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MASSIMO MILA

BREVE RITRATTO DI PUCCINI

 




Basterebbe [...] la capacità di progresso per fare assegnare a Giacomo Puccini (Lucca 1858- Bruxelles 1924), un posto speciale nel periodo dell'opera verista. Egli possedeva la levatura intellettuale sufficiente per resistere dopo il successo iniziale di «Manon Lescaut» (1893) e «Bohème» (1896). Puccini ebbe almeno tanta personalità da prediligere un tipo particolare di vicenda, un determinato ordine di sentimenti, e riuscì quindi a creare alcune figurine di donne amorosamente devote fino al sacrifico, che vivono di vita propria. Melodista gentile, sospiroso, sentimentale, si compiacque dell'idillio e dell'elegia, dei mezzi toni espressivi, delle sfumature delicate, e cadde nella retorica materialistica dell'effetto quando volle affrontare, con la «Tosca», le grandi passioni ed i tragici eventi del verismo propriamente detto.
Prese le mosse dalla femminea eleganza di Massenet, non ignorò i sortilegi dell'arte debussysta e si compiacque sempre nell'eleganza un po' mondana di un tono francese. Una notevole apertura d'interessi musicali gli permetteva di aggiornarsi, anche se poi egli sapesse con molta saggezza astenersi dall'imitazione di modi e di stili che presupponevano tutt'altra formazione spirituale. Strauss e Debussy non lo lasciarono indifferente. Nel 1913 assisté alla prima del «Sacre du Printemps», che gli parve «roba da matti », e nel 1924 si metteva in treno per andare a sentire il «Pierrot lunaire» di Schönberg.
E dopo la realizzazione, nei suoi limiti impeccabile, della «Bohème» (1896), la sua arte non rimase inerte. Parve avviato a ripetere se stesso, dopo lo sbandamento verista della «Tosca» (1900), in …Madame Butterfly» (1904), ma egli reagì al pericolo. «La fanciulla del West» (1910) è una nuova sterzata verso il verismo, con coraggiosi propositi di soverchiarne gli aspetti esteriori: opera acerba, che presenta l'immaturità della ricerca, rivestita però d'una strumentazione che, senza mettersi in mostra, è un capolavoro d'abilità, acquistata nello studio dei moderni. I tentativi continuarono, segnando una punta modernistica nel «Tabarro», che anticipa d'un ventennio l'atmosfera amaramente popolare dei film francesi di Carné e di Duvivier, e un successo duraturo nell'atto comico «Gianni Schicchi» (1918), la prima opera italiana che raccogliesse felicemente l'eredità verdiana del «Falstaff». Ancora uno sforzo di rinnovamento stilistico, pur nella costanza degli elementi sentimentali fu l'ultima opera «Turandot» (1926), in cui è sensibile, tra l'altro, l'influenza della coralità di Musorgskij nel «Boris».
Massimo MILA, «Breve storia della musica», Torino, Einaudi, 1977, pp. 291-292.