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BRUNO BARILLI

«SALOMÈ» DI STRAUSS

IL SORCIO NEL VIOLINO
pp. 26-28

«Il Tevere», il 17 dicembre 1927


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Ampia, distesa e mostruosa, questa opera, nella sua greve e torpida vitalità antidiluviana, vicenda alterna di furori e di stanchezze enormi, sembra voglia rappresentare la fase laboriosa e drammatica, violenta e stracarica, d'un artista che non ha ancora raggiunto il riposo e la luce dello stile. I ritmi pugnaci e i disegni simultanei arrancano da ogni lato all'arrembaggio, in una ascensione affannosa, discorde e disperata, con un ampliamento continuo e spaziale di piccoli germi che diventano mappamondi invadenti.
Subito dal principio un fremito strepitoso e sommesso vibra nell'aria scintillante, piena di nausea, di vizio e di corrompimento: temi notturni, estenuati e morbosi, traboccano e colano bizzarramente sulla città di Galilea che appare lontana sotto un cielo sterminato e memorabile dove crollano le stelle innumerevoli. Volubilità, estasi, martirio senza requie. L'orchestra è già preda di stimoli e di esaurimenti languidissimi; gli istrumenti leggeri corrono in tutti i toni sulle scale come per un inverosimile allenamento, una avviata e trascorrente larghezza di suoni riempie il teatro, le voci della scena si odono come turbate da una debolezza misteriosa e perenne, la marea veloce degli archi si inerpica su, sibilando fitta esasperata e acutissima, mentre i bassi tremolanti sembrano agitati da un incubo stomachevole, mille voci s'incrociano, uno strabismo sonante si scatena sulla tonalità fondamentale; un cavernoso tripudio pieno di stridore screziato si leva dagli istrumenti; il rancore continuo dei tromboni oppressi chissà da quale condanna si mescola ai rimbrotti dei fiati; rauchi boati, imprecazioni represse e un latrare sconfinato e maledetto che s'allontana, creano il silenzio entro il quale scivolano sinistramente i flauti e i violini in fuga, tutti i terrori affastellati, e lo stuolo frusciante delle paure passa inseguito dalla rampogna del fagotto che finisce poi tutto ansimante zoppicando sulle note piú basse e cancrenose del suo registro.
E l'incarognimento generale dell'orchestra cresce e impensierisce; se non che siamo giunti ormai alla danza, e qui ecco un rigurgíto inaspettato di mele cotte e di zuppa, una eruzione tale di Knödel, di salsiccie e di birra fermentata che ci vien fatto di esclamare: À la bonne heure! Eccoci finalmente dinanzi il vero bavarese bonario, enfatico, popolare e in fondo burlone; cercavamo proprio di lui e lo ritroviamo dunque in atto di dare una bastonata al lume e di saccheggiare tutti quanti, cosí per scherzo o per sbaglio. In questo caso, anche se sono passati vent'anni, chiunque arrivi a fare il sopraluogo ha il dovere di riaccendere il lume per vedere che cosa è successo e di stendere magari un piccolo processo verbale.
Come in tutti gli altri di questo autore, anzi forse di piú, anche in questo lavoro c'è la mole, la solennità, la prolissità e la larghezza mostruosa della base armonica; siamo all'inizio dell'opera già pieni di una gran volontà ascendente, e il viaggio profetico comincia nella forma piú energica. Il grande ordine procedurale che l'autore mette nei suoi componimenti non significa pensiero ma soltanto educazione, attitudine e metodo.
Strauss si muove, e sale sempre tra i suoni, quasi mai fra la musica. Il compositore non fa che accatastare linee ed elementi frusti ed ingrati, ingombrando sempre piú lo spazio con la sua tecnicologia malaccorta e minacciosa. Improvvisatore che non ha scrupoli né esigenze, egli trae dal suo petto inni continui e pieni d'una gigantesca dabbenaggine, e fa di tutto per attirare la nostra attenzione su spaziosità armoniche che si aprono vertiginose; ma il suo mestiere non ci interessa sempre, e dopo qualche minuto la nostra mente è stanca e sfiduciata, mentre la sua bada a costruire, senza darsi pensiero d'altro che della fatica che gli piace. Aggressivo, schiumoso, pieno di linee madornali convergenti e divergenti, mastodontico e inverecondo, le sue sonorità rimpinzate di detriti si sfasciano per lasciar posto a combinazioni minuscole e viziosissime e a mescolanze brutali e scherzose. Egli ci getta innanzi tutta quest'opera con un moto voluminoso, deserto ma non privo di spiriti vitali; è una piena di allucinazioni che prorompe scompostamente da un gigante intontito, offuscato e terribile: guai a lasciarsi cogliere di sorpresa da lui; dalla sua povertà enorme, tempestosa e delirante non può nascere che confusione, trambusto e isterilimento.
Strauss è nato e cresciuto in mezzo all'orchestra e in fatto di tecnicismo egli arriva al grado piú elevato della scala; organizzatore incomparabile del moto polifonico, sicuro e denso stratega delle parti, i suoi accordi vanno in su e in giú in ascensore; a fare l'inventario si direbbe che egli non badi troppo alla qualità dei dettagli, la sua farina è talvolta quella del diavolo, ma noi non gli daremmo sempre torto. Strauss ha un orecchio tumultuoso, una formidabile educazione musicale lo sorregge nelle crisi; se non è ancora un grand'uomo, egli, almeno, un uomo ingrandito lo è da un pezzo. Il suo talento borghese gli impedisce di avere delle cattive intenzioni, e però egli riconosce ed ama la tradizione, e, benché faccia il rivoluzionario, rimane un rivoluzionario che sta nella legalità, che, anzi, ne allarga le basi. Ringhia come un molosso e spesso fa scricchiolare tutto l'edificio orchestrale: ciònondimeno, anche attraverso la Salomè, sorride la larga e grossolana faccia di gesso del bon marché germanico, ed egli rimane ancora, coi tempi che corrono, un artista fra i piú interessanti e potenti.

