio riscatto, anche se Kafka non indica mai quali siano le forme storiche concrete in cui può avvenire l’operazione del riscatto dalla condizione disumanata e avvilita. Kafka non scrive un trattato di teologia o di politica in cui siano già date le soluzioni esemplari per vincere il peccato o l’ingiustizia sociale. Personalmente era un uomo buono e sensibilissimo ai problemi etico-religiosi del peccato e del male o ai problemi etico-politici della ingiustizia, della crudeltà e della violenza. È anche abbastanza facile trascrivere su nastri metafisici, teologici o politici il senso dell’opera kafkiana. Kafka non l’ha fatto. E in questo riserbo è un elemento non piccolo della sua levatura artistica e della sua qualità intellettuale.
L’aspetto più singolare e paradossale della poesia kafkiana - poiché si tratta senza dubbio di un’opera di alto valore poetico - è che essa, nella sua universalità, accoglie tutti i particolari senza identificarsi o esaurirsi in alcuno di essi. Non è affatto casuale o gratuito che dell’opera kafkiana siano state possibili tante e così diverse interpretazioni, in un processo di ininterrotta metamorfosi che non pare ancora destinato a fermarsi. Come le grandi favole, come i grandi miti, come le grandi figure simboliche, l’opera kafkiana, che è, in fondo, favola, mito, simbolo, si offre felicemente agli esperimenti ermeneutici più vari e contraddittori e ogni volta l’esperimento è confortato da risultati concreti e accettabili. L’opera, in altri termini, «regge» benissimo a letture in registri differenti, tanto ricca appare di significati umani profondi e di valori storici che si dispiegano in una morfologia complessa.
In questo senso ‘regge’, ossia è valida e coerente, tanto l’interpretazione religiosa di tipo kierkegaardiano, come l’interpretazione psicanalitica che vede nel personaggio kafkiano la storia di una nevrosi o di un complesso, tanto l’interpretazione marxista, per cui la favola kafkiana è il racconto simbolico e trasfigurato dell’uomo estraniato e reificato, come l’interpretazione giudaica che vi ravvisa la storia dell’ebreo errante, ovunque straniero e perseguitato, ovunque in cerca della propria identità e del proprio riconoscimento. I cattolici vi hanno scorto persino l’itinerario doloroso e drammatico dell’ebreo che non accetta Cristo. E regge bene anche una interpretazione di tipo esistenzialistico o heideggeriano che descrive l’avventura di un uomo scagliato nel mondo e affacciato sugli abissi del nulla e dell’angoscia.
Come Faust, come Don Chisciotte, come Don Giovanni, il personaggio kafkiano è stratificato, polivalente, multiforme, pur essendo letterariamente stilizzato con una estrema sobrietà, che giunge fino alla scarnificazione. La possibilità, che il messaggio kafkiano possiede, di essere trasmesso su lunghezze d’onda variabili, senza mai deteriorarsi o svuotarsi di senso, è la riprova che in esso particolarità e universalità si identificano senza mai cadere nella genericità. Solo i grandi archetipi del mito e della fiaba possiedono questa duttilità e questa vita inesauribile.


2. L’uomo Franz Kafka nei «Diari» [Questo capitolo era già apparso come saggio nella rivista Il pensiero critico (1952) e come Introduzione ai Diari (ed. Mondadori 1952). Ho introdotto modifiche e aggiunte. Ringrazio l’ed1tore Mondadori per avermi consentito di inserire in questo libro le pagine scritte allora.]

In un passo dei suoi Tagebücher Kafka interpreta il proprio destino spirituale come l’impegno di vivere e rappresentare ciò che il suo tempo ha di negativo. L’importante passo, che illumina con luce cruda e fredda il significato storico dell’opera kafkiana, è, insieme, confessione e documento. Conviene citarlo: «Io ho potentemente assunto (kaftig aufgenommen) il negativo del mio tempo (das Negative meiner Zeit) che mi è certo assai vicino e che io non ho il diritto di combattere, ma, in certo modo, di rappresentare. Né al pochissimo di positivo, né al negativo estremo che si rovescia in positivo, io ho partecipato in alcun modo. lo non sono stato introdotto nella vita, come Kierkegaard, dalla mano già cadente del cristianesimo, e neppure ho afferrato l’ultimo lembo dileguante del mantello ebraico da preghiera. Io sono una fine o un principio». Con queste parole Kafka riconosce il valore che la sua persona e la sua opera hanno come testimonianza di un tempo infelice e negativo, e respinge, avanti lettera, i troppo sottili argomenti che lo zelo teologico dei critici - valga Max Brod per tutti - ha escogitato a commento-chiave degli scritti kafkiani. Del negativo, dell’assurdo, del nulla, di tutto ciò insomma che è per l’uomo barriera che ostacola il cammino e delude la speranza mortificando la ragione, Kafka fu l’interprete e il poeta.
Questa ‘assunzione’ del negativo vissuto come destino fu la croce dell’uomo Franz Kafka. Ammalato in cerca di guarigione, continuò fino all’ultimo a cercare e volere il positivo. Non vi è in lui alcun compiacimento estatico del nulla e dell’assurdo, come in Nietzsche, innamorato della tragedia. Kafka non desiderava confondersi o identificarsi con il negativo, né pretendeva che dall’estremo della miseria e della malattia nascessero, con un capovolgimento dialettico, la pienezza e la salute. Non si ravvisano in lui la fede paradossale e antimondana di Kierkegaard, né, in alcun modo, l’ottimismo razionale e storicistico di Hegel. Ogni sistemazione teologica o filosofica che annulli la realtà e il dolore del negativo per includerlo e dissolverlo entro una giustificazione metafisica del mondo non trova vero credito presso di lui, testimone lucido e spietato della propria e dell’altrui malattia. Un ammalato può ingannare se stesso dichiarando inesistente la propria malattia oppure interpretando come vera salute lo stato patologico in cui si trova. Kafka si ribellò sempre a questa mistificazione che è una metamorfosi morbosa dei valori del mondo. Nei suoi Tagebücher, come il giovinetto in America, come il procuratore nel Processo, come l’agrimensore nel Castello, egli è l’uomo che lotta per il bene e per l’ordine, per l’amore e per la salute, l’uomo che sogna le gioie della famiglia e cerca un’esistenza armonica, stabile e propizia. Voleva vivere come un uomo sano e utile. Il proprio sfuggire alla norma e divenire eccezione non gli dava l’orgoglio delirante del superuomo; lo affliggeva piuttosto come ribellione ingiustificata, e quindi colpevole, a una legge enigmatica ma tuttavia presente e dominante. In un mondo indecifrato e indecifrabile questa legge è incognita e non si identifica ad alcuna norma reperibile storicamente.
Il cristiano Nietzsche è invaso da gioia nichilistica nel veder crollare l’impalcatura teologica e teleologica su cui si regge l’edificio morale del cristianesimo. L’ebreo Kafka - un ebreo che attraversa le condizioni storiche dell’ebraismo ma non vi rimane impigliato o confinato e parla dunque per tutti, in termini universali - sente la tragicità di questo evento e soffre di non poter essere introdotto nella vita dalla mano del cristianesimo. Kierkegaard vede nel mondo un luogo in cui le leggi storiche della ragione e dell’etica possono, improvvisamente, anche non essere più valide; ma questa irruzione del paradosso e dell’assurdo nell’apparente e fragile ordine del mondo umano e storico prepara, in lui, quel vuoto che è il miglior preludio alla fede e al «salto» nella trascendenza. Il paradosso e l’assurdo kafkiano nascono invece in un desolato e ineludibile confronto tra speranza e realtà. Il mondo inquietante e ambiguo, fasciato di parvenza, è una realtà in cui non si intravvede, per l’uomo che porta lo stigma della fallibilità e della finitudine, salvezza o riscatto. La struttura metafisica del mondo non si svela, e l’essere non pare preoccuparsi di giustificare il suo apparire così piuttosto che in altro modo. Se giustificazione vi può essere, questa giustificazione senza giustizia pare provenire da un decreto in apparenza diabolico per cui l’uomo, nella sua esistenza terrestre, è soprattutto vittima e zimbello. Se teologia v’è, essa, paradossalmente, è una teologia senza Dio e senza Provvidenza, una teologia che è parabola e metafora più che realtà religiosa positiva.
I Diari, nei loro passi più significativi, ci danno la riprova psicologica e biografica della disperazione e del nichilismo metafisici di Kafka. Il 19 luglio 1910, quando Kafka ha appena ventisette anni ed è ancora in buona salute, leggiamo nei Diari: «Dormito, destato, dormito, destato, vita miserabile». Fin dalle prime pagine s’incontrano accenti disperati, espressioni di sfiducia, invettive contro l’educazione che ha ricevuto e l’ambiente in cui vive, imprecazioni contro il proprio corpo, la propria goffaggine nel vestire, la propria psicologia. Una nota del 2 novembre 1911 - l’anno del viaggio abbastanza lieto a Zurigo, Lugano, Milano, Parigi con Max Brod - si esprime in queste parole d’incubo: «Stamane per la prima volta dopo lungo tempo di nuovo la gioia di immaginare un coltello girato nel mio cuore». In un appunto del 9 marzo 1914 esclama: «Quante fatiche per mantenersi in vita! Nessun monumento richiede un tale impiego di forze per essere eretto». E il 6 agosto 1914: «Sono disfatto anziché rimesso in salute. Un vaso vuoto ancora intero e già fra cocci oppure già coccio e ancora fra gli interi. Tutto menzogna, odio e invidia. Inetto, sciocco, duro di comprendonio. Tutto pigrizia, debolezza e incapacità di difesa. All’età di trentun anni». E il 5 dicembre 1914: «Un’immagine della mia esistenza sarebbe una pertica inutile, incrostata di brina e neve, infilata obliquamente nel terreno, in un campo profondamente sconvolto, al margine d’una grande pianura, in una buia notte invernale».
Max Brod ci descrive Kafka come un uomo lieto, affabile, ben educato, pronto allo scherzo. Non ne dubitiamo; la gentilezza e la cordialità non escludono l’interna desolazione. Spesso sono l’unico modo di creare una sutura qualsiasi tra sé e il mondo. Ma il Kafka più autentico è quello che trema al pensiero di essere costretto a «guardar fisso nel vuoto perfetto» (15 agosto 1914), l’uomo che si sente «cavo come un conchiglia sulla spiaggia, disposta a farsi stritolare da una pedata» (23 marzo 1915), l’uomo che dispera di se stesso e scrive: «Incapace di vivere col prossimo, di parlare. Mi sprofondo tutto in me stesso, penso a me stesso. Torpido, svagato, ansioso. Non ho niente da comunicare, mai, a nessuno...» (27 aprile 1915).
Neppure la guerra riesce a distoglierlo dalla sua fissità angosciata: «La guerra non mi suggerisce nessuna idea degna di essere comunicata». Le pagine dei Diari, salvo rare e brevi parentesi, esprimono questo senso continuo di frustrazione e nichilismo. Il 23 gennaio 1922, due anni prima di morire consunto dalla tubercolosi, Kafka paragona la sua vita passata a un’«evoluzione tutt’al più simile a quella di un dente che si svuota e va in rovina». In uno sconsolato bilancio della propria esistenza elenca i propri fallimenti: il pianoforte, il violino, le lingue, il giornalismo, l’antisionismo, il sionismo, l’ebraico, il giardinaggio, la falegnameria, la letteratura, i tentativi di matrimonio, la propria abitazione. E paragona la sua vita alla costruzione geometrica di un cerchio. Come tutti egli cerca, partendo dal centro, di percorrere il raggio decisivo per tracciare poi un bel cerchio. Ma non fa che prendere la rincorsa verso il raggio, e tutto resta incompiuto. Sebbene desolato, lotta, e rifiuta di accettare o subire come conclusione il nulla e la negatività. Nel settembre del 1917, pochi giorni dopo che gli è stata diagnosticata la tubercolosi, annota come in un programma: «La felicità l’avrò solo nel caso in cui io possa sollevare il mondo nel pure, nel vero, nell’immutabile».
Questo appunto, divenuto fin troppo celebre, più che l’abbozzo di un sistema di teologia, come crede Max Brod, mi pare esprima la speranza ultima di un uomo che vuol riscattarsi dal logorio del tempo con la testimonianza assoluta della propria opera, con la letteratura intesa non già come evasione ma come documento della condizione propria e altrui. Una condizione in cui l’uomo non diserta il campo e lotta per chiarire le condizione stesse della lotta. Sebbene i Diari divengano più cupi ed ermetici nelle annotazioni sempre più rare e concise degli ultimi anni, quando Kafka si sente «inetto a tutto tranne che ai dolori», anche nei primi anni risuonano le note d’incubo e balenano le visioni allucinate e strazianti di sé torturato, inseguito, ferito. Tra l’opera e l’esistenza quotidiana non vi è che un leggero diaframma e, molto spesso, le annotazioni dei Diari sono insieme il racconto dei sogni, la confessione delle angosce e l’abbozzo di un racconto: «Continuamente la visione di un largo coltello da salumiere che dal fianco mi entra nel corpo con grande rapidità e con regolarità meccanica, e taglia fette sottilissime, le quali, data la velocità, volano via quasi arrotolate» (4 maggio 1913). Di quest’uomo nevrastenico che urla: «Niente, niente, niente. Debolezza, annichilimento, cima di una fiamma infernale, uscita dal suolo» (23 luglio 1913), si è voluto, da parte di alcuni critici edificanti, fare l’apostolo di una fede messianica. In questo infelice che confessa: «Tortura a letto verso il mattino. Unica soluzione intravista nel salto della finestra», Max Brod, Pierre Klossowski, Hans Joachim Schoeps, Robert Rochefort, André Németh, Edwin Muir, Oscar Navarro, e altri han voluto vedere un nuovo profeta che annuncia il Regno!
Spesso - lo sappiamo - angoscia e fede, nichilismo e valore supremo sono termini insieme opposti e complementari che si richiamano in una dialettica paradossale. Ma Kafka ha detto chiaramente: «Al negativo estremo che si rovescia in positivo io non ho partecipato in alcun modo». E ha aggiunto, altrettanto chiaramente: «Neppure al pochissimo di positivo ho partecipato». La disperazione kafkiana non è quindi la crisi interna del «finito» che attende di redimersi dall’alto per una santa investitura. È piuttosto la crisi di un uomo che dispera del «finito» perché lo sente irrimediabilmente assurdo e refrattario alla propria umana e tuttavia persistente anche se tiepida speranza. L’intera realtà si scompone e dissolve per Kafka in un nulla fantasmagorico e frammentario che l’uomo non riesce ad accettare senza lotta e protesta: «Tutto è fantasia: la famiglia, l’ufficio, gli amici, la strada: fantasia, lontana o vicina, la donna; ma la verità più prossima è che tu premi la testa contro il muro d’una cella senza finestre e senza porte» (21 ottobre 1921).
Più che dare un giudizio metafisico o morale sulla realtà Kafka confessa qui la sua personale disperazione. Il 2 novembre 1921 scrive: «Un interminabile torbido pomeriggio domenicale che ingoia anni interi, un pomeriggio fatto di anni. A volta a volta disperato nelle vie deserte e calmato sul divano. Stupore alla vista delle nubi assurde, incolori, migranti quasi incessantemente. ‘Tu sei destinato a un grande lunedì!’ - ‘Ben detto, ma la domenica non finisce mai’». Questa depressione, questa sfiducia nel proprio destino, questo senso oppressivo di frustrazione non sono soltanto la conseguenza della malattia. Nel 1913, a trent’anni, in un periodo in cui non gli mancano, o non gli dovrebbero mancare, le soddisfazioni offerte da viaggi interessanti, da pubblicazioni fortunale, così giudica se stesso: «In fondo sono un uomo incapace, ignorante che, se non fosse andato a scuola, costretto senza alcun merito suo, quasi senza accorgersi della costrizione, sarebbe esattamente in grado di stare accovacciato in un canile, di saltar fuori quando gli dessero da mangiare e di ritornare dentro dopo avere ingoiato il pasto» (18 novembre 1913); «Sono tutto vuoto e assurdo, il tram che passa ha più senso di vita» (20 novembre 1913).
Nel 1913 Kafka aveva già pubblicato presso l’editore Rowohlt La condanna e La metamorfosi, e in quei racconti il suo mondo interiore appare già compiuto. Il decennio che segue non fa che approfondire e acuire quel senso angosciato di estraniazione dalla famiglia, dalla società, dalla realtà, da tutto ciò che intraprende e spera nel generoso tentativo, mai abbandonato, di sottrarsi alla negatività. Dell’agosto 1913 è questo significativo colloquio con la madre: «Dunque, nessuno ti comprende. Probabilmente anch’io ti sono estranea, e anche il babbo. Noi tutti dunque vogliamo soltanto il tuo male. - Certo, tutti mi siete estranei, esiste soltanto la consanguineità, ma non si manifesta. Certo voi non volete il mio male». E nella stessa pagina dei Diari un proposito ostinato e quasi infantile che sembra una dichiarazione di guerra: «Mi isolerò da tutti fino allo stordimento. Mi inimicherò tutti, non parlerò con nessuno». Quanto fosse oppressivo il rapporto col padre autoritario e violento, risulta dalla celebre Lettera al Padre che è, insieme, una protesta e la rivelazione di un «complesso». Non meno insopportabile è la vita d’ufficio, sentita da Kafka in contrasto col suo unico desiderio e con la sua unica professione che è la letteratura: «Siccome non sono altro che letteratura e non posso né voglio essere altro, il mio posto in ufficio non mi attirerà mai, ma potrà invece rovinarmi del tutto. Non ne sono molto lontano» (21 agosto 1913).
Come Flaubert, scrittore da lui molto amato, Kafka avrebbe potuto dire di se stesso: «Je suis un homme plume, je suis par elle, à cause d’elle, par rapport à elle». Ma questa identificazione dell’uomo con la vocazione letteraria non racchiude alcun compiacimento o alcuna vanità. Kafka non ha mai avuto le smorfie e le civetterie del letterato professionista o mestierante che ritiene la propria arte un privilegiato e sapiente gioco dell’intelligenza e della sensibilità. Non aveva, in alcun modo, i gusti e le gioie di un parnassiano estetizzante e neppure i piaceri gidiani, un po’ provocatori ed esibizionistici, del fare buona letteratura con i cattivi sentimenti, a contatto del maligno. Scrivere è per lui semplicemente una necessità, una lotta per l’esistenza. Il bisogno di chiudersi in solitudine, di eliminare i motivi di attrito con il mondo esteriore per raccogliersi ad ascoltare e a registrare la sua «sognante vita interiore», entrava in conflitto con il desiderio, non meno forte, anche se per lui irrealizzabile, di comunione e solidarietà. Questo contrasto, vissuto con lucidità estrema e con la consapevolezza di un destino o di una colpa che si oppongono a una schietta e cordiale felicità, lacera l’animo di Kafka. Entrare in una comunità, accettarne tradizioni e leggi, essere armonicamente accolto in una società retta da un costume saldo che diviene ragione di vita, ecco la sua aspirazione costante. Ma questo slancio è come frenato da una inibizione invincibile. L’invito della comunità diviene immediatamente coscienza di esercitare un rifiuto e provoca, per contraccolpo, il senso penoso dell’isolamento e della estraniazione.

