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OTTO ERHARDT

I BALLETTI-PANTOMIME

RICHARD STRAUSS
LA VITA E L'OPERA

RICORDI - LE VITE 1957
pp. 288-296

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Per quanto Strauss avesse nel sangue il ritmo della danza, tuttavia pochissima era l'attrattiva che su di lui esercitava il balletto, come più o meno lo si concepiva nei grandi teatri lirici verso la fine del secolo scorso, sia come divertissement indipendente, sia come incoerente interpolazione che ad un certo punto, opportunamente o no, veniva ad interrompere l'azione di un'opera.
Invece fin dal principio della sua attività creatrice, il Maestro mostrò vivo interesse per la danza come arte. Già nei poemi sinfonici Till Eulenspiegel e Così parlò Zaratustra, l'elemento danzante ebbe essenziale partecipazione all'idea artistica fondamentale. Nel primo, la vita ritmica è sovrabbondante; nel secondo la «canzone danzata» simboleggia in certo modo l'idea ch'egli s'era formata della danza, e quest'idea esprime sinfonicamente.
Nelle opere straussiane il balletto, nella sua veste corrente, rimane escluso, perché non si adattava al concetto del Maestro circa l'«opera d'arte totale». Però già in Feuersnot è data al valzer, come danza popolare che s'innesta naturalmente all'argomento, una funzione drammatica. Nel Cavaliere della rosa poi, il medesimo valzer assume direttamente il compito di sopportare l'intera struttura scenico-musicale. Nel Bourgeois gentilhomme si creano danze originali moderne su forme musicali di danze storiche (la danza dei sarti e quella degli sguatteri di cucina sono tipici casi di inserimento naturale del balletto); in Arianna a Nasso si dà vita alla mascherata con danze cantate, nello stile della commedia dell'arte.
In Salomé e in Elettra Strauss procede invece in modo completamente diverso. Con la danza dei sette veli e la danza trionfale di Elettra, ambedue poste al momento giusto, voluto dall'intima azione del personaggio, ha inizio il moderno procedimento di ballo espressionistico.
Fin dal 1897 all'incirca il Maestro si occupò di progetti per una pantomima scenica. A quel tempo Frank Wedekind gli fece avere a Monaco alcuni abbozzi, uno dei quali, La Pulce sotto le vesti di una dama, giunse fino al completo sviluppo dell'argomento, ma in musica non andò più avanti di qualche minuta di temi.
La corrispondenza di Strauss c'informa che nel 1909 egli medesimo stese l'argomento di un balletto in tre atti, Citera, ispirato al famoso quadro di Watteau che si trova al Louvre. Hofmannsthal lo trovò molto buono e pittoresco, con un misto di Boucher, Fragonard e Watteau; ma la musica sembra sia rimasta nella penna del Maestro.
Al principio del 1912 Hofmannsthal gli propose una Sinfonia tragica, della durata massima di quaranta minuti: Oreste e le Furie; ma l'idea fu scartata da Strauss perché gli sembrò ch'essa avesse troppa simiglianza con Elettra. Però chiese all'amico altri progetti.
Intanto nel campo della danza s'erano svolti avvenimenti le cui conseguenze non, potevano lasciare indifferente Strauss. Il «Balletto imperiale russo», sotto la direzione di Sergio Diaghilev, aveva iniziato la sua trionfale carriera per l'Europa occidentale destando ovunque grande impressione. Diaghilev fondava nel 1909 a Parigi il «Ballet russe», col quale ebbe inizio una nuova era per l'arte del balletto, come rigenerazione delle tradizioni dei corpi di ballo dei grandi teatri, anchilosati dall'abitudine, e come rinnovamento della classica tecnica delle «punte» ed evoluzione dell'espressione mimica e plastica, a mezzo dell'anima e della spiritualità che, si conferivano alle cose materiali. Egli riun nella sua compagnia i migliori ballerini del tempo, con la Pavlova e la Karsavina per la parte femminile, e Nijinski alla testa della parte maschile. Aveva in Michael Fokine un coreografo straordinario, mise al lavoro esperti scenografl come L. Bakst, A. Benois, K. Roerich e produsse con l'aiuto di tutti costoro una completa rivoluzione nelle consuetudini fin allora seguite negli spettacoli coreografici. Nello stesso modo ricorse a giovani compositori che impegnava a scrivere opere originali per la sua compagnia.
Il preludio di Debussy, L'Aprés-midi d'un Faune fu danzato da Nijinski in modo inimitabile; Ravel nel 1910 scrisse un balletto sul romanzo greco di Dafni e Cloe; con l'Uccello di fuoco Stravinski si levò come una meteora al posto di geniale rappresentante delle nuove tendenze e coronò la sua produzione dedicata al balletto di Diaghilev con un capolavoro, Petruska (1911), e col Sacre du printemps (1913). Così entro il primo decennio del secolo XX quell'impresario di genio che fu Sergio Diaghilev fece del balletto una «opera d'arte totale».
