ADRIANO LUALDI

CLAUDE DEBUSSY E LA SUA PARABOLA

Due donne sorridono: l'una all'infanzia, la seconda alla giovinezza di Claudio Debussy; e un grande amore artistico investe ed infiamma i primi anni della sua milizia. La Fenice che nascerà dalle ceneri di questo incendio è l'arte di Claudio.

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Delle donne, la prima è M.me de Sivry, un'antica allieva di Chopin.
Quando essa credette di indovinare nell'adolescente qualche buona disposizione musicale e lo prese sotto la sua propria guida intelligente, e lo preparò ad entrare nel maggior Istituto Musicale di Parigi, dove il fanciullo fu ammesso undicenne - essendo nato a Saint-Germainen-Laye il 22 agosto 1862 - dimostrò certo maggior intuito di quei professori del Conservatorio che inflissero più tardi al giovane studente una triplice bocciatura proprio in quell'Armonia nella quale il Debussy doveva poi tanto illustrarsi.
Non altrimenti si comportarono quei membri dell'Istituto, che fremettero di sacro orrore dinanzi alle troppe licenze contenute in una Suite per coro e orchestra, Printemps, di cui fu severamente vietata l'esecuzione, che era stata composta dal Debussy nel secondo anno del suo pensionato di Roma, a cui era stato ammesso nell'84 vincendo il «Gran Premio» con la cantata L'enfant prodigue.
Occorre dire che questo Enfant prodigue era stato confezionato su misura, secondo le buone regole, secondo i più castigati costumi, con una certa dose di muffa sparsa qua e là, in modo da non urtare le suscettibilità degli esaminatori e di guadagnare, con la loro approvazione, l'ambito premio?

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La seconda donna è M.me Vasnier.
Era bella e giovane, M.me Vasnier. Aveva folti e fini capelli bruni, che ombreggiavano un poco la fronte luminosa sopra gli archi delle sopracciglia; gli occhi grandi e pensierosi, che sembrava interrogassero quando guardavano; il naso sottile e ardito, ma non grande; le labbra carnose, disegnate alla parigina, e più degli occhi pronte al sorriso; e in mezzo al dolce ovale del mento la fossicella «che rabbelliva tutta sua figura», come dice Agnolo Firenzuola, fiorentino di buon gusto e sagace lodatore di bellezze femminili.
E si era incontrata, la signora Vasnier, con Claudio Debussy, nella casa di Madame Moreau-Sainti, dove essa si recava a prender lezioni di canto, e Debussy si guadagnava la vita, accompagnando al pianoforte. Ma il maestrino non era, allora, «Claudio Debussy». Aveva forse diciotto anni, e si chiamava Achille de Bussy. «Achille» era nome che non gli piaceva, e lo trovava ridicolo e male lo sopportava, come sopportava male la famiglia sua: dove il padre, più pretenzioso che intelligente, e la madre, incapace anch'essa di comprendere il giovane artista che le cresceva in casa, non offrivano, nel chiuso di una vita e di una mentalità squallidamente borghesi, nessun lembo d'azzurro agli occhi e alle ali di un'anima innamorata dell'azzurro. E «de Bussy» era il segno innocente di un dissidio doloroso forse, e di un segreto ardore.
Distacco tra le sillabe, che svelava quasi il distacco tra cuori della stessa famiglia; e il «de» nobiliare che, più che una sciocca vanità di giovane, pareva l'ingenua rivolta contro casa vita ambiente troppo meschini, e tradiva l'ansia di innalzare in qualche modo agli occhi del mondo, con un artificio da ragazzo, un cognome troppo oscuro; in attesa di poter conferirgli la più vera e preziosa nobiltà delle opere.

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Madame Vasnier aveva una piccola voce incantevole, e un marito piuttosto anziano, e intelligentissimo amatore d'arte e di lettere: l'architetto Vasnier. Fu così che Achille de Bussy trovò in Madame Vasnier la donna che seppe ispirargli alcuni fra i più belli dei suoi primi canti, e la interprete squisita delle sue musiche; nell'architetto, il colto e sensibile conversatore e consigliere; nella casa Vasnier il rifugio caro ai sogni e al lavoro, dove l'anima poteva espandersi, il cuore amare, e l'artista produrre. Dove, insomma, Achille de Bussy muoveva i primi passi per diventare Claudio Debussy.
Passava molte ore del giorno, narra Margherita Vasnier, figlia dell'architetto, in questa casa. Componeva al piano. Lunghe improvvisazioni, pazienti ricerche prima di scrivere; rare le correzioni. Nei mesi d'estate i Vasnier affittavano una villetta presso Parigi, e Debussy si recava ogni giorno, e lavorava molto e, la sera, accompagnava al piano la cantatrice ospite sua, ed amica. La campagna influiva molto su di lui; lo faceva diventare spensierato e gaio. Gran cosa, perché il suo carattere era allora molto ombroso e suscettibile, impressionabile e selvaggio.
Era, a quell'epoca, molto ignorante, e se ne rendeva conto. Passava le lunghe giornate estive - quando non componesse o non andasse a passeggio - leggendo. Aveva una grande passione per i dizionari: «J'aime beaucoup lire le dictionnaire; on y apprend quantité de choses interessantes ».
Più tardi Claudio Debussy imparerà a leggere molte cose profonde e belle anche nei grandi dizionari del cuore umano e della Natura. E l'incolto e rozzo e scontroso amico di casa Vasnier, dopo aver espresso in musiche preziose il suo cuore di poeta, esprimerà in prose originali e forti l'animo suo singolare di musicista: «Mi ero attardato nelle campagne onuste d'autunno dove mi tratteneva invincibilmente la magia delle vecchie foreste. Dal cader delle foglie d'oro celebranti la gloriosa agonia degli alberi, dal lontano Angelus che invitava i campi ad addormentarsi, saliva una voce dolce e persuasiva che consigliava il più completo oblio. Il sole tramontava nella solitudine, senza che nessun contadino pensasse di assumere, in primo piano, un atteggiamento litografico. Bestie ed uomini ritornavano tranquilli, dopo aver compiuto un'opera anonima la cui bellezza aveva questo di speciale: ch'essa non si attendeva più l'incoraggiamento che la disapprovazione... Erano ben lontane le discussioni d'arte nelle quali nomi di grandi uomini prendono talvolta l'aspetto di paroloni. Era ben dimenticata la piccola febbre artificiale e cattiva delle «premières»; io ero solo e deliziosamente disinteressato; forse non ho mai tanto amato la musica come allora, che non ne sentivo mai parlare».

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Non poteva durare a lungo una vita così serenamente lieta. Passarono gli anni, giunse l'età della cresima, vale a dire del «Prix de Rome». Debussy si preparò al concorso senza entusiasmo, e solo per seguire il consiglio insistente dell'architetto Vasnier.
Rimase soccombente nel primo concorso, vinse il secondo; apprese la notizia senza gioia.
Avvicinandosi il giorno della partenza - aveva allora poco più di ventidue anni - ricopiò con la sua bella calligrafia minuta e ordinata, in un quaderno, tutte le melodie che in cinque anni aveva scritte per la Vasnier.
L'ultima della raccolta era intitolata Regrets:

Devant le ciel d'été tiède et calme
Je me souviens de toi comme d'un songe.
Et mon regret fidèle aime et prolonge
Les heures où j'étais aimé.

E la dedica: «A Madame Vasnier. Ces chansons qui n'ont jamais vécues que par elle et qui perdront leur grace charmeresse, si jamais plus elles ne passent par sa bouche de fée mélodieuse. L'auteur éternellement reconnajssant».

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Da Marsiglia, in viaggio per Roma, scrive a Vasnier: «Vi assicuro che faccio tutto quello che posso per aver coraggio; cerco, perfino, di dimenticarvi... Ma state tranquillo, non ci riuscirò». Da Roma, in una lunga lettera di color tetro, si lagna della pioggia e del vento, si sente preso da rancore per tutto ciò che è romano, trova detestabili i suoi compagni dell'Accademia che hanno perduto la bella spontaneità parigina e si dànno, ora, dell'importanza, «trop prix de Rome, ces gens la», si sente soffocare dalla banalità dei discorsi che gli tocca ascoltare, dall'egoismo che scopre in ogni camerata, dall'abitudine della maldicenza che regna specialmente fra i musicisti; si sforza di lavorare e non può, o riesce male; ricorda e rimpiange le buone amicizie di Parigi, le belle ore passate nella famiglia amica, a Parigi; non può vedersi a Roma, vuol ritornare a Parigi, meta di tutti i sogni, sospiro di tutti i sospiri.
E non nomina mai, nel testo di queste lettere, Madame Vasnier. Ma ogni missiva ha, dopo la firma, il suo post-scriptum; e a questo Debussy confida il breve e asciutto saluto per colei che aveva la bocca di fata melodiosa; e alla quale non pensava più, quasi, fra ii disagio e il corruccio della vita romana; e che non aveva nessuna colpa se l'azzurro dei cielo d'Italia sembrava così desolantemente grigio ai suoi occhi.
Ma il dolce nome taciuto a lungo era nel poscritto, come accade spesso nelle lettere, di ciò che più preme. Quando la mano esita, perché trema qualche cosa nell'aria intorno, o nel cuore che guida la penna.

