I dizionari Baldini&Castoldi

Gioconda, La di Amilcare Ponchielli (1834-1886)
libretto di Tobia Gorrio [Arrigo Boito], dal dramma Angelo, tyran de Padoue di Victor Hugo

Melodramma in quattro atti

Prima:
Milano, Teatro alla Scala, 8 aprile 1876

Personaggi:
la Gioconda, cantatrice (S); Laura Adorno, genovese, moglie di Alvise (Ms); Alvise Badoero, uno dei capi dell’Inquisizione di Stato (B); la cieca, madre della Gioconda (A); Enzo Grimaldo, principe genovese (T); Barnaba, cantastorie (Bar); Zuàne, regatante (B); un cantore (B); Isèpo, scrivano pubblico (T); un pilota (B); barnabotti, arsenalotti, senatori, pregadi, gentiluomini, gentildonne, maschere (arlecchini, pantaloni, bautte), popolo, marinai, mozzi, monaci de’ Frari, cavalieri della compagnia della calza, cantori



La composizione dell’opera occupò il musicista dall’autunno del 1874 all’aprile 1876, ma gran parte del tempo fu in realtà dedicato ad alcuni lavori di circostanza (la cantata a Donizetti), alla revisione dei Lituani e alla realizzazione di progetti operistici meno ambiziosi ( Lina ). Oltre a ciò, il lavoro procedeva a rilento per via delle perplessità del musicista nei confronti della drammaturgia di Boito, incline a privilegiare il realismo drammatico a scapito di quella concezione lirica, di stampo donizettiano, nella quale tutto sommato Ponchielli si riconosceva ancora. La prima rappresentazione fu un successo, ma Ponchielli decise di apportare alcune modifiche alla partitura (tagli, specie nel secondo atto, vistose modifiche al finale primo e al terzo atto, l’aggiunta della ‘furlana’ ecc.), illudendosi così di emendare definitivamente difetti dovuti a una gestazione tormentata e allo scarso tempo a disposizione. La nuova versione fu poi data alla Fenice di Venezia, nell’autunno dello stesso anno, e a Roma l’anno successivo; ma Ponchielli, grazie anche alla collaborazione del librettista Angelo Zanardini, si risolse a revisionare ancora una volta la partitura, riscrivendo in pratica gran parte del terzo atto. L’opera fu ripresa dapprima a Genova (1879) e infine nuovamente alla Scala (13 febbraio 1880); da allora è una delle opere più amate dal grande pubblico.

Atto primo . Mentre il popolo, in festa, celebra la generosità della Repubblica (“Feste e pane!”), Barnaba, un cantastorie – in realtà spia al servizio del Consiglio dei Dieci – medita sull’ambiguità di Venezia, che tra feste e forche tiene ben saldo il suo potere. Sopraggiunge Gioconda con la madre cieca (“Figlia che reggi il tremulo piè”); mentre si attende la celebrazione del Vespro, Gioconda lascia la madre per raggiungere l’amato Enzo, ma Barnaba le rivolge alcune profferte: la fanciulla lo respinge con disprezzo e fugge. Torna il popolo, portando in trionfo il vincitore della regata (“Gloria a chi vince!”). Barnaba fa credere a Zuàne, un regatante, di aver perso la gara per via del maleficio della cieca che, ignara di tutto, resta in disparte a pregare; inorriditi, i presenti affrontano la donna, decisi a linciarla. Sopraggiunge Gioconda con Enzo; questi, compreso il pericolo, tenta di difendere la cieca (“Assassini! quel crin venerando”) ma, constatata l’impossibilità di aver ragione della folla, si allontana per chiedere aiuto. Giunge Alvise Badoero con la moglie Laura: le sue parole ferme e imperiose riportano immediatamente la calma; Gioconda tenta di difendere la madre (“Pietà! Pietà! ch’io parli attendete”), ma solo Laura è sinceramente convinta dell’innocenza della donna. Nel frattempo Enzo è ritornato con alcuni marinai: Laura, che ha il viso coperto da una maschera (è ancora tempo di carnevale) e non può essere riconosciuta, rimane colpita dal suo volto; poi scorge tra le mani della cieca un rosario e si pronuncia a favore della sua innocenza, ottenendone la liberazione. Enzo, al suono della voce di Laura, si fa ansioso e assorto. Intanto la cieca, manifestando la sua riconoscenza a Laura, le porge il rosario, aggiungendo che il dono le porterà fortuna (“Voce di donna o d’angelo”). Alvise apprende segretamente da Barnaba che egli è sulla buona strada per assicurare alla giustizia qualche nemico della Repubblica. Quando Gioconda esprime il desiderio di conoscere il nome di colei che ha interceduto per la vita della madre, Laura lo rivela, suscitando nuova e più viva agitazione in Enzo; poi, mentre tutti si recano alla vicina chiesa, egli rimane assorto e solo. Barnaba lo affronta, e gli rivela di conoscere la sua vera identità (“Enzo Grimaldo, principe di Santafior”): egli non è un marinaio dalmata, ma un principe genovese proscritto da Venezia, tornato sotto mentite spoglie nella Repubblica, dove un tempo si era innamorato di una giovane donna che però era promessa a un altro. Inutilmente Enzo cerca di confutare le affermazioni di Barnaba, che sembra leggergli nel pensiero: egli non ama Gioconda, e la donna di cui un giorno fu innamorato è la stessa che poc’anzi ha interceduto per la vita della cieca; questa, che è sempre innamorata di lui, lo ha riconosciuto. Se Enzo vorrà incontrarla la notte stessa, sulla nave, egli l’aiuterà: Alvise sarà assente e non sospetterà nulla. Enzo esulta (“O grido di quest’anima”), ma al tempo stesso è sorpreso: chi è dunque il misterioso individuo? La risposta di Barnaba è agghiacciante: egli è il «possente demone del Consiglio dei Dieci»; potrebbe farlo arrestare e condannare, ma è innamorato di Gioconda, e poiché questa lo odia, vuole vendicarsi. Ucciderle l’amato gli sembra una vendetta da poco; preferisce spingerlo al tradimento. Enzo è sconvolto da questa rivelazione, ma accetta ugualmente l’offerta; poi maledice il sogghignante Barnaba e si allontana. Subito la spia denuncia il tradimento di Enzo e Laura e la loro fuga ad Alvise; poi, contemplando il palazzo dei Dogi, medita cupamente (“O monumento”). Intanto Gioconda, che ha udito tutto ed è fuggita disperata in chiesa, esce all’aperto tra i fedeli, sorretta dalla madre che la conforta, e dà sfogo al suo dolore (“Tradita! ahimè!”).