Strauss conobbe i Balli russi a Parigi e poi in occasione del primo giro artistico ch'essi fecero per la Germania. Precedentemente la «Ginnastica ritmica» di Jacques Dalcroze lo aveva assai poco interessato. Tanto più rimase affascinato dal frenetico ritmo dell'arte russa della danza, e questo ritmo provocò sulla sua natura eccitazioni di carattere sentimentale e nervoso. Cosicché quando Diaghilev cercò di prendere contatto con lui attraverso Hofmannsthal, non seppe negarsi al suo desiderio di comporre un balletto per la sua compagnia, tanto più che la parte del protagonista era destinata a Nijinski, «il genio più grande della mimica contemporanea».

LA LEGGENDA DI GIUSEPPE

Nel giugno 1912 Hofmannsthal propose a Strauss l'argomento di Giuseppe in Egitto per farne un balletto. A quello scopo si era asso, cato il conte Harry Kessler («che possiede una fantasia veramente produttiva, specialmente dal punto di vista pittorico») e segnalava particolarmente «la violenta antitesi delle due figure principali, che alla fine conduce, in diametrale opposizione, una al cielo luminoso, l'altra alla condanna ed alla morte».
Al principio di luglio Strauss si mostra disposto a questo «compito di speranza» e scrive: «Le ripeto dunque che Giuseppe è eccellente; già l'ho ingurgitato ed ho anche cominciato i primi abbozzi musicali. Gli sviluppi del conte Kessler non mi convincono completamente, però le prometto che eviterò lo scoglio, specialmente se nel libretto (magari nell'elenco dei personaggi) verrà indicato con precisione il carattere della moglie di Putifar. Il lavoro non potrà chiamarsi Giuseppe in Egitto, perché questo è il titolo di una opera di Méhul che ancora si rappresenta. Il titolo più appropriato è Giuseppe in casa di Putifar».
Prima però che il balletto giungesse in porto, fu necessario superare alcuni ostacoli. Innanzi tutto Hofmannsthal dovette togliersi l'impressione di analogia e di apparente simiglianza fra la situazione della moglie di Putifar rispetto a Giuseppe e quella di Salomé rispetto a Jokanaan.
«In verità non posso, scoprire altra corrispondenza fra le due situazioni - scriveva a Strauss - oltre al fatto che nei due lavori una donna sollecita un uomo, mentre sulla scena siamo abituati a vedere, sempre e soltanto, che un uomo sollecita una donna, la quale concede o no...».
In data posteriore Strauss scriveva (11 settembre 1912): «Giuseppe non cammina così svelto come pensavo. Il casto non mi si adatta troppo bene e perciò, per il fastidio che mi dà, difficilmente trovo la musica adeguata. Per un simile Giuseppe ho da lavorare come un indemoniato. In tutti i modi spero, via, di ritrovare in me, nascosta in qualche piega atavica, una dolce melodia da adattare al buon Giuseppe ».
A questa lettera Hofmannsthal, perplesso, risponde impartendogli una delle sue più belle lezioni: «Dal modo com'io veggo la figura, mi sembra che non dovrebbe esserle difficile trovare la musica adatta... nella regione migliore del suo cervello, là dove può incontrare elevazione, aria diafana dai ghiacciai, libertà di spirito acuta e incondizionata... Quel pastorello, germoglio di un popolo di montanari, che è disceso al piano fra l'opulento popolo del fiume e del delta, assomiglia, a mio parere, molto più a un nobile indomito puledro che a un pio seminarista. La sua ricerca di Dio, nei suoi selvaggi slanci all'insù, non è altro che un furioso saltare in cerca dell'ispirazione, che ha sede molto in alto. Sulle vette dei monti, nella solitudine chiara e sfolgorante, egli è abituato a lanciarsi verso l'alto in una pura orgia, con un 'sempre più in alto', per strappare una porzione di cielo alla irraggiungibile chiarità che, si distende sopra di lui, e per incorporarla violentemente nel proprio essere. La ragione del rifiuto, quella del 'casto Giuseppe', che altro sarebbe se non la grandiosa e misteriosa ragione che Strindberg ha mantenuto nell'opera intera della sua vita: la ragione della lotta, della genialità, della parte intellettualmente elevata dell'uomo contro il male, la sciocchezza della donna, la tendenza ad abbassarsi, a modificarsi? Non è possibile che lei non riesca a collegare in qualche modo questo ragazzo di Giuseppe a qualche ricordo della propria gioventù (con o senza Putifar: una qualche cosa di più elevato, di fulgido, difficilmente raggiungibile perché troppo alto) e debba essere costretto a discendere: quella è la danza di Giuseppe».
