|
|
|
I promessi sposi, che
trionfarono al dal Verme di Milano nel 1872, segnarono l'inizio della
fortuna di Ponchielli (1834-1886), fino ad allora modesto direttore
di banda a Cremona e maestro di cappella a Bergamo. La prima versione
di quest'opera, nonostante le sue sedici repliche, non aveva varcato
i confini della nativa Cremona. La seconda versione, su libretto
rimaneggiato da Emilio Praga e con notevoli mutamenti nella partitura
(soprattutto nell'orchestrazione), ottenne un trionfo di pubblico e
di critica, che giunse a ricompensare i lunghi anni della
dimenticanza e dell'indigenza. Contribuì al successo
l'interpretazione nella parte di Lucia di Teresa Brambilla, che
sposerà il compositore due anni dopo. Contribuì forse
anche il confronto con l'opera omonima di Errico Petrella (Lecco,
1869) d'impianto più ridotto e convenzionale. Fu decisivo
sicuramente il taglio della riduzione del romanzo, con ricca messe di
effetti scenici caratteristici: i cori contadineschi dell'atto I,
l'impianto comico del matrimonio segreto, i cori di sicari e di
monache a far da sfondo alla scena della Monaca di Monza, le
processioni nel Lazzaretto, e così via.
|
Le cabalette del 1856 non furono tutte
cancellate, ma vennero rispolverate da alcuni tratti di sapienza
orchestrale: accanto a loro vennero profusi brani strumentali, cori
concertati e lunghi declamati (la famosa «melopea» di cui
tanto si è parlato). |
La ripartizione dell'opera mostra bene
come fosse stata acquisita la lezione del grand opéra,
contaminata con alcuni elementi dell'opéra lyrique alla
Gounod: |
Ouverture: i temi anticipano alcune
melodie che sentiremo soprattutto nell'atto III.
ATTO I
Quadro 1: piazza del paese, scompiglio alla notizia
che il matrimonio «non s'ha da fare».
Quadro II: diverbio tra Padre Cristoforo e Don
Rodrigo, nel palazzo di quest'ultimo.
ATTO II: Matrimonio segreto; partenza dei due
innamorati.
ATTO III
Quadro I: la Monaca di Monza e rapimento di Lucia.
Quadro II: notizia della conversione dell'Innominato
e liberazione di Lucia.
ATTO IV
Quadro I: banchetto in casa di Don Rodrigo e sua
morte.
Quadro II: scena al Lazzaretto, ricongiungimento dei
due innamorati e benedizione di Padre Cristoforo.
|
Come si vede, scene affollate e
spettacolari incorniciano la vicenda principale con una sorta di
interferenza continua. E gli elementi seri della vicenda manzoniana
vengono ravvivati da elementi scopertamente comici. |
Il successo dei Promessi Sposi
indusse Ricordi a prendere sotto la sua ala protettrice il musicista.
Si aprì finalmente per Ponchielli la porta della Scala; lo si
costrinse a musicare in tempi brevi un grande lavoro, I Lituani, su libretto del
Ghislanzoni. Alla tirannia dei tempi si aggiunsero gli ostacoli
frapposti dall'indolenza (ben nota anche a Gomes) del Ghislanzoni,
che mandava i versi a pezzì e bocconi, mentre il musicista -
alla luce delle «moderne esigenze» - avrebbe voluto avere
dinnanzi l'impianto drammatico completo. |
Il soggetto è un'incredibile serie
di tradimenti, di mascheramenti, di riconoscimenti; il tutto
dislocato in lande nordiche e semi-barbariche, come estrema
mascheratura sotto spoglia lituana o germanica di ovvi sentimenti
amorosì e patriù l'epica vicenda può così
riassumersi: |
Prologo Per un tradimento i Lituani
sono sconfitti in battaglia dall'Ordine Teutonico.
ATTO I
Nella città di Marienburgo, sede dell'Ordine
Teutonico, viene acclamato Grande Maestro dell'Ordine Corrado
Wallernot, che altri non è che un nobile lituano (Walter)
travestito. I prigionieri lituani, da lui trattati con mitezza, ad
uno ad uno lo riconoscono, con grande e generale consolazione.