Il 25 ottobre 1921 Franz racconta un episodio molto indicativo in proposito: «I genitori giocavano a carte: io ero seduto accanto, del tutto estraneo; il babbo mi invitò a prender parte al gioco o almeno a guardare; io trovai non so quale scusa. Che significava quella mia ribellione tante volte ripetuta fin dall’infanzia? La vita comune, la vita, dirò così, pubblica mi era resa accessibile da quell’invito, la prestazione che mi si chiedeva l’avrei data non bene ma passabilmente, anche il gioco probabilmente non mi avrebbe annoiato troppo: ciò nonostante rifiutai. A giudicare da ciò ho torto di lamentarmi che la corrente della vita non mi abbia mai trascinato, che io non mi sia mai staccato da Praga, non mi sia mai dedicato a uno sport o a un mestiere: probabilmente avrei sempre rifiutato l’offerta come l’invito a giocare. Soltanto le cose insensate furono accolte, lo studio della giurisprudenza, l’ufficio e, in seguito, alcuni assurdi ricuperi, come un po’ di giardinaggio, di falegnameria e simili, ricuperi che vanno considerati come il modo di agire di uno che butta fuori di casa l’accattone bisognoso e poi fa da solo la parte del benefattore passando l’elemosina dalla sua mano destra alla sinistra». Quattro giorni più tardi partecipa davvero al gioco di carne e annota per sua madre le vincite. Non ne deriva alcun avvicinamento e rimane sopraffatto dalla noia e dalla tristezza per il tempo perduto. Dal piccolo episodio nasce una considerazione amara: «E così sarebbe stato sempre. Solo rarissimamente ho valicato questo territorio di confine fra la solitudine e la società e anzi vi ho messo radici più profonde che nella solitudine stessa. Quale paese vivo e bello era in confronto l’isola di Robinson!». L’impossibilità di comunicare con altri uomini gli suggerisce il pensiero, già presente nella Metamorfosi e in molti altri racconti, di appartenere a una specie diversa. «Che cosa ti lega a questi corpi delimitati, parlanti, lampeggianti dagli occhi, più strettamente che a qualunque altra cosa, diciamo al portapenne che hai in mano? Forse il fatto che sei della loro specie? Ma non sei della loro specie, perciò appunto hai formulato questa domanda» (30 ottobre 1921). Tali pensieri sono in apparenza aridi e cinici, in realtà nascono da una nostalgia persistente e tenerissima di comunione e di intimità. Ed è questa nostalgia che fa esclamare a Kafka:
«La solida delimitazione dei corpi umani è spaventosa».
Anche la vita matrimoniale, lungamente desiderata e sognata come una soluzione possibile per inserirsi finalmente nel mondo obiettivo, per immatricolarsi nella vita pubblica, gli appare, più di una volta, come un pericolo e un errore. La lunga esperienza del fidanzamento con Felice Bauer, così simile all’esperienza di Kierkegaard con Regina Olsen, il patetico incontro del 1923 con Dora Dymant, il precedente fidanzamento con Julie Wohryzek (1919), la vicenda con Milena, si concludono sempre in un fallimento che ribadisce la condanna finale, e in certo modo scontata, alla solitudine. In una lettera alla madre della fidanzata Felice Bauer, Kafka spiega le sue impossibilità psicologiche incrudelendo, come al solito, contro se stesso: « E ora mi metta di fronte a sua figlia, a questa ragazza sana, allegra, spontanea, robusta. Per quanto gliel’abbia ripetuto in circa cinquecento lettere, e per quanto ella mi abbia tranquillizzato con un no, motivato, è vero, in maniera non convincente, resta pur vero che, per quanto io possa prevedere, con me dovrà essere infelice. Non solo per la mia situazione esteriore, ma molto più ancora per la mia propria natura; sono un uomo chiuso, taciturno, poco socievole, malcontento, senza che ciò costituisca per me un’infelicità, poiché è soltanto il riflesso della mia meta. Dal mio modo di vivere a casa mia, si può trarre almeno qualche deduzione. Ecco, io vivo in famiglia, tra le persone migliori e più amorevoli, più estraneo di un estraneo. Con mia madre non ho scambiato in questi ultimi anni più di venti parole in media al giorno, con mio padre niente più di un saluto. Con le mie sorelle maritate e coi cognati non parlo affatto, senza che perciò sia in collera con loro. Il motivo è semplicemente questo, che a loro non ho assolutamente niente da dire. Tutto ciò che non è letteratura mi annoia e provoca il mio odio perché mi disturba o mi è d’inciampo, sia pure soltanto nella mia opinione. Per la vita di famiglia mi manca ogni sensibilità, salvo, nel migliore dei casi, quella dell’osservatore. Non ho alcun senso di parentela e considero le visite addirittura come atti di cattiveria contro di me. - Il matrimonio non potrebbe modificarmi come non può modificarmi l’ufficio» (21 agosto 1913).
L’affermazione che soltanto la letteratura lo interessa è più volte ripetuta nei Diari. La letteratura era per Kafka il modo per cercar di guarire dalla sua nevrastenia e dai suoi molti disagi interiori, la sua «battaglia per l’esistenza». Sulle sue capacità di scrittore aveva spesso dubbi, ma tali dubbi van messi sul conto di una tendenza generale autodistruttiva. Nesun dubbio esisteva, invece, sul fatto che lo scrivere fosse vocazione, necessità, imperativo categorico. «Da un punto di vista letterario» afferma Kafka «la mia sorte è molto semplice. La capacità di descrivere la mia sognante vita interiore ha respinto tutto il resto fra le cose secondarie e lo ha orrendamente atrofizzato. Nessun’altra cosa può mai soddisfarmi» (6 agosto 1914). Tutto ciò che può ostacolare la sua vocazione di scrittore Franz lo evita anche a costo di rinunce e mutilazioni gravi per il suo spirito. Per questo fugge ogni legame e cerca una solitudine di cui finisce col soffrire non essendo tacitate nel suo spirito quelle esigenze affettive e morali che si illude di poter surrogare con la letteratura.

