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WOLFGANG SAWALLISCH

RICHARD STRAUSS

Partiture come romanzi gialli
Il fascino della linea melodica




LA MIA VITA PER LA MUSICA
pp. 203-232
STRAUSS DIRETTORE D'ORCHESTRA
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Non disponendo l'editore Passigli di un sito web, rinvio il lettore all'amplissima scelta che del catalogo di questo editore fiorentino offre iBS.it con possibilità di acquisto on line. Si tratta di ben 479 volumi.

Il primo incontro con il teatro di Richard Strauss lo ebbi ad Augusta, quando preparai Salome con i cantanti. Durante i sette anni passati ad Augusta ho curato come maestro sostituto la preparazione dei cantanti anche per Elektra e Arabella; Il cavaliere della rosa toccò invece a un mio collega. Fu soprattutto Salome ad affascinarmi. Quando lavorai queste opere al pianoforte con i cantanti non possedevo ancora le partiture; ma gli spartiti, e quello della Salome in particolare, sono così straordinariamente ben fatti che mi incantavano anche e specialmente dal punto di vista pianistico. Nacque allora una passione affatto particolare: cercavo di indovinare dallo spartito a quali strumenti fossero affidati certi passi, cosa che non è facile dedurre quando sullo spartito non vi siano indicazioni strumentali. Solo in un secondo momento mi sono comperato le partiture e ho studiato a fondo l'orchestrazione originale di Strauss.
Da allora in poi ho letto le partiture di Strauss come romanzi gialli: per scoprire come Strauss crei uno stato d'animo, un'atmosfera - per esempio in Salome - e come tutto sia 'composto'. dalla prima all'ultima nota. Ancora oggi le partiture di Salome ed Elektra sono tra le cose più affascinanti che conosca. Posso chiaramente immaginare perché proprio queste due opere dovessero avere l'effetto di una bomba sul pubblico delle prime rappresentazioni e far nascere tante discussioni. Strauss si è inoltrato qui in una terra sconosciuta e ha proseguito sulla sua strada fino alle soglie dell'atonalità: per poi riconoscere che il teatro d'opera non avrebbe tollerato ulteriori passi nella direzione di un espressionismo così acceso. Chiese perciò a Hofmannsthal di fornirgli l'argomento di un'opera di stampo mozartiano: il risultato fu Il cavaliere della rosa.
Parallelamente al mio lavoro in teatro cominciai a studiare la letteratura sinfonica di Strauss e ad eseguirla in concerto ad Augusta. Mi ricordo benissimo che acquistai i poemi sinfonici nelle partiture tascabili delle edizioni Eulenburg, dal Macbeth fino a Una vita d'eroe e alla Sinfonia delle Alpi. Ancora oggi possiedo queste partiture, sciupate e sfasciate a forza di leggerle: esse non hanno un valore solo affettivo, perché a quel tempo mi ero annotato con estrema cura e precisione ogni entrata, ogni strumento, foss'anche il secondo clarinetto o il terzo trombone. Il mio insegnante Hans Sachsee mi aveva abituato, quando lavoravamo alle Fughe a cinque voci di Bach o quando dovevo comporre qualcosa, a segnare con matite di colore diverso il soggetto e la risposta, la voce principale, quella secondaria, l'inversione e così via: così potevo seguire con estrema chiarezza l'intreccio delle linee e la costruzione, la struttura interna di un pezzo. Allo stesso modo ho analizzato i poemi sinfonici di Strauss sulle mie prime partiture, seguendo lo sviluppo dei temi e segnando dove si presentano per aggravamento, diminuzione o inversione, per rendermi conto di come Strauss ottenga certi effetti con determinati strumenti. Ancor prima di conoscere veramente le partiture di Wagner mi familiarizzai dunque con la tecnica orchestrale e compositiva di Strauss. Dirigendo allora Don Juan, Till Eulenspiegel e altri fra i più noti poemi sinfonici di Strauss non feci per così dire altro che mettere alla prova quanto avevo imparato durante i miei studi a Monaco. Insomma, fu un passo importante nella mia evoluzione.
Altrettanto importante, sotto altro profilo, fu la collaborazione con i cantanti. Quando si accorsero che avevo certe qualità pianistiche mi pregarono di preparare con loro serate di Lieder, esecuzioni radiofoniche o concerti in altre città. Così in breve tempo imparai a conoscere molti dei Lieder di Strauss, ossia il terzo, importante settore della produzione di Strauss dopo le opere teatrali e i poemi sinfonici. E quando poi andai ad Aquisgrana mi imposi di dirigere durante i cinque anni del mio contratto tutto ciò che di Strauss mi fosse stato possibile eseguire con i complessi di quella città. Nel campo delle possibilità rientrava per esempio Arianna a Nasso; ma non un lavoro come la Sinfonia delle Alpi, irrealizzabile con un'orchestra di sessanta elementi quale era quella di Aquisgrana.
Anche la mia prima apparizione in pubblico con una composizione di Richard Strauss avvenne ad Augusta: suonai infatti la parte del pianoforte nel Borghese gentiluomo, un lavoro certo non facile ed estremamente interessante per chiunque provenga dal pianoforte. Ho continuato a suonarlo con grande diletto anche in seguito, l'ultima volta a Milano nel 1988 con l'Orchestra Filarmonica della Scala. La prima opera di Strauss che ho diretto è stata Il cavaliere della rosa ad Aquisgrana, un'avventura eccitante per un giovane
Kapellmeister. A dire il vero Strauss non mi è mai sembrato difficile, intendo dire dal punto di vista tecnico. Non credo neppure che Strauss richieda una tecnica speciale. Ma una cosa è certa: per un giovane alle prime armi non è facile riconoscere e realizzare di primo acchito tutte le finezze di una partitura di Strauss. Per farlo, bisogna avere il coraggio di interpretare la musica liberamente, assai più liberamente che per esempio in Verdi. In Verdi i tempi procedono, dal punto di vista ritmico, per così dire più verticalmente che orizzontalmente, mentre la melodia tende al 'rubato'; in Strauss la difficoltà e la peculiarità stanno anzitutto nel fatto che occorre liberarsi dalla rigidità del ritmo e assecondare l'espressione lineare, orizzontale della sua musica. Per questo è necessario seguire con, la massima cura la parte del canto; cosa che dipende non da ultimo dalla qualità dei cantanti, giacché non tutti i cantanti possiedono l'intelligenza per realizzare tutto ciò che Strauss ha messo nella loro parte. Ma chi l'ha provato sa che questa è l'unica strada giusta: in tal modo il tempo di un pezzo si regola del tutto automaticamente sulla capacità del cantante di fraseggiare la linea melodica e ritmica con il respiro voluto da Strauss. Ne risulta quasi inevitabilmente - e proprio nel Cavaliere della rosa - il tempo giusto, quello che permette di pronunciare tutto come si deve e di collegare la prima e l'ultima parola di una frase in modo che l'ascoltatore, senza essere fuorviato dall'altezza delle note sulle singole sillabe, possa alla fine seguire e capire non solo la linea musicale ma anche quella del testo. Ai cantanti che non parlano tedesco ciò può procurare qualche difficoltà, nel senso che non possono capire e riprodurre alla stessa stregua di un cantante di madrelingua tedesca ciò che si cela dietro le parole, le associazioni di idee e le frasi della declamazione in tedesco. Proprio nel trattamento del testo tradotto in musica Strauss è stato un maestro inarrivabile e, pur avendo imparato molto da Wagner, in più di una cosa lo ha perfino superato.
Mi ricordo di una cantante che non parlava tedesco e che tuttavia doveva (o voleva) interpretare per la prima volta la Marescialla. Con zelo e fervore ammirevoli si gettò sul testo, decisa non solo a impararlo ma anche a capirlo veramente. Ma quello stile di canto, quel modo del tutto logico di parlare cantando e di cantare parlando, non le riusciva proprio: rinunciò alla parte quando si rese conto che non dominava la lingua al punto da far combaciare il senso delle parole con l'altezza delle note scritte da Strauss. Può darsi che le altezze, gli intervalli sembrino in un primo momento strani in Strauss; ma se si possiede la chiave del declamato di Strauss ciò che ne risulta è uno stile di conversazione quasi naturale. Sotto questo aspetto Strauss è un vero maestro. Chi non comprende e non supera questo arcano canterà tutte le note a dovere ma non potrà mai portare alla luce e far agire ciò che è veramente importante nella costruzione di una frase, nello stretto connubio di testo e musica.
I miei primi anni come direttore musicale stabile mi hanno consentito di studiare a fondo anche questi aspetti. Anzitutto avevo a che fare con cantanti che non avevano mai affrontato prima Strauss: potevo dunque mettere in pratica e verificare le mie idee partendo da zero. In secondo luogo potevo disporre delle prove a mio piacimento, ad ogni modo con molte meno costrizioni di oggi. Allo studio della partitura del Cavaliere della rosa dedicai molte energie e molto tempo: ciò che prima avevo soltanto sognato nella preparazione dei cantanti per Salome ed Elektra lo potei tradurre in realtà io stesso per la prima volta ad Aquisgrana. Non scorderò mai quei momenti. Credo che Strauss sia stato davvero l'ultimo grande operista del nostro secolo: forse perché le sue opere - anche quelle tarde, come Arabella, La donna silenziosa, L'amore di Danae, Capriccio - sono legate alla modernità e nel contempo alla tradizione del teatro in musica e alle sue leggi.