ATTO II
Grand'orgia nel palazzo di Corrado-Walter; durante la
festa due lituani mascherati (tra cui Aldona, sposa di Walter)
intonano canzoni patriottiche lituane, generando scompiglio.
ATTO III
Aldona, in convento, aspetta Corrado-Walter, che
dovrebbe ricongiungersi colà con le schiere lituane risorte.
Ma la trama di Corrado è stata scoperta: quand'egli giunge gli
si lascia il tempo per una grande romanza con Aldona; poi i Germanici
irrompono. Egli beve il veleno. In quel punto giungono i Lituani, che
sconfiggono i Germani. Ormai il veleno compie la sua opera su
Corrado-Walter, che spira tra le braccia di Aldona, circondato dal
suo popolo in preghiera.
|
Un simile soggetto, che a noi sembra
così complicato, fece dire invece (ad esempio a Salvatore
Farina sulla «Gazzetta Musicale di Milano») che
«tutto fornisce ottimi elementi a un maestro di musica».
Ma ci si riferiva alla serie di effetti scenico-musicali: battaghe,
cortei, marce funebri, danze orgiastiche, canzoni popolari, e
quant'altro. |
Noi ritroviamo in tutto lo spartito un
Ponchielli impegnato a costruirsi un grande monumento. L'impegno
«culturale» di questo spettacolone si affida ai temi
ricorrenti, agli estesi declamati, ai grandi pezzi formalmente
modellati su complessi travagli psicologici (soprattutto nelle parti
di Aldona e di Walter), e specialmente all'orchestrazione, da tutti
celebrata per ricchezza e densità di effetti
drammatici. |
La rappresentazione scaligera del 1874
raccolse il desiderato successo; qualche riserva riguardò
esclusivamente l'eccessivo «impegno» del lavoro.
Ponchielli pensò allora di introdurre altri elementi dì
varietà: alcuni ballabili, un vezzoso Terzettino di
menestrelli, un intero brano sinfonico descrittivo (la Battaglia) e
un'intera aria di Aldona. Con questa nuova veste I Lituani
girarono non poco i teatri italiani e stranieri (una nuova ripresa si
ebbe a Pietroburgo nel 1884) rappresentando a buon diritto uno dei
culmini della «Grande Opera». Tra le più
importanti riprese degli anni seguenti si rìcorda quella di
Toscanini nel 1904. |
Assurto ai massimi fastigi della Scala e
dell'editore Ricordi, Ponchielli si vide imporre, come librettista
per l'opera successiva, Arrigo Boito. Non fu un rapporto facile, fin
dalla scelta del soggetto, che Ponchiellì non avrebbe voluto
trarre da quell'Angélo, tyran de Padoue di Victor Hugo,
che molti ancora ricordavano nella veste musicale del
Giuramento di Mercadante. Boito impose ugualmente La Gioconda e
non ascoltò nessuna delle perplessità di Ponchielli* su
alcune debolezze del libretto, prima fra tutte il disvelarsi di
Barnaba come spia fin dall'atto I. |
Eppure quel buon uomo, forse non troppo
colto e neppure troppo brillante intellettualmente, aveva un ottimo
senso del teatro, e non riuscì ad entusiasmarsi davvero di
fronte all'artificiosità dei metri e dei costrutti poetici
dell'ex-scapigliato, per altro poco impegnato nell'impresa, al punto
da celarsi sotto lo pesudonimo-anagramma di Tobia Gorrio. Eppure,
come vedremo, il disagio del musicista di fronte a una sfida ch'egli
considerava modernista diede frutti insperati. La Gioconda che
noi conosciamo non è comunque quella che venne rappresentata
alla Scala nell'aprile del 1876: nonostante il grande successo di
pubblico e critica, Ponchielli operò molte modifiche
già per la ripresa dell'ottobre successivo, e arrivò a
riscrivere quasi completamente l'atto III (tranne la Danza delle
Ore) per la ripresa del febbraio 1880. Tutta la vicenda fu
seguita con simpatia, e poi con ammirazione, da Filippo Filippi:
sulla «Perseveranza» (15-11-1880) egli arrivò a
paragonare il talento drammatico di Ponchielli a quello di Meyerbeer,
di Verdi e persino di Wagner.