Solo dieci mesi più tardi (il 10 luglio 1913) Strauss comunicò al poeta «da un wagneriano eremo montano» che «con molto suo fastidio, è giunto finalmente al termine dell'abbozzo della danza di Giuseppe e che spera che d'ora innanzi la cosa andrà avanti con passo più fermo, in modo che la composizione al pianoforte sia terminata in autunno e la partitura nella primavera del 1914».
L'azione, nelle sue linee principali, si svolge come segue: Giuseppe, dopo aver danzato avanti alla moglie di Putifar e agli invitati di lei, riceve durante la notte la visita della donna i cui nervi ammalati sono stati eccitati dalla deferente semplicità del giovane pastore. Egli respinge le voglie amorose della donna; questa allora chiama lo sposo, Putifar, e dinanzi a lui accusa Giuseppe di averla voluta oltraggiare. Il pastore è posto in catene, ma un angelo discende dal cielo e lo libera.
L'argomento fondamentale, bello in se stesso, è complicato da azioni secondarie ad esso estranee. Nello sviluppo sono intrecciati insieme numerosi episodi presentati con uno sfarzo orientale un po' caricato, tanto da generare qualche confusione. Siccome Hofmannsthal non poteva disporre qui della forza della parola, lasciò un po' troppa libertà allo storico della cultura Kessler, nello sviluppo scenico [«In questo balletto ho fatto meno e Kessler più di quanto lei supponga» (lettera di Hofmannsthal a Strauss, dalla Corrispondenza)]; avvenne così che la sua intenzione di spiritualizzare il tema restò soffocata dagli eccessi di una fantasia esaltata e di una artificiale ampollosità.
Strauss, che l'argomento non ebbe forza di ispirare direttamente, si attenne a quel che di spettacolare ha la magia del teatro barocco, senza discendere bene in fondo nel problema animico. La sua musica si presenta come un brillante mosaico, come un tappeto orientale composto con colori screziati, ma messi insieme a caso. Adopera un'orchestra gigantesca, in cui la massa degli archi presenta tre parti di violini e due di viola; i legni sono quadruplicati e comprendono inoltre un heckelphon; gli ottoni hanno 6 corni, 4 trombe, 4 tromboni, tuba tenore e tuba bassa. Copiosa la batteria che include lo xilofono; inoltre la celeste, 4 arpe, pianoforte ed organo.
In generale può dirsi che il contrappunto sinfonico è sopravvanzato dalla pittura sonora omofona. Ogni illustrazione musicale è presentata con raffinata virtuosità: le pietre preziose dai corni in sordina sotto le arpe luminose e da «staccati» di pianoforte e di legni; i levrieri con gemiti degli archi e dei corni su glissando di arpe; lo scivolare della polvere d'oro con suoni armonici delle arpe e degli archi, sui quali spicca il glissando del violino solo. Oscura passione si emana dalle danze delle Velate e delle Senza veli, ardente sensualità da quella della Sulamita. In contrapposizione a queste, le evoluzioni coreografiche di Giuseppe sono accompagnate da musiche quasi idilliche. Attraente il tema del Pastorello, impressionante il suo sviluppo, come se quegli andasse cercando il proprio destino, che attinge alla quarta figura di danza. Qui, quando Giuseppe ha trovato Iddio, abbiamo uno dei miracoli sonori di Strauss. Un misterioso tremito indica il momento in cui la moglie di Putifar subisce per la prima volta l'incanto del puro giovinetto. Nell'episodio finale, dalle grandi linee, il compositore ci offre, una volta di più, uno dei suoi splendidi Largo in fa diesis, al quale segue, in sol, la gloriosa liberazione di Giuseppe compiuta dall'arcangelo.
Un attraente cromatismo, una ritmica inconsueta (gruppi in 5/4 e 7/4) ed un colorito opulento in un'abbagliante orchestrazione («un lavoro grave e penoso») conferiscono alla partitura della Leggenda di Giuseppe un particolare carattere decorativo, ma non riescono a nascondere che il suo contenuto non è interamente privo di un certo manierismo. Anche negli episodi dove si raggiungono mistiche estasi l'effetto che l'opera produce non è proprio di commozione: si resta in certo modo freddi [Anche Hofmannsthal ricevette un'impressione di freddezza da questa opera]; l'animo non è scosso dalla musica. In questo il compositore ha minor colpa di quanto ne abbia l'argomento, diluito in una teatralità esteriore e in particolari artificiosi.