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La triste vita di Roma! L'insopportabile noia, l'inesorabile mediocrità dell'ambiente accademico! Quel tanto decantato e glorificato clima d'Italia! Quei famosi monumenti, e tutti i pistolotti d'obbligo che bisognava sentir ripetere davanti ad ognuno di essi! Quelle bestioline notturne che non solo impedivano di dormire, ma rendevano, anche, la pelle simile ad una schiumarola! Quel non poter lavorare o - se si lavorava quella musica tipo Verdi e Meyerbeer che saltava fuori!
Aveva forse letto, Debussy, le pagine dedicate da Berlioz a Villa Medici, per trovare tanta esca al suo malcontento e per alimentare di tanti e cosi vari argomenti le sue nostalgie parigine?
Perfino sui ritratti dei pensionati dell'Accademia, che ornavano le pareti della sala da pranzo, trova da ridire. E se a Berlioz (ai suoi tempi ce n'erano una cinquantina, di immortalati) i ritratti e le caricature erano sembrati soltanto bizzarri e umoristici, a Debussy fanno l'impressione piuttosto melanconica «que c'est le mme prix de Rome répété à l'infini». E se Berlioz scappa a precipizio dai ricevimenti dell'ambasciatore, e augura che un bolide distrugga palazzo ed invitati, Debussy vuoi darsi l'aria di rifuggire dalla vita mondana, e racconta di aver venduto il suo abito da sera; e se Berlioz disprezza il buon vino d'Orvieto come «une sorte de drogue douceàtre et huileuse», Debussy beffeggia il vecchio buon Hebert che dice: gli ubriachi avere, a Roma il «vino eroico»; e se Berlioz si sente, a Roma «esiliato» dal mondo musicale, ed incapace di produrre, e grida: «J'étais méchant comme un dogue à la chaîne», Debussy si dichiara incapace di scuotere il torpore che lo invade, e grida: «Eh bien, toute cette ville m'écrase, m'anéantit».

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Qualche cosa tramonta, qualche cosa si annienta a Roma come a Parigi, nei due anni di Villa Medici.
Finalmente Debussy rientra nella città delle sue nostalgie, deciso a non ritornare più a Roma, dove avrebbe dovuto compiere un terzo anno di pensionato.
Si reca dalla famiglia Vasnier. Trova che ha mutato di abitazione.
«Strano; non sembrano più la stessa gente, ora che hanno cambiato di casa. Il pianoforte, dove tante volte essa cantava, accompagnata da me, è disposto in altro modo. È difficile ricordare, è difficile rivivere il passato, così. E l'architetto Vasnier poteva risparmiarsi, veramente, i suoi rimproveri per il mio troppo sollecito ritorno a Parigi. Dopo tutto, cosa ne sa, lui, di quello che passa nell'animo di un artista? E non sono certo più un ragazzo, io. Comincia ad essere noioso, il signor Vasnier, con le sue prediche e i suoi consigli. E Madame Vasnier, com'è sempre bella! Ma il ritratto di Baudry la fa anche pitì bella. Ha qualche cosa di mutato, negli occhi; erano più espressivi, una volta. Anche la voce... sì, sempre dolcissima, eppure, un po' di freschezza l'ha perduta, forse...».

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Molta acqua, in due anni, sotto i ponti della Senna e sotto quelli del Tevere; molte rondini dall'uno all'altro continente; molti fiori sbocciati e appassiti nei giardini del mondo; molti tramonti nell'azzurrissimo cielo di Roma e nell'azzurro cielo di Parigi.
E, nel quaderno donato da Achille de Bussy a Madame Vasnier, l'accorata melodia del rimpianto:

Devant le ciel d'été tiède et calme
Je nie souviens de toi comme d'un songe.
Et mon regret fidèle aime et prolonge
Les heures où j'étais aimé.

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Oltre alla fiammata sentimentale che doveva fargli sentire, a Roma, così pungenti nostalgie parigine, e che doveva spegnersi a Parigi appena non fosse più nutrita dall'olio romano della lontananza, Debussy ebbe il suo grande amore artistico giovanile, e fu per la musica di Riccardo Wagner. La passione durò poco, è vero, ma fu ardentissima. Egli pianse di commozione ascoltando, nel 1889 a Bayreuth, Parsifal, Tristano e Isotta, I Maestri cantori. Nel '90 rinnovò il suo pellegrinaggio alla rocca maggiore dell'arte wagneriana, ma ne ritornò profondamente disingannato.

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Non amava più la Germania: adorava la Russia. Nell'intervallo corso fra i due viaggi, aveva stretto amicizia con un valentissimo uomo che gli aveva fatto conoscere Boris Godunoff di Mussorgski nella lezione originale, anteriore cioè ai ritocchi apportativi da RimskiKorssakov. A proposito di Mussorgski, Debussy scriverà un giorno: «...il est né en 1839; ii mourut en 1881... On voit par ces deux dates qu'il n'a pas eu de temps à perdre pour avoir de génie, il n'en a pas perdu et laissera dans le souvenir des gens qui l'aiment, ou l'aimeront, des traces ineffaçables. Personne n'a parlé à ce qu'il y a de meilleur en nous avec un accent plus tendre et plus profond; il est unique et le demeurera par son art sans procédés, sans formules desséchantes». E da queste righe traspare in che cosa specialmente Debussy contrapponesse Mussorgsky a Wagner, «auquel il n'a manqué que d'être un peu plus humain pour être tout à fait grand».
Conoscere Mussorgski ed esserne completamente preso e abbandonare tutti gli ancor freschi entusiasmi per Wagner fu per Debussy una cosa sola: e l'avvenimento va segnato albo lapillo, perché ha importanza decisiva nell'indirizzo artistico seguito poi dal Maestro francese.

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Un altro fatto importante e ricco di conseguenze accade in questo periodo di tempo nella vita di Debussy: la sua conoscenza di Stefano Mallarmé, la sua viva amicizia per questo e per gli altri giovani poeti, pittori, scultori che ne frequentavano la casa, l'intima comunanza stabilitasi subito fra le idee del musicista e quelle dominanti nel piccolo ed eletto cenacolo artistico. Il «simbolismo» costituiva il la di questo ambiente intellettuale: tutto ciò che vi era di consueto e mercantile ed abusato rappresentava la bestia nera della compagnia. Le ore trascorse dal Debussy in mezzo ai suoi compagni di fede non furono perdute.
Nel 1892, ancora un avvenimento degno di essere ricordato. Questa volta il musicista non fa conoscenza con un poeta, ma con un poema drammatico. Legge Pélléas et Mélisande, vi trova ciò che forse stava cercando da molto tempo, chiede a Maeterlinck il permesso di musicare il dramma e, ottenutolo, abbandona una Chimène già iniziata, di cui Catulle Mendès gli aveva apprestato il testo, e si mette all'opera.