|
La Gioconda appartiene a pieno
diritto al grand opéra italiano. La
spettacolarità, con grande dispiegamento di mezzi e con
molteplice articolazione dello spazio scenico e sonoro, è
particolarmente evidente nell'atto I e nell'atto III. Nel primo
l'importanza quantitativa delle parti corali e orchestrali che
svolgono funzione pittoresca appare preminente sulle parti più
direttamente collegate alla vicenda drammatica. All'inizio
«marinai e popolo» si dilungano a esternare in un
pimpante 6/8 la propria allegria («Feste! Pane!»);
l'esultanza corale-orchestrale non si arresta - a ben vedere -
neppure quando tutti vanno alla regata: più che
un'interruzione è uno spostamento immaginario di luogo. Ed
infatti al primo truce disvelarsi di Barnaba («Giuro
all'Averno!») provengono dall'interno grida gioiose
(«Gloria a chi vince!»), cui segue una seconda invasione
della scena da parte del coro festante, che inneggia al vincitore.
L'interferenza diventa una costante struttura drammatico-musicale: il
gioco della zara, con frottolistica omoritmia, fa da punteggiatura
alla prima azione diabolica di Barnaba, quando egli insinua il
dubbio, nello sprovveduto Zoàne (il perdente della regata),
che la Cieca lo abbia stregato. E l'azione criminosa ormai ben
avviata viene poco dopo ancora nettamente interrotta dall'irrompere
della «mascherata», seguita dal «popolo» con
canti e danze; e poco dopo si scatena la danza generale della
Furlana.
|
L'interferenza avviene in tal caso per
successione cronologica degli eventi. Ma essa è ancora
più marcata quando avviene contemporaneamente allo svolgersi
della vicenda principale, come l'«Angele Dei» corale che
proviene dall'«interno della chiesa» mentre Gioconda ci
confessa, sul proscenio, il suo tragico stato di donna
tradita.
|
Il pittoricismo di questi interventi
corali e orchestrali comporta una grande discontinuità
stilistica: modi frottolistici, coralità ecclesiastiche, danze
folcloristiche; intorno al linguaggio che ha i connotati storici e
sociologici del compositore si colloca tutta una costellazione di
scritture, oggettivate dall'intento pittorico. Si osservi,
soprattutto, l'atto III, in cui la finta galanteria di Alvise nei
confronti della moglie Laura (la cui morte egli sta ordendo),
l'ingresso degli invitati in tempo di pseudo-gavotta, nonché
una parte della «Danza delle Ore» mimano modelli
settecenteschi, riscontrabili non solo nella regolarità
ritmica o nella semplicità armonica, ma proprio nella
galanteria pseudo-rococò degli staccati, delle brevi pause,
dei ritmi puntati. Nell'atto III, inoltre, si hanno i due casi
estremi di quella «interferenza» a cui accennavamo a
proposito dell'atto I: la «gaia canzone» (direi: una
barcarola a 4 voci, a cappella) su cui viene scandita la tragedia:
l'ingiunzione di morte fatta da Alvise alla moglie infedele e il
provvidenziale intervento di Gioconda, che impone a Laura,
anziché il veleno, il sonnifero. E il coretto possiede
qualità musicali nettamente in contrasto con la
passionalità accesa dei personaggi. Anche la Danza delle Ore,
che appare come una dilatazione mostruosa di quel momento di falso
alleggerimento rappresentato dall'entrata degli invitati, si
inserisce come una sospensione del dramma: noi sappiamo che nella
stanza accanto giace Laura apparentemente morta; il compiacimento per
la danza ha quindi il sapiente sapore della digressione; e la danza,
di per sé, dopo aver non poco concesso al falso-rococò
di cui dicevamo (nelle «ore del giorno»), produce uno
scarto stilistico vertiginoso con un galop finale che è
impudicamente desunto dalla contemporaneità francese, e il cui
antecedente (ma ben diversamente collocato) può rintracciarsi
nel Finale del primo quadro del Ballo in maschera («Teco
sarem di sùbito/incogniti alle tre»). Ed è come
se, con l'ingresso violento di Barnaba che trascina la Cieca, ci si
riscuotesse da una indebita distrazione: al senso della realtà
drammatica ci riconduce per quattro battute un crudo accordo di
settima diminuita.