Scenari e costumi della Leggenda dovrebbero ispirarsi interamente alla maniera di Paolo Veronese, e cioé allo stile, più o meno, del 1530. Gli Egiziani dovrebbero rivestire costumi veneziani e Giuseppe (come anche i mercanti che lo conducono alla casa di Putifar) gli ornamenti biblici del secolo XVI. I mulatti della Guardia poi dovrebbero essere coperti da caschi toledani. Però la musica pende molto più verso il Barocco. Già alla prima rappresentazione all'Opéra di Parigi, il 14 maggio 1914, le scene dello spagnuolo José Maria Sert erano più orientate verso un carattere generale pittoresco e fantastico che verso lo stile del tardo Rinascimento veneziano.
Al grande avvenimento teatrale internazionale della «prima» di questo balletto, avvenimento che fu l'ultimo prima del collasso della pace europea, Strauss medesimo prese parte, avendo assunto la direzione dell'orchestra. Sembra che col coreografo, ch'era il famoso Fokine, non aveva potuto andar d'accordo in alcun modo, fino al punto che, durante una prova, il Maestro aveva deposto la giacca ed aveva danzato personalmente un passaggio. La parte di Giuseppe non fu assunta da colui per il quale era stata creata: Nijinski, «l'uomo più straordinario che possegga oggidì il teatro» [Strauss a Hofmannsthal] - ma dal giovane Leonda Mjassin, un allievo di Fokine che per la prima volta assumeva dinanzi al pubblico un compito di tanta importanza. Molto furono ammirati gli splendidi costumi di Léon Bakst, l'apostolo del Barocco, specialmente quello della bella Kusnetzova, che disimpegnava la parte della moglie di Putifar*.
Il successo di Parigi fu indiscutibile, mentre a Londra i giudizi furono contrastanti. Strauss così scrisse a Hofmannsthal circa lo spettacolo dato dal Balletto di Diaghilev al Teatro Drury Lane nel giugno 1914: «Giuseppe è stato un gran successo, nonostante che la maggior parte della stampa abbia vociferato contro di lui e che le spettatrici inglesi più corrotte abbiano giudicato indecente il lavoro... Nell'esecuzione qualche particolare era stato modificato, ma la cosa più importante, la danza di Giuseppe, fu ancora insufficiente e quindi fastidiosa. Eccellente l'orchestra; in tutte le rappresentazioni il teatro si esaurì».
Trent'anni dopo il direttore artistico della stagione, Thomas Beecham, scrisse nella propria autobografia - «I tre spettacoli capitali furono Dafni e Cloe di Ravel, La Leggenda di Giuseppe di Strauss e Le Sacre du printemps di Stravinski. Di essi, il più attraente fu senza dubbio Dafni e Coe, il più originale Le Sacre du printemps, e il meno attraente e originale La Leggenda di Giuseppe. Il Maestro tedesco non mostrò di aver inclinazione per questo genere di lavori; nonostante alcuni pochi momenti vivdi e pittoreschi, l'opera andava avanti con passo tardo e affannoso, che tutte le risorse e le ingegnosità del corpo di ballo non potevano alleggerire né affrettare. Forse la cosa più memorabile dello spettacolo fu la prima apparizione di Mjassin nella parte di Giuseppe ».
A causa della prima guerra mondiale la prima rappresentazione sui teatri tedeschi ebbe luogo soltanto nel 1920, all'Opera di Stato di Vienna. Heinrich Kröller, riputatissimo coreografo, creò la coreografia; Roller apprestò le scene nello stile dei quadri del Veronese.
A Berlino il lavoro giunse il 4 febbraio 1921, all'Opera di Stato.Il successo fu buono, mediante la brillante presentazone di E. Pirchan e dell'attrice Tilla Durieux.
Dopo di allora La Leggenda di Giuseppe ha corso i principali teatri d'opera europei. Nelle Americhe la prima esecuzione ebbe luogo nel settembre 1938, al Teatro Colon d Buenos Aires, con la coreografia di Margherita Wallmann, le scene di H. Basaldua e la direzone di E. Kleiber.
Speciale menzione deve farsi del nuovo allestimento fatto nel 1951 dalla Scala di Milano con la coreografia della Wallmann, i bozzetti di De Chirico e, per la prima volta, la parte della moglie di Putifar danzata dalla Toumanova.
* «La crinolina bordata, di color rosso scarlatto, si apriva lateralmente e lasciava veder le gambe rivestite di calzoni giallo-oro e di calze bianche, con ai piedi alti coturni verdi. A Vienna Roller ideò un sontuoso costume del Rinascimento (che ingrandiva molto i passi) con una lunga coda che rifulgeva come oro» (Gregor).