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Nei dieci anni di meditazioni e di lavoro dedicati allo spartito prezioso, il patrimonio artistico del Debussy si arricchisce: egli scrive, tra l'altro, il Quartetto (1893), le Proses lyriques (1894), le Chansons de Bilitis e i tre Notturni - per orchestra questi - nel 1898; il suo nome comincia ad uscire dall'ombra.
«On en parlait avec une sorte de mystère, comme d'un être étrange et subtil», scrive un biografo. I fedeli erano ancora pochi, ma c'erano; qualche pubblica esecuzione di Liriche e di Poemi ne aumentò il numero. I Notturni, eseguiti per la prima volta nel 1900, dinanzi ad un pubblico non certo tutto di iniziati, trovavano già spianata la via da una falange di entusiasti. Ed eccoci finalmente alla prima rappresentazione di Pelléas et Mélisande, nel teatro dell'Opéra Comique.
Le cose erano incominciate, per dire il vero, in modo poco promettente. L'orchestra così facile, in generale, alle stanchezze per eccesso di lavoro, protestava perché non aveva niente da suonare. Gli artisti di canto cosí felici, sempre, di poter fare economia di fiato, si lamentavano di non aver niente da cantare. Maeterlinck era, fra il sì e il no, di parere contrario, e quasi si opponeva all'andata in scena dell'opera. V'erano i disfattisti che facevano correre voci catastrofiche; v'erano i neutralisti che si limitavano benevolmente all'ironia; v'erano i puritani che arrossivano già, solo al pensiero dello scandalo artistico a cui avrebbero dovuto assistere. Un grande fiasco si profilava all'orizzonte.
Ma ecco che, la sera del 30 aprile 1902, memorabile nella storia dell'arte, dalla minacciante ombra del fiasco salta fuori, nel modo più inopinato, un esile ma promettente ramoscello di alloro, e nelle sere seguenti il ramoscello si adorna di bacche, e getta nuovi germogli e cresce e cresce fino a divenire un albero - che avrà sempre, nei tempi, verdissime fronde per la gloria di Claudio Debussy.
Da allora, l'arte e l'attività fecondissima di opere del grande musicista francese si svolgono in pieno sole, attese, seguite, apprezzate sempre da una folla di ammiratori, e la sua fama volo rapidissima in tutto il mondo.
Molto giovarono alla comprensione dei suoi principi artistici e dei suoi ideali - anche se gli valsero, inevitabilmente, qualche nemico di più - gli scritti d'arte da lui sparsi in vari periodici e specialmente quelli pubblicati nel tempo in cui fu critico musicale della Revue Blanche e di Gil Blas. Tre opere, a quanto si sa, egli lasciò incompiute: Histoire de Tristan, Le Diable dans le beffroi, La chute de la maison Usher, ricavate, queste due ultime, dai Racconti straordinari di Edgardo Allan Poe. Esse avrebbero dovuto esprimere, secondo quanto Debussy stesso aveva preannunziato, una nuova maniera della sua arte.

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Per bene apprezzare il valore e l'importanza dell'arte debussiana nei riguardi del movimento musicale francese di questi ultimi cinquant'anni bisogna pensare per un momento alle condizioni nelle quali Debussy trovò l'arte del suo paese. Erano, queste, di completa soggezione al dominio straniero. Le acque non erano chete, però, sotto la superficie apparentemente tranquilla e rassegnata dell'oceano intellettuale parigino: già dopo il '70, sotto la sferza delle sventure e dei dolori della guerra franco-prussiana, si era delineato in alcuni ambienti di cultura un vivo risveglio di sentimento nazionale e di reazione contro il secolare dominio delle musiche italiana e tedesca.
Due grandi Associazioni musicali erano state create per opporre alla straniera l'arte paesana, per la diffusione dei compositori nazionali: La Société Nationale de musique ed i Concerts de l'Association Artistique.
«Le but que se propose la Societé diceva lo Statuto della prima, che era stato compilato dal Saint-Saëns, da Castillon e da Garcin - est de favoriser la production et la vulgarisation de toutes les oeuvres musicales sérieuses, éditées ou non, des compositeurs francais, et de mettre en lumiere, autant que cela sera en son pouvoir, toutes les tentatives musicales, de quelque forme qu'elles soient, à la condition qu'elles laissent voir, de la part de l'auteur, des aspirations élevées et artistiques...». E l'altra Associazione, dal canto suo, si consacrò alla diffusione delle opere di Berlioz; di questo grandissimo e fin allora misconosciuto compositore, che fu chiamato da Heine «un rossignol colossal, une alouette de grandeur d'aigle, comme il en a existé, dit-on, dans le monde primitif...».

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Ma ecco che, quando forse stavano per maturare i primi frutti di questa sana opera di propaganda e di riparazione, poco dopo che Berlioz aveva avuto la tardiva, ma commossa ed entusiastica apoteosi nella sua patria, ecco che spunta, nel cielo parigino, un nuovo astro. Viene dalla Germania - è Riccardo Wagner. In pochi anni - dall'82 all'85 - vince tutti gli ostacoli, incatena tutti i cuori, diviene padrone assoluto del campo. E aiutato, sospinto, imposto - oltre che dalla forza propria - da una propaganda attiva, ardente, instancabile, quale sanno organizzare solo i tedeschi per i tedeschi, e che anche i latini sanno imitare molto bene, quando si tratti di favorire costoro.
Musicisti, poeti, pittori, filosofi, tutti si prosternano dinanzi al nuovo idolo. Troviamo i nomi rappresentanti le tendenze artistiche più opposte, i più cospicui e puri campioni della nuova poesia francese - quanto lontana e diversa dalla poesia del compositore di Lipsia, - troviamo i critici dai gusti più disparati, dai cipigli più terribilmente severi, riuniti in commovente amplesso sotto un unico vessillo, la Revue Wagnerienne. Il mondo intellettuale - gioventù compresa - non credeva che in Wagner come i maomettani in Allah; e Bayreuth era, naturalmente, la sua Mecca.

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La cosa non poteva durare a lungo, e non durò. Nel '90 si manifesta un principio di reazione contro il despota tedesco, ed è interessante, sintomatico ed istruttivo notare che alla base di questo movimento che tendeva a liberare l'arte francese dalla influenza straniera si trovi una istituzione - Les Chanteurs de Saint-Gervais - che, diretta dalla mente illuminata di Charles Bordes, volle anzitutto rimettere in luce ed in onore le musiche Gregoriana e Palestriniana e quelle francesi dei secoli XV e XVI.
Fra i tanti, un frequentatore appassionato ed entusiasta non mancava mai a queste audizioni di musica antica. Era l'innovatore Claudio Debussy.
Fra i pochi - forse unico anzi in quegli anni un giovane compositore di musica che aveva già spinto sguardo e anima verso il passato, come ad una sorgente di nuove e fresche bellezze, ebbe a scrivere - dopo quelle audizioni - che egli teneva per suoi modelli e per suoi autori prediletti i vecchi Maestri di Francia.
Questo passatista, questo sfegatato amante delle anticaglie del suo Paese era l'innovatore Claudio Debussy.

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Egli pensava ai clavicembalisti e scriveva: «Perché non rimpiangere quella incantevole maniera di scrivere la musica, che noi abbiamo perduta, tanto che ci è impossibile ritrovare, fra noi, una qualsiasi traccia di Couperin? Essa evitava ogni ridondanza ed aveva dello spirito: noi non osiamo quasi più far mostra di aver dello spirito, temendo di mancare di grandiosità; ed a questa aspiriamo incessantemente senza, il più delle volte, raggiungerla». Nello stesso modo che vedeva in Wagner un pericolo mortale per la moderna musica francese, riconosceva in Gluck, e non senza ragione, la causa prima dell'abbandono delle antiche tradizioni dei Chambonniéres, Dandrieu, Couperin, Rameau: «Maria Antonietta, che non dimenticò mai di essere austriaca, impose Gluck al gusto francese: e da questo momento le nostre belle tradizioni si falsano, il nostro amore per la chiarezza scompare».
Egli pensava al Rameau e scriveva: «Noi avevamo, pertanto, una pura tradizione francese nell'opera di Rameau, costituita di tenerezza delicata e vezzosa, di accenti giusti, di declamazione rigorosamente esatta priva di codesta posa alla 'profondità' ed al bisogno di spiegar tutto a furia di pugni, di spiegare tutto fino a restar senza fiato - che sembra voler dire: voi siete un'accolta di perfetti idioti che non comprendereste nulla se non vi si obbligasse fin da principio a prender lucciole per lanterne. Si può deplorare dunque che la musica francese abbia seguito per tanto tempo delle vie che la allontanarono da quella chiarezza di espressione, da quella forma compendiosa e raccolta, che sono qualità peculiari e significative del genio francese».

