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OTTO ERHARDT

RICHARD STRAUSS

L'uomo e la personalità

RICHARD STRAUSS
LA VITA E L'OPERA

RICORDI - LE VITE 1957
pp. 51-58
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Nella persona di Richard Strauss si trovavano riunite l'innata capacità di sviluppo fisico del contadino bavarese del montagnoso sud con la sicurezza in se stesso, solidamente affermata, del patrizio cittadino. In lui si ritrovavano poi le premesse segnalate da Schopenhauer come necessarie per la formazione del genio: dalla madre aveva ricevuto «la disposizione della mente e del sistema nervoso», dal padre «il temperamento vivo e appassionato».
L'aspetto esterno mancava tanto della geniale singolarità, quanto di qualsiasi trascuratezza del bohémien. Non aveva quel che si dice «una testa da artista», e gli abbondanti boccoli del bambino e dell'adolescente si accorciarono fino a diventare una pettinatura normale prima ckegli giungesse ad ottenere il primo incarico della sua vita. E neppure usava una di quelle barbe che dànno interesse alla fisionomia, ma soltanto un comune paio di baffì scorrenti sul labbro finemente disegnato. La sua alta figura piantata su lunghe gambe gli permise di essere, anche per le dimensioni corporali, uno dei pochi «grandi» musicisti [In contrapposizione ai «piccoli» grandi: Mozart, Beethoven, Weber, Schumann, Wagner, Brahms, Mahler]. Il rotondo viso, con le fini e chiare sopracciglia, col naso in cui le narici leggermente vibravano e la bocca sensuale, acquistava carattere dalla poderosa fronte arrotondata e dai begli occhi di un azzurro metallico, i cui sguardi erano per lo più come volti all'interno, ma potevano anche lanciare brillanti raggi all'esterno.
La voce chiara, quasi tenorile, si esprimeva con l'abbandono e la cadenza meridionale del dialetto bavarese, che dava alle sue osservazioni umoristiche una nota fra cordiale ed aspra, la quale sovente toglieva al taglienti sarcasmi molto dell'aggressività che poteva essere nelle sue intenzioni.
Il suo incedere fermo e al tempo stesso elastico era quello di un alpigiano amante della natura. Nell'insieme la sua figura non aveva nulla di quella del sapiente proteso sopra i libri, ma piuttosto qualcosa dello sportivo adusato all'aria libera.
La caratteristica della sua personalità interiore era il dualismo, che in parallelo al tematismo, fatto di contrasti, della sua musica, faceva si che sussistessero in lui i contrasti più opposti dell'uomo. La sua maniera di fare era quella di un gran signore, ma sprovvisto di ogni posa; il suo modo di vestire disinvolto e insieme assai accurato. Carattere ingenuo e raffinato, altruista ed egoista, sciupone ed avaro. Spirito intuitivo, ma controllato dalla ragione. Comportamento ben chiaro e modesto*. Era semplice e complicato, pieno di sentimento e di pensiero, di fantasia e formalista, amante della natura e uomo di mondo, gourmand e gourmet; ma sempre fu uno di coloro di cui Schopenhauer ha detto: «Colui che durante tutta la vita non continua ad essere in certo modo un grande bambino, fino a che giunge a diventare un uomo serio, chiaro ed assennato in senso assoluto, potrà essere un cittadino utile e fattivo di questo mondo, ma non sarà mai un genio».
Dalla sua spensierata ingenuità («se fossi riflessivo, non mi chiamerei Till», disse una volta a settantotto anni)** sono sorte molte storielle, che in seguito, deformate in parte senza volerlo e in parte intenzionalmente, sono state poste in circolazione come aneddoti straussiani, «tre quarti dei quali non mi appartengono» (così dichiarò il Maestro all'autore di questo libro nel febbraio 1947). D'altra parte molte delle sue espressioni, dette di se stesso in senso ironico, furono prese tanto sul serio, che si veggono citate come vere affermazioni in lavori biografici e musicologici. Cosi, ad esempio, avrebbe detto a Felix Mottl che nel Don Giovanni aveva voluto descrivere una delle vittime del seduttore, e in modo tale che chiunque avrebbe potuto comprendere ch'ella aveva i capelli rossi. A un amico avrebbe detto che non c'era bisogno di presentargli la propria moglie, perchè già l'aveva conosciuta ascoltando Vita d'eroe; di modo che quando sarebbe stato a Berlino avrebbe potuto identificarla con precisione, soltanto ricordando l'a solo del violino di quel poema sinfonico. Chiestogli del significato armonico di uno dei suoi complessi accordi politonali, avrebbe risposto affabilmente: «Non ha che da ascoltarlo orizzontalmente anzichè verticalmente; allora lo comprenderà alla perfezione».