|
Più compatto, certamente l'atto II,
poiché le marinerie dell'inizio appaiono funzionali
all'idillio amoroso tra Enzo e Laura. Ma l'indugio sulla marinaresca
e sulla barcarola è talmente dilatato da apparire, ancora, una
digressione non drammatica. L'attenzione alla pittura di questo
quadro notturno-lagunare è talmente dimentica della vicenda da
giustificare pienamente una vocalità piena e
«positiva» del «cattivo», Barnaba
(«Pescator, affonda l'esca »); ed Enzo, nel dare gli
ordini per la prossima partenza della nave, è talmente buon
marinaio da farei dimenticare la tremenda storia d'amore di cui pur
dovrebbe essere protagonista. Ciò giustifica forse
quell'impressione di straniamento che produce - a mio parere - la fin
troppo famosa romanza «Cielo e mar»: sfogo tenorile molto
generico, su una rigida bipartizione formale di tipo strofico, che
ben si addice al tableau della notte in laguna, più che alla
presumibile psicologia del personaggio drammatico.
|
Ed anche l'atto IV, pur così
terribilmente concentrato sulla vicenda intima di Gioconda, non
rinuncia ad avvalersi di una serenata, quella che giunge da lontano,
mentre Gioconda svela a Enzo e Laura di aver apprestato ogni cosa per
la loro fuga: «Ten va, serenata, per l'aura serena». La
raffigurazione oggettuale della serenata contrasta violentemente,
ancora una volta, con la ben presumibile mortale angoscia di Gioconda
che pure, anche in questa circostanza, vi si adatta docilmente.
|
Questa, quindi, la scelta spettacolare
della Gioconda. Libretto e musica concorrono non tanto a
grandiosità scenico-musicali, come nei Lituani, quanto
a un multiforme gioco di specchi, in cui l'organicità del
melodramma verdiano dei tempi del Rigoletto viene infranta sul
piano della continuità dell'azione, sia su quello della
coerenza dello spazio scenico-musicale, sia soprattutto su quello
della coerenza stilistica. Ognuno di questi scarti è un
«effetto» spettacolare; e la totalità degli
effetti può forse aver contribuito a rendere così
popolare La Gioconda, come opera «veneziana» nel
colore e nel carattere; giudizio, invero, che mi sembra nascere
più che altro da suggestioni ingenue.
|
L'interesse per La Gioconda non mi
sembra, però, che possa esaurirsi in questo tipo di scelta. Vi
è un secondo aspetto che, in precario equilibrio con il primo,
ne regge il positivo inserimento nel singolare momento in cui
apparve. Si tratta di quel complesso di modernità drammatiche
che derivarono a Ponchielli dal libretto, o forse meglio dalla
vicinanza con il principe degli Scapigliati milanesi, Arrigo Boito.
È ben documentato il disagio di Ponchielli rispetto alle
emergenti pretese culturali che si appuntavano sul melodramma da
parte di un'intellettualità attenta - se non altro - agli
sconvolgimenti addebitabili al «wagnerismo». Di fronte a
ciò Ponchielli dichiarava il proprio sgomento fin dal 1868:
«L'opera in musica ha subito certi rivolgimenti
che un maestro il quale debba accingersi a scrivere, mi pare che non
possa fare a meno di tremare.»
|
Un responsabile di quei
«rivolgimenti» era stato quel Boito, di fronte al quale
Ponchielli non smise di recalcitrare:
«Siccome io sono per natura incontentabile, qui
lo sono doppiamente, attesa la frequente e troppa elevatezza dei
concetti, del verso e difficoltà delle forme, non trovando
quelle idee ch'io vorrei. È una cosa inconcepibile, ma trovo
in me più scorrevolezza, quando il verso è più
comune (lettera al Tornaghi, 19-V1-1875).
|
Come sia da intendersi, precisamente
questa serie di concetti e quale giudizio Ponchielli avesse della
propria natura, è ben chiarito in una lettera di poco
precedente (novembre 1874), tutta imperniata sull'idea di dramma:
«Leggo e rileggo i due atti di Boito, che trovo
bellissimi, ma temo che la musica corrisponda alla difficoltà
del libretto, e cioè di riuscita difficile e di genere non
facile. E allora domando io a me stesso: E il pubblico? [...] Questo
pubblico che trova oscura la musica dei Lituani [...] io credo che
per il pubblico italiano occorra non accarezzare troppo il dramma,
altrimenti bisogna cadere nei ritmi che non colpiscono l'orecchio,
bisogna adoperare l'orchestra e, in ultimo, richiedonsi artisti che
non abbiamo [ ... ]. Perciò bisogna attenersi molto alla
lirica, io credo.» |
Per quanto riluttante, quindi, Ponchielli
dimostrò di saper accettare fino in fondo la sfida del
dramma.