La donna senz'ombra
La magia delle tre note




Nessuno conosceva e rispettava le leggi dell'opera come Richard Strauss. E il direttore d'orchestra, in Strauss, è obbligato a collaborare per realizzarne la drammaturgia. Svolgimento nel tempo, curve dinamiche, tutto ciò che costituisce l'essenza del teatro in musica, Strauss lo possedeva nella giusta misura e sapeva ogni volta dosarlo con precisione. Molte cose in Strauss per così dire si assestano da sé, ove si sappia fondere la drammaturgia della musica con le relazioni tematiche.
Prendiamo La donna senz'ombra. Mentre Il cavaliere della rosa è un'opera di conversazione basata sulla continuità, nella Donna senz'ombra i temi e le loro relazioni hanno un'importanza fondamentale. Ciò obbliga il direttore a diventare drammaturgo, perché soltanto dalla costruzione musicale di una frase, di una scena, di un intero atto si chiariscono le relazioni dei tempi fra loro. La mia esperienza mi dice che queste considerazioni abbracciano perfino il modo in cui i cantanti sono collocati sulla scena. Come debbano essere disposti la Marescialla, Octavian e Sophie nel terzetto alla fine del terzo atto del Cavaliere della rosa si evince dalla condotta delle voci. Per realizzarlo il direttore deve collaborare con il regista, tenuto conto che pochi registi capiscono davvero come debbano venir disposte le singole voci: chi debba stare davanti, chi più indietro, quali posizioni debbano occupare, cantanti nel corso del terzetto. Il direttore in questo caso può e deve non solo prestare il suo aiuto ma anche dare suggerimenti precisi. Giacché è la partitura, in Strauss come in pochi altri compositori, a indicare quello che deve avvenire in scena.
A Colonia, nel 1962, mi trovai ad affrontare per la prima volta h realizzazione della Donna senz'ombra. Ricordo ancora oggi come qualcosa di magistrale la regia di Oscar Fritz Schuh e le scene di Teo Otto. Durante la preparazione, nel corso delle prove, mi si rivelò la grandezza di quest'opera che per me rimane - accanto a Salome ed Elektra - la più profonda e la più commovente di tutto il teatro di Strauss. La caratterizzazione di ogni figura e le metamorfosi attraverso cui debbono passare i singoli personaggi, per esempio l'Imperatrice, figlia di Keikobad, gazzella che diviene essere umano sono geniali, semplicemente. In nessun'altra opera di Strauss la musica descrive con altrettanta varietà i singoli caratteri, stabilendo una serie impressionante di collegamenti trasversali.
Non cessa mai di stupirmi il modo in cui Strauss, con poche note e senza: grandi preludi di un Verdi o di un Wagner, con una sola frase, con un unico tema - si pensi al tema di Agamennone nell'Elektra, a quello di Keikobad nella Donna senz'ombra - sappia creare tutta una rete di riferimenti precisi. Questi tenaci riferimenti tematici riguardano figure che nell'opera non compaiono mai, sebbene siano di importanza fondamentale per l'opera stessa. D'altro canto neppure Salome, se si vuole, ha un suo proprio tema Strauss descrive piuttosto il mondo in cui Salome si muove. In questa prospettiva nemmeno a Elektra è assegnato un tema proprio, diretto: la sui situazione si rispecchia nella totalità della musica. Per converso, Strauss definisce con estrema precisione per mezzo di un piccolo motivo di tre o quattro note quelle figure che, pur rimanendo invisibili, sono attive sulla scena.
La donna senz'ombra è la più umana fra tutte le opere di Strauss. La densità di pensiero con cui sono trattati destini universalmente umani ha pochi riscontri altrove: mai come qui sono rappresentati con tanta intensità e forza di commozione i rapporti che legano gli uomini fra loro. Eppure all'epoca della sua nascita La donna senz'ombra non venne quasi compresa ebbe rare rappresentazioni e relativamente scarso successo. Schuh fu il primo che all'inizio degli anni Sessanta osasse riproporla. La nostra edizione di Colonia aprì la strada a un gran numero di nuovi allestimenfi, tanto che La donna senz'ombra è oggi in tutto il mondo se non un'opera di repertorio, almeno un'opera del repertorio di Strauss. Credo che questa corsa vittoriosa proseguirà per il semplice fatto che i rapporti fra gli uomini nel nostro tempo sono un tema che ci riguarda tutti. Se la regia riesce a rendere comprensibile il testo e a mettere bene in rilievo il significato di quest'opera sono sicuro che «oggi o domani» - come dice la Marescialla nel Cavaliere della rosa - La donna senz'ombra raggiungerà la stessa popolarità delle altre opere di Strauss, e potrà magari superarla.
Più facile, per esempio, è Arabella, con i suoi tratti quasi operettistici e la sua prevedibile conclusione: giacché fin dall'inizio, con le prime parole della protagonista, e poi con l'entrata di Mandryka, è chiaro che i due si incontreranno. Quali che siano i mezzi con cui in seguito viene mantenuta una certa tensione, il lieto fine qui è programmato in anticipo. Invece il destino del Tintore e di sua moglie, il rapporto tra l'Imperatore e l'Imperatrice, nonostante le apparenze di un lieto fine (ma non nel senso di Arabella, dove due persone destinate l'una all'altra fin dall'inizio si ritrovano alla fine, dopo conflitti artificiosi di tutti i tipi), hanno tutt'altro significato: la felice conclusione dell'opera non è affatto predeterminata, ma resta anzi in dubbio fino all'ultimo quadro. L'Imperatrice accetterà il sacrificio della moglie del Tintore? Rinuncerà all'ombra e suo marito, l'Imperatore, sarà pietrificato? Deve trasgredire l'ordine di suo padre Keikobad? Può ottenere la felicità al prezzo della distruzione della felicità altrui? Soltanto il suo «Ich will nicht» («Non voglio») per così dire la redime e apre la strada a una conclusione positiva; una conclusione che non è un banale lieto fine ma piuttosto un'apoteosi della rinuncia, dell'umanità, dello spirito di sacrificio: la vittoria dell'umanità, dell'amore, del pensiero e dei sentimenti umani.
La donna senz'ombra viene eseguita di rado senza tagli. Alcuni tagli risalgono a Strauss stesso, il quale già alle prime rappresentazioni dovette rendersi conto che alcune parti erano difficilmente realizzabili sulla scena, vuoi dal punto di vista teatrale, vuoi da quello della comprensibilità del testo. Il primo atto mi sembra perfetto sotto ogni profilo: è compatto, denso, di una modernità musicale e drammatica straordinaria; il secondo eccelle per la sua costruzione: i suoi vertici sono senza dubbio le grandi scene solistiche dell'Imperatore e dell'Imperatrice; il terzo atto è quello meno compiuto: non manca l'efficacia teatrale, ma musicalmente non è del tutto risolto. Tagliare alcune ripetizioni è qui senz'altro opportuno, in una rappresentazione dal vivo.
Per quel che ne so l'esecuzione che ho diretto nel 1987-88, e inciso su disco per la EMI, è la prima edizione integrale della Donna senz'ombra. Una rappresentazione scenica integrale non è impossibile, ma dovrà sempre fare i conti con il problema di come riuscire a sostenere la tensione, che in alcuni momenti è veramente spinta a punte estreme. Anche l'ascoltatore armato della migliore buona volontà rischierebbe dopo un certo tempo di perdere la concentrazione e il filo: in altri termini, rinuncerebbe. Proprio per evitarlo preferisco apportare dei tagli. In alcuni casi i tagli sono opportuni anche per alleggerire o risparmiare a questo o quel cantante passi vocalmente tremendi. Richard Strauss ebbe la fortuna di poter disporre per le prime rappresentazioni delle sue opere di grandi direttori come Fritz Busch, Karl Böhm o Clemens Krauss. Il rapporto tra compositore e direttore era così stretto da consentire un franco scambio di opinioni. Anche la collaborazione con un uomo di teatro dell'esperienza di Max Reinhardt contribuì a fargli riesaminare dal punto di vista scenico l'esuberanza di una musica che gli usciva dalla penna con una piena davvero formidabile, e ad accettare le proposte di accorciamenti che gli provenivano da direttori e registi. Da grande uomo di teatro qual era, Strauss fu abbastanza saggio da non ostinarsi a pretendere esecuzioni integrali. Alcuni tagli furono così introdotti sin dall'inizio pel mano di Strauss stesso, di Busch o di Böhm, e sono rimasti poi nella tradizione.
Che opere come Salome o Elektra vengano eseguite senza tagli nor dipende certo dal fatto che siano più brevi, bensì in primo luogo dalla densità del testo, trasferitasi automaticamente a Strauss compositore. Ogni battuta è talmente concentrata che sarebbe impossibile tagliare qualcosa. Tuttavia anche in Elektra ci sono alcuni tagli entrati nell'uso comune. Soprattutto i taglio che riguarda la parte di Elektra - un 'salto' nel suo monologo - è di grande aiuto per la cantante che deve impersonare uno dei ruoli vocalmente più micidiali che siano mai stati scritti.
Un punto di speciale impegno nell'incisione discografica della Donna senz'ombra è stato quello di realizzare per una volta la partitura esattamenti così come Strauss l'aveva pensata. Anche dal punto di vista strumentale l'organico orchestrale è immenso: ciò che Strauss ha richiesto per le musiche fuori scena - l'organo, sei timpani e sei trombe aggiunte dietro la scena, i gong cinesi crea obiettive difficoltà non solo nei teatri minori. C'è poi i coro dei «non nati», quello delle donne e delle serventi. Il dispositivo è col gigantesco che persino nei grandi teatri qualcosa dev'essere soppresso. Anche l'orchestra viene talvolta ridotta. Ed è difficile trovare un suonatore di armonica a cristalli per il finale. Nella mia incisione discografica ho potuto realizzare con assoluta fedeltà all'originale tutti questi elementi che per i motivi più diversi è così difficile riunire in una esecuzione scenica. Non abbiamo dovuto scendere a compromessi: tutto è stato realizzato come Strauss desiderava, per quanto si può ricavare dalla partitura, fino all'ultima nota. Ciò porta naturalmente a una visione almeno in parte nuova rispetto a quella consueta. Anche il fatto che l'opera sia stata incisa senza tagli mette in risalto nuovi nessi e fattori formali, fa scoprire effetti sonori che non siamo abituati a sentire. Per la prima volta l'opera suona così com'è scritta.
La donna senz'ombra è forse l'opera più difficile di tutto il teatro di Strauss. Ciò dipende in larga misura dal carattere quasi metaflsico del testo. Non è facile raccontare la trama in poche, elementari parole senza tradire ciò che del contenuto è l'essenziale: quell'essenziale che verosimilmente spinse Strauss a comporre una musica come poche grandiosa e potente, al tempo stesso semplice e complicata. Qui e là Strauss ha ricondotto sulla terra, nella sfera del comprensibile, il volo del pensiero del poeta che si spingeva ad altezze troppo grandi; tratteggiando le figure con poche battute, con temi estremamente concisi, tanto da rendere udibili i processi dell'animo umano. Per far ciò si è servito di un mezzo grandioso, quello di caratterizzare nelle prime battute dell'introduzione orchestrale in modo spiccato e indimenticabile la figura chiave che determina l'azione e la mette in moto e che ne è il contenuto, anche se non appare mai sulla scena in tutta l'opera: Agamennone in Elektra, Keikobad nella Donna senz'ombra. Un motivo fatto di tre note percorre l'opera da cima a fondo e si ripresenta ogniqualvolta si tratta di quella figura. Ma come sa variare queste tre note Strauss! Una volta sono ferreamente saldate come in una catena; un'altra si presentano in valori di tempo raddoppiati, affidate solo ai timpani: e ogni volta è un mondo sonoro completamente diverso. Un'analisi di queste tre sole note del tema di Keikobad riempirebbe pagine intere. Nello stesso modo il compositore procede con altri temi connessi ad altri personaggi e al divenire dell'azione. Come Wagner, che fu suo maestro in questa tecnica compositiva, Strauss li ripresenta continuamente, li trasforma, li collega tra loro: essi risuonano per lo più proprio quando le parole - cantate rapidamente - non possono comunicare da sole ciò che si cela dietro l'azione. È questo un modo geniale di mettere in musica la poesia. Non sono più di cinque o sei temi che ritornano continuamente, si intrecciano, battuta dopo battuta, in una forma sempre variata. Così già al primo ascolto si ricava l'impressione di un'unità che non si può spiegare altrimenti se non con questa tecnica compositiva.
Ho già detto che l'organico orchestrale è enorme e sorpassa perfino quello delle opere di Wagner. Con queste masse - spesso impiegate tutte assieme, soprattutto nel secondo atto - Strauss ottiene crescendi, esplosioni, tensioni che da principio è difficile distinguere. La sovrapposizione di più piani armonici - un procedimento già usato in Elektra, una specie di bitonalità tipica di Strauss - è ancora più accentuata nella Donna senz'ombra. Non di rado sono riuniti contemporaneamente tre o anche quattro temi, ognuno con la sua struttura, il suo ritmo, la sua tonalità. Un solo ascolto non basta per rendersi conto di come questa partitura sia concepita e realizzata. Mai, però, neppure una volta, Strauss si serve di questo enorme apparato orchestrale soltanto per accrescere il volume del suono in modo esteriore, vorrei dire sfrontato. Al contrario. Accanto a episodi di selvaggia violenza fonica ci sono momenti - soprattutto nelle scene del tintore Barak e di sua moglie, o in quelle della «purificazione» e della «trasformazione» della figlia di Keikobad, l'Imperatrice - di tale trasparenza, intimità e tenerezza che fanno pensare alla musica da camera e che appartengono alle cose più belle che Strauss abbia mai composto. Basti pensare al grande solo del violino nel terzo atto.
La donna senz'ombra ha molto in comune con Il flauto magico di Mozart. Punto di partenza e cardine della fiaba è l'idea della puriflcazione, della redenzione: l'idea di un cammino verso lo stadio più alto della coscienza, di un ideale pieno di umanità. Secondo Hofinannsthal e Strauss chi vuol percorrere questo cammino deve affrontare numerose prove, dimostrare un grande coraggio interiore e munirsi di un'enorme forza d'animo. In questo cammino di purificazione si mescolano il mondo degli esseri e della materia, quello degli uomini guidati dai loro istinti e dalle loro passioni e quello degli spiriti. La Nutrice diviene l'intermediaria fra il mondo superiore degli spiriti e quello inferiore degli uomini. Il contatto dei due mondi provoca il processo di trasformazione di due creature in veri esseri umani: l'Imperatrice rinuncia al sacrificio della moglie del Tintore dopo aver conosciuto per la prima volta la sofferenza umana; Barak esce per la prima volta dai confini del suo piccolo mondo, vorrebbe uccidere sua moglie ma, convertitosi da vendicatore in uomo che perdona, rende possibile lo scioglimento dell'opera, allorché tutti, l'Imperatrice e Barak, la moglie del Tintore e l'Imperatore si ritrovano uniti nell'amore...
La conclusione è quella di una fiaba in cui il mondo degli spiriti e il mondo degli uomini si ricongiungono sul piano degli ideali umani e del compimento dei destini individuali. Le voci dei bambini non nati divengono il simbolo di questa felice unione, di questa speranza in una vita nuova, più vera, più piena. È significativo che Strauss abbia sfruttato ancora una volta i temi del Tintore e di sua moglie, ironicamente distorti, quasi straniati, per caratterizzare scherzosamente in Intermezzo non un conflitto mistico, ma i contrasti di tutti i giorni nella vita borghese di una coppia sposata. Forse Strauss ha voluto dire con ciò che, al di là di ogni trasformazione, di ogni metafisica e magia fiabesca, noi tutti abbiamo prima di tutto il dovere di comprenderci e di amarci, per sopravvivere.