Certo per sé Kafka aveva scelto la parte dell’osservatore, dello spettatore che rinuncia a vivere, come il Tonio Kröger di Thomas Mann. Avvertiva la «strana, misteriosa, forse pericolosa, forse redentrice consolazione dello scrivere», capiva che «osservare» significa «uscire dalla fila» e raggiungere una visione indipendente, con proprie leggi di sviluppo, «incalcolabile, gioconda, ascendente»; ma non riusciva - e in questo risiede la prova della sua umanità - a sproblematizzare la letteratura da tutti gli assilli e i pungoli che la realtà gli poneva e imponeva. Nessuno scrittore è meno evasivo, meno propenso a eludere la realtà, meno «blagueur» e «jongleur» di Kafka, pur essendo egli uno spirito complesso e tormentato fino all’esasperazione, fino all’introspezione più cavillosa e sofistica. All’amico Gustav Janouch egli dichiara in un colloquio: «Il sogno svela la realtà che l’idea si lascia molto addietro» (Colloqui con Kafka, p. 25). Questa sfiducia nelle idee, questo abbandono alle indicazioni suggestive del sogno, rivelano le vocazioni surrealiste dello scrittore, ma il motivo della ragione, anche se si tratta di una ragione fallibile e frammentaria che affronta una lotta impari, non scompare mai dall’opera di Kafka, che non si lascia mai assegnare all’irrazionalismo volgare percorsa com’è da una dialettica interna in cui la ragione non diserta mai. La letteratura era cioè per Kafka un modo di inseguire la sempre ambivalente o polivalente realtà ed egli respinge ogni interpretazione diversa data alla sua opera. «Edschmid parla di me come se io fossi un co» struttore» dice a J anouch «invece sono soltanto un copiatore molto mediocre e pasticcione. Edschmid afferma che inserisco miracoli in avvenimenti comuni. È un grave errore da parte sua. Le cose comuni sono per se stesse miracoli lo non faccio che registrarle. Può anche darsi che io illumini un pochino le cose come fa l’operatore delle luci su un palcoscenico semibuio. Ma non è esatto. In realtà il palcoscenico non è affatto buio, è inondato dalla luce del giorno. Perciò gli uomini chiudono gli occhi e vedono così poco» (Colloqui con Kafka, p. 36).
I protagonisti dei romanzi kafkiani - si pensi soprattutto al giovinetto di America e all’agrimensore del Castello - cercano il calore degli affetti, l’accoglienza cordiale in una comunità che li respinge e di cui essi vorrebbero far parte come membri laboriosi e onesti. Soltanto alcune donne si chinano pietose e consolatrici sui reietti che non trovano asilo in alcun luogo. L’uomo kafkiano è una specie di Faust imborghesito che non sogna le avventure celesti e infernali o i fulgidi piaceri dell’attimo. Questo Faust prosaico del XX secolo sogna una brava moglie, un buon lavoro e desidera avere le carte in regola nella società in cui vive. Questi onesti propositi - lo sappiamo - non trovano rispondenza nella realtà. L’incontro quotidiano dell’uomo con il mondo è l’urto del buon senso con il mistero. Il mondo presenta un volto elusivo di sfinge e non sembra accomodarsi agli argomenti troppo fiduciosi e logici, alle richieste troppo ovvie e ragionevoli. Il senso ultimo, la totalità sfuggono sempre alla volontà e ai buoni propositi dell’uomo. È difficile dire esattamente da quale parte stia Kafka e con quale animo. Senza dubbio egli è il procuratore K., l’agrimensore K., che si irritano di non capire la causalità degli avvenimenti. Ma nasce subito il sospetto che Kafka critichi alquanto severamente la smania dei suoi personaggi, troppo perentori e semplicistici nelle richieste di ragionevolezza che pongono al mondo. La Legge, l’Ordine, il Significato sembrano esistere anche se in modi non congruenti all’idea troppo umana che ce ne facciamo. Forse non ci sono casi fortuiti nel mondo ma soltanto nella nostra testa limitata.
Ma anche se si deve ammettere che il caso sia il riflesso dei limiti del nostro sapere, resta pur sempre il dramma della nostra insufficienza e della indecifrabilità del mondo. La cosiddetta essenza non si sa se esiste, e se per ipotesi esistesse si è rifugiata in un luogo irraggiungibile. Anche ritenendo che il «messaggio» kafkiano sia una lezione di umiltà e un invito all’attesa della grazia, non si elimina l’ambiguità di una legge recondita e cifrata che appare mondanamente come condanna, rigore, trascendenza punitiva. E poiché la «Commedia» di Kafka omette il paradiso e il purgatorio, la sua testimonianza resta quella dell’inferno, la sola cerchia ch’egli abbia concretamente descritta e percorsa. Per l’imborghesito Faust le avventure sono quasi tutte spiacevoli e la sua corsa nel mondo non si conclude al suono delle trombe angeliche né alcuna schiera celeste sparge rose che volteggiano intorno a uno sconfitto Mefistofele. Il Faust kafkiano rimane quel poveruomo ch’era e al suo vario affannarsi non resta altro compenso forse che quello in cui si conclude l’ultima saggezza di Faust morente: «Merita libertà e vita solo colui che se la deve ogni giorno conquistare».
Ma mentre il Faust goethiano intravvedeva e presentiva l’attimo supremo di felicità nella visione profetica di un libero popolo, laborioso e ardito, su libero suolo, il Faust kafkiano aveva problemi più umili e personali: superare il proprio isolamento, prender parte alla corrente dalla vita, a quell’«universale» che tutti gli uomini già sembrano realizzare nella famiglia e nella società. Come per l’uomo Kierkegaard, per l’uomo Kafka l’aut-aut scapolo o marito assumeva il valore di una scelta drammatica e decisiva. E già porre il problema del matri-monio in questi termini significava precluder si ogni soluzione favorevole, perché il termine escluso dalla scelta avrebbe comunque rivendicato energicamente il suo diritto di esistere. L’alternativa insolubile si affaccia in molte pagine dei Diari. Il 21 luglio 1913 Kafka compila un «elenco di tutto ciò che è pro e contro il mio matrimonio».
Gli argomenti a favore del matrimonio si compendiano tutti nella speranza di dare alla propria vita una maggior forza di resistenza («sono incapace di sopportare da solo gli assalti della mia propria vita, le esigenze della mia persona, l’attacco del tempo e dell’età, il vago impeto della voglia di scrivere, l’insonnia, la vicinanza della follia...»); la moglie dovrebbe costituire il tramite che lo allaccia al mondo e alla società. Ma non appena si prospetta la possibilità concreta e prossima del matrimonio, si affollano e premono minacciose le ragioni contrarie: «Tutto mi dà subito da pensare. Ogni barzelletta nel giornale umoristico, il ricordo di Flaubert e Grillparzer, la vista delle camicie da notte sul letto dei miei genitori preparato per la notte, il matrimonio di Max. Mia sorella diceva ieri: ‘Non ti capisco. Tutti gli sposati (fra i nostri conoscenti) sono felici’. Anche queste parole mi diedero da pensare e di nuovo fui preso dalla paura». E gli argomenti contro il matrimonio finiscono con l’essere vittoriosi: «Io devo stare molto solo. Ciò che ho prodotto finora è tutto effetto della mia solitudine. Odio tutto ciò che non riguarda la letteratura. Mi annoio a far conversazione (anche se si riferisce alla letteratura), mi annoio a far visite, le gioie e i dolori dei miei parenti mi annoiano fino in fondo all’anima. La conversazione toglie a tutto ciò che penso la sua importanza, la serietà, la verità... Ho paura dell’unione, dell’immedesimarsi. In tal caso non sarò mai più solo. Non sarei sottratto allo scrivere? Questo no, questo no, per carità!... Essendo solo potrei forse un giorno abbandonare davvero il mio posto. Una volta sposato non sarà possibile mai».
La realtà sessuale del matrimonio lo atterrisce, come atterriva Kierkegaard: «Il coito quale punizione della felicità di stare insieme. Vivere possibilmente da asceta, più asceta di uno scapolo, questa è per me l’unica possibilità di sopportare il matrimonio. Ma lei?». Il 21 agosto del 1913 riceve il Libro del giudice di Kierkegaard e commenta: «Come prevedevo, nonostante essenziali differenze, il suo caso è molto simile al mio. Sta per lo meno nella stessa parte del mondo. Egli mi conferma come un amico». Nel caso di Kierkegaard vi è, quasi certamente, anche una tara fisiologica che lo rende inetto al matrimonio. Nulla di questo in Kafka, che è atterrito dalla prospettiva di veder gravitare la sua esistenza, sognante e creativa, verso cose estranee e contrarie alla letteratura. Kierkegaard era un uomo brutto e fisicamente ridicolo. Kafka un uomo bello, alto, slanciato, con meravigliosi occhi grigio-azzurri. La sua castità era solo un fatto elettivo.