Fin dal Preludio si sente il suono di quel deprecato
«quartettismo», e forse di quegli archi divisi del
Lohengrin, precipitati dai cieli violinistici alle calde
sonorità dei violoncelli. È l'orchestra, poi, a creare
il ritmo scenico, con flusso continuo, se non del discorso musicale
(l'opera è divisa «a numeri») dell'attenzione
drammatica. Il personaggio-orchestra si erge persìno in grandi
pagine solistiche: un caso-limite sta nell'atto IV, quando Gioconda,
con vocalità tesissima, intona la frase «in cor mi si
ridesta la mia tempesta immane, furibonda. O amore! Enzo
pietà!»; qui la coerenza del discorso melodico-armonico
è tutta in orchestra, mentre il canto si inserisce a tratti,
discontinuamente. E a un clarinetto, più che alla voce, sembra
meglio affidarsi uno sconsolato tema discendente che solitamente
viene chiamato «dolore di Gioconda». Il «tema di
Barnaba», del resto, con il suo incedere un poco grottesco e
claudicante è, per sua natura, del tutto strumentale; e
l'orchestra, wagnerianamente, lo fa baluginare spesso in termini di
minaccia incombente, anticipandone l'arrivo prima che Barnaba sia
davvero in scena.
|
La sfida del modernismo fu colta da
Ponchielli - per altro ancor riluttante - nell'uso del parlante, in
momenti drammaticamente e passionalmente importanti: primo fra tutti,
il momento in cui Gioconda e Laura, nell'atto III, si agitano
disperate tra fiale di veleno e di sonnifero. Il parlante si rendeva
necessario perché si potesse sovrapporre al coretto lontano
della «Gaia canzon», ma Ponchiellì temeva che la
melodia, per quanto lontana, ottenesse preminenza sulla declamazione
intonata. |
Modernismo significò anche sfoggio
di sapienza compositiva che, solo una generazione prima, sarebbe
stata accusata di «strumentismo». Fin dalla conclusione
del Preludio, Ponchielli sfoggia la capacità di sovrapporre
l'elemento «positivo» del canto del rosario a quello
«negativo» di Barnaba. E poco dopo si trova lo
straordinario terzetto della Cieca, Gioconda e Barnaba, condotto
secondo le più aggiornate tecniche verdiane del
«concertato psicologico».
|
Modernismo fu anche l'ìntonazione
della verbosità e della concettosità della parte di
Barnaba con un declamato estremamente duttile: all'inizio dell'atto I
e all'inizio del II siamo davvero sulla strada che va da Mefistofele
a Jago.
|
Da tutti gli elementi di
spettacolarità e di complessità
«modernista» deriva al lirismo di Ponchielli, in
quest'opera, spessori del tutto insoliti. La qualità di quel
lirismo, ch'egli dichiarava appartenere alla sua più vera
natura, è del tutto verdiano. Laura, nell'atto II, si effonde
nella preghiera con un canto ad archi melodici ampi e diatonici che
appartiene alle varie Leonora, Amelia, Violetta, Gilda, in pari
situazioni. Lo stesso può dirsi per la disperazione tragica di
Gioconda o per l'amoroso ardore appassionato di Laura. Né meno
verdiano è Enzo, sia nell'effusione amorosa sia nella sua per
altro improbabile attitudine eroica nel finale dell'atto II. E
verdiane sono anche le commozioni collettive, come avviene
soprattutto alla fine dell'atto III, quando il compianto di Enzo,
«Già ti veggo immota e smorta», dilaga
progressivamente con effetto di un'onda piena, travolgente gli
astanti in un sentimento comune. Forse solo Barnaba non è
ancora verdiano (all'Otello mancano undici anni): ma la sua
cattiveria è soprattutto nel libretto e nel tema orchestrale;
la sua vocalità («O monumento») è
notevolmente più buona di quanto ci si aspetterebbe. Anche il
canto della Cieca, con il suo bamboleggiamento, non è molto
verdiano: ripensiamo, piuttosto a quel sentimentalismo alla francese
che abbiamo segnalato nell'Ofelia di Faccio. |
Nel libretto vien fatta cenere della
centralità della vicenda amorosa, tanto essa viene immersa in
un congegno articolatissimo e quanto mai decentrato. Il
tradizionalismo di Ponchielli si rivela allora tutto nel mantenere
alla vocalità - quella assolutamente straordinaria di Gioconda
- la sua verdiana funzione di garantire un centro di massima
concentrazione e commozione.