Trovandosi con un seccatore si sarebbe espresso dicendo che «verrà il giorno in cui il compositore potrà descrivere con tal precisione il servizio di posate d'argento d'una mensa, che l'ascoltatore distinguerà facilmente i cucchiai dalle forchette».
Sincerità era invece in certe uscite improvvise di spontanea naturalezza, come la seguente. Dopo un concerto di musica moderna che sfidava la resistenza del pubblico, mentre al principio s'era applaudita una composizione di Max Reger e in fine una di Strauss, questi, lasciando la sala, disse volgendosi a Reger: «Adesso siamo noi i classici».
Un giorno che gli riferirono quanto tempo e lavoro era costato ad uno dei suoi più eminenti colleghi il porre fine ad un'opera che in ultimo gli aveva procacciato il grande successo, osservò: «E allora perchè comporre, se gli riesce tanto difficile?». Una volta definì Salomé «commedia con scioglimento letale». Prima dell'esecuzione della Sinfonia alpina disse: «Ho voluto per una volta comporre nello stesso modo della vacca che dà il latte». Così parlò Richard Eulenspiegel.
Semplice e familiare nel tratto corrente, si rivestiva in servizio e negli atti ufficiali di una dignità che escludeva ogni familiarità.
Circa il suo metodo di lavoro così si esprimeva nel 1912 sulla rivista parigina «Musica», intervistato da René Delange, che lo qualificava come «altiero e valoroso» e lo descriveva come un uomo «che ha lottato validamente»: «Come lavoro? Nel modo più naturale del mondo, come il tappezziere che ha fissato per terra il tappeto che calpestiamo in questo istante. Mi viene in mente un'idea musicale e prendo un foglio di carta da musica di fabbrica francese (l'unica eccellente) e scrivo direttamente per orchestra tutti gli sviluppi che contiene in sé l'idea stessa. Questo mi sembra che la sorprenda. Guardi nel cortile quell'uomo che solleva sulle spalle un baule ben pesante: cammina senza fatica, perché ha l'abitudine di sollevare roba ingombrante di peso rispettabile. Io invece ho l'abitudine dell'orchestra. Certo ho da lavorare per giungere al risultato finale, però soprattutto è necessario saper lavorare. Non basta chiudersi in una camera ad imbrattare carta. Giudico poi che soprattutto un musicista deve sapersi rinnovare: è la necessità d'ogni arte. Per questo io, dopo Salomé, ho composto Elettra, alla quale ho fatto seguire il Cavaliere della rosa».
La sanità e la naturalezza erano i caratteri salienti della sua personalità. In questa nulla di artificioso né di contorto; mancava assolutamente di tutto ciò che fosse malaticcio o morbido. Non l'attraeva quel che fosse speculativo o antinaturale, e nemmeno le cose eccessivamente elaborate.
Dovette a tali qualità «negative» se giunse ad essere uno dei pochissimi geni creatori del 20º secolo che non soccombettero al dolore universale ed all'infermità alla moda del pessimismo. A quest'uomo in cui il senso tragico era assente, fu concessa la sorte di possedere uno spirito animoso e picaresco, e dalla felice combinazione di tutti questi doni naturali scaturì l'artista della vita che quasi sempre riuscì a mantenersi in cima alla situazione, «come uno di coloro - dice Nietzsche - che racchiudono tutte le proprietà dell'anima, moderna, ma che sono tuttavia sufficientemente forti per trasformarle in modo salutare».
Possedeva lo speciale talento di saper prendere gli uomini per il loro verso, per la qual cosa non rifuggiva dall'impiegare una buona dose d'astuzia contadinesca. Sfruttava le sue relazioni con uomini influenti non soltanto per il proprio beneficio, ma anche per quello dei suoi colleghi. In tali occasioni non si comportava affatto in maniera melliflua, ma andava dritto al suo scopo senza troppi riguardi, perchè considerava come cosa sottintesa che i ricchi avessero il dovere di far qualcosa per l'arte e per gli artisti. Chi avrebbe potuto rimproverargli questo in un'epoca in cui i veri, mecenati diventano sempre più rari?
Da persona che poteva considerarsi «arrivata», dimostrava la bontà d'animo e la buona disposizione ad aiutare il prossimo non negando mai il suo appoggio a qualsiasi musicista nel quale credeva scorgere doti superiori alla media. Era per lui una soddisfazione quando riusciva a portare alla luce qualche giovane valente e di talento, e quando gli altri riconoscevano il valore di persone che dapprima non erano state apprezzate per quel che valevano. Respingeva le osservazioni che si muovevano a questo principio con le seguenti parole: «Lasciate che il tempo giudichi! Non importa nulla che qualcuno sia stimato più di quel che vale. È meglio porre più in alto venti che sbarrare il cammino ad uno solo. La cosa principale è che si voglia e si possa essere o fare qualcosa!».
