I dizionari Baldini&Castoldi

Belle Hélène, La di Jacques Offenbach (1819-1880)
libretto di Henri Meilhac e Ludovic Halévy

Opéra-bouffe in tre atti

Prima:
Parigi, Théâtre des Variétés, 17 dicembre 1864

Personaggi:
Hélène, regina di Sparta (Ms); Oreste, figlio di Agamennone (Ms); Pâris, figlio del re Priamo (T); Ménélas, re di Sparta (T); Agamemnon, re dei re (Bar); Calchas, grande augure di Zeus (B); Achille, re di Ftia (T); Ajax I, re di Salamina (T); Ajax II, re di Locri (Bar); Bacchis, dama di compagnia (S); Léoena, etera (S); Parthoénis, etera (S); Philocome, servitore di Calchas addetto al tuono (rec); Euthycles, fabbro (rec); guardie, schiavi, popolo, principi e principesse, adoratrici d’Adone, dame di compagnia di Hélène



Offenbach pensava da tempo a un’opera che facesse da pendant a Orphée aux Enfers , il suo primo grande successo internazionale. L’accenno iniziale è contenuto in una lettera del 1860 a Ludovic Halévy, il giovane librettista che aveva già partecipato, anche se non ufficialmente, alla stesura di Orphée , e che diverrà, insieme al compagno di liceo Henri Meilhac, collaboratore stabile e librettista preferito del compositore. La Belle Hélène è il primo frutto di questo collaborazione a tre, e segna anche l’inizio del sodalizio con la cantante di origine tedesca Hortense Schneider, da allora in poi loro interprete favorita. Meilhac attese a una prima stesura della trama nella primavera 1864, dandole il titolo La Prise de Troie . Da quel momento la composizione procede piuttosto speditamente, tra il giugno e l’ottobre 1864. Il 6 ottobre Offenbach annuncia che il primo atto è pronto per i copisti, e il secondo è quasi completato. «Resta il terzo; dato che non voglio più lavorare troppo in fretta, mi serviranno almeno tre volte 24 ore, et voilà ». Le sue previsioni sono veritiere: il 14 ottobre i tre atti sono orchestrati e cominciano le prove, durante le quali insorgono non pochi ostacoli per la rivalità che oppone le due primedonne, Schneider e Silly, interpreti rispettivamente delle parti di Hélène e di Oreste. Si deve affrontare anche un piccolo problema creato dalla censura riguardo al personaggio dell’indovino Calchas, ritenuto poco ‘cattolico’. Ma anche questo inconveniente viene aggirato grazie alla protezione del duca di Morny, potente presidente del Corps legislatif, e librettista dilettante. Finalmente, il 17 dicembre 1864, La Belle Hélène va in scena riportando un immediato successo, anche se alcuni critici non mancano di gridare ancora una volta allo scandalo, e addirittura alla «blasfemia», per lo scempio compiuto sui ‘sacri’ personaggi del mito.

Atto primo . Il giudizio di Paride assegna la palma dell’avvenenza a Venere: il giovane figlio di Priamo viene perciò ripagato dalla dea con la promessa dell’amore della donna più bella del mondo, Elena di Troia. La notizia arriva presto a Sparta, dove vive appunto Hélène, moglie annoiata di Ménélas. Ella è ben felice di potere assegnare alla «fatalité», che di continuo invoca, la colpa di un tradimento che la invoglia, così da salvaguardare la sua reputazione. Il suo finto riserbo contrasta con l’ebbrezza spensierata del giovane Oreste, che, accompagnato da un gruppo di giovani del bel mondo, invita tutti a divertirsi «au cabaret du labyrinthe». Intanto Pâris giunge a Sparta nelle vesti di un umile pastore, e chiede aiuto a Calchas per ottenere ciò che Venere gli ha promesso, non senza avergli raccontato con un pizzico di malizia l’incontro con le tre dee sul monte Ida (“Au mont Ida trois déesses”). Hélène non manca di notare il bel pastore, ma l’arrivo dei re greci (‘Couplets des rois’: “Ces Rois remplis de vailliance”) dà inizio alla gara di intelligenza voluta da Agamemnon. Pâris riesce facilmente a risolvere le sciarade proposte e, una volta vincitore, proclama la sua vera identità provocando lo sbigottimento generale. La situazione incresciosa viene risolta grazie all’aiuto dell’indovino e imbroglione Calchas, che, con un falso oracolo, riesce ad allontanare Ménélas, spedendolo sui monti di Creta, fra l’ilarità generale (“Allez. Partez pour la Crete”).