I semi della creatività
Lo studio del carattere nell'opera giovanile

Non è un caso che Strauss abbia dedicato a Mozart una delle sue ultime composizioni strumentali, la Seconda Sonatina per 16 fiati: sin dall'infanzia considerò Mozart il più grande compositore di tutti i tempi. Il caso di Mozart indica chiarissimamente che nei grandi compositori - forse addirittura in tutti i grandi artisti - la predisposizione, il talento, il genio si manifestano precocemente. Questo vale non solo per Mozart, ma anche per Wagner e Strauss. Ciò non toglie che nel corso degli anni e dei decenni, maturando e invecchiando, il genio si incammini per sempre nuovi sentieri e forme, via via che la sua personalità si sviluppa.
La Sinfonia n. 1 (K. 16) di Mozart è un vero colpo di genio. Aveva solo sei anni, o poco più, quando la compose. Eppure, com'è compiuto in se stesso il movimento lento! Può darsi che Mozart sia stato guidato, quasi tenuto per mano da suo padre, soprattutto nella strumentazione; ma le idee tematiche, l'ordine formale rivelano fin dal principio l'originalità del suo genio. Qualcosa di analogo avviene in Richard Strauss. Basta pensare che la maggior parte dei suoi poemi sinfonici, eseguiti tutt'oggi nelle sale da concerto di tutto il mondo, li scrisse prima di comporre la sua prima opera: in un certo senso, quindi, sono anch'essi geniali lavori giovanili. La Sonata per violino, il Quartetto con pianoforte, il primo Concerto per corno dedicato al padre, non sono forse esempi probanti della precocità del suo talento? E se le opere giovanili di Mozart vengono eseguite, e a ragione, e non cessano di stupirci e di riempirci di ammirazione, lo stesso si dovrebbe fare, e altrettanto a ragione, con quelle di Wagner e di Strauss. Ciò vale anche per Verdi, il quale fin dall'inizio dà prova della sua personalità nella scrittura, nella forma, nel modo di porsi di fronte alla parola scenica.