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In nome della indipendenza dell'arte nazionale, in nome delle antiche tradizioni che voleva rimesse in luce e che quest'arte dovevano rigenerare, Debussy combatté dunque con tutte le forze, nei suoi articoli di critica d'arte, l'opera ed il sistema wagneriani, e proclamò, con la vigoria di chi ha materiato di meditazioni e di fede il suo pensiero, l'amore grande che egli nutriva per i Maestri francesi del '700. Con pari ardore additò agli artisti di Francia gli antichi, dimenticati ideali, proponendoli come fonte di ispirazione, come germe di rinnovamento artistico per l'oggi e per il domani. È bella questa fede, degna di essere ammirata è questa cosciente chiarezza di intenzioni che illumina di idealissima luce tutta la produzione musicale del Maestro, che aggiunge al suo già così grande valore artistico il significato profondo di opera redentrice dell'arte nazionale, di missione compiuta con mistico ardore, con quel disdegno del facile successo che soli possono essere ispirati da un animo puro e da una mente superiore e colta.
Debussy è veramente riuscito con le sue opere, con i suoi scritti d'arte, col suo esempio largamente seguito da molti vigorosi ingegni - che non hanno nulla a che vedere, naturalmente, coi suoi pedestri imitatori a liberare l'arte francese dal dominio e dall'influenza di quella germanica, e a fare rivivere, in musiche piene di originalità formale e tecnica, il vecchio genuino spirito di Francia.

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E non soltanto dal punto di vista storico e nazionale l'opera di Claudio Debussy riveste una importanza capitale; ma anche da quello, altrettanto significante, di arte interpretativa delle tendenze spirituali di una civiltà.
Già rievocando, nella nostra mente, le sensazioni provate ascoltando le composizioni di questo Maestro, noi dobbiamo riconoscere che non si saprebbe immaginare musica più caratteristicamente francese della sua. Sembra di trovare, in essa, lo specchio della razza, con tutti i suoi pregi e con tutti i suoi difetti; sembra di riconoscere in essa - poiché di arte aristocratica si tratta e non popolare - l'espressione fedele della moderna cultura francese, anche questa cosi opposta, per ideali, forme, teidenze, gusti, alla tedesca.
Pensiamo alla Poesia. Abbiamo incontrato, nei primi capitoli della vita artistica del musicista, Mallarmé. Ma non solo di questo poeta il Maestro subisce il fascino: anche dei Baudelaire e Verlaine. E a sua musica è tutta piena dei riflessi di queste poesie, è tutta percorsa dalle vibrazioni sottili onde esse sono percorse; e ne esprime, volta a volta, il profumo inebriante, il languore estatico, e dice lo scoramento di anime stanche oppresse dalle nebbie della tristezza, il sogno di una morte sopravveniente tra effluvi di fiori e bagliori roseo-azzurri di tramonti, il nostalgico amore verso lontani paesi, le misteriose aspirazioni verso misteriosi amori.
Se questi poeti non fossero esistiti, vien fatto di pensare, la musica di Debussy sarebbe stata diversa da quella che è. Certo si sarebbe intonata ad un altro colore. Chi non ricorda la diabolica e accesa ribellione di Mallarmé contro la «serena ironia» dell'Azzurro, e la disfatta del poeta nell'impari lotta?

Brouilards, montez Versez vos cendres monotones
Avec de longs haillons de brume dans les cieux
Qui noiera le marais livide des automnes
Et bâtissez un grand plafond silencieux!

Et toi, sors des étangs léthéens et ramasse
En t'en venant la vase et les pales roseaux,
Cher Ennui, pour boucher d'une main jamais lasse
Les grands trous bleus que font mèchamment les oiseaux.

En vain! l'Azur trionmphe, et je l'entends qui chante
Dans les cloches. Mon âme, il se fait voix pour plus
Nous faire peur avec sa victoire méchante
Et du métal vivant sort en bleus angelus!

Il roule par la brume, ancien et traverse
Ta native agonie ainsi qu'un glaive sûr;
Où fuir dans la révolte inutile et perverse?
Je suis hanté! L'Azur! l'Azur! l'Azur! l'Azur!

Pensando ai rapporti, ormai riconosciuti, fra colore e musica, sembra di notare anche in Debussy una vera ossessione dell'Azzurro. È questo, a mio modo di vedere, il colore dominante nella sua musica. E l'atmosfera che avvolge - rendendola squisitamente armonica ed omogenea, nella sua varietà - gran parte della produzione artistica del Maestro. Pélléas et Mélisande è tutta una sinfonia di azzurri, il Mare è tutto un giuoco - drammatico talvolta - di azzurri contrastanti fra loro; nei Notturni, neppure Le Nuvole (I tempo) riescono ad eclissare completamente il colore del cielo; il Prélude à l'après midi d'un faune, ispirato direttamente, questo, dall'egloga di Mallarmé, dà, in alcuni momenti, quel senso di oppressione che si riceve dall'azzurro troppo intenso della vòlta celeste, nei pomeriggi estivi. E il Quartetto? E la maggior parte delle Liriche? Ben si sorprende, talvolta, anche in Debussy una volontà, un tentativo di liberazione - cerule non sono, ad esempio, alcune delle sue composizioni più recenti - taluni fra i Preludi, molte pagine del Martirio di S. Sebastiano, qualche nuovissima Lirica - né tali avrebbero potuto essere le promesse e non compiute opere ricavate dalle novelle del Poe. Ma nei primi suoi anni quasi sempre, e spesso negli ultimi di sua vita, il musicista, come il Poeta, deve dichiararsi vinto:

Je sais hanté! L'Azur! l'Azur! l'Azur! l'Azur!

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Per uscire da questo bagno di colore, che potrebbe ossessionare anche noi, guardiamo ora, ed ammiriamo, un paesaggio delicatamente policromo; è una specie di traduzione letteraria, un presentimento di quello che sarebbe stata, nella sua vaghezza di forme, nella originalità di nuove armonie e di accenti, nella squisita tenuità di linee, di particolari, di chiaroscuri, l'arte debussiana.
Lo troveremo, ancora, in Mallarmé:

Je veux...
Imiter le Chinois au coeur limpide et fin
De qui l'extase pure est de peindre la fin
Sur ses tasses de neige à la lune ravie
D'une bizarre fleur qui parfume sa vie
Trasparente, la fleur qu'il a sentie, enfant,
Au filigrane bleu de l'me se greffant.
Et, la mort telle avec le seul rave du sage,
Serein, je vais choisir un jeune paysage
Que je peindrais encor sur les tasses, distrait.
Une ligne d'azur mince et pale serait
Un lac, parmi le ciel de porcelaine nue
Un clair croissant perdu par une bianche flue,
Trempe sa corne calme en la glace des eaux,
Non loin de trois grands cils d'meraude, roseaux.

Debussiano è il cuore «limpido e fine» di questo aspirante cinese; debussiano il paesaggio esotico, debussiana la semplicità di espressione pittorica sognata dal poeta. E quella «filigrana azzurra». dell'anima?
Come somiglia a certi accordi musicali esalanti dall'anima, cerulea anch'essa, di Melisanda!

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Il nostro rapido e sommario viaggio ideale attraverso le regioni della Musica e della Poesia ci ha portati, senza che ce ne avvedessimo, nell'Estremo Oriente. Fermiamoci un momento, per gettare una fugace occhiata ad altri caratteri specialissimi dell'arte debussiana: l'orientalismo e il sentimento della Natura.
Il musicista aveva attinto, forse, dalle opere dei musicalissimi poeti a lui cari, oltre che dagli entusiasmi per la musica russa, l'amore verso il fantasioso e misterioso Oriente, meta, specialmente in quegli anni, di tanti spiriti curiosi ed irrequieti, paese sommamente caro anche ai nostri sogni e nel quale la musica sembra esalare per naturale incanto dalle cose, come il profumo dai fiori. Molte fra le composizioni di Debussy sono ispirate dall'Oriente, e tutta la sua musica è soffusa di esotismo, e rivela spesso i segni di quella «nostalgia» - tormento e gioia del poeta dei Fiori del male - per il paese dove tutto è «bellezza, calma, voluttà»; - ed ha languori e fremiti, iridescenze e rabeschi che dell'Oriente racchiudono tutti i fascini.
Ma non solo questa raffinata sensibilità e questa vaghezza di armonie - che, per quanto preziose, rimangono sempre nel dominio superficiale dell'«impressione» - egli sembra aver appreso nel contemplare con gli occhi dell'anima i paesi del Sol Levante, bensi anche quella facoltà di meditare profondamente dinanzi alla Natura, di amarla come cosa viva, di intenderla, di esprimerla.
Il Tagore, nel suo Sâdhanâ, illustra la dottrina delle Upanishad e ci dice che essa predica e propugna l'intima unione dell'anima dell'uomo con l'anima delle cose che lo circondano: «La realizzazione della nostra affinità col Tutto, della nostra compenetrazione in ogni cosa per mezzo dell'unione con Dio, fu in India considerata come fine e compimento ultimo dell'umanità». Ed avverte che le Upanishad dicono, di coloro che hanno raggiunto la meta della vita umana, «che sono in pace e in unità con Dio, intendendo che essi sono in perfetta armonia con l'uomo e con la Natura, e quindi in tranquilla unione con Dio». Una invocazione dice: «Io mi prostro infinite volte davanti a Dio che è nel fuoco e nell'acqua, che pervade l'intero mondo, che è nelle annue mèssi come negli alberi». E, parlando della coscienza dell'anima, dice il poeta indiano: «Le leggi che l'uomo scoprì non sono altro che la percezione dell'armonia dominante tra la ragione, propria all'anima umana, e i fenomeni del mondo.
«Questo è il legame merce il quale l'uomo è congiunto al mondo in cui vive. Egli gioisce sommamente quando lo scopre, poiché allora vede e comprende se stesso nelle cose che lo circondano».

