Mefistofele: un’affascinante utopia

Michele Girardi

Non si possono dare né geni sconosciuti, né veri geni incompresi; v’è una legge naturale che s’oppone a ciò, ed è che la folla dei mortali ha essa maggior bisogno delle grandi anime, che non le grandi anime della folla. Arrigo Boito.

Negli ultimi anni gli studiosi hanno rivolto una rinnovata attenzione al primo Mefistofele, che Boito in persona diresse il 5 marzo 1868 alla Scala con esito assai contrastato - pochi gli applausi contro molti segni di aperto dissenso.1 Di quel lavoro, talmente gigantesco (oltre cinque ore) da indurre l’impresa a riproporlo in due serate separate, ci rimane solo il libretto e quelle sezioni della partitura che non furono tagliate, oppure non subirono sostanziali modifiche in occasione della ripresa bolognese del 1875 e delle successive revisioni (Venezia, 1876; Milano, 1881).
Nonostante manchi gran parte della musica, prendere brevemente in esame quel testo è necessario per comprendere la vera portata del tentativo del ventiseienne artista scapigliato, che si proponeva di uscire dalla «formula» (così definì riduttivamente la struttura del melodramma contemporaneo) per rivoluzionare l’opera italiana, congiungendo in una vera unità poesia e musica, sottomesse al progetto di un solo artefice.
Il primo Mefistofele inizia con un Prologo in teatro, dialogo in prosa fra un Critico, l’Autore e uno Spettatore destinato alla lettura del pubblico della prima scaligera, che poté acquistare il libretto, distribuito da Ricordi, ben due mesi prima del debutto. Parziale modello di questo brano fu l’omonimo episodio del Faust di Goethe, affidato al Direttore, al Poeta del teatro e al Comico che discettano sulla ricezione dell’arte drammatica prima che s’alzi il sipario. I tre interlocutori di Boito danno voce alle ansie del vero autore, che previene ogni possibile obiezione dei recensori e prepara il pubblico a uno spettacolo inusuale. Il Critico ha dunque letto ogni opera teatrale e letteraria e ogni trattato sul leggendario ‘negromante’, e infine ha «ripassato al cembalo» la musica ispirata a Faust, concludendone che non c’è più nulla di nuovo da creare sopra questo personaggio. La sua puntigliosa dichiarazione fornisce all’Autore il diritto d’imbastire una lunga e appassionata replica, di cui val la pena di rileggere un passo:

E il soggetto non fu esaurito, non lo è e non lo sarà mai. Perchè fosse esaurito il tema di Faust converrebbe che fosse morto fra noi l’istinto del Vero dal quale emana. Vedi nel solo poema di Goethe, senza parlare degli altri, vedi raccolti in un’immensa unità tutti gli elementi dell’arte. Nel Prologo in cielo vedi il Sublime, nella Notte del Sabba romantico vedi l’Orrido, nella Domenica di Pasqua vedi il Reale, nella Notte del Sabba classico vedi il Bello.2

Boito non seppe resistere all’idea di ostentare la sua erudizione citando per bocca del Critico e dell’Autore tutte le opere da lui studiate, permettendoci così di valutare in quale misura le sue scelte estetiche dipendessero dalla una formazione culturale d’impronta tipicamente francese - tra l’altro egli trasse quasi tutte le informazioni sul mito di Faust da un trattato di Ristelhuber (Faust dans l’histoire et dans la légende, 1863).3 Quando l’Autore esalta l’universalità di Faust e Mefistofele, che incarnano eterne tipologie fin dai tempi più remoti, par quasi di rileggere le pagine centrali di Victor Hugo nella Préface a Cromwell (1827), vero manifesto del teatro romantico. Là dove il francese cita la Bibbia, Omero e Shakespeare come le tre fonti dell’arte moderna, e contrappone il Sublime al Grottesco nei suoi multiformi aspetti, Boito lo riecheggia, limitandosi a individuare lo specifico contributo di Goethe:

Giobbe ha un Mefistofele che si chiama Satana, Omero ne ha uno che si chiama Tersite, Shakespeare ne ha un altro che si chiama Falstaff. L’ispirazione originale di Goethe sta nel formare con questi tre tipi, un tipo solo, infernale come Satana, grottesco come Tersite, epicureo come Falstaff.4

Forte di queste premesse culturali, Boito decise di misurarsi con Goethe sin dal 1862, a ciò guidato dal medesimo istinto che nello stesso anno lo indusse a vagheggiare quel Nerone che gli avrebbe fatto compagnia sino alla morte, rimanendo incompiuto. Egli si accinse a ricavare un’opera impiegando ambo le parti del Faust: l’impresa non era mai stata tentata sinora dai musicisti romantici di lingua tedesca, che preferirono utilizzare la leggenda o altre fonti letterarie (Spohr) oppure scrivere lavori di altro genere (Mendelssohn, Wagner e Schumann), e anche in seguito non avrebbero mai osato portare sulle scene liriche il capolavoro di Goethe, recepito come un teatro filosofico dello spirito. Ben altrimenti si comportarono i loro colleghi in Francia dove, dopo le Huit scènes di Berlioz (1828), in seguito trasformate nella légende dramatique la Damnation de Faust (1846), vide la luce il primo Fausto di Marie-Angelique Bertin (1831), lavoro poco noto tuttavia citato dal Critico e dall’Autore. La vicenda era tratta dalla prima parte della tragedia, scelta a cui si sarebbe attenuto anche Gounod nel suo Faust, opéra dialogué (1859) e in seguito grand opéra (1862), nonostante la pubblicazione postuma della seconda parte nel 1832. Intanto il soggetto, ridotto a feuilleton, furoreggiava anche nelle Salles boulevardières.
L’impresa era tale da far tremare i polsi, ma Boito non si preoccupò più di tanto, anche se si premurò di spiegare i passi più oscuri o controversi e di giustificare alcune infedeltà alla blasonata fonte mediante una nutrita serie di note in calce a ogni atto. Egli seguì nelle linee generali Faust Eine Tragödie, culminante nella scena del carcere in cui Margherita muore redenta, ma con alcune significative omissioni, fra cui l’assenza dal cast di un personaggio chiave come Valentin, fratello soldato di Gretchen. Il ritratto della protagonista è molto meno rifinito dell’originale, e la parte è meno ricca e complessa anche rispetto alla Marguerite di Gounod, che musicò Le roi de Thulé e l’Air des bijoux (Faust I, Abend) - piccolo monumento alla vanità femminile - e utilizzò anche gli episodi ambientati nella taverna di Auerbach e in Chiesa. Omettendo le scene in cui si sviluppa la passione fra gli amanti, e gli attimi di disperata solitudine di lei (Faust I, Gretchens Stube), respinta dal suo milieu e maledetta (Nacht), Boito rese più astratta la vicenda, e separò il mondo ideale di Elena da quello reale di Margherita, che nella sua riduzione non ha parte alcuna nella salvezza dell’eroe.
L’intento, a nostro avviso raggiunto, era quello di creare la minor frattura possibile con la seconda parte della tragedia, dove l’articolazione drammatica non è più solamente rappresentazione di fatti, ma assurge a livello allegorico. Sarebbe comunque stato impossibile ripercorrere fedelmente in un’opera lirica il lungo cammino verso la conoscenza che porta l’eroe tedesco, nei cinque atti di Faust, der Tragödie Zweiter Teil, ad attraversare i secoli, partendo dalla Grecia antica. Boito articolò perciò la materia in tre quadri (due per il quarto e uno per il quinto e ultimo atto). Nel primo sintetizzò gli avvenimenti del primo atto di Goethe, fino all’azione allegorica del rapimento di Elena da parte di Paride, sventato da Faust. Nel secondo quadro musicò la Klassiche Walpurgisnacht (Faust II, a. II), che ampliò introducendovi elementi tolti da due scene dell’atto successivo (Vor dem Palaste des Menelas zu Sparta, e Innerer Burghof). In un intermezzo sinfonico-descrittivo concentrò gli eventi dell’atto quarto di Goethe, dedicando l’ultimo alla morte del protagonista. Sotto il profilo della sintesi drammatica Boito fu assai abile nella scelta dei punti salienti del Faust, ma per costruire una funzionale drammaturgia di taglio operistico dovette semplificare il raffinato costrutto metaforico della fonte.
Di essa Boito dette una prima interpretazione molto sbilanciata in chiave anticattolica, come mostra uno scorcio del prim’atto soppresso dalla versione definitiva. Chiuso nel suo studio Faust riflette sull’inizio del Vangelo secondo Giovanni, e in particolare sul senso della parola lógos, risolvendo per «In principio era il Fatto». In una nota Boito spiega come ha interpretato il sostantivo «Tat» nel verso originale («Im Anfang war die Tat»; Faust I, v. 1237), solitamente reso in italiano come «atto», o «action» dai traduttori italiani e francesi. La sua scelta implica un panteismo lontano dalla concezione di Goethe:

il Fatto, cioè il Tutto, cioè tutto ciò ch’è fatto. Goethe, che amò trasfondersi spesso nel gran personaggio del suo dramma, si manifesta, asserendo questo aforisma, in tutta la forza della sua filosofia panteistica. Traducendo l’Atto, l’Azione, l’idea resta paralizzata, giacchè l’Azione può essere la generatrice del Fatto, ma è ben lunge dall’essere il Fatto che intende Faust, cioè la materia una, increata, eterna, divina. Ecco come sotto le mani di Goethe il vangelo di San Giovanni si trasforma e diventa il codice della grande idea materialista del secolo decimonono.5

Subito dopo ha luogo l’incontro con Mefistofele, che veste il saio. Così Boito motiva la sua decisione:

È noto come Goethe ponga al posto del frate grigio un can barbone, ma è noto altresì che le vecchie leggende e gli antichi dipinti del Faust mettono il frate grigio. Noi per rispetti scenici, che il pubblico troverà ragionevoli, abbiamo preferito la forma antica, convinti che l’indole anticattolica del poema di Goethe sarebbe fors’anche, così, maggiormente accentuata.6

Tale cambiamento muta sensibilmente le implicazioni del Faust, dove il Doktor rientra nello studio insieme al cane, che reagisce all’evangelo palesando la sua natura di spirito maligno fino a trasformarsi in Clericus vagans. Il sinistro frate che pedina il protagonista di Boito fra la folla della domenica pasquale incarna invece la continuità fra il male e la Chiesa, tra sacro e profano, e dopo aver ululato alla sola vista del libro sacro si trasforma in un elegante cavaliere disposto a servire Faust, come avviene in Marlowe e Gounod.
Boito andò più oltre in occasione dell’intermezzo, liberamente ispirato alla battaglia che le truppe dell’Imperatore di Goethe combattono e vincono contro l’usurpatore, essendo soccorse in modo decisivo dai magici poteri di Mefistofele (Faust II, I, a. IV, v. 10503 e sgg.). Il brano, anch’esso scomparso dalla versione attuale, è conservato in una riduzione per pianoforte a quattro mani: sopra una serie esuberante di fanfare le voci di Faust e Mefistofele scandiscono gli ordini che guidano i soldati al successo. Il senso dell’azione, tolta dal contesto naturale, sarebbe stato impossibile da comprendere per il pubblico milanese, e dunque Boito ricorse alla seguente nota:

Eccoci in piena battaglia cattolica. La guerra annunciata timidamente dall’Imperatore anonimo, nel suo discorso della corona (Atto IV, Scena I), scoppia in questo intermezzo.
Faust, avido sempre di nuove emozioni, si scaglia anch’esso nella pugna. Il comandante supremo dell’esercito è Mefistofele, e lo vediamo qui prodigioso generale, come lo vedemmo prima prodigioso ministro delle finanze. Mefistofele combatte e vince la battaglia contro gli assalitori del papato. Mefistofele grida: Viva la Chiesa ! e intuona il Te Deum, sacerdotalmente, dopo il massacro. Il salmo ecclesiastico si congiunge allo scoppio delle fanfare infernali e al tuono delle cannonate. Il Nemico della luce, d’accordo con un Imperatore imbecillito e pericolante, è il naturale alleato della Chiesa. Chiaroveggenza della satira goetiana
.7

Anche in questo caso ci troviamo di fronte a una polemica presa di posizione del musicista, piuttosto che a una fedele interpretazione di Goethe.

***

Incubus!!! Belzebub inferni ardenti monarche et
Demogorgon! propitiamus vos, ut appareat et surgat
Dragon, quod tumeraris; per Jehovam, Gehennam
et consecratam aquam quam nunc spargo, signumque
crucis quod nunque facio. Bombo! Mormo!! Gorgo!!!

(Mefistofele, 1868, p. 29)

Questi versi, che Boito aveva prelevato dal Faust di Marlowe con qualche modifica e affidato al suo eroe per evocare il demonio, furono espunti dalla versione definitiva del Mefistofele. Insieme ad essi scomparvero anche le note esplicative, l’esegesi del Vangelo e la battaglia: Boito smussò dunque con accuratezza gli spigoli del côté anticattolico dell’opera. Fu eliminato anche il primo quadro dell’atto quarto, e se ciò ottenne lo scopo di contenere il tempo di permanenza in teatro entro confini tollerabili anche dal pubblico più insofferente, pure ridusse a una pallida larva la traccia che segue l’articolazione della seconda parte del dramma.
Anche gli altri cambiamenti operati da Boito mostrano che fu suo palese obiettivo fare rientrare nei canoni della ricezione del suo tempo un’anomala creazione, pur tentando di conservarne i tratti avveniristici. Da baritono, registro ideale per un maturo pensatore, il protagonista divenne tenore, ruolo che viene a completare l’eterno triangolo convenzionale (anche se manca l’antagonista). Così il codice del melodramma tornò a parlare più chiaramente al pubblico, informandolo che l’eroe agisce per amore del soprano - si chiami esso Margherita o Elena poco importa - e non della conoscenza. Di conseguenza un nuovo afflato cantabile copre quelle che nel 1868 erano le dotte disquisizioni di Faust: «Lontano, lontano, lontano», sezione prelevata dall’incompiuta Ero e Leandro e aggiunta in coda al duetto della scena della prigione, ritrae i due amanti in un romantico momento di illusione. E poco dopo il nuovo breve solo di Margherita «Spunta l’aurora pallida» evoca, per la suggestione delle parole e il lirismo della musica, l’ombra del sacrificio di Violetta Valery.
Un’altra città, Bologna, col suo pubblico più aperto alle innovazioni, decretò la rinascita del Mefistofele nel 1875, ma non sentì lo stesso lavoro che aveva lasciato perplessi i milanesi sette anni prima. Boito aveva fatto tesoro di quel traumatico impatto con la realtà delle scene, e modificò proprio le parti dell’opera che erano state oggetto di contestazioni, e avevano destato le critiche più dure dei commentatori. Fra essi merita di essere ricordato, per la precisione e l’acutezza dei rilievi, Giulio Ricordi, editore musicista che si era preso la briga di analizzare il Mefistofele punto per punto. Lodò il Prologo in cielo, particolarmente per lo sfarzoso finale (su cui Boito intervenne poco), ma criticò un lungo recitativo fra Faust e Wagner fra la folla all’inizio del primo atto (che fu puntualmente cassato). Se la prese con la sezione centrale del duetto dell’atto successivo (che subì drastiche modifiche), e mentre esaltò il Sabba classico, scrisse che «l’atto terzo, e la prima parte del quarto sono i lati più deboli dello spartito»
.8 Boito rimediò tagliando senza esitazioni, e riscrisse l’aria «l’Altra notte in fondo al mar», che secondo l’editore era «una monodia, senza forme spiccate, senza ritmo, nella quale la stranezza dell’armonizzare è vinta dalla stranezza del vocalizzo»,9 facendone uno dei brani più attesi di tutta la partitura. Infine rielaborò intensamente il quinto atto, che definì Epilogo, riscrivendo il monologo di Faust, assai criticato da Ricordi per lungaggini e fiacchezza.
Nonostante tutto, Boito non aveva comunque torto ritenendo di essere riuscito a conservare il carattere innovativo del suo lavoro. Basta guardare alla struttura dell’opera, in cui non si trova pressoché traccia di quella che oggi si usa chiamare, sulla falsariga di Abramo Basevi, una «solita forma», vale a dire un’aria o altri numeri chiusi in quattro o cinque sezioni, anche se ancora una volta non sbagliò Ricordi, definendo «una specie di cabaletta» il brano a due intonato da Mefistofele che chiude il secondo atto («Fin da stanotte nell’orgie ghiotte»)
.10
È vero che alla fine del quadro iniziale del primo atto compare in partitura la definizione Scena e romanza (p. 133). Ma dopo un lungo recitativo tra Faust e Wagner («Sediam sovra quel sasso») cambia addirittura il quadro, e dalla piazza ci troviamo nello studio del dottore mentre ancora aspettiamo il cantabile promesso. Voci lontane riecheggiano il tema della danza poc’anzi intrecciata dai rustici (l’Obertas), mentre si prepara Il Patto (p. 144), e nella voce del tenore s’affaccia un fantasma melodico, l’Andante con variazioni della Sonata a Kreutzer (es. 1.a). Proprio nel momento dell’espansione lirica, dunque, Boito utilizza una citazione letterale, così come farà al quart’atto, quando Faust decanta ad Elena la «Forma ideal purissima» del Largo, con grande espressione della Sonata op. 7 (es. 1.b)
:11