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È un errore grossolano basarsi sulle affermazioni degli stessi compositori per bandire le loro opere giovanili dai teatri e dalle sale da concerto. Solo perché Wagner disse una volta che non voleva mai più sentir parlare delle sue opere giovanili e che la sua opera vera e propria cominciava con L'olandese volante, condannando così in un certo senso all'oblio Le fate, Il divieto d'amare e Rienzi, noi dovremmo allinearci con le sue opinioni? Naturalmente Le fate si nutrono del ricordo di Carl Maria von Weber e del regno incantato di Oberon; e non potrebbe essere diversamente, giacché ogni compositore giovane agli esordi per prima cosa si guarda intorno e non rifiuta di lasciarsi influenzare dalla musica dei suo tempo. La Prima Sinfonia di Anton Bruckner non possiede ancora la forma e l'architettura della Settima, dell'Ottava o della Nona Sinfonia: e proprio Bruckner, che ha scritto pochissiina musica da camera e nessuna opera teatrale, si presta magnificamente a fare da esempio. Ma nessuno potrà negare che la Prima e la Seconda Sinfonia siano due capolavori che è necessario conoscere per capire Bruckner. E per tornate alle opere giovanili di Strauss: non dobbiamo assolutamente concludere che Guntram sia un lavoro insignificante solo perché il suo autore decise di seppellirlo. Direi di più: chi non conosce Feuersnot non può dire di conoscere per intero lo stile compositivo, lo spirito, l'arguzia, la concezione formale che stanno alla base del teatro di Strauss e che si ritrovano poi in molte sue opere successive.
Quando lessi per la prima volta in un'occasione speciale - ricordo la data, il 25 gennaio 1988, perché quel giorno il sindaco di Vienna mi conferì la medaglia d'oro d'onore della città - le Variazioni per trio d'archi su una canzone popolare bavarese che Strauss scrisse nel 1882, cioè all'età di diciotto anni, quasi quasi non credetti che questo lavoro fosse realmente suo. Quando poi l'ascoltai nel municipio di Vienna, mi colpirono improvvisamente due frasi del violino che si ritrovano quasi uguali in Capriccio e Daphne, e che non riappaiono mai in altri lavori teatrali. Vi identificai così un arco che si tende per oltre sessant'anni di vita, dallo Strauss diciottenne allo Strauss ottantenne. All'improvviso comparve qualcosa il cui seme, la prima idea compositiva, proveniva dalla prima giovinezza. Perciò qualche volta mi arrabbio quando sento dire con disprezzo: «Oh Dio, è solo un'opera giovanile!». Soprattutto se si tratta di Wagner, di Strauss o di Verdi. Uno Stiffelio, un Ernani, una Giovanna d'Arco, un Attila sono capolavori pieni di giovanile baldanza, esenti da ogni routine: perché è inevitabile che col tempo, nella prassi compositiva, si accresca il proprio, personale repertorio. Strauss ha modificato talvolta, in seguito, qualche punto nelle sue strumentazioni, straordinarie fin dall'inizio; ciò nonostante anche nei suoi lavori più tardi troviamo, qualche volta forbite e perfezionate, le stesse arditezze che nel suo entusiasmo giovanile aveva semplicemente collocato l'una accanto o dopo l'altra. L'embrione, l'idea erano però già presenti anni prima.
Le opere giovanili sono miniere tutte da scoprire. E il Divieto d'amare di Wagner ne è l'esempio più clamoroso. Quando rappresentammo quest'opera a Monaco nel 1983, tutti, compresi l'orchestra e i cantanti, furono sbalorditi nel constatare come in questa partitura si trovino anticipazioni del Parsifal, del Lohengrin, dei cori del Tannhäuser. Per capire veramente un grande compositore - non parlo dei minori, di cui si sono salvati sì e no due pezzi - è assolutamente necessario conoscere le opere giovanili: ascoltarle e lasciare che agiscano su di noi, per ricercare le fonti da cui sono scaturite le opere più tarde.