Poco importa che il cosiddetto «naturismo» di Debussy abbia potuto svilupparsi ed esplicarsi indipendentemente dalla conoscenza delle «Upanishad» indiane. Mi sembra in ugual modo curioso ed interessante - e torna ad onore del Musicista - notare le affinità casuali fra una dottrina filosofica di quel lontano Oriente a lui così caro, e certe sue pagine - la scena della fontana nel secondo atto di Pelléas, Nuages dei Notturni, tutta la «suite» Il Mare, il secondo tempo di Iberia, per non dire che di alcune - nelle quali l'anima del Musicista sembra veramente cercare con ansia, con fede, con ardore l'anima delle cose per intenderla, interpretarla, esprimerla: e talvolta vi riesce; ed allora la sua musica non è più impressionistica, come si usa dire, ma eminentemente comprensiva e penetrante e commossa; e compie quel rito d'amore verso il «Tutto» di cui sono cosi alte propugnatrici le Upanishad e di cui è difficile non sentire il fascino e la religiosa grandezza.

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Proprio qui, però - nel naturismo - dove Debussy raggiunge le sue più alte vette, troviamo l'origine e forse la causa del lato più debole della sua arte: non tanto la carenza di umanità, come ebbi a dire inesattamente una volta, quanto la concezione unilaterale che, fino a Pelléas et Mélisande, ebbe della umanità.
Egli guarda con occhio appassionato alle cose, le scruta, ne ricerca l'anima, vuole esprimerla, ed in esse avvolge ed annulla quasi l'anima umana. Copre con un grande manto di malinconia il mondo degli uomini, lo guarda e lo esprime con un senso di pietà dolce e mortale come un incantato filtro della rinuncia; e solo nella contemplazione della Natura sembra trovare qualche raggio di speranza o di fede e qualche fremito di gioia. Si immerge con un abbandono pieno di voluttà nel mondo dei sogni malati, e dimentica la vita ruvida forte eroica - dei grandi dolori e delle meno grandi felicità.
Ora l'arte che della vita sentimentale umana non si preoccupi, che delle umane passioni non si commuova, che dell'anima nostra non esprima e conforti le ardenti aspirazioni verso un migliore avvenire o le tragiche lotte contro il male e contro il destino avverso, che del nostro cuore non esalti gli eroismi e non pianga le sventure, è un'arte che non crede in una possibile elevazione dell'umanità e che predica lo scetticismo, non la fede; la menzogna - come Debussy stesso ebbe a dire - non la verità; la rinuncia, non la lotta eroica ed il trionfo della volontà: è, nel suo più profondo contenuto morale e filosofico, arte non educativa, inutile quindi - dannosa forse - ai fini della civile elevazione umana. La stessa profonda, squisita armonia che si avverte fra musica e poema in Pelléas et Mélisande, prova che Debussy riconosceva come accettabile e rispondente alla sua, la concezione della vita esposta da Maeterlinck nel dramma. E questo non è certamente fatto per liberare ed esaltare lo spirito umano. È, come tutti sanno, una dolcissima favola di ombre aggirantisi, fra sospiri e mormorii sommessi, in un fantastico regno delle ombre; e sembra racchiudere la «morale» che tutto è vano al mondo; e, prima di ogni cosa, vana è la vita; inutile la lotta, perché la fatalità sola governa il destino degli uomini; più inutili le ribellioni eroiche, perché a nulla valgono; inutilissimo perseguire il millenario sogno di distinguere il Bene dal Male, perché Bene e Male si compenetrano talmente, nel mondo, da essere indivisibili. Meglio vale dunque la rassegnazione, l'inerzia, il cieco abbandono all'ignoto destino. Il «Niente vale la pena» del Budda.
Contenuto filosofico deprimente, dunque, che lo diviene ancor più merce l'affascinante musica di Debussy che aggiunge mistero a mistero, languore a languore, abbandono ad abbandono; che idealizza ancor più queste ideali creature prive di fede, prive di forza, fino a farcele cosí vivamente amare, appunto perché non hanno fede, né forza.

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Solitudine, silenzio, raccoglimento: ecco ciò che si chiede dopo aver ascoltato Pelléas et Mélisande. Il dramma ci ha rapito nel suo turbine di sogni e di poesia, ci ha ubriacato delle sue luci azzurre, ci ha riempito di turbamento e di ansia.

«Sous l'eau du songe qui s'élève
Mon âme a peur, mon âme a peur...»

Siamo stati condotti dal Poeta e dal Musicista sulla soglia del Mistero. Abbiamo visto l'antro tenebroso la cui volta, illuminata dalla fiamma della poesia, sembra tutta brillare di stelle - come Pelléas dice alla sua compagna. E se non abbiamo potuto penetrare questo mistero; e se le stelle non abbiamo potuto contare, né immaginare da quale lontananza risplendessero, pure non abbiamo potuto sottrarci al fascino delle loro luci incerte, e abbiamo avvertito la presenza, tutto intorno, di qualche cosa di inafferrabile e di inquietante.
«Io spero di vedere la mia vita riallacciata alle sue sorgenti e ai suoi misteri con legami che non ho l'occasione né la forza di vedere tutti i giorni», dice press'a poco Maeterlinck parlando del suo modo di intendere il Teatro. «La musique est un total de forces éparses... », scrive Debussy in Monsieur Croche antidilettante. «On en fait une chanson speculative! J'aime mieux les quelques notes de la flûte d'un berger égiptien, il collabore au paysage et entend des harmonies ignorées des vos traités... Les musiciens n'écoutent que la musique écrite par des mains adroites; jamais celle qui est inscrite dans la Nature. Voir le jour se lever est plus utile que d'entendre la Symphonie Pastorale».
Poeta e musicista si incontrano nelle vie del pensiero e dell'arte. Maeterlinck - creando il suo Teatro del sogno - sembra rispondere ad una misteriosa invocazione di Debussy. Fanciullo, Debussy non aveva mostrato nessuna specialissima predilezione per la musica; era nato da una famiglia nella quale la musica era lettera morta; non aveva mostrato nessuna precocità, non aveva subito i legami di nessuna ereditarietà familiare; studente al Conservatorio, dopo l'incontro pieno di Fato con M.me de Sivry, quando gli dessero da armonizzare una melodia, non riusciva mai a trovare «l'armonia dell'autore». Egli avrebbe ben trovato, più tardi, la sua propria armonia.
Ma dei suoi poeti si, anche giovanissimo egli seppe trovare l'armonia. Delle poesie e dei drammi nati per lui, sì, seppe rendere musicalmente l'atmosfera. Uomini e cose si confondono in Pelléas et Mélisande, come in alcune pagine di Edgardo Poe il paesaggio immaginato dal poeta risponde cd agisce in perfetta relazione con i moti delle persone sceniche. Le anime delle cose eterne e degli uomini mortali sono, nel Debussy di Pelléas, in completa armonia; le voci orchestrali moltiplicano la facoltà espressiva della voce umana; questa giustifica ed innalza, con quello che dice, la forza e i moti delle voci orchestrali. Si annienta l'uomo nelle cose che lo circondano; appare quale è nel teatro maeterlinckiano: piccola debole cosa dinanzi alla Natura che lo inquadra, davanti al Fato che lo domina, barcollante nel Mistero che lo circonda.
Potenza meravigliosa dell'Arte, senza dubbio. Ma di un'Arte che vuole, è, e deve essere solitaria, individualistica, e tale deve rimanere. Pietra miliare luminosa nella storia della musica, e non primo pilastro di un ponte che si slanci verso l'avvenire.