Il matrimonio gli appariva spesso una liberazione dai vincoli esteriori e interiori della sua vita. Aveva una concezione elevata delle nozze e della donna, e nessuna cosa gli sembrava più alta e dignitosa per l’uomo che ha raggiunto una vera maturità spirituale. Fondare una casa, diventare indipendente, liberarsi dalla sudditanza del padre erano altrettante aspirazioni dell’uomo Franz malinconico e perplesso. Ma quando il problema matrimonio si presenta nel suo realismo quotidiano, Franz se ne ritrae spaventato e irritato: «Io non rinuncio alla mia esigenza di vivere in modo fantastico soltanto per il mio lavoro, lei, sorda a tutte le mute preghiere, vuole la mediocrità, la casa comoda, l’interessamento alla fabbrica, il vitto abbondante, il sonno dalle undici di sera in poi, la camera riscaldata e punta il mio orologio, che da un trimestre anticipa di un’ora e mezza, sul minuto giusto» (24 gennaio 1915).
La donna consolatrice e compagna è vagheggiata da questo martire della solitudine. La ritroviamo con questo suo volto umano e comprensivo, affettuoso e soccorrevole, in tutta l’opera kafkiana. Ma essa non ha solo questo volto d’angelo. È anche corpo, sangue, vita casalinga, tran tran domestico. E questo aspetto troppo carnale e faccendiero spaventa il poeta e il sognatore. La presenza femminile, per appagare le esigenze di Franz, avrebbe dovuto trasformarsi troppo spesso in sapiente sparizione o assenza per non turbare la sua «sognante vita interiore». Un matrimonio implica sempre una sequela di problemi molto pratici e richiede un insieme di attitudini molto positive. Kafka intuisce la sua insofferenza per la vita organizzata di una famiglia e la propria incapacità ad essere marito e padre esemplare. L’esempio della sua famiglia e di suo padre lo atterriva, esaltando l’immaginazione e sviluppando un vero complesso di inferiorità, come se il suo matrimonio dovesse imitare il paradigma paterno e assumerne il carattere prosaico, volgare e ossessivo. La forza del padre ha una tremenda vitalità e assume toni padronali, a volte crudeli e ieratici. Questa immagine troppo imponente, solenne e imperiosa del padre assilla e opprime la mente di Franz e suscita, nell’inevitabile confronto, un senso paralizzante di timidezza.
Più che il fondatore o il continuatore di una stirpe Franz vorrebbe avere intorno a sé qualcuno che lo capisca e lo assista. Non può dare protezione, la chiede piuttosto. Il 4 maggio del 1915 egli scrive: «Per quanto poco io sia, qui non c’è nessuno che abbia comprensione di me nel mio complesso. Oh, possedere qualcuno che abbia questa comprensione, non so, una donna, vorrebbe dire essere sostenuto da ogni parte, avere Dio». L’annotazione rivela insieme un disperato bisogno di essere assistito spiritualmente da una donna e l’immediata trasfigurazione religiosa che il rapporto assume per il poeta. Nelle annotazioni cupe del 1922, drammatica registrazione del disaccordo tra la propria vita interiore e quella esterna - «Gli orologi non vanno d’accordo, quello interiore corre a precipizio in un modo diabolico e demoniaco o in ogni caso disumano, mentre quello esterno segue faticosamente il solito ritmo. Che altro può accadere se non che i due diversi mondi si dividano? Si dividono, infatti, o almeno si danno strappi a vicenda in modo pauroso» (16 gennaio) -- affiorano passi di nostalgia in cui riappare il sogno di una vita familiare serena. «Felicità infinita, calda, profonda, redentrice di star vicino alla culla del proprio bambino di fronte alla madre» (19 gennaio). E aggiunge, contro la vita da scapolo, queste irritate parole che suonano elogio della paternità: «C’è anche un po’ del sentimento che dice: tu non conti più, a meno che tu lo voglia. Per contro il sentimento di chi non ha figli dice: Tu conti sempre, volere o no, ogni istante sino alla fine, nello strazio dei nervi, sempre conti tu e senza risultato. Sisifo era scapolo».
Mentre sente volare continuamente intorno alla sua testa «der heimliche Rabe»(il corvo segreto), invidia infantilmente tutte le coppie di sposi, invidia la felicità coniugale da cui è escluso. Quest’uomo insonne, nevrastenico, logorato dalla tubercolosi, avvertì come un destino e una condanna la propria solitudine di scapolo, ma soffriva di non poter amare, di non avere una moglie, di non potersi riversare nel mondo, di essere condannato a una pericolosa introspezione. Il 9 marzo 1922 si chiede:
«E se uno soffocasse per propria iniziativa? Se, a furia di insistere nell’osservare se stessi, l’apertura dalla quale ci si riversa nel mondo diventasse troppo piccola o si chiudesse del tutto?». Natura condannata alla introversione, teme che l’io divenga una prigione. Nel tracciare il bilancio della propria vita sentimentale osserva che nella propria esistenza la figura che ha sempre incontrato non era quella che dice: «Io non ti amo», ma quella che dice: «Tu non puoi amarmi, per quanto tu voglia...» e conclude: «È errato dire che ho fatto esperienza della frase ‘Ti amo’, ho esperimentato soltanto l’attesa silenziosa che avrebbe dovuto essere interrotta dal mio ‘Ti amo’» (12 febbraio 1922).
Mentre ha un bisogno estremo di quiete e di agi esteriori; come tutti inevrastenici è incapace di dare alla propria vita una definizione esterna durevole e si mantiene astrattamente disponibile anche se soffre del vuoto umano di questa infeconda disponibilità. L’uomo che scrive: «La cameriera, che al mattino dimentica di portarmi l’acqua calda, rovescia il mio mondo» (14 febbraio 1922); «un po’ di canto sotto di me, qualche porta sbattuta nel corridoio e tutto è perduto» (15 febbraio 1922), non si contraddice quando osserva: «È quindi un istinto di difesa quello che non tollera che si formi il più piccolo agio durevole e, per esempio, frantuma il letto nuziale ancora prima che sia eretto». Il poeta del negativo non può concedersi una vita positiva, anche se questa positività lo tenta e lo seduce.
Mentre spera di salvarsi nel matrimonio, la speranza gli è interdetta e bruciata dalla coscienza disperata di formulare quella speranza «in certo qual modo sull’orlo del davanzale». Teoricamente ammette che dal nulla possa venire qualche cosa, che dal porcile in rovina - come immaginosamente si esprime - possa venir fuori il cocchiere coi cavalli, ma questa ipotesi della mente non giunge a scaldare appieno il cuore, non diviene una convinzione e una fede, non riesce a vincere il senso continuo e dominante di frustrazione e sterilità. «Per quanto io sappia» scrive di sé «nessuno ha avuto un compito così difficile. Si potrebbe dire: non è un compito, nemmeno un compito impossibile, nemmeno l’impossibilità stessa, non è nulla, nemmeno tanta creatura quanta la speranza di una donna sterile. Eppure è l’aria nella quale respiro, fintanto che devo respirare» (21 gennaio 1922).
L’universale gli balena davanti come un’entità inafferrabile, come alcunché di fortemente vagheggiato ma di non destinato a lui: «Senza antenati, senza nozze, senza discendenti, con una voglia selvaggia di antenati, di nozze e di discendenti. Tutti mi porgono la mano; antenati, nozze, discendenti, ma troppo lontano per me» (21 gennaio 1922). Questo è l’uomo Kafka, l’uomo interiore i cui sogni non sono, come qualcuno grossolanamente può ritenere, evasione dalla realtà ma, piuttosto il reale stesso vissuto e avvertito nella sua negatività. Parentesi festose e cordiali si incontrano qua e là’ nell’opera e nella vita

di Kafka, e il gusto della vita quotidiana, così intenso nei Diari di viaggio, spesso lievi, scanzonati, avidi di impressioni, aperti ai colori del mondo, non si spegne neppure negli ultimi anni. Ma quello stupore e quell’attesa di fronte alla spontaneità e novità delle cose, diviene, col progredire del tempo e della malattia, consapevolezza di essere escluso, intuizicne della particolarità del proprio destino.
Anche Kierkegaard avvertiva la propria eccezionalità, il proprio destino di «singolo», ma il negativo nel mondo e nella storia diviene per lui, paradossalmente, il positivo in Dio, il fulgore della trascendenza che irrompe nel tempo e nel finito. La fede e la grazia rischiarano la disperazione kierkegaardiana, che è invocata e lodata come iter religioso. Si può dire la stessa cosa per Kafka? Aveva Kafka un «positivo» che riscattasse quel «negativo» che egli dichiara di rappresentare? Desiderare ardentemente ciò che è positivo, cercare con ogni forza dell’animo la Legge, l’Ordine che giustificano la nostra strana presenza nel mondo stesso, equivale senz’altro a possedere la fede e la speranza nell’avvento di questa Legge e di quest’Ordine? O non è piuttosto l’opera di Kafka un lucido e scoraggiato confronto tra l’anarchia della vita reale e la trascendenza simbolica e metaforica di una Legge umanamente irraggiungibile?
Max Brod dichiara di possedere documenti probatori di questa «positività» kafkiana. L’opera pubblicata non reca molte testimonianze favorevoli alla tesi edificante di Brod. Certo un grande spirito come quello di Kafka non si lascia ridurre unilateralmente ad un’unica e monotona interpretazione. Non vi è dubbio che si respira nell’opera kafkiana anche un’ansia di salvezza, ma la ricerca affannosa non è ancora il possesso, l’esclusione non è la partecipazione. L’accento dell’opera kafkiana cade quasi per intero sul no, sul rifiuto che il destino oppone alle esigenze umane e troppo umane della logica e della morale. Questo no appare sospeso in una atmosfera di enigmatica ed eludente problematicità. La nube della negatività potrebbe forse lacerarsi, ma non abbiamo alcuna testimonianza che questo irraggiare del sole della positività abbia realmente luogo nell’universo kafkiano. I Diari, se li si legge senza prevenzioni, sono la confessione di un uomo che va verso la sua condanna, come il procuratore K. verso l’umiliazione e la sconfitta, come il mostruoso verme della Metamorfosi.
Max Brod ha premesso alla sua Biografia kafkiana tre citazioni tratte dai Diari e su quelle ha fortemente appoggiato la tesi dello sviluppo religiosamente positivo e rischiarato di Kafka. Rileggiamole per scrupolo: «Non disperare neppure del fatto che non disperi. Quando già tutto sembra alla fine giungono pure nuove forze, questo significa appunto che tu vivi». - «La felicità la posso trovare solo nel caso in cui io possa sollevare il mondo nel puro, nel vero, nell’immutabile.» - «Forte scroscio di pioggia. Mettiti contro la pioggia, lasciati compenetrare dai ferrei getti, scivola nell’acqua che ti vuol trascinar via, ma resta fermo e attendi, ritto, il sole che irraggia improvviso e infinito.» Bastano questi testi a suffragare l’interpretazione di Max Brod? Non sono essi piuttosto l’affermazione programmatica di un’etica stoica, tanto più coraggiosa quanto meno sostenuta da una metafisica definita e costruttiva?
Nel libro di Gustav Janouch, intitolato Colloqui con Kafka, sono raccolti parecchi testi kafkiani di grande interesse e indubbiamente autentici. Da essi si desume che l’atteggiamento morale di Kafka per liberarsi dal male era la proposta di sostituire la comprensione attiva alla irritazione reattiva. Una volta che l’amico Janouch si lamentava per i dissidi della sua famiglia, Kafka dà questo consiglio: «Non monti in collera, ma stia tranquillo. La calma è espressione di forza e anche attraverso la calma si può raggiungere la forza. È la legge dei poli. Stia dunque tranquillo, poiché la tranquillità rende liberi... persino di fronte all’esecuzione capitale». È un consiglio, molto kafkiano, a un amico, ma è anche l’enunciazione di un programma morale. Lo stoico era convinto che il mondo fosse retto da leggi inflessibili, dure da sopportare, ma ottime. Kafka non sappiamo se condividesse questa metafisica, ma il suo comportamento morale sembra una trascrizione fantasiosa e clandestina dell’antica etica stoica. Leggendo i Diari l’impressione dominante è quella di uno sgomento che si placa soltanto nell’esprimersi e nel registrarsi coraggiosamente senza concedere nulla né all’impazienza né al cinismo.
Interpretare la negatività del proprio tempo significava riconoscere lucida mente anche la propria incapacità di vivere e, insieme, descrivere l’obiettiva condizione dell’uomo che sente la propria vita come ansia, frustrazione e minaccia. Quanto meno i due itinerari, quello personale dell’uomo Franz Kafka e quello metapersonale dell’Uomo categoria, dell’Uomo-Tutti, s’incrociano fino a confondersi in un unico cammino. La vicenda soggettiva, senza perdere nulla del suo pathos individuale, acquista valore emblematico e diviene diagramma di una vicenda storica che trascende la cronaca intima. Per questo motivo coloro che vedono in Kafka il rappresentante della disperazione giudaica, la storia di una nevrosi e di una tubercolosi, il racconto di un complesso di colpa e di inferiorità, o peggio, l’esplosione di un delirio immaginativo complicato da un sofisticare interminabile, possono tutti avere un po’ di ragione ma rimangono tuttavia in superficie perché riconducono il significato dell’opera a un movente razziale, psicologico o biografico che ne è soltanto l’avvio, lo spunto o l’occasione.
Così pure mi sembrano rimanere in superficie coloro che interpretano unilateralmente in chiave mistica e messianica l’opera kafkiana. Esistono certo documenti di questa speranza religiosa kafkiana, e, in un certo senso; è esatto dire che la ricerca del Significato e della Legge attraversa tutta la vita e l’opera di Kafka. Egli ha detto di sé: «Non sono la pigrizia, la cattiva volontà, la goffaggine... che mi fanno fallire o non fallire in tutto: vita familiare, amicizia, matrimonio, professione, letteratura, ma è l’assenza del suolo, dell’aria, della Legge. Crearmi queste cose, ecco il mio compito... il compito più originaIe» (cfr. l’ed. di Losanna dei Diari, p. 18). Ma questa stessa confessione non mi pare che renda legittima quell’interpretazione allegorica e teologica che molti critici dichiarano esser la «chiave dell’ opera». [Pierre Klossowski ad esempio scrive: «Se le opere di Franz Kafka, particolarmente i suoi grandi romanzi sono immersi in un ambiente di inquietante estraneità, non è per complicità con quella negatività del suo tempo che egli pretende di assumere; se le situazioni ch’essi descrivono prendono regolarmente delle forme oniriche, non è per abbandono ai meandri del sogno, meno ancora per adesione alla discontinuità: questo gran pittore del malessere e dello spaesamento non vede in questi due stati che forme di alienazione del peccato, messe in scena di forze paralizzanti alle quali l’uomo si vede consegnato tutto intero quando ha rotto, rinnegato se non semplicemente dimenticato gli eterni legami della sua esistenza con le potenze familiari e divine» (ediz. di Losanna, pp. 19).] Questa interpretazione riduce l’opera kafkiana a una complicata allegoria del peccato che sottintende un compiuto sistema di teologia o una nuova esoterica cabbala. La forza che muove i critici misticizzanti è il moralismo, la volontà di vivere in un mondo garantito, il rifiuto di guardare nel vuoto senza il premio di una futura immancabile pienezza. Questa plénitude de coeur pare ad essi il riscatto e la giustificazione dell’ homo religiosità Kafka che troppo a lungo ha fissato lo sguardo nell’assurdo e nel nulla. Senza questo epilogo in cielo l’opera kafkiana si dovrebbe necessariamente interpretare come un documento del nichilismo e del decadentismo.
E non sono pochi i critici edificanti che semplicisticamente interpretano come negatività il documento e la testimonianza della negatività. Esistono i retori del positivo che si chiedono: Faut-il brûler Kafka? E insieme con Kafka essi vorrebbero bruciare tutta la letteratura e l’arte che non «edifica». Le loro fiamme purificatrici sono in realtà il fuoco del fanatismo di chi sa distinguere con assoluta certezza l’inferno e il paradiso. Ma chi può dire, con tranquilla fede, quali sono le vie dell’inferno e del paradiso? Kafka, l’abbiamo detto, ha percorso e descritto l’inferno che era in lui ed è anche in noi. Non si può certo dire che il suo viaggio senza Virgilio sia l’avventura corrotta di un uomo cui piaccia il soggiorno negli inferi! Kafka desiderava rivedere le stelle, ma ha descritto con estrema lucidità e coraggio un mondo senza luce. Questa testimonianza non è un documento o un messaggio di salvezza. Essa è piuttosto un annuncio di dolore, una registrazione drammatica di tutto il negativo che ci minaccia. Ma solo il riconoscimento aperto della nostra negatività consente di individuare e medicare il nostro male. Kafka ha ancora negli occhi lo spavento della sua visione infernale. Per questo Kafka può essere un pericolo. Ma il messaggero di sventura non è responsabile della sventura che annuncia. Egli prepara, o lascia sperare, la possibilità del rimedio. L’uomo Franz Kafka non ci dice quale sia questo rimedio e suscita il sospetto che rimedio vero e definitivo non vi sia. Invano cercheremmo una terapia ove è presente soprattutto una diagnosi Ma la diagnosi, per quanto amara, è sempre preferibile al rifiuto di riconoscere il nostro male.