Capriccio
La chiave per interpretare Strauss

Con Capriccio ho un rapporto speciale, che data dalla prima volta in cui ho affrontato questa partitura. Nel periodo in cui incidevo dischi a Londra ebbi l'incredibile fortuna di poter lavorare, io giovane direttore d'orchestra, con una compagnia di canto quasi miracolosa. Hans Hotter, che nella produzione discografìca cantava la parte del direttore di teatro La Roche, era già stato Olivier nella prima rappresentazione assoluta dell'opera a Monaco nel 1942. Mi potè così raccontare da testimone oculare come Richard Strauss e Clemens Krauss vedevano i singoli personaggi e quali consigli il compositore aveva dato ai cantanti durante la preparazione delle loro parti. Ne trassi grande profitto, senza per questo dover rinunciare alle mie idee. Fu un lavoro molto proficuo, nel corso del quale si instaurò un legame assai intimo fra me e quest'opera.
La partitura di Capriccio - come del resto tutte le partiture di Strauss - si legge come un romanzo giallo. Basta seguire la condotta delle parti, anche soltanto quelle di un terzo clarinetto o di un secondo fagotto, che vivono come tutte le altre di vita propria, per chiedersi pagina dopo pagina con sempre maggiore curiosità che cosa avverrà dopo, quale aspetto assumerà la melodia, come si inserirà nell'armonia o nel ritmo. Studiando la partitura di Capriccio mi resi conto sempre più chiaramente che dentro vi si nascondeva una vita intera. Ciò che in essa appare ovvio e naturale è il risultato di un'esperienza di molti decenni e del lavoro di tutta una vita. Solo un compositore passato attraverso tutte queste esperienze poteva scrivere una partitura di tale perfezione e finezza: la perfezione con la quale temi o motivi costituiti di solo tre, quattro note cominciano improvvisamente a vivere, si sviluppano, s'intrecciano, si trasformano e si rispecchiano l'uno nell'altro; la finezza con la quale, allorché nel testo si fa riferimento a Gluck e Piccinni, la musica cita l'Ifigenia di Gluck, e una nota stridula dell'oboe ci ricorda che l'opera alla prima fu fischiata...
Imparai a conoscere meglio anche le partiture precedenti scoprendo queste cose nell'ultima opera di Strauss. Fu naturale che con essa sviluppassi una affinità speciale. A Londra avevamo stabilito di incidere Capriccio senza tagli, cosa che avviene di rado nelle esecuzioni in teatro. Ciò mi portò più tardi a studiare tutte le opere di Strauss così come sono scritte, integralmente, almeno in un primo momento; persino quando nella pratica teatrale i tagli diventano necessari. Quest'esperienza mi servì per capire che è essenziale conoscere la concezione originaria di un compositore.
Prendiamo per esempio l'interludio che precede la scena finale, la cosiddetta «musica del chiaro di luna», prima del monologo della Contessa. Tutti sono affascinati dalla bellezza di questa musica. Molto, molto più tardi, occupandomi dei Lieder di Strauss, che non sono molto eseguiti, scoprii che la melodia appare già nell'ultimo Lied del Krämerspiegel (Lo specchio del mercante), un ciclo di dodici Lieder su poesie di Alfred Kerr nel quale Strauss, in una satira impareggiabile, metteva in ridicolo i suoi editori. Ma si potrebbe risalire ancora più indietro: giacché se ne trova traccia in una delle prime composizioni di Strauss. Ad essa, dunque, rimase fedele per tutta la vita. Suo nipote Richard Strauss ha raccontato che il compositore cercava un'idea per questo momento di pace e di riflessione che chiude l'opera, ma non riusciva ad andare avanti; il figlio richiamò la sua attenzione su quello schizzo giovanile, su quel tema rimasto incompiuto. A proposito del genio e delle opere giovanili!
Il mio legame con Capriccio proviene da ultimo anche da Clemens Krauss, che stimo moltissimo come musicista e Kapellmeister e che ha sempre rappresentato per me il direttore di teatro ideale. Strauss e Krauss, il compositore e il librettista, avevano discusso a lungo sul sottotitolo da dare a Capriccio. Strauss era contrario a intitolarlo Konversationsstück, pezzo di conversazione. Opera non andava bene. Poi si affacciò la domanda se non potesse essere intitolato Pezzo di conversazione con musica; Krauss propose Conversazione per musica: così facendo egli passava in seconda linea indicando che il testo era stato scritto per la musica. E Strauss ne fu convinto. Il settantottenne compositore scrisse per la primavolta una prefazione in testa alla quale mise le parole del direttore di teatro La Roche: «All'aria i suoi diritti! - Abbia rispetto per i cantanti! - Non troppo forte l'orchestra!». Krauss e Strauss in carne ed ossa.
La prefazione che segue a queste massime è un decalogo fra i più istruttivi e più belli per ogni direttore d'orchestra. Chi ne segue le indicazioni non può sbagliare. Naturalmente Strauss fa ricorso a tutta la sua esperienza di grande musicista, e non tutte le sue richieste possono essere realizzate al cento per cento: ma questa rimane una delle più belle 'istruzioni per l'uso' per gli interpreti di Strauss. Le 'regole d'oro' che Strauss enunciò negli anni giovanili, quando lui stesso era attivo a Monaco e altrove come Kapellmeister, la prefazione di Capriccio per il direttore d'opera e le parole che Clemens Krauss mette in bocca a La Roche sono il miglior viatico per un direttore d'orchestra, la chiave per l'interpretazione della sua musica.
E c'è un'altra cosa che affascina: più si esegue Strauss semplicemente, senza complicazioni, attenendosi alla partitura, più riesce convincente. Basta soltanto leggere le partiture per sapere come questa musica deve suonare: tanto nella trasparenza quasi cameristica di Capriccio quanto nelle più violente esplosioni a piena orchestra. Strauss possedeva un talento speciale per gli effetti armonici. Nel Cavaliere della rosa, per esempio, nel momento in cui Octavian offre la rosa a Sophie, con quale grazia sensuale strumenti d'effetto come la celesta, l'arpa e il Glockenspiel punteggiano di accordi estranei un'armonia statica! Qualcosa di simile avviene alla fine di Capriccio, quando la Contessa dialoga con la sua immagine allo specchio: qui Strauss dispone di nuovo questi punti luminosi spostandoli armonicamente di un semitono, per creare una bellezza iridescente che è solo sua. E si potrebbe continuare con Daphne, con l'Elena egizia... Questa struttura armonica speciale, questa iridescenza si produce soprattutto a partire da passi dinamicamente molto diafani e sommessi; volendole dare peso nell'interpretazione basta trattenere un poco il tempo per dar modo all'orchestra e all'ascoltatore di avvertire questo 'cangiar di colore' e 'vibrare' al di fuori dell'armonia fondamentale: ci si avvicina così a una retta interpretazione di Strauss.
Chi vuol convincere l'ascoltatore, il pubblico, deve prima di tutto esser convinto lui stesso; e poi avrà il compito di imporre le sue idee all'orchestra, al coro, ai solisti e a tutti coloro che lavorano con lui e per lui. Soltanto quando le idee dell'interprete sono trasportate all'esterno in modo adeguato si viene a creare la base per comunicare efficacemente all'ascoltatore l'«esecuzione convincente»: e mi pare che ciò valga per tutte le interpretazioni.
Strauss fu un compositore di sublime routine: intendendo per routine il dominio assoluto della materia. In Beethoven ogni battuta, ogni frase, ogni movimento di Sinfonia sono intrisi di spirito battagliero, segnati dalla lotta per una nuova forma, una nuova espressione; non che Beethoven lo facesse di proposito: era la sua natura. In Strauss - e il mio amore per Strauss credo sia noto a tutti - si intuisce benissimo che più di una pagina di partitura è stata scritta per così dire tra strilli di bambini o prima di una visita all'ufficio delle imposte. L'arco formale di una scena era chiaramente abbozzato; ora bisognava passare alla realizzazione. La moglie Pauline, il figlio Franz, la nuora Alice e i nipoti raccontano che Strauss poteva tranquillamente conversare con la famiglia mentre strumentava, in modo quasi automatico e senza sbagliare neppure una nota, ciò che aveva composto la sera prima, in assoluta solitudine. Una volta fissati i nodi tematici di personaggi, situazioni e scene l'elaborazione tecnica era per lui un fatto più o meno di routine. Se partecipava alla preparazione delle sue esecuzioni spesso era il primo a impugnare la matita rossa e ad apportare un taglio: magari proprio in quei passi che più danno nell'occhio alla lettura della partitura integrale. Ma anche in questi casi il direttore d'orchestra ha il compito di convincere se stesso e gli altri che Strauss aveva i suoi buoni motivi per agire così.
Gli accordi di quarta e sesta sono una cosa meravigliosa. Mozart, Bruckner, Wagner, tutti sapevano benissimo che con un accordo di quarta e sesta si può ottenere tutto: raggiungere l'apice, con annessi e connessi colpi di timpani, piatti e grancassa. Gli accordi di quarta e sesta risolvono anche i momenti armonicamente più intricati: allora sorge il sole, oppure cade il fulmine. In Strauss si trovano una quantità di accordi di quarta e sesta. Non mancano le barzellette sui compositori che si barcamenano tra un accordo di quarta e sesta e l'altro; il mio maestro Hans Sachsee mi diceva sempre: «Wolfgang, guardati dalle terzine e dagli accordi di quarta e sesta: fanno presto a logorarsi!». Anche Strauss qualche volta ha esagerato, correndo il rischio di logorarli. Ma anche qui la chiave, per così dire, dell'interpretazione sta nel riflettere a quale accordo di quarta e sesta fra i tanti dare la priorità: e non è detto che debba essere sempre quello che si presenta per primo o che cade là dove si suppone che si trovi il punto culminante. Nella Donna senz'ombra, all'inizio del terzo atto, nel duetto in Re bemolle maggiore fra Barak e la Tintora che comincia con le parole «Mir anvertraut», c'è un crescendo che culmina in un accordo di quarta e sesta di Mi maggiore. Strauss stesso o Krauss hanno però chiarito che questo accordo di quarta e sesta di Mi maggiore non è ancora il vero punto culminante della scena e che perciò sarebbe sbagliato, nonostante le apparenze considerarlo tale: non si dovrebbe «rimanerci attaccati», hanno precisamente detto. Su Strauss e gli accordi di quarta e sesta di Mi maggiore, del resto, si potrebbero scrivere almeno tre tesi di laurea! Ci vuole molta esperienza interpretativa per non sottolineare troppo i primi quattro accordi di quarta e sesta, mettere invece in rilievo il quinto e passar poi di nuovo sopra ai due seguenti.
Nell'interpretazione di Strauss molte cose, ho già detto, vengono da sé: essenziale è però individuare il tempo giusto. Quando dirigeva, Strauss sceglieva tempi molto veloci, che spesso mettevano in difficoltà gli archi e i legni tanto da rendere quasi impossibile suonare tutte le note. Una volta - non si dimentichi che Strauss era un grandissimo direttore, io stesso non scorderò mai l'impressione che mi fece l'unica volta che l'ho ascoltato - gliene fu chiesta la ragione. Strauss rispose: È proprio ciò che voglio. Suonate la prima e l'ultima nota: e quel che sta nel mezzo, se una figura sale o scende, viene da sé. Non voglio che suoniate tutte le note come se si trattasse di una coloratura rossiniana. Mi serve la prima nota, perché proviene dall'armonia, e l'ultima, perché introduce nella nuova armonia: e in mezzo fate quel che vi pare!». Non credo che fosse solo una battuta per giustificare di aver preso un tempo troppo veloce. Anche quando interpretava Beethoven, Strauss era noto per i suoi tempi scorrevoli, che non si curavano di scavare troppo in profondità alla ricerca di chi sa quali emozioni. Gli piaceva affrontare le cose con bonomia ed eleganza. Apparteneva alla schiera dei compositori che fanno innamorare e seducono; non era di quelli che sconvolgono nel più intimo dell'anima, come Beethoven, capace di creare tensioni che quasi ci mozzano il fiato e ci travolgono, lasciandoci a lungo soli col nostro tormento prima che riusciamo, lentamente, a riprenderci. E del resto, con quale semplicità di mezzi Schubert sapeva intenerire fino alle lacrime!
Strauss era un compositore senz'altro capace di emozionarsi, ma non mirava a fare, di ogni creazione, una creazione del mondo. E qui sta la sua differenza per esempio da Gustav Mahler. Dalla sua formazione umanistica proveniva l'amore costante, dichiarato, per l'antichità, romana ma soprattutto greca. Strauss era stato in Italia fin da giovane; per il teatro greco nutriva una vera e propria passione, che condivideva con Carl Orff. Ma la sua natura lo spingeva a cercare, credo, dopo Salome ed Elektra, soprattutto la serenità della mitologia greca, la liberazione da ogni costrizione: la superiorità e il distacco di chi si libra sopra le cose e rifugge dalla 'profondità' e dalla psicologia. Nel 1943, allorché andarono distrutti i tre teatri d'opera che più gli erano cari - Dresda, la città di inolte sue prime rappresentazioni, Vienna, la città più musicale del mondo, Monaco, la sua città natale -, Strauss pensò che anche il lavoro di tutta la sua vita fosse andato disperso. A quei teatri aveva pensato scrivendo le sue opere. E tuttavia volle guardare avanti e si rifece al mondo greco, alla «mitologia serena» di Giove e delle sue donne, alla leggenda dell'oro di Mida. Cosa che può apparire sorprendente solo a uno sguardo superficiale.
L'ovvio, mi sembra, che chi si occupa del mondo greco si imbatta prima di tutto nelle grandi tragedie, e così fece anche Strauss con Elektra. Ma è un tratto distintivo del suo carattere che in vecchiaia, dopo tutto quello che aveva portato la guerra, la distruzione delle città, l'emigrazione di amici e collaboratori, la degenerazione del nazismo, non tornasse a rivolgersi alla tragedia, ma cercasse scampo nella mitologia: quella «gioviale» dell'Amore di Danae, quella «bucolica» di Daphne. Non si può interpretare oggi L'amore di Danae senza tener presente quando fu scritta. Era una fuga, certo, una fuga consapevole dallo scempio che lo circondava e a cui Strauss assisteva ogni giorno.
Non avevo mai diretto L'amore di Danae prima del festival di Monaco del 1988, dedicato a tutta la produzione teatrale di Strauss. Finora non ho mai diretto né GuntramFeuersnot. E neppure Salome. Già. Che non abbia mai diretto Salome benché già ai tempi di Augusta l'avessi studiata e preparata coi cantanti è uno di quei casi strani che capitano nella vita. E non è l'unico. Di Verdi, a partire da Rigoletto, ho diretto tutto, salvo La traviata.
L'amore di Danae richiede una disposizione interiore assai diversa rispetto per esempio a Capriccio o alla stessa Daphne. Non è solo un'operetta satirica che guarda serenamente alla commedia greca: è anche qualcosa di più. Alcune scene sono straordinarie, uniche, come del resto lo sono anche molte scene di Daphne: per esempio quella del primo atto in cui Strauss scrive un lungo passo in 5/4 su un ritmo che assomiglia a una marcia ed è tuttavia stranamente 'zoppicante'...