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Debussy comprese tanto bene, del resto, le limitazioni imposte alla sua arte dalla concezione etica prevalentemente seguìta nei primi venti anni di attività artistica, che volle uscire dal troppo angusto recinto nel quale si era volontariamente rinchiuso.
Uomo di genio, non dovette essergli difficile convincersi che, per un artista, ripetersi è morire. E poiché, come è giusto e naturale, egli non voleva morire, cosi lasciò ai suoi molti imitatori la gioia di ripetere all'infinito ciò che aveva già detto e la cura di dimostrare - per la maggior gloria del suo proprio nome - che ai «Debussisti» è sempre di gran lunga preferibile l'autentico Debussy. Egli cercò dunque per sé nuove vie, nuovi modi di espressione: ed ecco che, negli anni successivi alla comparsa di Pelléas, possiamo osservare un graduale abbandono dei poeti fin allora prediletti e prescelti per le sue liriche, ordito prezioso a sottili trame musicali, ed una tendenza sempre più sensibile verso altri poeti ed altre poesie, i vecchi poeti, le vecchie poesie di Francia. Nel 1904 Trois chansons de France (due Rondels di Charles d'Orléans e la Grotte di Tristan Lhermìte); nel 1908 Trois chansons de Charles d'Orléans; nel 1910 Trois ballades di François Villon e Le promenoir de deux amants di Tristan Lherrnite; ed ecco che il nostro musicista non chiede più gli argomenti delle sue opere future al nebuloso teatro maeterlinckiano, ma alle novelle del Poe, nelle quali l'uomo appare dotato di una «volontà focosa e paziente» - per dirla col Baudelaire - che «lancia una sfida alle difficoltà più irte», oppure a quella sublime leggenda medioevale di Tristano e Isotta, la quale racchiude in sé tanta parte dell'immortale poema umano, Amore, ed è tutta vibrante di musica:

La reine chante doucement,
la voix s'accorde à l'instrument,
les mains sont belles, le lais est bon,
Douce la voix et bas le ton...

tutta delirante di una passione che, espressa con vigore meraviglioso nel ritornello tristanesco

Isot ma drue, Isot ma mie
En vous ma mort, en vous ma vie.

avrebbe dovuto trovare nella interpretazione debussiana accenti ben più forti di quello prestato - ad esempio - dal musicista a Mélisande nel momento culminante in cui questa confessa a Pelléas il suo lungamente taciuto amore.


Non breve il cammino, certamente, e difficile il trapasso dalla vecchia maniera - tutta avvolta da nebbie e da penombre crepuscolari - a questa nuovissima, a noi rimasta - nelle sue forme definitive - sconosciuta, che avrebbe dovuto esprimere non più un blando azzurrino sogno ma la forte, la rossa vita; e come all'inizio di questo cammino noi troviamo i vecchi poeti di Francia, con la loro umanità semplice e profonda insieme; e come alla meta, cui il viandante non poté giungere, sapevamo essere le strane angosciose vicende immaginate dal Poe, così a mezza strada - significativa ed eloquentissima stazione intermedia - noi troviamo la musica scritta dal Debussy per quel Martirio di S. Sebastiano, nel quale sogno e realtà, misteriose forze oltremondane e fortissimi eroi nati di donna, tragedie di uomini e serena poesia delle cose talvolta si compenetrano e si fondono, tal'altra cozzano fra loro.
Disparità grande di elementi costitutivi e conseguente assenza di un preciso carattere - sacro o profano, reale od irreale - nell'opera dannunziana. E questo, che nel poema è fonte di bellezza e di varietà, avrebbe rappresentato - per qualunque musicista un grave ostacolo. Non così pel compositore di S. Germain che, trovandosi in un periodo di evoluzione, di transizione da una maniera ad un'altra, dovette vedere proprio in questa non ben definita fisionomia del poema come lo specchio del suo stato d'animo e la migliore occasione per saggiare discretamente, senza impegnarsi a fondo, le sue forze per il domani - e per misurare quanta fosse la sua libertà rispetto al prossimo passato.
Queste ragioni ci fanno riguardare con speciale interesse la musica del S. Sebastiano; per queste ragioni credo non inutile osservare un po' da vicino quest'opera, sintomo precursore della nuova maniera ed ultima parola detta - nell'àmbito della musica drammatica - dal compositore francese.
Dovuto alla collaborazione di due diversissimi ingegni: guardiamone dunque, prima del commento sonoro, la fonte letteraria ispiratrice del Debussy.

***

Il nome del Maestro di Dante, rievocato, nel prologo del Martirio, dallo stesso D'Annunzio, «questo esule Fiorentino, che in lingua d'oli balbetta, come il buon Brunetto Latino», non deve essere stato suggerito - a qualche lettore od ascoltatore francese - solo da questo richiamo, ma anche da certa analogia che - senza voler in alcun modo confrontare il valore estetico e letterario dell'opera dannunziana con quella latiniana si può osservare fra Il Martirio di S. Sebastiano e quel Trésor che Brunetto volle scrivere «en romans selonc le langage des François... car nos somes en France, et... por ce que la parleure est plus delitable et plus commune à toutes gens».
Analogia - come dire? - di contenenza di erudizione: e parlo, si capisce, della pura quantità, non della qualità.
Certo si è che, come Brunetto Latini fece stupire le genti con la sua «arnia di méle tratta da diversi fiori», nella quale le dottrine di Aristotele e Tolomeo, e la Politica e la Retorica e le Istorie di Dio, dell'Uomo, del Creato sono spiattellate in rima con una disinvoltura più unica che rara, così il nostro Poeta abruzzese dovette épater più d'uno dei suoi ascoltatori parigini - non avvezzi come noi alle sue opulente e fantasiose rievocazioni storiche - con la somma di sapienza di cui dà prova nel S. Sebastiano.
Egli mostra di saperla molto lunga, in fatto di tradizioni cristiane e pagane, di magia, di astronomia, di astrologia, di demografia, eccetera; ed inutile dire con quanta arte e con quanta ricchezza di immagini sappia presentare il suo fardello di scienza. Egli la sa tanto lunga, che riesce a far andare su tutte le furie qualche critico francese, il quale non esita a trattarlo con pochissima urbanità forse per consolarsi di non essere riuscito a rintracciare, nella letteratura del Medio Evo, la fonte vera di questa nobile opera d'arte. Fonte che - secondo la mia modestissima opinione non deve ricercarsi nelle narrazioni intorno a S. Sebastiano attribuite a S. Ambrogio (come hanno concordemente ritenuto i critici francesi e come anche il nostro grande Novati ha creduto di poter arguire scrivendo, però, prima di conoscere il mistero dannunziano - febbraio 1911, nella «Lettura» - ma piuttosto in quella veramente aurea Legenda Sanctorum - dovuta alla fervida fede ed alla candida anima del Beato J. da Varazze (de Voragine) che, nel paragrafo dedicato alla vita di S. Sebastiano, comprende quasi per intero lo schema della moderna finzione teatrale ed il germe di tutte le scene più importanti - passeggiata sui carboni ardenti ed apparizione dei sette Serafini e Camera Magica comprese - del Mistero dannunziano (*)
Quello che più colpisce nell'opera del nostro Poeta è la magistrale rappresentazione di quel caotico mondo romano dei primi secoli dell'Era Volgare, nel quale le vecchie civiltà pagane cozzano violentemente con la nuovissima cristiana appena nascente; e gli Dei sembrano accorrere d'ogni dove come per riunirsi in un supremo convegno e per combattere una suprema battaglia, prima di morire. È un mondo dove gli spiriti sono tormentati dalla più ardente sete di misticismo, e gli animi sono pronti ad accogliere le religioni orientali più diverse, e ad abbandonarsi ai culti più strani. L'Oriente preme sull'Occidente, e cerca di penetrarlo.