3. L’amore impossibile [Alcune pagine di questo capitolo sono già apparse come prefazione alle Lettere a Milena nell’edizione Mondadori del 1954.]


La vita di Kafka è poverissima di eventi perché è la vita di uomo in fuga dal mondo esterno per una specie di legge di gravità o calamitazione che lo sprofonda nel mondo intimo. Ad ogni slancio verso la natura, la società e l’amore degli uomini, fa da contrappeso una spinta più forte che lo confina in un paesaggio interiore gelido, stregato, desolante come un luogo rarefatto, percorso solo da fantasmi e da spettri. Per questo motivo gli episodi dominanti della sua esistenza sono pochissimi e assumono sempre un significato emergente e concentrato come simboli assoluti. I rapporti col padre, il lavoro d’ufficio, la malattia, l’incontro con Milena non sono soltanto tappe di un itinerario tormentato, sono anche i simboli dell’autocrazia, di un universo a..nonimo e burocratico, dello sfacimento e della maledizione, dell’amore vagheggiato e distrutto. La Lettera al padre e le Lettere a Milena sono testimonianze decisive per tutto quanto attiene alla vita familiare e alla vita erotica, due sfere essenziali della sua vita.
Non nuovo è il raffronto tra le fasi della vita e quelle di una partita a scacchi. Vi ricorre anche Kafka e, nel proprio furore di masochistico autoannientamento, paragona se stesso a un pezzo inesistente sulla scacchiera, a una pedina ancella che non può prendere parte al gioco perché la cosa non è ammessa dalle regole. Anche se questa immaginaria e insignificante «pedina di una pedina» sogna qualche volta di occupare persino il posto del re, la partita ha sempre luogo con i pezzi regolarmente iscritti e lo svolgimento reale del gioco non consente ad altri pezzi irregolari e stravaganti di intervenire.
Nelle opere e nella vita di Kafka compare sempre la figura dell’uomo umiliato, colpevole, tormentato, escluso dalla comunità attiva e solidale dei viventi e costretto, per un verdetto inderogabile, a una vita solitaria e irregolare. L’uomo-Kafka e gli uomini di Kafka sono perssonaggi le cui carte non risultano in regola, sono esseri esiliati dalla vita e dalla natura, dalla società e dalla storia, reietti o dannati il cui destino è quello di uscire di scena, di sprofondare nel vuoto, assistendo con lucida e disperata consapevolezza alla propria irrimediabile caduta. È il dramma della partecipazione impossibile.
Vivere conciliati con il mondo, integrati e consenzienti, è possibile solo ai membri attivi e riconosciuti di una società, solo avendo in comune con essa il riconoscimento di istituzioni, norme, valori, significati, tradizioni, rituali e miti della vita pubblica e dell’esistenza quotidiana. La condizione di chi vive senza partecipazione in un mondo denaturato e desocializzato è quella dell’esule e del proscritto. Egli è come un uomo che parli una lingua incomprensibile per la comunità, un uomo che non abbia o non possa e non voglia avere precisi doveri e diritti.
L’epistolario con Milena presenta uno straordinario interesse perché compendia e simboleggia una sfera essenziale dell’universo kafkiano, perché è la storia di un rapporto umano personalmente difficile che si converte, con una progressione fatale, in un rapporto impossibile, e diviene, infine, la testimonianza e la riprova dolorosa della incapacità, in cui si trova l’uomo Franz, di accogliere un altro essere amato nella sfera rarefatta della propria solitudine e della propria angoscia. Il motivo kafkiano già presente in quella grande parabola della vita quotidiana che è la Metamorfosi - dell’uomo degradato e isterilito per la mancanza d’amore, ritorna in chiave non mitica e fiabesca, nella vicenda con Milena. E anche in questo caso la persona esistente e concreta si trasfigura, con un salvataggio solo estetico, nell’immagine finale di una persona fiabesca e simbolica. Milena è vista da Kafka come personaggio dispensatore di vita e speranza, nelle sembianze della donna materna, di un archetipo femminile infinitamente caldo e tenero, consolatore e provvido. Ma, al di là delle buone intenzioni, il rapporto si infrange perché è il tentativo di far convivere il ghiaccio e il fuoco, l’ascesi e la sensualità, il destino solitario e l’attività sociale.
L’incontro di Kafka con Milena Jesenskà, avvenne a Merano nell’estate del 1920, ed è, come abbiamo visto, un incontro decisivo per la biografia e per l’opera dello scrittore, perché Milena riappare idealmente nel Castello come la figura della donna generosa e fervida che offre un amore destinato al naufragio, ma non per questo meno significativo e essenziale.
Prima di conoscere Milena, Kafka si era nuovamente - dopo il fiasco del lungo fidanzamento con Felice Bauer - fidanzato con Julie Wohryzek, figlia del custode della sinagoga di Praga. La rottura di questo fidanzamento con una donna di condizione molto umile e del tutto priva di cultura avvenne anche per l’ostilità violenta del padre di Franz. Ma la causa più profonda della rottura fu l’incontro con Milena. Kafka aveva trenta sette anni e Milena ventiquattro. Come ha scritto Baioni, Kafka «era un uomo finito, malato irreparabilmente nel corpo, che si considerava ancor più irreparabilmente fallito nello spirito». Milena era giovane, anch’essa malata, ma era una donna ardente, passionale, profondamente colta e scrittrice essa stessa. «L’incontro» nota il Baioni «scatenò nella vita dello scrittore una terribile, vorticosa tempesta. L’uomo che aveva considerato la malattia un rifugio, nel quale egli... aveva potuto raccogliersi e rasserenarsi si sente nuovamente trascinato in quell’angoscioso conflitto che aveva dominato i cinque terribili anni del suo primo fidanzamento. ‘Per me è qualcosa di terribile ciò che accade. Il mio mondo sprofonda - il mio mondo si innalza’, scrive Kafka a Milena. Risorgono cosl i dubbi, i tormenti, l’antica e sempre nuova lotta di un uomo consumato dall’angoscia ed ebro di solitudine, che nell’amore cerca la salvezza e trova soltanto il suo inferno, perché l’amore resta sempre, nonostante tutto, lo smarrimento di una fortissima mente che per la sua libertà tutto vanifica in un gioco continuo ed estenuante di paure e di velleità, di nostalgie e di ripulse. Egli sa scrivere stupende lettere d’amore nelle quali offre alla sua donna tutta la sua angoscia, la sua disperazione e la sua incapacità di vivere, perché lei lo chiami a sé e gli dica di amarlo proprio per la sua miseria, e trovare al tempo stesso mille scuse e mille impedimenti per non vederla, per poter rimanere lontano da lei. libero e intatto nella sua solitudine ove egli può continuare a sentire il suo richiamo senza doverlo seguire» (op. cit., p. 139).

Le Lettere a Milena non rappresentano solo un grande documento letterario e umano. Sono anche una svolta che chiarisce per Kafka, in modo determinante, la sua posizione drammatica nei confronti della femminilità e dell’amore. Il senso di questa svolta è documentato appunto dal Castello e dalla trasfigurazione che il personaggio reale di Milena subisce stilizzando si e sublimandosi in quello immaginario e sognato di Frieda. La stessa funzione-chiave che la Lettera al padre esercita nel chiarire il complesso paterno di Franz, come elemento determinante della sua vita familiare, viene esercitata, su di un altro piano, dalle Lettere a Milena nel chiarire quello che potremmo, con buone ragioni, definire il complesso della donna nell’esistenza dello scrittore, che è sempre scisso tra spinte opposte ed è incapace di amare con autentico abbandono e schietta speranza.
A se stesso egli assegna, in questa vicenda d’amore, la parte peggiore, quella dell’uomo indegno e colpevole che non ha diritto di avvicinarsi senza vergogna alla luce e alla bontà. In una pagina di implacabile autocritica egli ha raccontato fiabescamente, e in schietto stile kafkiano, la parabola di questa insuperabile eterogeneità: «Che cosa voglio? Che cosa faccio? Le cose stanno all’incirca così: io, bestia silvestre, non stavo, si può dire, nella selva; giacevo non so dove, in un fosso lurido (lurido beninteso soltanto per la mia presenza) e allora vidi, fuori all’aperto, la cosa più meravigliosa che avessi mai visto, dimenticai tutto, mi dimenticai interamente, mi alzai, mi avvicinai, timido bensì in quella nuova eppure natia libertà, mi avvicinai dunque, arrivai fino a te, tu fosti tanto buona, mi accovacciai presso a te come se ciò mi fosse lecito, posai il viso nella tua mano, ero tanto felice, tanto orgoglioso, tanto libero, tanto potente, tanto a casa mia, sempre così: tanto a casa mia; ma in fondo ero pur sempre la bestia, appsrtenevo pur sempre alla selva, vivevo all’aperto soltanto per grazia tua e senza saperlo (poiché avevo dimenticato ogni cosa) leggevo la mia sorte nei tuoi occhi. Non poteva durare. Anche accarezzandomi con la mano più generosa dovevi notare certe particolÌlrità allusive alla selva, a questa origine, a questa vera patria, e vennero le necessarie, necessariamente ripetute dichiarazioni sull» angoscia’ che turbavano me (e te, ma te innocentemente) fino al nervo scoperto, e sempre più crebbe davanti a me la visione dell’immondo tormento, del continuo ostacolo che ero per te... Ripensai chi ero, nei tuoi occhi non lessi più alcuna illusione, provai il terrore in sogno (di vivere in qualche luogo che non era il mio, come se fossi a casa mia), questo terrore lo provai realmente, dovetti ritornare nel buio, non sopportavo il sole, ero disperato veramente come una bestia smarrita, incominciai a correre a più non posso e sempre col pensiero: ‘Se potessi portarla con me! ‘ e col contropensiero: ‘Esiste il buio dove è leI? ‘. Tu chiedi come io viva: ecco, così vivo» (pp. 223-4).