BRUNO BARILLI

CONCERTI ALL'AUGUSTEO
CON MUSICHE DI STRAUSS


IL SORCIO NEL VIOLINO

pp. 169-172

«Il Tempo», il 29 dicembre 1919

e 2 febbraio 1920
Ieri all'Augusteo ebbe luogo il terzo concerto della stagione nuova. Il programma intero si svolse dinanzi ad una assemblea imponente, raccolta e pensosa che espresse in forma discreta ma sincera la propria adesione. In questo concerto che rappresentò uno sforzo e un rischio per il direttore, Bernardino Molinari, coadiuvato dall'orchestra intelligente e valorosissima dell'Augusteo, dimostrò ancora una volta delle pregevoli qualità di concertatore e di interprete.
Apriva il Concerto la sinfonia del Matrimonio segreto di Cimarosa che ottenne una lucida e svelta esecuzione e la incompiuta di Schubert, semplice e intatta meraviglia sinfonica entro la quale riposa con respiro uguale il dolore impigrito e sonnolento. A questo capolavoro seguiva l'Apprenti sorcier scherzo sinfonico di Paolo Dukas, catalogo scaduto, di novità istrumentali; frivola e snutrita fantasia senza slancio né forza musicale, dove al grottesco gottoso si unisce una caparbietà meticolosa e senile, scritto con la preoccupazione di non sprecare ispirazione e temperamento, doti che l'autore farà bene ad economizzare anche durante il sonno.
Iniziavano la seconda parte del Programma «due canzoni italiane» per arcbi ed arpe nelle quali Domenico Alaleona, contemporaneo, vivente e giovine compositore ha inteso rivivere liberamente dei canti e delle danze italiane che gli è accaduto di ascoltare trascorrendo la sua adolescenza nella sua terra marchigiana. Le virtù di queste due canzoni sono la brevità e la semplicità; esse sono toccate con freschezza e ingenuità di sentimento e distese con cura pensierosa in una composizione calma e rituale. A noi parve la prima canzone la migliore delle due. Il pubblico le accolse con manifesta compiacenza.
Ed eccoci a Strauss col poema sinfonico Morte e trasfigurazione già eseguito prima della guerra all'Augusteo. Strauss è nato e cresciuto in mezzo all'orchestra e in fatto di tecnicismo egli arriva al grado piú elevato della scala, organizzatore incomparabile del moto polifonico sicuro e denso stratega delle parti, i suoi accordi vanno in su e in giú in ascensore; a fare l'inventario si direbbe che egli non badi troppo alla qualità dei dettagli, e noi non gli daremmo torto. Strauss ha un orecchio tumultuoso, una formidabile educazione musicale lo sorregge nelle crisi; se non è ancora un grand'uomo, egli, almeno, un uomo ingrandito lo è da un pezzo. Il suo talento borghese gli impedisce di avere delle cattive intenzioni e però egli riconosce e ama la tradizione, e benché faccia il rivoluzionario egli rimane un rivoluzionario egregio e valoroso che sta nella legalità, che, anzi ne allarga le basi. Ringhia come un molosso e spesso fa scricchiolare tutto l'edificio orchestrale, ciò nondimeno in Morte e trasfigurazione sorride la larga e grossolana faccia di gesso del bon marché germanico.
Egli ha una grande ammirazione quasi un'invidia per Mozart: proprio a ragion veduta; infatti, se Mozart è morto giovane, lui, Strauss, è nato vecchio. Strauss dà un corpo troppo enorme a delle idee piccole e ovvie, tuttavia, coi tempi che corrono, egli è ancora un artista fra i piú interessanti e potenti.
Chiudeva brillantemente il Concerto la Sinfonia del «Guglielmo Tell» di Rossini.
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Il Concerto della violinista
Lina Spera all'Augusteo