In relazione a quanto s'è ora detto, deve anche decisamente rifiutarsi l'affermazione che, dopo i suoi grandi successi, Strauss abbia sfruttato l'arte sua con spirito mercantile. Il fatto che «abbia sempre voluto ottenere il massimo possibile dal suo lavoro» (Zweig) non ha nulla da vedere con la capacità commerciale, ma dimostra semplicemente il punto di vista pratico in cui egli si poneva dinanzi alle cose materiali. Comprendeva chiaramente che le circostanze della vita giornaliera obbligano anche colui che crea a mercanteggiare col suo lavoro. Sapeva con precisione che esistono centinaia di migliaia di persone che, nonostante il loro scarso valore, e sovente senza muovere un dito, accumulano tesori e si arricchiscono col lavoro degli altri. Il suo senso di giustizia si rivoltava anzitutto contro lo sfruttamento e il disconoscimento del genio. Quando nel 1911 si pubblicò finalmente l'autobiografia di Richard Wagner, Strauss scrive a Hofmannsthal: «È un libro veramente impressionante che alla fine non si lascia senza emozione. Quanta forza creatrice in questa vita, veramente desolata, le cui vicissitudini costituiscono uno dei più tristi capitoli della storia della cultura tedesca!».
In relazione all'elevata coscienza del proprio valore era la sua severa autocritica, che sovente stupiva. Riconosceva senza pietà le deficienze e il non riuscito delle proprie composizioni, anche davanti agli estranei***. Si burlava a volte di stesso, come quando scriveva ad Hofmannsthal (1916): «Noi musicanti siamo noti per il nostro accentuato cattivo gusto in questioni estetiche». Del modo corretto come gli si autogiudicava fanno fede le parole con le quali definì il proprio valore relativamente a Mozart, Beethoven, Weber, Wagner, Schubert, Mendelssohn e Schumann: «Se ciascuno di questi grandi ha raggiunto, con le migliori opere del rispettivo genere, una cima di 3000 metri di altezza, ed io con le mie, in ognuno degli stessi generi, soltanto una di millecinquecento, posso dirmi contento e gettare uno sguardo retrospettivo soddisfatto al lavoro di tutta la mia vita».
Una chiara visione del suo spirito artistico-umanitario ci offre la lettera che nel terzo anno della prima guerra mondiale (fine di febbraio 1917) diresse a Hofmannsthal: «È triste che noi, giunti alla maturità dell'arte e lavorando seriamente e lealmente con propositi d'arte, si debba dividere tali cose con gente per la quale questa «grand'epoca» serve soltanto di pretesto per tenere a galla le proprie mediocri produzioni. Viene ora una buona opportunità di denunziarli ai veri artisti come vuoti esteti e cattivi patriotti; ricordando che io composi in tempo di pace Vita d'eroe e Canzone dei bardi, Lieder guerreschi e marce militari; ma ora, di fronte ai grandi avvenimenti, rimango rispettosamente in silenzio, mentre quelli, approfittando della congiuntura, lanciano i loro lavori dilettanteschi sotto il pretesto del patriottismo. È nauseante leggere sui giornali quel che si scrive sopra la rigenerazione dell'arte tedesca, quando appena vent'anni fa si rimproveravano a Richard Wagner, l'artista più tedesco, i suoi «ardori latini», o leggere l'affermazione che la giovane Germania dovrà uscire da questa «magnifica» guerra ripulita e purificata; quando potremmo contentare, anzi tutto, di liberare tanta povera gente dai pidocchi e dalle cimici, di curarla di ogni infezione e di toglierle l'abitudine di assassinare il prossimo...».
Se è esatto quanto disse di se stesso a quarant'anni, «che non si può essere oggi uno e domani un altro, ma sempre soltanto come si fu creati dal buon Dio»****, deve dedursi che c'è stato un mutamento nel proprio carattere, mutamento che soltanto potè manifestarsi sotto l'azione di fattori esterni; tanto è vero che dopo la fine della prima guerra mondiale cominciò, con la rotta della Germania, a prodursi un profondo cambiamento nella sua maniera di fare. Le fatali conseguenze della perduta guerra - il disfacimento dell'Impero, l'instaurarsi della Repubblica, la trasformazione e il deprezzamento di tutti i valori fin allora considerati tali, la proclamazione di obiettivi artistici contrari - tutto questo produsse in lui un orientamento diverso dallo stile di vita che aveva avuto fin allora. Le sue qualità altruistiche passarono in seconda linea e furono sostituite dalla tendenza a sfruttare la nuova situazione. Cercava di approfittare dei vantaggi da qualunque parte gli si offrissero. Si uniformava in ogni caso alla tendenza dominante e diventava amico di colui che aveva il governo.