Nel confronti con Milena luminosa e lieve, anche se ardita e passionale, Kafka sente se stesso come tenebra, pesantezza, nullità affacciata all’estremo limite della morte. Questa radicale eterogeneità, anche se crea misteriose correnti di simpatia tra gli opposti, impedisce tuttavia una comunicazione duratura e senza equivoco. Oltre un certo limite si entra nelle regioni impervie e ghiacciate della solitudine kafkiana. Alcune affermazioni nelle lettere riflettono l’irraggiungibilità di Kafka: «...oggi.. sono pesante. Il nulla, del quale ti scrissi una volta, mi ha colpito col suo soffio» (p. 221). «Talvolta, quando ci si sveglia la mattina, si crede che la verità sia accanto al letto, cioè una fossa con qualche fiore appassito, aperta, pronta ad accoglierci» (p. 222).


Nei romanzi kafkiani noi vediamo sempre il protagonista in lotta per realizzare una vita degna e possibile e in questa ricerca le donne appaiono sempre con il volto dolce e pietoso della madre. Anche nella relazione con Milena esistono fugaci momenti di abbandono e di tenerezza: «Non posso, non so come, scrivere altro se non ciò che riguarda noi, noi nell’affollamento di questo mondo, soltanto noi. Tutto il resto mi è estraneo. Ingiusto! Ingiusto! Ma le labbra balbettano e il viso posa nel tuo grembo» (p. 106). «Sono stanco, non so nulla e non vorrei che posare il viso nel tuo grembo, sentire la tua mano sul mio capo e rimanere così per tutte le eternità» (p. 129). «Tengo volentieri la tua mano nella mia, guardo volentieri nei tuoi occhi» (p. 195). Ma questi accenti affettuosi in cui Milena appare come la salvatrice che dispensa oblio e quiete, sono brevi parentesi. Con intensità e frequenza sempre crescenti risuonano altri motivi di lucida e consapevole angoscia, di solitudine disperata, di fuga nelle proprie visioni di terrore e di colpa. Perché, si chiede Kafka, sono un uomo con tutti i tormenti di questo stato quanto mai oscuro e orrendamente pieno di responsabilità? «Perché non sono, ad esempio, il felice armadio nella tua camera che ti può guardare in faccia quando stai nella sedia a sdraio o alla scrivania, o ti metti a letto o dormi (sia benedetto il tuo sonno!). Perché non lo sono?» (p. 122).

L’amore per Milena è, anche, per Kafka, paura di incontrare Milena, ed egli farnetica di cose orribili che capiterebbero in occasione di incontri ai quali non si sente fisicamente e psichicamente preparato. Alla gioventù, alla freschezza, al coraggio dell’amica oppone, in una morbosa polemica, la propria età (e non ha che 38 anni!) oppone la propria consunzione, il proprio destino di ebreo, la propria angoscia che lo spinge a ritirarsi dal mondo. La corrispondenza lo agita fino al punto di privarlo del sonno. Egli prega l’amica di non scrivere più, di allontanarsi. Paragona le lettere di Milena e un uragano entrato rombante nella camera, e Milena stessa, con la sua esuberante vitalità, gli appare come la testa grandiosa della Medusa intorno al cui capo guizzano serpenti, mentre intorno al capo di lui guizzano, ancora più selvaggi, i serpenti dell’angoscia.
Lo stesso problema dell’ebraismo e della non facile convivenza tra persone di stirpe e di religione diverse motivo che torna frequente nelle lettere - sembra più escogitato come una forma di alibi morale che non rispondente alla reale e concreta situazione. L’ebraismo, simbolo dell’ostracismo, serve a Kafka come strumento di crudele autoflagellazione. In un momento di sincerità arriva a dichiarare: «La ‘questione ebraica’ era soltanto uno stupido pretesto» (p. 91). Ma altre volte Kafka pone l’ebraismo, il suo ebraismo così tormentato e scisso, come barriera insuperabile. Si finge, quasi, antisemita per creare difficoltà e rendere ‘infine impossibile un dialogo umano che pure gli è profondamente caro. Si ripete, in altro registro, la situazione di Kierkegaard con Regina Olsen. Kafka teme di trascinare una «cara e buona fanciulla» nell’angoscia e nella desolazione della propria ambigua e dannata esistenza. Milena era una donna infelicemente sposata, ma aveva solo 24 anni e non aveva tutte le difficoltà e le sconcertanti problematicità interiori di Kafka. «Tu non sei per me una signora» - le scrive Franz «sei una fanciulla, non ho mai visto nessuna che fosse tanto fanciulla, non oserò porger ti la mano, fanciulla, la mano sudicia, convulsa, unghiuta, incerta e tremula, cocente e fredda» (p. 91). In un’altra lettera autopunitiva scrive: «Sporco sono, Milena, infinitamente sporco, perciò faccio tanto chiasso per la purezza. Nessuno canta così puro come coloro che sono nel più profondo inferno; quello che crediamo il canto degli angeli è il loro canto» (p. 209).
È facile interpretare questo furore autodistruttiva come il solito complesso ebraico o nevrotico di inferiorità e di colpa. Alcuni passi espliciti potrebbero anche confermare tale ipotesi. Franz scrive infatti a Milena: «Quando parli dell’avvenire non dimentichi forse che sono ebreo? Pericoloso è pur sempre l’ebraismo, persino ai tuoi piedi» (p. 169). In un’altra lettera rimprovera Milena di avere degli ebrei un’opinione troppo buona e dice scherzosamente che li vorrebbe cacciare tutti (lui compreso) nel cassetto del canterano per soffocarli. Ebraismo, in molte lettere, equivale per Kafka ad angoscia, fatica, inquietudine. Ma in questa ambivalenza di termini, il concetto di angoscia trova in quello di ebraismo più che altro una forma di espressione e determinazione storica, quasi una occasione sociale per acquistare specificità e concretezza. Ma la sfera dell’angoscia kafkiana si rivela, a un più approfondito esame, ben altrimenti vasta e complessa dell’angoscia ebraica, che pur esiste e ha profonde radici e motivazioni. L’interpretazione razziale dell’angoscia può essere vera e fondata nella psicologia dell’uomo-Kafka ‘stigmatizzato’ ma essa è, pur sempre, una interpretazione privata della universalità che possiede, una interpretazione restrittiva e impoverita. L’uomo-Kafka non è tutto in quella psicologia di ebreo discriminato e proscritto. L’opera kafkiana travalica da ogni parte l’orizzonte storicamente circoscritto dell’ebraismo. L’ebreo Kafka, come l’ebreo Freud o l’ebreo Marx, evade di continuo dai limiti del proprio ebraismo contraddittorio e non è molto lontano, spesso, dal considerarlo un alibi per definire in termini provvisori e storicamente accettabili un problema più universale che lo inquieta e che egli stesso non riesce a inquadrare e a concretare in alcun modo obiettivamente accettabile.
Questa angoscia di tipo kierkegaardiano, ma senza l’illuminazione della fede, tenta con ostinazione di raggiungere il castello della grazia ma non riesce a raggiungere la meta. A Milena egli scrive: «Così non ho nessuno, nessuno qui, tranne l’angoscia, stretti insieme e convulsi ci rotoliamo attraverso le notti. Eppure è cosa molto seria, questa angoscia... che in un certo senso diventa comprensibile perché di continuo mi prospetta la necessità della grande confessione: anche Milena è soltanto una creatura umana. Ciò che ne dici tu è bello e buono, non vorrei mai udire altro dopo aver udito ciò, ma è molto incerto che siano in gioco le cose supreme, questa angoscia non è soltanto la mia angoscia privata - lo è anche, paurosamente - ma è pure l’angoscia di ogni fede, da sempre» (pp. 120-1). La redenzione dall’angoscia della finitezza nel cielo puro dell’assoluto, anche se ardentemente sperata, non ha luogo però nel mondo kafkiano. Kafka resta testimone lucido e spietato di un itinerario oscuro, complicato, che non ha un traguardo definito, anche se questo disperato cercare e vagare come un Ulisse di un’Odissea tutta interiore può essere parafrasato con termini religiosi.
Anche i rapporti con Milena recano la testimonianza di questo vivere sprofondati nell’impossibile, in una realtà stregata, recidendo tutti i legami saldi e obiettivi, attendendo una metaforica chiamata che non viene. «Che cosa sia e che cosa voglia in lontananza, non so» - egli scrive a Milena. «Soltanto che cosa voglio da vicino: silenzio, tenebra, il rintanarsi, questo so, e devo obbedire, non posso fare altrimenti» (pp. 224-5). «È uno sfogo e passa, in parte è passato, ma le forze che lo provocano vibrano continuamente dentro di me, prima e dopo, anzi la mia vita, la mia esistenza, consta di quelle minacce sotterranee, se terminano, termino anch’io, è il mio modo di partecipare alla vita, se termina, rinuncio alla vita, così facilmente e naturalmente come si chiudono gli occhi. Non c’è sempre stato da quando ci conosciamo? E se non ci fosse stato, mi avresti forse mai cercato sia pure con un’occhiata fuggevole?» (p. 225).
Si sente simile a una nave che abbia perduto il timone e debba essere abbandonata al suo destino. L’angoscia dirompente e ossessiva in cui vive non riesce ad abbracciarla con lo sguardo della ragione e la vive come una mostruosità che lo trascina, come peso, colpa, ossessione, lordume, manicomio. La presenza di Milena non fa che acuire questo senso della propria vita impossibile, in un mondo senza appigli e senza salvezza in cui egli deve vivere solitario e condannato.
Tutto ciò che per l’occhio empirico ha realtà concreta e naturalistica si dissolve e riappare per l’occhio metafisica come un simbolo e una indicazione della radicale problematicità e negatività del vivere. Kafka compie, come Nietzsche e Dostoevskij, una nuova trasmutazione dei valori, ma non vi è in lui l’accettazione grandiosa e tripudiante di un mondo nichilistico e ateo, come in Nietzsche, e neppure, a badar bene, l’accettazione della negatività e del male come veicoli provvidenziali di una religiosità che vive delle antinomie, come in Dostoevskj. Kafka interpreta la propria presenza nel mondo solo come testimonianza dell’impossibile e del negativo insiti in un mondo che non risolve mai le ambiguità e la problematicità che lo attraversano. La stessa malattia polmonare egli non la caratterizza in termini solo somatici ma prevalentemente psichici come una via di salvezza che lo spirito si scava ingegnosamente nel corpo. «Ecco, il cervelllo non riusciva più a tollerare le preoccupazioni e i dolori che gli erano imposti. Diceva: non ne posso più; ma se c’è ancora qualcuno cui importi di conservare il totale, mi tolga un po’ del mio peso, e si potrà campare ancora un tantino. Allora si fecero avanti i polmoni, che, tanto, non avevano molto da perdere. Queste trattative fra il cervello e i polmoni che si svolgevano a mia insaputa devono essere state spaventevoli» (pp. 40-1).
La malattia polmonare è dunque veduta da Kafka, che ama la fiaba macabra, come ripiego opportuno che solleva il peso insopportabile di una malattia mentale. Con un pensiero assai vicino a Nietzsche e a Dostoevskij, a Rilke e a Thomas Mann, la morbosità somatico-psichica gli appare come una forma di paradossale ancoraggio dell’uomo in un terreno che ha una qualche fertilità. L’uomo alle strette, impossibilitato a vivere nella propria soffocante temperie spirituale, trova nella malattia un terreno di rifugio se non di salvezza, un asilo in cui può continuare a vivere l’esistenza che più gli è propria. La malattia reca, nel fondo, una certa dolcezza perché libera o esonera dall’impegno di vivere secondo moduli penosi e imposti da altri.
Il tempo migliore della vita, ci avverte Kafka, fu quello da lui passato in un villaggio nella condizione dell’ammalato divenuto finalmente libero: «Furono circa due anni fa quegli otto mesi in un villaggio dove credevi di aver troncato ogni cosa, ti limitavi a ciò che entro di te era al di là di ogni dubbio, eri libero, senza lettere, senza i cinque anni di collegamento postale con Berlino, sotto la tutela della tua malattia, senza dover mutare molto in te, costretto soltanto a stringere meglio i vecchi angusti contorni del tuo essere» (p. 88). Il rimprovero che Kafka muove a Milena è quello di voler riedificare un mondo che crolla. Egli non si lagna del crollo, si lagna del tentativo di ricostruzione. Non lamenta la propria tenebra, fugge la luce del sole in cui vorrebbe attirarlo Milena distogliendolo da quella solitudine, da quella tenebra in cui soltanto egli riesce a vivere senza tradire se stesso.
Mentre Milena continua a prospettare possibilità e vie d’uscita, Kafka ribatte: «No, Milena, non abbiamo in nesun caso la possibilità comune che credevamo di avere a Vienna; non l’avevamo neanche allora, io avevo guardato ‘oltre la mia siepe’, mi ci ero aggrappato in alto, poi sono ricaduto all’indietro con le mani straziate. Certo esistono anche altre possibilità, comuni, il mondo è pieno di possibilità, ma io non le conosco ancora» (p. 239). Milena parla di una vita in comune, costruisce sogni e speranze, Kafka recide ogni illusione: «Poche cose sono sicure, ma questa è una, che non vivremo mai insieme, in una casa comune, corpo accanto a corpo, a una mensa comune, mai, nemmeno nella medesima città» (p. 232). Di contro al realismo e alla vitalità di Milena insorgono le fantasticherie gli autotormenti, i masochismi, i complessi di inferiorità e di colpa kafkiani: «Tu dimentichi, Milena, che stiamo l’uno accanto all’altro a guardare per terra quell’essere che sono io; ma io che sto a guardare per terra quell’essere che sono io; ma io che sto a guardare sono poi, è vero, privo di esistenza» (p. 235). Questo dileguare delle situazioni, delle persone, degli oggetti in un vortice nullificante corrisponde al precipitare di tutti i significanti umani nell’assurdo.
Kafka non ama certo questo mondo privo di significati e di riferimenti; la sua esistenza è, fino all’ultimo, come vediamo negli Aforismi e nel Castello, ricerca e volontà di approdo, ma i significati e i riferimenti abituali si rivelano sempre inadeguati e frammentari. Il mondo è sconcertante e non corrisponde in alcun modo all’attesa e alla speranza dell’uomo. La morte stessa non ci coglie di sorpresa perché già vivendo noi siamo di continuo, come nell’esistenza autentica di Heidegger, nella prospettiva della morte. Un allievo deride un maestro che parla sempre e soltanto della morte senza morire. Obietta il maestro: «Eppure morirò. Vedi, sto recitando il mio ultimo canto. Il canto di uno è più lungo, il canto dell’altro è più breve, ma la differenza non può essere che di qualche parola. - Ciò è esatto e non è giusto sorridere dell’eroe che, ferito a morte, giace sul palcoscenico e canta un’aria. Noi giaciamo e cantiamo per anni» (p. 236). La morte è un rischio accettabile in un mondo stupefacente dove è stupefacente all’estremo il fatto che ci si alzi ogni mattina, sebbene, egli aggiunge, «questa non sia una sorpresa che ispiri fiducia, ma una curiosità che può provocare la namea» (p. 234).
L’uomo che non riesce a capire come si sia potuto trovare il concetto di «allegria» e che lo intende solo come antitesi alla tristezza, trascrive la parabola della vita e della morte con queste angosciate parole: «Uno è stato mandato fuori come una colomba biblica, non’ ha trovato niente di verde e s’infila di nuovo nell’arca buia: ecco tutto» (p. 233). Non dirò che in tutta la vita e in tutta l’opera di Kafka vi sia soltanto e sempre questo fissare il vuoto, il gelo e il nulla dell’esistenza, ma certo i motivi dell’angoscia e dell’assurdo, della colpa e della morte divengono, col passare degli anni, sempre più dominanti e ossessivi nel mondo interiore di Kafka. Lo scrittore proietta i sogni e le fantasie con cui si tortura nel lucido disegno delle sue fiabe. Si libera così dalle proprie visioni, ma queste immagini di un mondo straziato divengono nell’opera una realtà corposa che lo minaccia. L’uomo e l’artista si trasformano in spiriti in fuga, in esseri braccati, incalzati che cercano solo la tana in cui potersi rifugiare. La fuga dal mondo è anche una fuga da se stessi, dalla propria illusoria positività e normalità per rifugiarsi nella tana sudicia e realissima in cui si è accolti solo dopo aver sfigurato le proprie sembianze umane. «Come va, Milena» - chiede Kafka - «che ancora non provi paura o ribrezzo di me, o simili sentimenti? In quali abissi si addentrano la tua serietà e la tua forza!» (p. 236). E altrove: «Sì, la tortura conta molto per me, non mi occupo d’altro che di essere torturato e di torturare... L’animale strappa la frusta al padrone e frusta se stesso per diventar padrone e non sa che ciò è soltanto una fantasia prodotta da un nuovo nodo nella frusta del padrone!» (p. 240-1).