|
***
|
UR-FASSUNG - STORIA
DELL'OPERA UTET - FUORI CATALOGO
|
Assurto ai massimi fastigi della Scala e
dell'editore Ricordi, Ponchielli non poteva evitare l'incontro con il
librettista che in breve sarebbe divenuto il «principe »
della poesia per musica: Arrigo Boito. I rapporti tra musicista e
poeta non furono particolarmente felici: Boito non volle ascoltare le
perplessità di Ponchielli nella scelta di un soggetto ancora
vivo nel Giuramento di
Mercadante (tratta da Angelo, tiranno di Padova di Victor
Hugo). Né ebbero migliore udienza le perplessità
sull'eccessiva complessità di quel libretto «di un
genere non facile». Né furono presi in considerazione
alcuni rilievi - per noi molto pertinenti - su alcuni precisi difetti
del libretto. In una lettera del gennaio 1875 troviamo, ad
esempio: |
«Converrà fare dei tagli qua
e là poiché vi sono delle cose troppo lunghe; per
esempio tutta quella parlata di Gioconda nell'ultimo atto, quando fa
sapere le disposizioni che ha dato alla fuga degli amanti. Il duetto
fra Enzo e Gioconda non mi garba molto, mi pare che cada. Sempre
bello il terzetto dell'atto III; ma l'entrata della Cieca nel finale
terzo vorrei che fosse causata meglio». |
In altra occasione Ponchielli
osserverà, ma senza migliore udienza, che il disvelarsi di
Barnaba come spia fin dall'atto I nuoce alla tensione drammatica.
Ma l'autorità del nuovo astro musicale non era
tale da imporsi né sul librettista, né sull'editore, il
quale costrinse il musicista a ritmi di lavoro frenetici. Le
deficIenze del libretto (e forse per questo Arrigo Boito si nascose
sotto lo pseudonimo di Tobia Gorrìo) Incisero sulla
qualità dell'opera, quasi che le lungaggini fossero musicate
contro voglia: il maggior danno può forse rilevarsi proprio
nel duetto d'amore, dove l'artificiosità dei metri e dei
costrutti poetici non trova accoglienza nel linguaggio musicale di
Ponchielli (si pensi invece come Verdi seppe trarre stimolo
all'immaginazione musicale nel Falstaff proprio dal
funambolismo verbale di Boito); ma in Ponchielli la verbosità
del discorso boitiano diventa per lo più impaccio e perdita di
evidenza scenico-musicale. |
L'8 aprile 1876 Gioconda andò in
scena alla Scala, con il successo che non poteva mancare al
«capolavoro », da più parti atteso o addirittura
già proclamato. Essendo però la fine della stagione,
l'opera tenne ìl cartellone solo per quattro sere. Questa
circostanza può considerarsi fortunata perché diede il
tempo al compositore di approntare importanti modifiche per le
edizioni di Venezia, nel -1877, a Roma, nel 1878, e ancora alla Scala
nel 1880: la modifica più fortunata fu quella dell'atto III,
che il Ponchielli, reso più autorevole dal nuovo successo,
ebbe la forza di imporre al Boito. |
L'impianto drammatico di Gioconda si
avvale fino in fondo della modifica più sostanziale portata da
Boito alla vicenda di Hugo: e cioè l'evocazione, intorno al
nucleo drammatico principale, dello sfondo coloritissimo d'una
Venezia festante, percorsa da danze, echeggianti di cori, di serenate
e di canzoni. Questo fasto scenografico-musicale esplode in
più punti dell'opera, soprattutto nell'atto I e nel III. Ma
questo riferimento continuo agli echi che vengono dal mare, dai
campielli, dai canali penetra costantemente anche nei quadri
d'interno, nella stanza di Alvise (il quale misura il tempo della
morte di Laura su quello della Barcarola che si ode da lontano),
nella stanza di Gioconda alla Giudecca nell'atto IV (ancora con la
Barcarola spettrale sullo sfondo). |
Questa struttura «aperta»
dello spazio scenico-musicale toglie rigidità al contrapporsi
un poco schematico dei personaggi principali: ne rimane diluita - per
fortuna - la contrapposizione bene--male, incarnata da
Gioconda-Barnaba, riedizione ulteriore del famoso dualismo boitiano.