Tuttavia quando la crisi dell'Opera di Vienna, da lui diretta, s'era fatta acuta, aveva dichiarato: «Sono convinto che se mi presento a Ginevra alla Società delle Nazioni, potrò ottenere molto per l'Opera di Stato». Ora però praticava quasi esclusivamente «politica casalinga». Ma lo si può forse rimproverare se la cosa principale per lui era che le sue opere si rappresentassero il più frequentemente possibile e che esse gli procacciassero la maggior quantità possibile di denaro? La confisca dei beni nemici in Inghilterra e l'inflazione in Germania gli avevano fatto perdere la maggior parte della sua fortuna; ma quando la Repubblica di Weimar si trovò sul declinare, era nuovamente ricco.
Come uomo, aveva cercato di lottare contro il generale declino della morale, in un'epoca di decadenza che propendeva verso il più grossolano materialismo. Come artista fu sempre fedele a se stesso; niente potè distoglierlo dalla convinzione acquisita, alla quale non fece mai alcuna specie di concessione: «Prima viene l'arte e poi ogni altra considerazione». Cosi aveva scritto nel 1912 a Hofmannsthal.
Egli stesso fece nel 1923, e in modo insuperabile, la sintesi della sua personalità artistica: «Dapprima mi trovavo in una posizione d'avanguardia; ora invece sono quasi alla retroguardia. Ma questo in fondo mi è indifferente. In ogni momento della mia vita sono stato sincero e non ho mai scritto un'opera con l'intenzione di passare per futurista o per rivoluzionario. Però non sono affatto sicuro che i cosidetti futuristi musicali siano egualmente sinceri quando compongono le loro opere atonali e antimelodiche o se piuttosto cercano semplicemente di portare a spasso il pubblico e acquistare fama al modo di Erostrato. Si trovano nella musica molti pazzi che lo sono soltanto nella loro immaginazione; ma io apprezzo soltanto i pazzi autentici...».
Gli avvenimenti più recenti che condussero alla seconda guerra mondiale con le sue imprevedibili conseguenze, non possiamo ancora vederli in una prospettiva tale che ci permetta scrutare con chiarezza nel calderone tuttora bollente dei traviamenti e delle confusioni. Non è possibile quindi dire in qual maniera Richard Strauss, uomo di genio e tedesco rappresentativo di rinomanza universale, corrispose alla severa prova imposta dagli avvenimenti che si succedettero in Germania a cominciare dallo «scoppio» del Terzo Reich. Comunque sia, dobbiamo esprimere il doloroso disinganno prodotto dal fatto che il Maestro non seppe decidersi almeno a manifestare pubblicamente la sua protesta contro le mostruosità della cosidetta «politica culturale» nazionalsocialista. Dov'era andata la sua antica combattività? Quando venne; il momento di pronunziarsi tacque e velò la sua posizione assolutamente antinazista, che pur continuava inalterata ed era documentata. Quand'era in gioco l'«essere o non essere» della cultura, l'ardore del suo temperamento era spento ed era rimasta soltanto la cenere della sua indifferenza. Quando l'incendio mondiale produsse nella sua patria «il crepuscolo degli dei» e ìnsieme «il crepuscolo degli idoli», non sì vide divampare da lui il fuoco dell'indignazione.
* «Mi compiaccio di veder comprovata da ogni punto di vista l'impressione estremamente favorevole che ha fatto qui il comportamento senza pretese della sua persona, in cui pur risiede un talento così spiccato», scriveva Bülow da Meiningen nel giugno 1885.

** Nel Guglielmo Tell di Schiller il protagonista dice di se stesso: «Se fossi riflessivo, non mi chiamerei Tell».

*** Vedansi le impressioni personali di Stefan Zweig, quando si trovò a Salisburgo insieme al Maestro (Il mondo di ieri): «Ebbi il caso di rimaner solo con lui durante una prova a porte chiuse di Elena Egizia... Strauss ascoltava. A un tratto notai che tamburellava silenziosamente e nervosamente con le dita sopra la spalliera della sedia. Indi mi sussurrò all'orecchio: «Cattivo! Pessimol In questo punto niente m'è venuto bene!» E dopo qualche minuto, nuovamente: «Volesse il cielo che potessi togliere questo! È qualcosa di completamente vacuo e di troppo lungo!»

**** Citato in Moderne Musik und Richard Strauss nella collezione KuItur di Oscar Bie, vol. XI.