Parlando
Parola e canto

Capita spesso di chiedersi se esistano cantanti specificamente straussiani. Il primo nome che mi viene in mente è Elisabeth Schwarzkopf. Non le mancava alcuna delle capacità tecniche e musicali necessarie per realizzare con naturalezza tutto ciò che Strauss richiede sia in fatto di volume di suono che di estensione della voce. La Schwarzkopf è tedesca, e per cantare Strauss come si deve è probabilmente indispensabile aver avuto un'educazione tedesca. Possedeva inoltre la sensibilità, la delicatezza per comprendere tutte le sottili finezze dell'umorismo di Hofmannsthal e i sottintesi celati dietro le parole che Strauss, con assoluta consapevolezza, ha messo in musica e affidato al canto. Era una Marescialla ideale perché sapeva fare del suo monologo non il monologo di una donna ormai vecchia, bensì una meditazione rassegnata sul tempo che passa e sulla vecchiaia che incombe. Sostenuta dalla bellezza della sua voce interpretava questo ruolo in modo indimenticabile.
Bisognerebbe poi ricordare, con considerazioni analoghe, Irmgard Seefried. Per le parti drammatiche, come per esempio l'Imperatrice e la Tintora della Donna senz'ombra, citerei Birgit Nilsson e Ingrid Bjoner. Hans Hotter dava rilievo alle grandi parti straussiane di Jochanaan, Mandryka, Giove e La Roche con assoluta padronanza tecnica. Anche Dietrich Fischer-Dieskau non ha mai avuto problemi tecnici e poteva concentrarsi fin dall'inizio sull'essenziale. Viceversa molti cantanti, sia che cantino in italiano o in tedesco, capiscono come bisognerebbe impostare una frase ma hanno paura del loro stesso coraggio, forse perché non sono ben sicuri della loro tecnica. Alcuni cantanti danno il meglio di sé solo dopo che sono usciti indenni da una data frase o da una particolare nota acuta: allora si mostrano veramente all'altezza, una volta risolto il loro 'problema'. E la serata nel suo complesso sarà tanto più ingrata quanto più avanti nell'opera si trova questo punto scabroso. Forse dall'esterno non si nota, ma chi sta sul podio lo percepisce distintamente. Il direttore registra ogni palpito, ogni respiro e soprattutto ogni mancanza di respiro. Mentre cerca di dare a tutti gli elementi della rappresentazione il necessario senso unitario vede incombere come una spada di Damocle sui suoi sforzi quell'unico punto critico. E poi la liberazione, dopo il passo tanto temuto!
Di per sé un'aria, in Verdi per esempio, viene considerata spesso un pezzo di bravura vocale che deve mettere in mostra le qualità di un cantante indipendentemente dal contesto: quasi si trattasse di un funambolismo artistico da godere e applaudire in quanto tale. Ciò dipende dal nostro tempo, dal nostro uso della lingua, da una diversa concezione dell'opera. Strauss si è avvicinato di più a un modo nuovo, forse più adatto a noi tedeschi, di concepire l'opera. Già prima di Capriccio aveva risolto non unilateralmente, bensì unitariatnente nel suo 'parlando' musicale il classico conflitto tra parola e musica: la parola diviene musica, la musica, parola.
Conosco cantanti, ottimi sotto il profilo sia vocale sia tecnico, che incontrano grandi difficoltà a realizzare il 'parlando' richiesto da Strauss su determinati intervalli e altezze. Ciò può dipendere da una articolazione troppo lenta, da una formazione impostata su altre basi o da una disabitudine a confrontarsi con questo tipo di tnusica; o semplicemente dal fatto che la voce ha bisogno di più tempo per scaldarsi e non è in grado di raggiungere immediatamente la scioltezza e la brillantezza necessarie. Non sono cose che si imparano facilmente. Per questo è comprensibile che molti cantanti evitino Strauss. Soprattutto se non hanno pieno dominio del tedesco.
Del resto ciò vale anche per molti direttori d'orchestra. Ne conoscevo uno, celebrato come direttore sinfonico, che nell'opera non cavava un ragno dal buco. Non era tedesco e non era padrone della lingua. Non capiva, semplicemente, che in tedesco - e sicuramente, anche in altre lingue - la vocale, che è la parte sonora della parola, è preceduta in molte parole da più di una consonante. Una parola come «Sprache», per esempio, ha tre consonanti prima della «a»: ma lui si ostinava ad andargiù battendo già a «Sp ... »; e poi si meravigliava se non andavano insieme. Non lo capì mai, e quello rimase il suo eterno mistero.
Dietro le parole si nasconde sovente un mondo di idee, di associazioni. Prendiamo per esempio il secondo atto del Lohengrin: «Sollevati, compagna della mia onta, il nuovo giorno non deve più trovarci qui», ossia il dialogo fra Telramund e Ortruda dopo la catastrofe del primo atto. Bisogna supporre che siano circa le due di notte. perché i reietti debbono lasciare il castello prima dell'alba. In nove messe in scena su dieci Ortruda è accovacciata a terra, annientata, mentre Telramund la sovrasta disperato; forse si appoggia anche, profondamente abbattuto, a una parete e le rivolge la parola attaccando alla sua battuta... Una volta Wieland Wagner mi disse: « Basta, non ne posso più di questo trasporre alla lettera la parola sulla scena. Per me il significato di questo 'Sollevati...' non sta nelle parole, ma dietro le parole. Non si tratta di un invito ad alzarsi rivolto a una persona che sta accovacciata per terra... E perché poi? Se qui qualcuno trionfa, questi è Ortruda e non Telramund, perché è su Telramund che si è abbattuto il giudizio di Dio ed è lui che è stato vinto. Perché Ortruda deve starsene a terra disperata? È lei in fondo la trionfatrice!». L'idea che si nasconde dietro le parole, il vero significato è un altro: Teltamund invita Ortruda a risollevarsi interiormente, non ad alzarsi materialmente da terra. È estremamente difficile spiegare e far capire a un interprete di lingua non tedesca che il vero sconfitto è Telramund e che è lui a pregare sua moglie come per dirle: «Fatti venire in mente qualcosa, tra poche ore dobbiamo andar via di qui...»
Wieland Wagner fu criticato quando mise in scena questo dialogo secondo il suo vero significato. Analoga discussione si riaccese anche in occasione della Tetralogia di Monaco del 1987. Nel secondo atto del Crepuscolo degli dei Alberich è rannicchiato sulla scena e gioca col globo terrestre; entra Hagen dal fondo su una lunga passerella, e Alberich gli domanda: «Dormi, Hagen, figlio mio?». In nove messe in scena su dieci Hagen sta seduto ad occhi chiusi sul proscenio, gli si avvicina Alberich e gli chiede molto scioccamente: «Dormi, Hagen, figlio mio?». Di fronte a interpretazioni così banali Wieland Wagner si infuriava: «Mio nonno, con tutta la psicologia che ha introdotto nell'Anello, non sarebbe mai stato così primitivo da mettere in scena Hagen che dorme mentre Alberich si muove e agisce da sveglio...». Nell'Anello di Monaco Alberich ripercorre nella sua mente ciò che è accaduto fino a quel momento, e domanda: «Dormi, Hagen, figlio mio?», come per smuovere uno che al verde del semaforo rimanga fermo, trasognato, e invitarlo a sbrigarsi, a procedere, ad agire. Lo stesso nell'Oro del Reno, all'inizio della seconda scena, quando Fricka dice: «Wotan, consorte, svegliati!». Qui Wotan non deve risvegliarsi da un sonno qualsiasi alle parole di Fricka: deve piuttosto abbandonare i suoi sogni ad occhi aperti sul Wallhalla e tornare alla realtà. «Nikolaus Lehnhoff, il regista dell'Anello di Monaco, non è neppure in grado di attenersi alle indicazioni più elementari eppure: il testo di Wagner stabilisce con esattezza come questa scena debba venir realizzata...»: così la lettera scandalizzata di uno studente della Washington University, scritta naturalmente in inglese.
Problemi di questo tipo s'incontrano ad ogni passo nel Lied. In un Lied d'amore, per esempio. Se un cantante deve esprimere i sentimenti di tutte e due le parti, di entrambi gli innamorati, bisogna che cerchi di cogliere ciò che sta dietro le parole e non viene mai detto apertamente. In questo caso l'accompagnatore può dare una mano al cantante, caratterizzando le diverse figure con un altro timbro, un altro tratteggio ritmico o dinamico.