Avviene così che personaggi un poco poveri drammaticamente
come Barnaba, o poverissimi, come Enzo, trovino una collocazione
interessante in un contesto più ampio, fatto di cori, di
movimenti scenici, di concertati «psicologici». Quando
invece il personaggio di Enzo non è avvolto dal consueto
turbinìo di colori, rimane completamente irrisolto,
così nel libretto come nel dramma musicale, in quel suo
trapassare meccanico dall'amore per Gioconda, al rinato amore per
Laura, all'odio per Gioconda, al riconoscente affetto per lei. Ne
consegue, inevitabilmente, che la presenza scenica di Enzo è
poco più che quella di un tenore (che ha da sfoggiare
estensione, potenza, ecc.), senza alcuno spessore drammatico: ed
è a lui, infatti, che viene destinata l'unica vera Romanza
tradizionale, il famosissimo «Cielo e mar».
|
Brevemente, ecco qualche considerazione
sui singoli atti dell'opera. I movimenti della folla reggono tutta la
struttura dell'atto I: la festa iniziale, il minaccioso rumoreggiare
intorno alla Cieca (accusata di stregoneria dall'empio Barnaba),
l'acquetarsi dopo l'intervento di Alvise (uno dei capi
dell'Inquisizione di Stato) e di sua moglie Laura, impietosita dai
lamenti di Gioconda (figlia della Cieca). In questa solida struttura
si inquadrano sia il canto tutto sentimentale e lamentevole della
Cieca:
|
|
sia le esplosioni tenorili di Enzo, nel
rivedere l'amata Laura. |
Nel confronto con il vasto rumoreggiare della folla,
si erge per la prima volta con grande potenza drammatica il
personaggio di Gioconda, che esce così dal limbo del canto di
preghiera dell'inizio.
|
La seconda parte dell'atto è
incentrata sul riconoscimento di Enzo (che, bandito da Venezia, vi
è ritornato sotto le vesti di marinaio dalmata) da parte di
Barnaba. Per Enzo anche questa scena è occasione di sfoghi
belcantistici travolti, in fine di atto, dalla danza della
Furlana e poi dalla corale preghiera dell'Angelus.
|
Nell'atto II, la scena notturna e marina
è occasione di un altro pezzo caratteristico, con cori di
marinai, di donne e di ragazzi, con Marinaresca e
Barcarola. Barnaba, travestito da pescatore, intona una
Canzone marinara. Quando la scena notturna rimane deserta, un
brevissimo Preludio orchestrale (tra i più curati come
orchestrazione) introduce a «Cielo e mar», che si
mantiene nel clima estatico dell'introduzione solo per piccola parte.
Poi, con l'arrivo di Laura, la smaniosa ricercatezza delle immagini
poetiche («La luna discende ricinta di roride bende»)
dà l'avvio al canto spiegato e vocalistico. I violenti
contrasti che seguono, con l'arrivo di Gioconda, con la fuga di
Laura, con l'esplosione rabbiosa di Enzo, con l'arrivo delle galee
veneziane e con la Battaglia, lasciano spazio crescente al canto
vibrante di Gioconda, ora imprecante, ora supplichevole, e sempre
drammaticamente tesissimo. Più che su tanti effetti, ci sembra
che qui l'unità drammatica dell'atto si regga proprio sulla
ricchezza vocale di Gioconda, e sulla «presenza»
scenico-musicale del suo personaggio.