Atto secondo . A bordo della nave di Enzo, i marinai cantano un’allegra canzone. Giunge Barnaba travestito da pescatore, che ha così modo, senza dare nell’occhio, di valutare le forze di cui dispone il brigantino (“Pescator, affonda l’esca”). Allontanatosi Barnaba, Enzo dà ai marinai le istruzioni per la partenza, poi li manda sotto coperta a riposare (“Cielo e mar”). Giunge Laura, accompagnata dal solito Barnaba, che lascia soli i due amanti, dopo aver augurato loro con sinistra ironia buona fortuna. I due rievocano le loro disavventure e si abbandonano l’uno nelle braccia dell’altro (“Laggiù fra le nebbie remote”); poi, mentre Enzo ridiscende in coperta per preparare la fuga, Laura invoca l’aiuto della Vergine (“Stella del marinar”). Sopraggiunge Gioconda, mascherata, e affronta drammaticamente la rivale (“L’amo come il fulgor del creato”); in un primo momento vorrebbe colpirla con un pugnale ma poi, scorgendo Alvise che sta arrivando, pensa di vendicarsi ancora più crudelmente, consegnandola al marito che ha tradito. Quando Laura, in un ultimo e disperato tentativo, alza il rosario che le ha donato la cieca, Gioconda lo riconosce, e comprende che la donna che le ha salvato la madre è ora davanti a lei, in disperato bisogno di aiuto. Prima che Alvise salga sul brigantino, Gioconda copre il volto della rivale con la maschera e la affida a due marinai che si allontanano su una barca. Enzo, tornato sul ponte della nave, affronta l’ira e il sarcasmo di Gioconda; prima che Enzo possa riaversi dalla sorpresa, la nave è attaccata da alcune galere veneziane e colata a picco.

Atto terzo . Alvise, al colmo dell’agitazione, riflette sugli avvenimenti della notte precedente, e decide di punire la moglie adultera con la morte (“Sì, morir ella de’”). Giunge Laura; inizia un ironico e galante scambio di battute tra i due (“Bella così, madonna”), bruscamente interrotto da Alvise, il quale la atterra violentemente e le porge una fiala di veleno, intimandole il suicidio e allontanandosi. Giunge Gioconda, che sostituisce la fiala mortale con un potente sonnifero, ed esorta Laura a berlo; poi, con l’animo straziato, si allontana. Nella sfarzosa Ca’ d’Oro giungono gli invitati, che Alvise accoglie con frasi di circostanza; al culmine della festa (‘Danza delle ore’) sopraggiunge Barnaba con la cieca, sorpresa nelle stanze del palazzo: si diffonde ovunque un lugubre presentimento, che invano Alvise tenta di mitigare. Enzo, che teme per la vita di Laura, affronta Alvise, svelandogli la sua vera identità; mentre Alvise ordina il suo arresto, Gioconda si rivolge – non vista – a Barnaba, e promette di concederglisi in cambio della vita dell’amato. Tra l’orrore generale, Alvise rivela di avere ‘giustiziato’ la moglie e ne mostra il cadavere.