 

 

Le melodie di Beethoven erano certo note a Goethe, ma non abbastanza perché la citazione potesse avere un senso per la maggior parte del pubblico italiano. Il messaggio era dunque indirizzato a una ristretta schiera di eletti, quell’avanguardia a cui Boito intendeva rivolgersi con un linguaggio speciale. Ingenuo, e crediamo inconsapevole, è invece il richiamo a Frère Jacques, che echeggia in controtempo nel preludio all’atto secondo, e tutto il prosieguo della musica di Faust e Margherita, che ricorda la musica dei congiurati nel Ballo in maschera. L’ammiccamento agli iniziati invece prosegue nel Sabba romantico, visto che mentre stregoni e streghe esclamano «Siam salvi in tutta l’eternità» si odono le quinte vuote del Mephisto-Walzer di Liszt.
Ugualmente di natura intellettualistica è l’impiego di forme della musica strumentale, al di fuori della prassi melodrammatica del tempo, come la raffinata Bogenform del Prologo in cielo, in cui alla simmetria delle parti estreme (Preludio e coro e Salmodia finale) corrisponde quella di due scherzi, uno strumentale l’altro vocale, che incorniciano un breve Intermezzo drammatico. Boito motivò coerentemente tale struttura:

Per quell’ossequio alla forma, del quale non si deve mai spogliare niuno che tratti il presente soggetto, abbiamo dato a questo Prologo in cielo la linea della sinfonia classica in quattro tempi, aggiungendovi l’elemento corale.12