Il Lied, una sfida
La funzione dell'acconipagnatore

Richard Strauss ha composto qualcosa come duecentocinquanta Lieder. Molti sono pressoché sconosciuti. I cantanti, dal soprano di coloratura al basso, scelgono sempre gli stessi venti o trenta Lieder: Zueignung, Die Nacht, Heimliche Aufforderung, Freundliche Vision, Cäcilie. Non che gli altri duecento siano meno belli, alcuni sono addirittura superiori e non contengono solo una bella melodia: dal punto di vista tecnico però sono difficili e richiedono dalla voce molto, forse troppo. Dietrich Fischer-Dieskau e io abbiamo inciso una volta un disco di Lieder poco conosciuti di Strauss. Ma Fischer-Dieskau è un caso a parte, perché sa risolvere fin dall'inizio i problemi tecnici e può così concentrarsi interamente sull'interpretazione, su ciò che fa, di un Lied, un Lied. Non tutti i cantanti in grado di cantare perfettamente un'aria d'opera possono cantare altrettanto perfettamente un Lied.
Mi ha sempre colpito che Strauss abbia musicato pochi testi di grandi poeti tedeschi. Neanche una poesia di Hugo von Hofmannsthal! Eppure con lui ha collaborato come nessun compositore ha forse mai fatto con un librettista, discutendo di tutto ciò che riguardava le loro opere non solo di persona, quando s'incontravano, ma anche per lettera: una corrispondenza durata mesi e anni, e così fitta da riempire pagine e pagine di volumi. E non si può certo dire che Hofmannsthal non abbia scritto poesie bellissime. Neppure i parenti più stretti del musicista mi hanno saputo spiegare la ragione di questo strano disinteresse. Nei loro Lieder Hugo Wolf, Franz Schubert e altri hanno affrontato i grandi poeti tedeschi - Goethe, Eichendorff, Heine - assai più spesso di Strauss. Ma non solo. Ad una osservazione più attenta si noterà che testi non di prim'ordine - e il Romanticismo ne ha prodotti a dozzine - influenzano, per esempio in Schubert, anche la qualità della composizione; mentre è raro che un testo di Goethe non suggerisca alla musica dimensioni nuove. A maggior ragione non riesco a comprendere perché Strauss non si sia mai rivolto alle poesie di Hofmannsthal.
Eppure non si può neanche dire che Strauss non avesse una particolare affinità con il Lied. Forse non si preoccupava abbastanza di cercare buoni testi? Oppure era uno di quei compositori che inventano temi, melodie, musica senza lasciarsi ispirare sul momento da una determinata poesia? O ancora: cercava solo a posteriori un testo che si adattasse ai suoi pensieri? I piccoli quaderni di schizzi in cui annotava tutto ciò che gli veniva in mente lo farebbero spesso supporre. Se in Schumann e in Brahms si sente chiaramente che l'ispirazione viene dal testo, lo stesso non si può dire sempre per Strauss. A questo proposito c'è un precedente interessante: Johann Sebastian Bach. Com'è noto anch'egli utilizzava la stessa musica in un pezzo liturgico e in una cantata profana, per occasioni solenni e festose: questo metodo si ritrova perfino nella Messa in Si minore. Non voglio con ciò affermare che i testi utilizzati da Strauss nei suoi Lieder siano in generale scadenti. Una delle sue composizioni più geniali - i tre Lieder di Ofelia - trae origine da Shakespeare: qui Strauss deve improvvisamente giocare a carte scoperte nell'affrontare un personaggio come Ofelia, rappresentare il suo destino anche nell'accompagnamento pianistico. Perciò mi chiedo come mai un uomo degli interessi e della cultura di Strauss non si sia servito più spesso di testi che sono parte della letteratura universale.
Forse il mistero si chiarisce se pensiamo alla differenza tra opera e Lied. L'opera - dramma, commedia, atto unico o Tetralogia dell'Anello che sia - parte sempre da un piano prefissato; di lì si sviluppa l'aria, che è una specie di 'arresto' dell'azione. Il Lied attinge invece le sue qualità da fonti del tutto diverse. Ogni Lied comincia per così dire dal nulla. Ci sono Lieder nei quali l'introduzione pianistica cerca di stabilire fin dall'inizio ritmicamente, melodicamente e armonicamente il carattere del pezzo: come per avvertire che si tratta di un Lied d'amore - e il novanta per cento dei Lieder sono di carattere amoroso -, di un Lied scherzoso o ironico o drammatico. (Non è un caso che la massima fioritura del Lied si sia avuta nel Romanticismo e coincida con un'estrema varietà di atteggiamenti emotivi, sentimentali ed espressivi). In queste prime battute il pianista deve creare un dato clima, saper comunicare fin dall'attacco la giusta atmosfera per immettere l'ascoltatore nel mondo espressivo di ciò che seguirà. Prendiamo per esempio Mondnacht di Schumann, il quinto Lied del cielo su testi di Eichendorff, op. 39. Questo Lied non reca indicazione di tempo; in testa sta scritto solo «zart», ossia «delicato». Che cosa sia poi questo «delicato», ognuno deve interpretarlo da sé. È qualcosa di misterioso, di irrequieto, in un tempo verosimilmente veloce, ma «delicato»... Molto, se non forse tutto, viene deciso già nelle battute dell'introduzione: il pianista deve cercare di far capire che non si tratta della luminosità del giorno, ma del mistero, della tenerezza di una notte di luna.
Quando accompagna, il pianista deve avere la capacità di ascoltare e di reagire fulmineamente. Neppure per un istante il cantante deve avere la sensazione che il pianista non lo segua e non sia pronto ad assecondarlo nelle sue emozioni e nella sua disposizione vocale del momento. Forse terrà più a lungo una nota che gli è venuta particolarmente bene - e ciò non si può descrivere ma solo sentire -, darà più rilievo a un abbellimento o prenderà con più slancio un passo che ieri, in una disposizione vocale diversa, eseguiva con più indugio, magari soltanto perché lo sentiva diversamente. E anche il pubblico ha la sua importanza. Se il pubblico non conosce la lingua e deve seguire faticosamente i testi sul programma di sala con la traduzione a fronte, la declamazione sarà più chiara e distinta; diverso è invece se il cantante può contare su una comprensione immediata dei testi da parte del pubblico. Insomma, ci sono molti fattori imponderabilì. Un comune mortale, come si suol dire, non ha la minima idea di ciò che può influenzare un cantante durante l'esecuzione. Non è possibile pretendere che questi abbia riguardo per il suo accompagnatore: sarà il pianista a dover fare attenzione a ciò che muove il cantante. E più che saperlo, deve intuirlo.
Nonostante l'abito da sera, nonostante il frac, il cimento a cui si espone il cantante nei confronti del pubblico è il più spietato che si possa immaginare. Anche un pianista è solo sulla pedana, ma non deve sostenere niente di paragonabile; se sbaglia può sempre - naturalmente sto un po' esagerando - premere il pedale, provocare per qualche secondo una nebbia sonora e dire che quel passo lui lo sente così. Un cantante non può. Ha puntati addosso duemila occhi: deve sapere a memoria le parole - e già questo non è poco nel corso di un concerto -, cantare esattamente tutte le note, respirare nel modo giusto, e non può nascondere o mascherare nulla, perché tutto si sente e si vede. Se una volta sbaglia una parola il pubblico, che ha il testo davanti a sé, può rendersi perfettamente conto dove ha sbagliato. È uno sforzo di concentrazione tremendo, quasi insopportabile, di cui spesso non ci si avvede. Anzi. Quanto più un concerto di Lieder è perfetto tanto più si è portati a credere che in fondo sia facile. Lavorando con un grande interprete - Fischer-Dieskau, per esempio - è esaltante scoprire tutto ciò che si può ricavare da un Lied; il respiro, il tempo, la forma espressiva, tutto è racchiuso in spazi minimi: non c'è altro a disposizione che una voce e il pianoforte. Riuscire a creare questi effetti, questi stati d'animo, saper comunicare il senso di un Lied che dura forse un minuto facendo presa per così dire immediatamente, in uno spazio minimo di tempo, su un pubblico che è venuto al concerto con tutt'altri pensieri, ebbene, mi pare un atto di magia. E a ogni concerto l'avventura ricomincia: portare ora, in questo momento, l'ascoltatore là dove noi vogliamo...
Quando, come in Strauss, i testi non sono di per sé capolavori e non hanno un'efficacia propria, le difficoltà aumentano. Un concerto dedicato interamente a Lieder di Strauss richiede grandissimo coraggio, oltre che una conoscenza profonda di tutta la sua produzione. Fondamentale è l'articolazione del programma, onde evitare monotonia e uniformità sia di carattere sia di linguaggio (per esempio sotto il profilo tonale). È senz'altro possibile programmare in un concerto solo Lieder di Strauss, a patto di tener presente che la maggior parte può non esser nota e di procedere più criticamente nella scelta dei testi.
Sin dai miei inizi ho sempre fatto musica da camera e l'accompagnatore di Lieder. Verso questa attività mi sono sentito e mi sento particolarmente attratto perché mi consente di entrare più direttamente in contatto con la musica. Quando dirigo, la mia interpretazione deve essere accettata e passare attraverso venti o cento professori d'orchestra, cantanti, coristi, senza che io possa dare il mio contributo attivo. Se in orchestra succede un pasticcio, una nota sbagliata o che so io, la colpa viene data a me quale responsabile dell'esecuzione, ma in fin dei conti io non posso farci nulla. Invece quando lavoro nella musica da camera con un cantante o con uno strumentista che ha le mie stesse idee posso intervenire più attivamente non solo sull'interpretazione ma anche sull'esecuzione: e questa libertà da un lato, questo coinvolgimento dall'altro, mi rendono felice. Far musica con un bravo violinista o violoncellista o appunto con un cantante come Fischer-Dieskau, Prey o Schreier, artisti che sanno bene quanti impulsi e quante idee possano venire dalla cooperazione con un accompagnatore al pianoforte all'altezza del suo compito, può far nascere, dal confronto dei punti di vista, dalla collaborazione durante tutto l'arco delle prove fino all'unità raggiunta la sera dell'esecuzione, un'esperienza musicale emozionante.
Nel 1980 Fischer-Dieskau e io eseguimmo alla Scala nel corso di una breve tournée la Winterreise di Schubert. Il pubblico che si reca al teatro d'opera più famoso del mondo per ascoltare un concerto di Lieder è un pubblico speciale, che non è necessariamente abbonato ai Do di petto di Pavarotti, ma cerca altre emozioni artistiche. A dire il vero - vorrei sottolinearlo - in via di principio i teatri d'opera non sono molto adatti ad ospitare concerti di Lieder: per questo ci sono le sale da concerto, anche se le sale da concerto di una certa grandezza non sono l'ambiente ideale per l'intimità di un concerto di Lieder. Ad ogni modo la Scala non è il luogo adatto per una Winterreise. A ciò va aggiunto che il pubblico italiano non è propriamente il più disciplinato del mondo: qui è diversa la mentalità, a teatro o al concerto si va per incontrarsi, per conversare amabilmente, per farsi vedere. Anche dopo l'attacco del primo Lied il pubblico continuava a tossire, a sfogliare i programmi, a far brusio. Ma già dopo due o tre Lieder la tosse cessò, nessuno osò più voltar le pagine e la Scala piombò di colpo in un'atmosfera di tensione indescrivibile. Fischer-Dieskau era riuscito quasi a trasmettere il gelo che spira in questo ciclo, ad impadronirsi del pubblico e a ipnotizzarlo. Quando poi attaccò Der Leiermann, il Lied che chiude il ciclo, regnava un silenzio di morte. Può darsi che una piccola parte del pubblico capisse anche i testi, ma non saprei descrivere il modo in cui Fischer-Dieskau seppe comunicare a tutti la sofferenza e il dolore del commiato del suonatore di organetto della Winterreise. Di questo concerto possiedo un nastro: si ha realmente l'impressione che a poco per volta la gente se ne fosse andata, tale è il silenzio, la concentrazione, l'attenzione che si sente nell'aria. E ciò di fronte a più di duemila persone! E in Italia!
Ecco la sfida, il fascino di un concerto di Lieder: questa specie di straniamento, di spersonalizzazione, di abbandono totale dell'ascoltatore allo stato d'animo e al clima evocati dall'interprete. Solo un concerto di Lieder lo rende possibile. Trovo che sia appassionante dare il proprio contributo a questa riuscita. Talvolta in serate del genere la musica tocca vertici di perfezione suprema.