Anche il rapporto con Milena viene progressivamente logorato e annientato dal furore autodistruttiva di Franz. Egli vieta a se stesso e all’amica la corrispondenza, convinto che le lettere siano soltanto tormento, provengano dal tormento e procurino tormento inguaribile. Accusa l’amica di togliere a lui quel poco di sonno che ancora gli rimane e prende commiato dà Milena giudicando l’intero fatto dello scrivere come un fenomeno di ambiguità e di inganno: «La facilità di scrivere lettere, considerata puramente in teoria» - scrive in un passo tipicamente kafkiano - «deve aver portato nel mondo uno spaventevole scompiglio delle anime. È infatti un contatto con fantasmi, e non solo col fantasma del destinatario, ma anche col proprio che si sviluppa tra le mani della lettera che stiamo scrivendo, o magari in una successione di lettere, dove l’una conferma l’altra e ad essa può appellarsi per testimonianza. Come sarà mai nata l’idea che gli uomini possano mettessi in contatto tra loro mediante lettere? A una creatura umana distante si può pensare e si può afferrare una creatura umana vicina, tutto il resto sorpassa le forze umane. Scrivere lettere però significa denudarsi davanti ai fantasmi che stanno avidamente in agguato. Baci scritti non arrivano a destinazione, ma vengono bevuti dai fantasmi durante il tragitto. Con così abbondante nutrimento questi si moltiplicano in modo inaudito. L’umanità lo sente e li combatte; per cercare di eliminare l’azione dei fantasmi tra uomo e uomo e per raggiungere il contatto naturale, la pace delle anime, essa ha inventato la ferrovia, l’automobile, l’aereoplano, ma ciò non serve più, sono evidentemente invenzioni fatte già durante il crollo, la parte avversaria è molto più calma e forte, anche se l’umanità dopo la posta ha inventato il telegrafo, il telefono, il telegrafo senza fili. Gli spiriti non moriranno di fame, noi periremo» (pp. 254-5).
Vi è dunque una forza enigmatica e ostile che impedisce la comunicazione tra gli uomini e la rende sempre problematica e ambigua. Il mondo degli uomini diviene un mondo aperto a tutte le interpretazioni e a tutti i malintesi, una realtà eludente e capricciosa che possiede come Proteo, un volto sempre mutevole. Una realtà, insomma, buona per i fantasmi ma pessima per gli uomini se vogliono vivere sereni e felici. Questo possibilismo diviene, infine, un gioco esasperante, una visione sofisticata, quasi che l’artista e il pensatore Kafka si perdano nella contemplazione della Sfinge e dei suoi enigmi. Potremmo quasi parlare di un vero e proprio complesso di enigmaticità, di un gusto funanbolesco, insieme tragico e caricaturale per tutto ciò che è stravagante, equivoco, ambiguo e proteiforme. Kafka resta umano ed è un grande artista quando descrive, al di là del naturalismo ma in termini che restano obiettivi e naturalistici, la lotta dell’uomo contro l’assurdo, il dramma dell’uomo che non vuole diventare cosa, strumento, merce, o scivolare nel piano dell’animalità. Cade, invece, nel disumano e la sua arte diviene ermetismo e ‘decadentismo quando trasforma l’esperienza tragica dell’irrazionale e del malinteso in un astratto e compiaciuto gioco di specchi che rinviano all’infinito immagini senza senza.

Le Lettere a Milena presentano spesso questi due aspetti di Kafka che stanno in un diverso piano di umanità. Vi è un Franz che stabilisce un lucido e doloroso confronto fra la vitalità esuberante dell’amica e la propria malata incapacità di vivere; e vi è un Franz che pone fra sé e l’amica il muro gelido di una convinzione metafisica per cui le comunicazioni umane sono impossibili. Il primo Kafka è affettuoso, tenero, appassionato; il secondo è una maschera fredda, un uomo pietrificato e irraggiungibile. Quanto gelo e quanta distanza nelle ultime lettere! «Da anni non ho più scritto a nessuno, in questo punto ero come morto, mancanza di ogni bisogno di comunicazione, come se io non fossi di questo mondo ma anche di nessun altro; era come se per tutti gli anni avessi fatto soltanto di straforo ciò che era richiesto e in realtà fossi stato soltanto in ascolto per sentire se ero chiamato, finché poi la malattia mi chiamò nella camera attigua e io vi entrai e sempre più fui suo. Ma è buio, nella camera, e non si sa neanche se sia la malattia» (p. 256). Questo secondo Kafka è l’uomo che scrive all’amica: «Devo smettere, non posso più scrivere. Oh, la sua insonnia è diversa dalla mia. Per favore non scriva più». Egli non finge certo ma è completamente cinto dalla propria solitudine, invalicabile anche per noi oltre che per Milena. Forse è la malattia che ha stroncato ogni residua speranza. E il gusto cabbalistico è un avvolgersi in un mantello funebre e non già la scoperta di una ormai slontanata e dileguante terra ferma.
Il romanzo d’amore con Milena è la storia di un tentativo fallito. Come Kierkegaard con Regina Olsen, così Kafka con Milena fugge l’amore reale, fatto di concreta vicinanza, di unione corporea, di comune destino. Non conosciamo le lettere di risposta di Milena, ma ci appare certo che è soprattutto Franz a distruggere la realtà e la possibilità di un rapporto umano vivo e saldo. Nella sua vita egli fu tre volte fidanzato, e due volte con la medesima ragazza, ma ogni volta finì con l’annientare quelle relazioni umane sorte da una speranza sempre incerta. L’aspirazione ad avere una famiglia, una vita regolare, era in lui sincera e forte, ma contrastava con una insopprimibile disposizione mentale a non credere nella propria capacità d’amare e nella propria capacità di vivere ciò che Kierkegaard, con linguaggio hegeliano, aveva chiamato l’Universale. Nei confronti di Milena e del marito di lei lo stravagante, infedele e non privo di fascino Ernst Pollak, scrittore egli stesso e amico di Franz Werfel Kafka si sentì sempre come «il topo della casa grande «al quale si può permettere al massimo una volta all’anno di attraversare liberamente il tappeto» (p. 131). La manìa autodistruttiva, il bisogno di fustigarsi e umiliarsi, il senso della propria nullità e impotenza gli rendevano precario e instabile ogni contatto duraturo nel quale fosse chiamato a impegnarsi. «Tu» - egli dice a Milena - «sei incomparabilmente più sana di me, io sarò sempre il signore che si fa portare la valigia (la qual cosa però non è una differenza di categoria, perché prima viene il signore che con un cenno chiama il portabagagli, poi viene il portatore, e dopo il signore che prega il portatore di portare la valigia perché altrimenti cade a terra... «(p. 168).
Anche se stesso - soprattutto se stesso - Kafka vide come tenebra, errore, colpa, assurdità. Nella sua opera descrisse l’odissea interiore di un uomo estraniato dalla società e dall’amore. E questo uomo era lui stesso. Ma in questa immagine della coscienza angosciata e alienata milioni di uomini - ed è questa la grandezza di Kafka - videro la propria immagine e sentirono narrare la propria tragica storia. Kafka è il testimone di ciò che il mondo forse è ma non deve essere. Come Marcione e i marcioniti egli non accettava l’ottimismo della teodicea comune. Il suo Dio - se un Dio aveva (e ho molti dubbi in proposito) - era assai simile al Dio vendicativo e crudele dell’Antico Testamento, a quella potenza inferiore che, per Marcione, ha creato il mondo limitato, pieno di miserie e di controsensi in cui dobbiamo vivere. Per Marcione vi era un Dio infinitamente più alto del Dio creatore. Questo Deus superior et sublimior è il Dio ignoto al mondo, il Dio straniero. Forse anche per Kafka vi era un Dio redentore sconosciuto. Qualche raro barlume di questa redenzione irradia dal mistero. Ma la sola cantica che Kafka ha scritto, nella sua commedia, è l’inferno.