Non conosciamo altri precedenti per questo brano, così come per il cassato Intermezzo, anch’esso molto in anticipo sui tempi. Invece, pur militando nel campo dell’avvenire, Boito non usò Leitmotive, né mai sfiorò tale tecnica. Tanto aveva già in tasca la patente di wagneriano, che allora si conquistava con qualche modulazione appena un po’ eccentrica (e a partire dal Prologo, per fare un esempio, l’alternanza tra modo maggiore minore viene usata in modo quasi ossessivo). Pure poggiò l’opera sopra melodie ricorrenti in forma di reminiscenza, il che era prassi comunissima nella musica teatrale italiana e francese di allora.
Così fece con l’enfatica progressione intonata dalle Falangi celesti («Ave Signor»), che torna nel terzo atto per accompagnare la redenzione di Margherita. Rivedendo l’opera Boito la inserì nel corso dell’aria aggiunta per la Borghi Mamo, «Spunta l’aurora pallida» (Venezia 1876): ciò denota un’attenzione più sviluppata per il significato narrativo dei temi, ma allora il musicista era finalmente riuscito a sentire Wagner a teatro. «Ave Signor» accompagna anche la salvezza di Faust, e fu una scelta ben meditata:

Le motif glorieux, scrive il signor Blaze de Bury, que les immortelles phalanges chantent dans l’introduction de la première partie de Faust, revient à la fin enveloppé d’harmonie et de vapeurs mystiques. Goethe a fait cette fois comme les musiciens, comme Mozart, qui ramène à la dernière scène de Don Juan la phrase imposante de l’ouverture. Ci siamo provati di realizzare e di sviluppare coi suoni questa aspirazione musicale del poeta.13

Più ricco d’implicazioni è invece l’impiego della melodia che compare nel duetto del secondo atto, là dove Faust cerca di vincere la naturale ritrosia di Margherita, spronandola all’amore:

 

 

Essa squarcia con le angeliche sonorità dei legni il Sabba romantico (es. 3.a), per riapparire nel momento in cui Faust entra nel carcere (a. III, es. 3.b):

 

 

In ambo i casi la reminiscenza sembra alludere all’esaltato solipsismo dell’eroe più che ai riposti sentimenti dell’eroina, e non esprime un altruistico rapporto amoroso, bensì il ricordo della seduzione, accentuando l’incomunicabilità fra i due personaggi.
Boito fece un uso più fine della reminiscenza applicando un corto motivo a Mefistofele come una sorta di etichetta che lo identifica sin dalla prima apparizione (es. 4.a). Nel 1868 aveva scritto in una nota al Prologo che «nelle vecchie leggende del Faust, Mefistofele è sempre annunciato da un tintinnio di sonaglio»
:14

 

 

Nel primo atto il motivo smaschera il frate grigio che pedina Faust, poi risuona quando Mefistofele appare vestito da cavaliere. Nel secondo si presta assai bene ad accompagnare la cabaletta «Fin da stanotte nell’orgie ghiotte» (es. 4.b), e nella scena del giardino colorisce le frasi che il demonio rivolge a Marta. Nel Sabba romantico Boito variò efficacemente il ‘motivo del sonaglio’, che acquista un piglio drammatico grazie all’alternanza fra Si bemolle maggiore e minore e allo sviluppo dell’acciaccatura (es. 4.c): un mesto tintinnio, non privo d’ironici risvolti, che inquadra Mefistofele mentre spinge Faust verso gli «spaventosi culmini del Brocken (monte delle streghe)».
L’uso estensivo di questo motivo, e il suo perfetto adattarsi al personaggio, è uno dei segni della particolare attenzione che Boito ha riservato al suo demonio. Nessun dubbio lo colse a proposito di questa parte, fra tutte la meno ritoccata. Nella prima versione era l’unico ad esprimersi mediante forme convenzionali, la ballata «Ecco il mondo», nel cuore del Sabba romantico (a.
II), e soprattutto la canzone del fischio («Son lo spirito che nega», a. I) con cui si presenta a Faust. Secondo un’arguta ipotesi critica, Boito intendeva onorare la sua condizione di ribelle scapigliato sbeffeggiando con quel fischio alla fine di ogni strofa la forma chiusa, momento deputato alla commozione del pubblico borghese.15 Ma è più verosimile che egli abbia coeren-temente seguito un’idea del personaggio enunciata in un passo del Prologo in Teatro, dove L’Autore informa il Critico che anche Rossini aveva in mente di musicare il Faust, e aggiunge:

Immaginati il creatore del Barbiere e del Guglielmo Tell colla sua duplice ispirazione e tragica e burlesca, creante la musica d’un Faust! Immagina la mente stessa che ideò il Figaro della commedia, ideare Mefistofele, questo Figaro delle tenebre!16

Servo di Faust per scommessa con l’Eterno, Mefistofele è l’anima laica di tutta l’opera. Conquista il rango di personaggio più vario e interessante sin dal Prologo in cielo, dove occupa un breve scorcio a partire dal secondo tempo, lo Scherzo Stromentale che si apre col tintinnio del ‘sonaglio’. Il recitativo del diavolo dissolve i fumi degli incensi, frantuma la dolce cantilena delle Falangi celesti, raccoglie la possanza delle fanfare che al levar del sipario squarciavano la «Nebulosa», e la trasforma in arguzia. L’orchestra rincorre la sua voce, gli archi ora staccano con brillantezza, ora legano, gli strumentini mimano i ‘concetti’ del suo pomposo eloquio - il preannuncio del fischio viene dato dall’acciaccatura del flauto cui risponde grottescamente il fagotto. Mefistofele si trova perfettamente a suo agio nella forma, declamando con fierezza sopra la melodia degli archi gravi del Trio, poi sollecita i trilli di flauto e violino con l’immagine del «grillo saltellante» che «a caso / spinge tra gli astri il naso». Torna a gonfiare il petto quando celli e bassi ripigliano il canto, attendendo che Dio, non potendo comparire di persona in un teatro italiano, apra bocca per il tramite del Chorus Mysticus interno. Anche l’Intermezzo drammatico presenta scorci vivissimi, come la rappresentazione del «cupo delirio» che agita Faust, descritto dal canto di Mefistofele che s’impenna in un salto di nona: sono attimi che onorano ogni sfumatura della parola. Infine, poco prima che i cherubini attacchino lo Scherzo vocale, il basso esclama:

È lo sciame legger degli angioletti;
Come dell’api n’ho ribrezzo e noia.

Una scaletta del fagotto accompagna Mefistofele fra le quinte: disgusto maggiore lo avrebbe sicuramente colto se fosse rimasto a sentire il pio inno dei putti:

Fratelli, le morbide penne
Non cessino il volo perenne
Che intorno al Santissimo Altar.

Nel frattempo la sua breve intrusione ha profondamente incrinato il retorico apparato predisposto per l’immagine mistica dei cieli. Boito non avrebbe più ritrovato nel corso dell’opera un estro simile, ma intanto aveva fatto balenare la possibilità di un nuovo rapporto fra testo e musica, dove il verso diviene motto che si porge all’elaborazione musicale, e dà origine a una dialettica duttile, fatta di un caleidoscopico scambio tra recitativo e cantabile che coinvolge voce e strumenti. Sono i primi germi di quello stile unico e forse irripetibile, che in mano al vecchio Verdi, sollecitato dallo stesso poeta, diverrà nel Falstaff una carta vincente.
Ma se tale maniera si rivela adattissima al buffo, nel Mefistofele non è destinata ad amalgamarsi con le altre componenti: mancava a Boito proprio quella capacità di sintesi che avrebbe potuto garantire la riuscita dell’opera. Era utopia cercare di musicare il Faust, oppure bisognava essere in grado di scrivere la Tetralogia, ma in tal caso ricorrere a Goethe sarebbe stato superfluo. L’intellettualismo di Boito non prevalse sulla sua natura latina, ma talora lo spinse ad architetture tanto ardite quanto fuori luogo. Chi mai avrebbe potuto scrivere a cuor leggero una Ridda e fuga finale, il cui soggetto si snoda sulle parole «Sabba, sabba, Saboè! riddiam, riddiamo, riddiamo, riddiamo, riddiamo, riddiam, riddiam. Saboè! har Sabbah!», per un totale di undici battute e trentuno note? E chi era in grado di sintetizzare l’articolato progetto che salverà l’anima dell’eroe tedesco - salvare un popolo guadagnando terre al mare mediante un sistema di dighe - in due soli versi (l’enfasi è nostra):

Re d’un placido mondo, - d’una spiaggia infinita,
A un popolo fecondo - voglio donar la vita.