Arianna o Tristano?
Opere per l'isola deserta

C'è un gioco - tema preferito nei sondaggi - che consiste nel chiedere quali lavori si porterebbero con sé nella famosa isola deserta o eventualmente si vorrebbe salvare dalla distruzione del mondo e conservare per i mondi futuri. Di fronte a inchieste di questo tipo debbo stare attento a rispondere sempre nello stesso modo, indicando sempre le stesse opere. Sicuramente una di queste opere per l'isola è Arianna a Nasso di Richard Strauss... Ma forse ci si potrebbe accordare anche per due o tre partiture.
Nella mia lista c'era una volta anche La sagra della primavera di Stravinskij, una delle composizioni più poderose e innovatrici del Novecento. Ma può darsi che oggi sceglierei la Sagra e domani un'altra cosa. Di Mozart non porterei con me nessun lavoro in particolare. L'opera di Mozart è già dentro di me. Credo di conoscerla così bene da non aver bisogno di partiture per richiamarmela alla mente. Non così Arianna. Questa partitura è sempre da scoprire di nuovo. I percorsi armonici, l'arte della strumentazione in virtù della quale Strauss è riuscito ad ottenere con soli trentacinque strumenti la sonorità di una grande orchestra: varrebbe la pena di meditarci, nell'isola. Mi piacerebbe soffermarmi su ogni croma e semicroma per capire come abbia fatto Strauss a creare questa partitura, racchiudendo in essa tutte le sue esperienze. Sono sicuro che non mi stancherei mai di cercare e di scoprire.
Ma si dirà: e la Jupiter, Le nozze di Figaro, la musica da camera di Mozart, un Quartetto, il Quintetto di Brahms, Beethoven?
Se alla fine scegliessi davvero l'Arianna ci includerei naturalmente anche Il borghese gentiluomo e tutto ciò che Strauss ha riunito nell'opus 60: la prima e la seconda versione dell'Arianna a Nasso, la Suite del Borghese gentiluomo, insomma l'intero progetto. Che idea geniale quella di Strauss e di Hofmannsthal di far rappresentare l'opera seria e l'opera buffa non una di seguito all'altra ma, per volere del «padron di casa», contemporaneamente. La sfida di intrecciare opera seria e opera buffa l'una con l'altra in un'unica serata senza che l'opera duri un minuto di più è brillantemente superata. Ci vorrebbe la partitura sull'isola anche soltanto per esaminare i punti di passaggio e di sutura tra l'opera seria e l'opera buffa. Il modo in cui Strauss seppe combinare questi due mondi e stili divergenti è di una novità assoluta. Forse mi sbaglio ed esiste un lavoro a me sconosciuto che presenta queste combinazioni (non parlo di parti comiche introdotte per motivi drammaturgici, come nella Tosca di Puccini) già prima di Strauss: ma a mio parere il compito di scrivere contemporaneamente un'opera seria e un'opera buffa non fu risolto né prima né dopo in modo più persuasivo. Anche nella fusione di mito e realtà, mondo ideale e anelito alla vita, Arianna è un'opera che guarda lontano, paragonabile al superamento della morte per mezzo dell'amore nel Tristano e al «sorriso dell'anima» ironico, malinconico e leggiadro delle Nozze di Figaro.
Conoscendo tutte le tredici opere di Wagner per averle dirette, anzi dirette ripetutamente, non porterei con me nell'isola Tristano, la Tetralogia, i Maestri cantori o Parsifal, bensì Il divieto d'amare. Sarebbe istruttivo e forse anche sorprendente stabilire con esattezza la battuta, la frase, la scena da cui, in quest'opera giovanile, scaturiscono copiose le fonti di un Lohengrin o di un Parsifal: giacché nessun altro compositore ha anticipato il suo repertorio più tardo con tale stupefacente precocità come Wagner nel Divieto d'amare. Sarebbe eccitante fare questo viaggio esplorativo sulla scorta della partitura del Divieto d'amare.
Oppure davvero Tristano, uno dei lavori che più durevolmente hanno influito su intere generazioni di musicisti? Debussy, Schönberg e certo anche Strauss sarebbero impensabili senza la sorgente del Tristano. Se si pensa che nella pausa di dieci anni fra il secondo e il terzo atto del Sigfrido nacquero due opere così diverse come il Tristano e i Maestri cantori, e che dopo queste due digressioni Wagner completò la Tetralogia, c'è da rimanere, più che ammirati, sconcertati dal genio di Wagner! Se si prende in considerazione la musica scritta prima del Tristano si può ben comprendere quale effetto sconvolgente dovesse produrre questa partitura su tutti coloro che si interessavano di musica, dal compositore al musicologo al semplice ascoltatore. Ascoltare i primi accordi del Tristano: posso immaginarmi ogni tipo di reazione, dall'incomprensione all'entusiasmo, dalla meraviglia alla più veemente delle ripulse. Tristano è una pietra miliare nella storia dell'armonia: tensione interna agli accordi che si risolve in distensione solo per produrre una nuova tensione. Accadono qui cose che non erano mai avvenute prima.
E allora, dunque, la partitura del Tristano per l'isola, per desumerne tutta la musica, tutte le opere che verranno?