Atto quarto . Nell’atrio di un palazzo diroccato alla Giudecca, Gioconda congeda alcuni suoi fidi – che hanno occultato il corpo di Laura – e li prega di cercare la madre, scomparsa misteriosamente dalla notte precedente. Rimasta sola, la donna si abbandona alla più completa disperazione (“Suicidio!”): pensa dapprima di bere il veleno destinato a Laura, ma poi si rammenta della necessità di aiutarla nella fuga; tormentata da propositi di vendetta, invoca infine l’amato. Giunge Enzo, disperato: è convinto che Laura sia morta, e non desidera altro che seguirla. Inutilmente Gioconda tenta di rinnovare in lui l’antico amore (“Ridarti il sol, la vita”); alla fine, straziata e offesa, rivela a Enzo di aver fatto trafugare il cadavere della donna. Sorpreso e inorridito, Enzo le chiede spiegazioni ma Gioconda, che ormai desidera solo morire, improvvvisamente tace; esasperato, Enzo fa per avventarsi su di lei per colpirla, ma è interrotto da Laura che, risvegliatasi, lo arresta e in breve gli spiega ogni cosa. Sempre più stupefatto, Enzo si getta con l’amante ai piedi di Gioconda (“Sulle tue mani l’anima”); poi questa impartisce le necessarie istruzioni per la fuga, li benedice e, rassicurandoli sul suo conto, li congeda. Rimasta sola, Gioconda vorrebbe uccidersi, ma presto si ricorda della madre e subito dopo del patto con Barnaba: piena di spavento, vorrebbe darsi alla fuga, ma la spia è già arrivata, esigendo la sua squallida ricompensa. Gioconda finge di acconsentire (“Vo’ farmi più gaia”) ma, mentre Barnaba già canta vittoria, si trafigge il cuore con un pugnale; alla spia, rabbiosa e beffata, non resta che gridare sul cadavere della donna di averle ucciso la madre.

La Gioconda è senz’altro il progetto più ambizioso ancorché tormentato di Ponchielli, ossessionato – oltre che dalla consapevolezza di un’affermazione professionale tarda e dalla preoccupazione di confermare le aspettative sorte nel pubblico dopo I promessi sposi (1872) e I Lituani (1874) – dall’incertezza di un periodo inquieto, nel quale il successo di un’opera dipendeva da fattori imponderabili, spesso sapientemente mediati tra l’ossequio per la tradizione e una generica esigenza di rinnovamento. Il risultato riflette in pieno le aspettative dell’italiano medio nella seconda metà dell’Ottocento, teso com’è a ribadire un rassicurante legame con la tradizione (di Donizetti soprattutto) e con le tendenze drammatiche del melodramma italiano contemporaneo espresse da Verdi, e a lusingare i più esigenti richiamandosi eloquentemente al melodramma straniero, segnatamente francese; il tutto confezionato con una scrittura musicale che, a dispetto di molti giudizi della critica di un tempo, non appare certo più sprovveduta – né dal punto di vista dell’orchestrazione, né da quello della concezione compositiva (si pensi alla ‘Danza delle ore’, certamente uno dei più raffinati ed elaborati esempi di musica coreutica prodotti al tempo) – di molte creazioni coeve. Convinto assertore della validità delle formule melodrammatiche, sia pure adattate al gusto internazionale di fine Ottocento, Ponchielli, morto prematuramente, non partecipò che in minima parte al rinnovamento attuato da Verdi nelle sue ultime opere; tuttavia, Gioconda possiede alcune pagine nelle quali la compresenza di due piani distinti, uno lirico-contemplativo e l’altro drammatico, anticipa alcune soluzioni dell’ Otello verdiano (il dialogo Gioconda-Laura con la ‘serenata interna’ nel terzo atto, il concertato del primo atto e il finale del terzo). Più del Verdi del Falstaff inoltre, troppo radicale per costituire un esempio da seguire, il modello di romanza offerto da Ponchielli, inteso ora come puro sfoggio lirico avulso dal contesto della scena (“Cielo e mar”), ora come monologo drammatico, animato da passioni più ostentate che intimamente avvertite e caratterizzato da una vocalità intensa e di grande coinvolgimento emotivo (“Suicidio!”), costituì un punto di riferimento irrinunciabile per gli operisti della ‘giovane scuola’.

a.p.

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