Ma il tentativo si guadagna tutta la nostra simpatia. In fondo il Mefistofele incarna degnamente l’eterno conflitto fra male e bene (i due protagonisti maschili) e fra reale e irreale come anelito al sublime (Margherita e Elena). In tale contrasto Boito trasse la vita ma, come il suo Faust «Giunto sul passo estremo», poté a buon diritto proclamare il fallimento della sua impresa:

Ogni mortale
Mister conobbi, il Real, l’Ideale,
L’amore della vergine e l’amore
Della Dea ... Sì ... Ma il Real fu dolore
E l’Ideal fu sogno.

Concludendo la sua analisi, Giulio Ricordi si chiedeva se i molti difetti dell’opera fossero dovuti all’inesperienza dell’autore, e quindi rimediabili, ma in caso contrario gli formulò uno schietto augurio:

con tutta la franchezza che attingo nella cordiale e sentita amicizia ch’io porto al Boito, oso dirgli chiaramente: sarai poeta, letterato insigne, ma non mai compositore di opere teatrali!17

In veste di librettista, passato dall’utopia alla realtà delle scene, lo attendeva l’impresa più bella e altruistica della sua carriera: essere coautore a pieno titolo del Falstaff.

 

1 Cfr. GUIDO SALVETTI, La Scapigliatura milanese e il teatro d’opera, in Il melodramma italiano dell’Ottocento, a cura di G. Pestelli, Torino, Einaudi 1977, pp. 567-604; JAY REED NICOLAISEN, Italian Opera in Transition, 1871-1893, Ann Arbor, UMI Press 1980, pp. 125-136; WILLIAM ASHBROOK, Boito and the 1868 Mefistofele Libretto as a Reform Text, in Reading Opera, a cura di Arthur Groos e Roger Parker, Princeton, Princeton University Press, pp. 268-87.
2 Mefistofele / Opera / in un prologo e cinque atti / di Arrigo Boito / da rappresentarsi al R. Teatro della Scala / Carnevale-Quaresima 1868 / Seconda edizione / Milano / coi tipi di Giuseppe Bernardoni / 1868, p. 8
3 Cfr. ALISON TERBELL NIKITOPOULOS, Fu il Faust di Goethe l’unica ispirazione del Mefistofele? in Arrigo Boito, poeta, critico, musicista, a cura di Giovanni Morelli, Firenze, Olschki 1994, pp. 233-59. Boito conosceva la traduzione di Maffei (1861), ma lavorò sulla traduzione francese del Faust curata da Blaze de Bury.
4 Mefistofele, cit., p. 8.
5 Ibid., p. 22.
6 Ibid., p. 12.
7 Ibid., p. 72.
8 GIULIO RICORDI, Analisi musicale del Mefistofele, «Gazzetta musicale di Milano», XXIII/11, 15 marzo 1868, p. 83.
9 Ibid.
10 Ibid., p. 82. La «solita forma de’ duetti, cioè quella che vuole un tempo d’attacco, l’adagio, il tempo di mezzo, e la Cabaletta» (ABRAMO BASEVI, Studio sulle opere di Giuseppe Verdi, Firenze, Tip. Tofani 1859, p. 191).
11 Puntuale, come sempre, la segnalazione di Nardi, che aggiunge alla lista il Quartetto op. 130 per il duetto «Lontano, lontano, lontano» (PIERO NARDI, Arrigo Boito, Milano, Mondadori 1942, p. 396).
12 Mefistofele, cit., p. 12
13 Ibid.
14 Ibid.
15 GUIDO SALVETTI, La Scapigliatura milanese, cit., p. 602.
16 Mefistofele, cit., p. 8.
17 GIULIO RICORDI, Analisi musicale del Mefistofele, cit., p. 84.