|
Il primo quadro dell'atto III (una camera
della Ca' d'Oro) è frutto della rielaborazione avvenuta dopo
il 1876. In genere tutto l'atto recepisce modi e formule verdiane
(Don Carlo, Ballo in maschera, Aida),
amplificati a fini spettacolari. Il monologo di Alvise, cupamente
geloso, il dialogo ironico e poi fremente tra Alvise e Laura, il
monologo di Laura, l'arrivo inspiegabile di Gioconda, che sostituisce
il veleno di Laura con un filtro soporifero: sono altrettante
occasioni di commossa cantabilità, secondo modelli largamente
sperimentati, eppure qui ripercorsi con tanta spontaneità di
modi da apparire abbastanza originali e naturali. Eppure, anche qui,
- come dicevamo - la ricerca dell'effetto rompe la concentrazione
drammatica: è l'immancabile Barcarola, al termine della
quale Laura dovrà uccidersi.
|
Nel secondo quadro il
declamato di Alvise (intriso di formule galanti) si distende su un
motivo orchestrale cerimonioso, un poco settecentesco: è
l'arrivo degli ospiti per la festa di Carnevale. La Danza delle
ore che segue è di gran lunga superiore a tutti i balli,
che si trovano in gran copia nelle opere contemporanee. Come quei
balli, non ha riferimento al nucleo drammatico principale: il dramma
di gelosia e di morte rimane come sospeso ed interrotto, per
riprendere (a danza finita) con lo scompiglio alla scoperta del
cadavere - apparente - di Laura nella stanza accanto. Ripensiamo al
sinteticissimo «Notte d'orror» del Ballo verdiano; ed
osserviamo, per contrasto, l'insistita foga di questo coro
(«Orror»), che è occasione di amplificazione
spettacolare del sentimento con movimenti complessi di masse
sonore.
|
Essenziale, e tutto raccolto intorno al
dramma di Gioconda, appare l'epilogo della vicenda (atto IV). Il
Preludio orchestrale è dominato da una desolata perorazione.
L'orchestrazione mantiene in tutto l'atto ricchezza coloristica ed
espressiva (con grande uso dei fiati) e contribuisce ad amplificare
il vaneggiare di Gioconda tra suicidio, omicidio, ricordi d'amore,
palpiti filiali, ecc. La vocalità di Gioconda porta
all'estremo la dicotomia romantica tra vocalità distesa,
spaziata nei ritmi e pura negli intervalli:
|
|
e vocalità tormentata a fini
drammatici, rotta nei ritmi e lacerata negli intervalli (v. esempio
seguente).
|
L'arrivo di Enzo (liberato da Barnaba, che
ha ricevuto in cambio la promessa del «corpo» di
Gioconda), il risveglio di Laura, la partenza dei due amanti,
l'accenno |
|
di Barcarola in lontananza apportano
momenti di provvisoria dispersione, pienamente recuperati dalla cupa
«diabolicità» dell'ultima scena, quando Barnaba
giunge per avere quanto promessogli, e Gioconda, nel mentre finge di
adornarsi per lui, si trafigge con il pugnale. L'eccesso da
feuilleton culmina con la rabbia di Barnaba che, aggiungendo
malvagità a malvagità, urla nelle orecchie di Gioconda
di averle affogato la madre: ma non si può dire che
quest'ultirna scena scada in Ponchielli in gesticolazioni violente,
prive d'interiore dignità musicale. Anzi, l'ultima parte del
canto di Gioconda è immersa in una vocalità
appassionata, e nello stesso tempo composta. Quanto di violento e di
grottesco c'è nel soggetto boitiano, generalmente viene
assorbito - almeno ci sembra - dal contesto spettacolare dell'opera,
nella cui varietà effettistica può rendersi accettabile
l'amplificazione delle situazioni e degli atteggiamenti. Si pensi che
il pubblico di quegli anni (e i critici più avvertiti con lui)
accusarono semmai Gioconda di essere un poco troppo uniforme
(!), e un po' troppo ricca di sapienza compositiva e di
profondità. Nessuno l'accusò di «cattivo
gusto» sentimentalistico, poiché il metro di giudizio
era allora - e forse può esserlo anche oggi - una
«convenzione» teatrale che della gesticolazione e
dell'effetto violento era profondamente intrisa, per quel tipo
particolare di «barocchismo» che rivisse in tutta l'arte
del decadentismo ottocentesco.
|
|
|
|