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Kafka è, sostanzialmente, un autore tragico, anche se la sua tragicità è vissuta in registri fortemente caricaturali e grotteschi. Ma il tragico kafkiano è una specie di muro contro cui battiamo la testa. La rappresentazione kafkiana del tragico spezza, in gran parte, i canoni classici che Aristotele ha fissato per il genere tragico nella sua Poetica.
A proposito di tali canoni ha scritto, con la solita eleganza precisa, Manara Valgimigli: Il piacere proprio della tragedia nasce principalmente da una vicenda di casi che suscitano pietà e terrore. E pietà e terrore nascono dall’impreveduto, da ciò che accade contro ogni aspettazione e supposizione. Se non che questi casi, ancorché inaspettati, non deve apparire che accadano ciecamente, quasi che un potere ignoto ed estraneo li abbia fatti sorgere d’un tratto; ma devono apparire ed essere legati di cosi stretti vincoli con tutto ciò che procede, da dare veracemente il senso pauroso di una immanente fatalità al cui fermo e -lucido sguardo non era possibile sottrarsi. E, movendo dirittamente e naturalmente dall’intima struttura della favola e svolgendosi coerentemente al corso degli avvenimenti cui si accompagnano, devono essere fra loro in rapporto di reciproca casualità, e costituire tutti insieme come un movimento unico verso un’unica direzione, in cui ogni atto sia al tempo stesso antecedente e conseguente, anello insolubile di una catena ininterrotta che si snoda e scorre senza lasciar scorgere residui di sutura o tracce di legamento artificioso. Ecco dunque, anche qui, il punto sostanziale e la legge fondamentale. Perché il meraviglioso tanto più sarà meraviglioso se apparisca accadere come per un disegno prestabilito, se cioè obbedisca anch’esso alla legge del possibile secondo verisimiglianza o necessità.» (M. VALGIMIGLI, Introduzione alla Poetica di Aristotele, Bari, 1968, 7 ed., p. 17).
Le favole tragiche di Kafka, contro ogni canone aristotelico, hanno la loro genesi in alcunché di cieco, ignoto ed estraneo, non obbediscono ad alcun disegno prestabilito, rompono la legge del possibile secondo verisimiglianza e necessità. Non già, si badi, che la struttura stilistica del racconto kafkiano non ricrei l’atmosfera di una immanente fatalità che persegue un qualche suo oscuro disegno. Ma all’uomo kafkiano e al lettore che con esso si identifica sfugge completamente la logica e il senso del fato che si compie. Mentre dietro il fato greco stanno gli dèi garanti di un certo ordine di giustizia, il fato kafkiano ha un volto enigmatico e beffardo. Non avviene alcuna catarsi, alcun passaggio dalla non conoscenza alla conoscenza, nulla avviene in obbedienza ai principi di una mimèsi o di una verisimiglianza in cui sia possibile riconoscere le tracce di una realtà teleologica e sensata. Vi è, anzi, il rovescio della teleologia e del senso. A meno di non voler paradossalmente parlare di teleologia negativa, di significato nichilistico e assurdo, di legge della incoerenza.
Una coerenza, per la verità, rimane nella favola kafkiana: la coerenza del personaggio con se stesso, con il proprio carattere. Ma tale coerenza fa emergere, per contrasto, l’incoerenza delle peripezie alle quali il personaggio va incontro come una vittima costretta a raggiungere il proprio carnefice. Il personaggio kafkiano non è scisso e contraddittorio, incomprensibile a se stesso. È, semmai, caparbio e ostinato nella propria volontà di fronteggiare e capire la vicenda enigmatica in cui si va a impigliare suo malgrado, per un gioco beffardo e crudele della sorte.

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Gli scrupoli, e io direi le ossessioni morali, di Kafka, ci fanno comprendere in quale tensione etica egli si consumasse, quanto radicali e tormento se fossero le esigenze che poneva a se stesso, quanto profonda e disperata fosse la nostalgia di una vita piena, sana e giusta, ma non ci consentono di vedere in questo autofustigatore, in questo esule congenito, afflitto da un complesso di colpa e di autodenigrazione, un uomo arrivato nel porto di una fede sicura. Il ritratto morale che di Kafka ha tracciato Max Brod è sostanzialmente giusto. Kafka era un uomo buono, delicato, privo di vanità o ambizione meschine. La gloria gli era del tutto indifferente. Tendeva a un perfezionamento interiore, non tollerava in sé alcun vizio, alcuna menzogna, alcun autoinganno, alcun pregiudizio. Aveva vocazioni ascetiche e, come leggiamo nei Diari, lo scrivere era per lui «una forma di preghiera». Credo che avesse anche, come sottolinea fortemente Max Brod, un’ansia di purezza, di comunione con qualcosa di vero e di indistruttibile. Di se stesso ha veramente detto: «L’uomo non può vivere senza una costante fiducia in qualcosa di indistruttibile dentro di sé». Ma cercare non significa aver trovato, la nostalgia non è l’approdo. In fondo ogni autentica vita morale è, simbolicamente, la ricerca del puro, del vero, dell’indistruttibile, senza per questo ricevere quelle puntellature solide e incrollabili che sono rappresentate dalle convinzioni religiose.
Milena Jesenskà, la giovane signora che Kafka amò con vibrante passione, ci ha lasciato, nelle sue lettere a Max Brod, alcune annotazioni preziose per comprendere meglio la personalità di ‘Frank’ (così lo chiamava):
«Lei chiede come mai Frank abbia paura dell’amore e non abbia paura della vita. Io penso che non sia così. La vita è per lui qualcosa di ben diverso che per tutti gli altri uomini. Soprattutto il denaro, la borsa, l’ufficio dei cambi, una macchina da scrivere sono per lui cose mistiche (e lo sono davvero, meno che per noialtri), per lui sono enigmi stranissimi di fronte ai quali non ha assolutamente l’atteggiamento che abbiamo noi. Il suo lavoro di impiegato è forse la comune esecuzione di un servizio. Per lui l’ufficio - anche il suo - è una cosa così enigmatica, così ammirevole come la locomotiva per un bambino» (cit. da M. BROD, F. Kafka, pp. 256-257).

L’intelligentissima e colta Milena, straordinariamente acuta e sensibile, ardente e vitale, come la San Severina di Stendhal, ha colto come pochi l’atteggiamento di stupore e di meraviglia costante che caratterizza l’«essere nel mondo» di Kafka. È quello thaumàzein da cui scaturisce la grande filosofia e la grande arte, quello scorgere negli oggetti, nelle cose più umili della vita quotidiana, qualcosa di non conosciuto, di non ovvio, di rivelatore e di estremamente problematico. La filosofia e l’arte nascono quando si guardano le cose con occhio nuovo, quando non si accettano le convenzioni e i luoghi comuni e si scopre nei fatti, nelle situazioni, negli eventi del mondo comune, al di là di quello che Edmund Husserl avrebbe chiamato l’atteggiamento naturalistico, qualcosa di estremamente significativo, una realtà più profonda, diversa dalle costruzioni stereotipate e logore del cosiddetto senso comune. Il senso comune ha ragione, per motivi pragmatici e strumentali di comodità, di evitare lo stupore e la meraviglia, il mistero e l’enigma delle cose. Ma le ragioni superiori dell’arte e della filosofia, sfidano sempre l’ovvio e il noto e riscoprono costantemente l’incognito delle cose di ogni giorno. Così l’esistenza si ravviva e si rinfresca perché le cose sono in realtà inesauribili.
Ma questo continuo viaggio di scoperta è anche fonte di inquietudine e di angoscia. L’esploratore che intraprende questo viaggio è, certo, innamorato della vita, ma anche la teme. Per questo motivo trova pochi compagni di viaggio. Per questo motivo il senso comune, nelle sue forme di banalità quotidiana, diffida costantemente di ciò che può apparire mutevole, recondito, ignoto o problematico e si affida alle false certezze di un mondo già stabilito, di un mondo convenuto, pienamente noto, sottratto all’esplorazione e alla ricerca.
Ecco ancora alcune annotazioni che ci mostrano il livello intellettuale e morale della femminea e protettiva Milena, che Kafka simboleggiò nella soccorrevole Frida del Castello:
«Si, tutto questo mondo è e rimane enigmatico per lui. Un enigma mistico... Certo è che tutti noi siamo apparentemente capaci di vivere perché una volta ci siamo rifugiati nella menzogna, nella cecità, nell’entusiasmo, nell’ottimismo, in una convinzione, nel pessimismo o in qualcos’altro. Ma lui non si è mai rifugiato in un asilo che potesse proteggerlo. È assolutamente incapace di mentire come è incapace di ubriacarsi. È senza il minimo rifugio, senza un ricovero. Perciò è esposto a tutte le cose dalle quali noi siamo al riparo. È come un individuo nudo tra individui vestiti. E non è neanche tutta verità ciò che dice, ciò che è e che vive. È un determinato essere in sé e per sé, sgombro di qualsiasi sovrastruttura che possa aiutarlo a trasfigurare la vita, in bellezza o in miseria non importa. E il suo ascetismo non è affatto eroico - certo, appunto per ciò tanto più grande e più elevato. Ogni eroismo è menzogna e viltà. Non è uomo che si costruisce la sua ascesi come mezzo per un fine, è un uomo che è costretto all’ascesi dalla sua spaventosa chiaroveggenza, purezza e incapacità di scendere a compromessi» (cit. da M. BROD, op. cit., pp. 256-257).
Milena confessa anche i motivi «umani troppo umani» che rendono per lei difficile la vicinanza con Kafka, ma attraverso questo riconoscimento, da quella donna superiore che è, approfondisce dolorosamente la sua conoscenza dell’uomo di genio che ha incontrato. In realtà Milena era, come ha osservato Brod, sempre disposta a incontrarsi con Kafka per qualche tempo, ma non era disposta ad abbandonare il marito per vivere sempre con Kafka. Per lo scrittore il matrimonio, mentre la sua salute andava sempre peggiorando, era divenuto impossibile. Per questo motivo (che non è tuttavia l’unico!), egli ordina all’amica per lettera: «Non scrivere e impedisci che ci incontriamo: adempimi in silenzio questa sola preghiera, essa sola mi può permettere di continuare a vivere in qualche modo, tutto il resto continua la distruzione». Milena è una donna con i piedi ancorati saldamente sulla terra. «Non ero in grado di abbandonare mio marito e forse ero troppo donna per trovare la forza di assoggettarmi a una vita che sarebbe stata, sapevo bene, la più rigorosa ascesi fino alla morte» (op. cit., p. 263). Ma capisce perfettamente che la cosiddetta anormalità di Frank è anche il suo più alto pregio.
«Ciò che si attribuisce alla anormalità di Frank è precisamente il suo pregio. Le donne che lo hanno incontrato erano donne comuni che non sapevano vivere se non appunto come donne. Credo piuttosto che tutti noi, tutto il mondo e tutti gli uomini siamo malati e lui solo è sano, lui solo sente e afferra giustamente ed è l’unico uomo puro. So che egli non si oppone alla vita, ma soltanto a questa specie di vita. Se fossi riuscita ad andare con lui, avrebbe potuto vivere felice con me. Ma questo lo so soltanto oggi. Allora ero una donna comune come tutte le donne del mondo, una piccola femmina istintiva. Di qui è nata la sua angoscia. È mai possibile che quest’uomo senta una cosa che non sia giusta? Del mondo egli sa diecimila volte più che tutti gli uomini. Quella sua angoscia era giusta... Sempre... si considera colpevole e debole. E dire che in tutto il mondo non c’è un altro che abbia la sua immensa energia: quell’assoluta incrollabile necessità di arrivare alla perfezione, alla purezza e alla verità» (op. cit., p. 164).

 





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