Atto secondo . Si susseguono le schermaglie amorose tra Pâris e Hélène, la quale vorrebbe cedere senza perdere la sua reputazione di donna onesta. A un’esilarante invocazione a Venere (“Nous naissons”), in cui Hélène accusa la dea di divertirsi a far «cascader la vertu», segue una altrettanto esilarante sfilata dei re greci che si sfidano al gioco dell’oca (“Le voici, les Roi de Rois”). Il divertimento viene bruscamente interrotto dalla scoperta che Calchas bara. Hélène, stanca e annoiata, si addormenta; e quando Pâris si introduce nei suoi appartamenti, fa finta di credere che si tratti di un sogno (“C’est le Ciel qui m’envoie”). La seduzione avviene dunque in sogno, e quando sul più bello compare Ménélas, la regina ha buon gioco nel protestare la sua innocenza: nella confusione che ne nasce Pâris approfitta per scappare.

Atto terzo . Il povero Ménélas è sottoposto alle pressioni di tutti affinché ceda: Venere ha ispirato alle donne greche tale desiderio «de plaisir et d’amour» che il caos regna ormai sovrano in ogni famiglia (‘Trio patriotique’ “Lorsque la Grèce”). Quando Pâris si presenta nella falsa veste di messo di Venere per condurre Hélène a Cythère (‘Tyrolienne’ “Et tout d’abord”), Ménélas s’arrende, e accompagna lui stesso la moglie all’imbarco. Ma quando sono già lontani, Pâris si svela, provocando le ire generali. La guerra di Troia si profila all’orizzonte.

La Belle Hélène fu forse il più grande successo di Offenbach e diede inizio a quella che Alphonse Daudet definì (secondo quel che racconta Edmond de Goncourt), la ‘Offenbachiade’, ossia il periodo compreso tra il 1864 e il 1870, allorché il compositore tedesco dominò completamente la vita teatrale parigina. Ancora oggi rimane questo il suo titolo più conosciuto e, insieme a Orphée aux Enfers , ha fatto sì che il nome del compositore venisse legato per sempre alla parodia dell’antichità. In realtà Offenbach non fu il primo a utilizzare soggetti mitologici in modo ironico, né, se si dà uno sguardo al complesso della sua produzione, l’antichità classica risulta lo scenario favorito, che è casomai il Settecento. Scegliere l’antichità classica significava per Offenbach essenzialmente tre cose: variare i soliti soggetti proposti al suo pubblico; satireggiare il gusto ‘neoclassico’ di poeti e scrittori come Baudelaire, Gautier, Leconte de Lisle; infine, munirsi di uno schermo al riparo del quale stigmatizzare i costumi della società del suo tempo. Un’umanità che si riconosce nella parole della ‘Tyrolienne’ di Pâris «Je suis gai, soyez gais, il le faut, je le veux» e che si affanna a divertirsi, come il giovane debosciato Oreste «au cabaret du Labyrinthe», chiudendo gli occhi sui problemi che minano le fondamenta del suo mondo.

La parodia di Offenbach, peraltro, investe non solo la società ma anche i gusti e gli stili musicali del suo tempo: l’inno al sogno e alla notte di Pâris ed Hélène (“C’est le ciel qui m’envoie”) interrotto bruscamente dall’arrivo di Ménélas, richiama alla mente quello di Tristano e Isotta spezzato, ben più tragicamente, dall’arrivo di re Marke. Nel finale del primo atto, dopo la rivelazione della vera identità di Pâris, Offenbach costruisce un episodio di 45 battute sulle ridicole parole «L’Homme à la pomme», sciorinandovi tutte i cliché dell’opera romantica, fino a una mirabolante cadenza finale. Ancor più chiaramente parodistica la citazione testuale del trio di Guillaume Tell all’inizio del ‘Trio patriotique’ nel terzo atto, “Lorsque la Grèce est un champ de carnage”. Alla tragicità della situazione rossiniana fa riscontro la caricatura: Agamemnon e Calchas tirano in ballo il bene del paese per convincere Ménélas ad accettare il volere di Venere – ossia le ‘corna’. A Rossini (che lo ammirava tanto da definirlo «il Mozart degli Champs-Elysèes»), Offenbach deve comunque molto: innanzitutto la progressiva concitazione ritmica, poi l’iterazione meccanica di parole che finiscono per diventare insensate (come nei couplets di Oreste e nella ‘Tyrolienne’ di Pâris), frammentate con immediato effetto comico (come nei ‘Couplets des Rois’ «Ces Rois remplis de vaillance»): l’ebbrezza dei finali di Offenbach non è altro che un’ulteriore l’amplificazione della «folie organisée» dei concertati rossiniani.

a.t.

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