La sala di via dei Pontefici è immensa e se una orchestra composta di quasi cento valorosissimi professori può appena colmare di vibrazioni sonore e di calore drammatico l'enorme e freddo vano del sepolcro di Augusto, una donna sola, sia pure una violinista eminente, non potrà quasi mai, per quanta forza possegga, riescire a trasmettere per intero agli spettatori assisi in un lontanissimo girone colossale, il fuoco del suo temperamento, l'accento animato e particolare del suo istrumento, le nuances intime che sono il brivido prezioso e vivificatore di una interpretazione. Lina Spera, la gentile violinista romana che una fama invidiabile precedeva, già assuefatta alle battaglie artistiche e ai trionfi, lottò, ieri, con uno sforzo continuo della volontà e dello spirito, riuscendo, con la robustezza della sua tecnica virile, a superare lo spazio circostante pieno di silenziosa e paurosa attesa e a vincere una prova difficilissima.
Nel giuoco intenso, nervoso e severo della graziosissima concertista rilevammo subito le rare virtú tecniche e l'ardore contenuto di un temperamento decisamente artistico. Senza smancerie, fedele allo stile della musica, strettamente legata al carattere dell'istrumento la signorina Lina Spera, che possiede un vero talento d'interprete, una cavata rotonda e sensuale e una cognizione superiore del ritmo, raggiunge e compone con i suoni che cava dal suo istrumento un linguaggio plastico, nobile e vivamente espressivo.
Nel Concerto per violino e orchestra di Mendelssohn essa fu una esecutrice piena di dignità di emozione di immaginazione e tradusse in disegni larghi, esatti e ardenti, in energiche rotture d'arco, in sostanzialità di suono e in violenza d'accento anche i passi di difficoltà quasi orchestrale della cadenza.
Durante questa prima parte del programma, come durante la seconda, dirigeva l'orchestra, con quell'attenzione e quella fermezza che è tanto apprezzata dai concertisti e dal pubblico, il direttore dell'Augusteo, Bernardino Molinari. Va sans dire che tutto il pubblico fece alla graziosa violinista e al suo accompagnatore le piú imponenti ed entusiastiche accoglienze.
Apriva il programma la gaia e brillante Sinfonia in Re maggiore Le Maschere di Pietro Mascagni, e lo chiudeva il Poema sinfonico Vita d'eroe di Riccardo Strauss.
Ampio, disteso e mostruoso questo poema sinfonico nella sua greve e torpida vitalità antidiluviana, vicenda alterna di furori e stanchezze enormi, sembra voglia rappresentare una fase laboriosa e drammatica dell'evoluzione darwiniana. I ritmi e i disegni simultanei arrancano da ogni lato all'arrembaggio in una ascensione affannosa, discorde e disperata.
In questa seconda parte del Concerto sul fare veramente violento e troppo carico di questa Vita d'eroe, ci lasciammo cogliere dalla stanchezza e dalla disattenzione; siamo costretti quindi a limitare il nostro compito alla cronaca, cronaca del resto lietissima perché traduce l'impressione favorevole e lusinghiera di tutto un pubblico acclamante.