Su questo sfondo grandioso, che allarga smisuratamente il significato allegorico del dramma, campeggia la figura del Santo.
Non è questa, certamente, la più simpatica che ci apparisca dinanzi, fra tanta folla di persone. D'Annunzio, nel presentarla e disegnarla, ha tutta l'aria di voler dare pienamente ragione a quegli empi che giudicano i Santi, i Martiri, i Veggenti come altrettanti soggetti istero-epilettici. È vero che il Poeta, per aver scelto a priori la protagonista in una ballerina - Ida Rubinstein - era costretto, spinte o sponte, a fare di Sebastiano un Santo molto danzante. Ma insomma questo Difensore della Chiesa balla troppo; e forse questa sua sfrenata voglia di muover le gambe finisce col rendere poco fermo anche l'animo suo che, davanti al Concilio dei falsi Iddii, tentato dagli allettamenti di Diocleziano Imperatore già apparecchiantesi ad inneggiare ed a sacrificare al bellissimo Arciere come ad un nuovo Dio di Roma, è lì lì per cadere nella trappola, ed abbandonare il Cristo e tutti i suoi apostoli, e ricadere nel più pagano dei paganesimi.


Nella prima «Mansione» - così il Poeta nomina gli atti per richiamarsi agli antichi «Misteri» - La Corte dei gigli, si vedono i due gemelli Marco e Marcellino attendere il supplizio di cui li ha resi meritevoli la confessata fede cristiana. La scena è ingombra di una folla varia e ciarliera, nell'aria è diffuso un senso di mistero e di aspettazione. Invano Vitale - il figliuolo del Prefetto - minaccia ai fratelli condannati tormenti fierissimi: invano la madre, le sorelle, il padre vengono a supplicarli. Essi resistono, e se l'uno vacilla, ecco Sebastiano richiamarlo con parole di fuoco alla fermezza, ed ecco - fra il tumulto della folla pagana - la madre, le cinque sorelle, più tardi lo stesso padre dei condannati unirsi ai gemelli nella fede e nel destino.
Un uragano passa nei cuori della moltitudine. Gli Arcieri di Emesa, i fedeli di Sebastiano, deprecano che il loro Duce possa macchiarsi della colpa fatale: l'un d'essi lo ammonisce che fino a che egli, Sebastiano, impugni l'arco di Emesa e rechi sulla spalla la faretra «dai diciotti dardi», non potrà. E Sebastiano si libera dall'arco e dalla faretra, non prima, però, di aver scagliato un dardo verso il cielo chiedendo «Dio, ti domando un segno, se ne son degno». Il dardo non ricade (come in un dramma indiano di Angelo De Gubernatis). L'aria si riempie di suoni misteriosi, di canti, di profumi. L'anima del Santo è preda all'esaltazione mistica: egli darà ai fedeli ed agli infedeli un nuovo, più luminoso segno della grazia divina, e danza la «Danza estatica» sui carboni ardenti come sovra un tappeto di fiori, mentre sette fasci di gigli, posti fra gli intercolunnii, si illuminano di una luce abbagliante, e fioriscono dalle loro corolle sette Serafini - e tutta la folla è presa da terrore sacro - e «tutto il Cielo canta».

La seconda «Mansione» - La Camera Magica - ci fa assistere alla lotta sostenuta dal Santo contro le nemiche forze occulte, simboleggiate da sette Maghe le Maghe dei Pianeti - avvinte con auree catene a sette cippi coronati di fuochi policromi; e dalla invisibile Erigone, l'amante di Dioniso, che di dietro alla inviolabile porta di bronzo fa udire la sua canzone e parla a Sebastiano come se lo vedesse, paragonandone la bellezza a quella del «Dio balzante che agita il tirso». Invano il Santo impone alla «Vergine dalla spiga d'oro» di aprire le bronzee porte, essa non può. Invano egli ed i suoi accoliti tenteranno di abbatterle, come hanno abbattuto centinaia di idoli e di altari: la Camera Magica è come l'estrema rocca nella quale si asserragliano le forze avverse. Non furia di iconoclasti, non fascini di scongiuri potranno aprirne le porte.
La folla tumultua. Mentre i liberti di Andronico dicono le meraviglie create e racchiuse dal Mago Setar nell'inaccessibile Camera, cento e cento schiavi non bene sicuri della loro fede supplicano Sebastiano che dia loro un segno - per la loro fermezza - e ricordano gli innumeri miracoli del Cristo. Ed ecco che mentre questa valanga di implorazioni di una povera umanità avvilita dal dolore, calpestata dal destino, incapace di intendere chiaramente quali siano la «salute» e la «gioia» che le vengono promesse, si riversa sul Santo e lo fa delirare e lo fa piangere d'angoscia, ecco che appare la più ammirevole fra tutte le figure del dramma, il simbolo più alto e più potente che sia contenuto in questa poetica urna di simboli: la femmina febbricitante.
«Nel mio sonno ho vissuto quel che ora dico con la mia lingua di carne» (cito qui ed altrove la traduzione di Ettore Janni), essa avverte. Essa è colei che, cento volte reincarnandosi, cento volte ha peccato: ma amore è la sua colpa e amore sarà la sua salvezza. Essa è l'allegoria vivente di tutto il dolore onde fu afflitta l'umanità dal giorno della creazione: e il grave fardello curva le sue povere spalle, ed ogni dl le sue tempie sono percosse da una febbre nuova.
Essa rievoca, attraverso la catena degli angosciosi ricordi, la catena delle sue angosce - «Ero madida e fredda nella mia febbre, a volta a volta come nella schiuma e nella cenere. Fra le mie labbra livide avevo la Sua amarezza e la mia sete. E, benché il sangue mi fosse nelle tempie e nella gola come un tuono incessante, udivo in me stesso il rumore della macina, come se solo la vita dell'anima mia, non l'orzo, fosse stritolata dal granito» - e l'anima della donna delirante esce purificata dal lungo martirio, si innalza in un'estasi di dolore e di amore... e si mostra, affine, degna di portare - e di rivelare alla folla attonita il sacro deposito del Lenzuolo di Cristo. «Ecco la mia vita, ecco la mia morte». Essa è libera finalmente, essa è redenta, essa è Santa.
Il lungo Lenzuolo viene dispiegato: e mentre una luce mistica illumina tutte le fronti piamente inchine, e mentre i due Santi mostrano alla moltitudine le impronte lasciate sulla tela dal corpo insanguinato del Redentore, una voce celeste - proveniente da là dove prima risuonava la voce della pagana Erigone - intona il più dolce e puro canto cristiano. Crollano le catene che legano ai cippi le sette Maglie planetarie, si schiudono le porte di bronzo della Camera Magica. Il prodigio meraviglioso si è compiuto: uomini e cose sono come avvolti da un sogno «senza principio e senza fine».
Nella terza «Mansione» - Il Concilio dei falsi Iddii - Sebastiano non dovrà lottare contro le, oscure forze della magia e delle deità avverse, ma contro il ben più temibile nemico che si nasconde nel suo stesso animo, contro il tentatore orgoglio.
Fra Diocleziano e il Santo si combatte il feroce duello: Diocleziano ama ed ammira il valoroso capo della sua coorte di Arcieri, ma non può perdonargli la fede in Cristo; e dopo averlo minacciato dei supplizi più crudeli cerca di vincerlo con l'offrirgli la incoronazione solenne quale Pontefice di un Dio che potrà scegliere fra tutti gli Iddii presenti, raffigurati in innumerevoli simulacri. Ma Sebastiano ha già scelto: «Colui, colui che tu chiami lo schiavo rosso, il monarca d'un giorno, il re sanguinante, io l'ho scelto con tutta l'anima mia, oltre l'anima mia».
Egli bestemmia Apollo; e quando l'imperatore comanda ai citaredi di intonare l'Inno, il Santo interrompe il Peana, spezza le corde della grande cetra sacra al Dio Febo e - poiché ha troppo amore sul labbro per poter cantare - egli danzerà, al suono di un'altra lira le cui armonie già si diffondono misteriosamente per l'aria, egli danzerà la Passione del Giovane asiatico, del Principe suppliziato.
«Coi passi, i gesti, gli atteggiamenti... il Confessore esprime l'alto dramma del Figlio dell'Uomo intorno alla clamide stesa, come intorno a una spoglia sanguinosa. A intervalli gli spiriti della musica lo dominano e lo piegano come il fiume piega la canna e il salice»... «Il sudore mortale e il sangue nero e i sussulti del supplizio» - questo esprime il Santo con la sua danza.
Le donne siriache, dimentiche del vero, credono di ravvisare in Sebastiano il loro Dio ermafrodito - e nasce cosi, dinanzi alla finzione cristiana, nasce e si innalza ancora l'inno pagano, mentre una voce sola risponde al coro con altri accenti, con altre parole. L'Arciere, avvolto dai suoni e dai canti, tutto preso dall'azione mimica nella quale trasfonde l'anima intera, è ansante, si smarrisce, trema di un terrore inesplicabile. Dice: «Voi cercate il Crocefisso. E perché cercate fra i morti colui che è vivente? Ora Egli è là, eretto». Ed egli stesso, Sebastiano, è eretto come se fosse risorto dalla tomba - ed è bello come un dio.
Le donne siriache gridano: - «Il dio! il dio!... Ei si è levato» e Diocleziano imperatore fa eco: «È un Dio, è un Dio! ». Il passaggio, di un ardimento unico, è magistrale.
Qui si riaccende la lotta fra le potenze avverse. L'Imperatore, ebbro di prodigio e di sogno, vuole deificare il giovane: gli consacrerà un tempio, e sacerdoti, e tesori. Sebastiano, abbagliato dalla luce che egli stesso ha sprigionata, vacilla e trema davanti al Tentatore che si avvicina. Egli riceve nelle mani la Vittoria d'oro, il «simulacro della dea che sola rompe l'incertezza della battaglia». L'Augusto si abbandona alla gioia del trionfo. Echeggia il coro orgiastico in onore del nuovo Dio.
Ma il grido del Santo risuona finalmente e fa tacere tutte le voci, e dice di chi sia la vera vittoria, dopo l'asprissima lotta silenziosa: «Gesù, Gesù, Gesù, a me! Aiuto, Signore! Soccorrimi, o mia forza, o mia fiamma, o mio Re». L'Augusto, dopo il primo momento di furore, si domina e comanda che il Santo sia disteso sopra la sfregiata cetra di Apollo e quivi soffocato «sotto le corone, le collane, i fiori, la musica, l'oro, i desideri, i compianti, perché egli è bello». E il coro siriaco riprende la lamentazione adonica:

Discende alle Porte Nere
Tutto che bello, il tristo Ade
L'inghiotte. Rovesciate le torce.
O Eros! Piangete.

Ma non di morte profumata morrà l'Arciere. E nella quarta Mansione che noi assistiamo alla sua dipartita dal mondo. Qui è l'episodio più commovente e più umanamente alto del dramma.
Gli Arcieri di Emesa non vogliono obbedire all'ordine imperiale, né tendere gli archi contro il loro Duce amato. Vogliono invece scioglierlo dai lacci che lo tengono avvinto al tronco del lauro «più bello », vogliono salvarlo.
Ma il Santo cerca la morte perché questa sarà la sua salute.

- «Conviene che la mia sorte si compia, che mani d'uomini mi uccidano.»
- «Signore! Signore! »
«Le vostre mani fraterne.»
- «Noi spezziamo gli archi»
- «Tendeteli! Dov'è il vostro amore? ».
Il Santo ha una visione: il Buon Pastore, recante sulle spalle il mistico agnello, appare fra i rami dei lauri; e, come esso scompare, «l'ombra del Crocifisso si stende sul lauro fatidico.»
La sua volontà di morire diviene ansiosa. Egli comanda ai suoi Arcieri: «Ogni freccia è per la salvezza, perché io possa rivivere. Non tremate, non piangete. Ma siate ebbri, siate ebbri di sangue come nelle battaglie. Mirate da presso. Io sono il segno... Dai profondi, dai profondi, io chiamo il vostro terribile amore.»
E qui finalmente gli asiatici, mentre risuona e si avvicina il coro lamentevole delle Adoniasti, cominciano a scagliare le frecce contro il loro Duce che ancora ne chiede, sempre ne chiede, finché gli rimangano voce e spirito.
Il coro siriaco sopraggiunge: le donne sciolgono il bel corpo inanimato dai lacci. Un nuovo miracolo si compie: tutte le frecce rimangono infisse nel tronco del lauro.
Si forma il corteo funebre e si incammina verso la città al canto delle lamentazioni Adoniastiche (quelle buone donne siriache non volevano proprio credere alla cristianità di Sebastiano).
Ad un tratto una luce abbacinante sfolgora, un grido si leva, il canto pagano tace, questa volta per sempre.
Le porte del Paradiso sono aperte al Santo. Appare i giardino della «chiarità e delle beatitudini», si odono cori di Martiri, di Vergini, di Apostoli, di Angeli.
L'anima di Sebastiano è assunta nel Cielo.

***

Su questo vastissimo tessuto, ricco di colori, di spunti decorativi e di disegno come un broccato antico, Debussy ha ricamato qua e là, sovra un fiore o nelle volute di un arabesco - sul fondo o sui contorni, la sua musica: che non segue, è inutile avvertirlo, il dramma in tutti i suoi momenti, ed anzi si tace quando gli uomini parlano un linguaggio dettato da passioni terrestri, per interloquire, di preferenza, o «intonare» ambiente e persone quando queste abbiano le anime rapite nei sogni di misticismo; musica che non assurge quasi mai, dunque, all'importanza di punto centrale della nostra attenzione - ma che rimane appartata, in una sfera un po' lontana, più «complemento» che «soggetto»; e son proprio qui il suo valore decorativo, la sua importanza rispetto al passato e all'avvenire dell'arte debussiana, il suo carattere di transizione da una maniera ad un'altra, che tanto ci interessa.
Pensando al complesso dell'opera, con tutti i suoi elementi poetici e musicali, sembra veramente di vedere una grande vetrata nella quale il Poeta abbia dipinto scene dai colori vivacissimi e dai toni chiari, rese più forti dalle sinuose reti dei piombi - e scene dai toni bassi e sobri nelle quali i piombi spiccano appena; le prime ricchissime, abbaglianti di luce, le seconde dense di ombre e di mistero: ed a queste il compositore ha adattato la sua musica, non per diradarne le ombre o per svelarne il mistero: ma quasi per far immaginare - al di là dello schermo di vetri colorati e di piombi - un'altra inestinguibile luce, oltre a quella fugace del giorno; un altro mondo lontano e sereno ed amplissimo, oltre a quello tormentoso dei viventi.
L'atmosfera musicale del Martirio è molto lontana dall'impressionismo e dal naturismo. Il musicista non è ancora entrato nel cuore pulsante degli uomini, ma osserva già i fremiti di questo cuore dinanzi ai misteri della religione, e cerca di interpretare ed esprimere gli effetti del misticismo sull'anima dell'immenso gregge che ha tanto bisogno di credere in un oltrevita per poter vivere la sua vita nel mondo. Non è ancora l'appassionato, penetrante, doloroso sguardo affondato nelle più intime latebre dell'essere umano - ma non è più il disdegno dell'uomo. Certo il passo è grande assai, e molto divergente è la via da quelle consuete.
Questo mutamento di concetti ispiratori, che pur non essendo compiuto è già cosí profondo, fa sì che la musica prenda forme più precise e più definite. Il discorso diviene più largo nel respiro, più ampio nel suo periodare; l'armonia cessa di essere considerata come elemento predominante nel giuoco della totale espressione o addirittura come fine a se stessa; i disegni ritmici non hanno più l'apparenza di voler signoreggiare sull'economia dell'opera: gli stessi impasti orchestrali, pur mantenendosi ricchissimi, non sono più adoperati per il solo piacere di «far del colore» o di assaporare, con decadente sensualità, un peregrino e raffinato amalgama di timbri. Tutto assume un aspetto più grave e logico - tutti gli elementi riprendono il posto che è ad essi assegnato dalla loro stessa natura l'equilibrio si ristabilisce. L'Idea immortale, plastica, di ben definito disegno, la prima generatrice di ogni durevole bellezza riafferma, nelle intenzioni almeno, la sua supremazia sullo sfumato delle brume e sul fascino delle atmosfere crepuscolari.

***


Nel preludio a «La Corte dei Gigli» un largo disegno affidato ai legni dell'orchestra - trasparente e leggero nella disposizione strumentale - doloroso nella sua espressione, ma di un dolore raccolto e sereno e composto; simile, talvolta, nel suo effetto, ad un fascio di voci celesti vaganti di conserva per l'aria, già dispone l'animo nostro alla visione di quadri nei quali le forze oltremondane avranno larga parte; ci avverte che non solo il visibile Uomo sarà animatore del dramma, ma anche l'invisibile Dio; è la parafrasi musicale della esortazione espressa nel prologo dal Poeta: «...siate raccolti, in presenza di Dio, come nella preghiera: perché saprete qui, per Mistero, la santissima sofferenza di quel martire adolescente che attinge eterna giovinezza alla fontana del suo sangue»...
E la voce calda e dolce di sei corni che si rispondono l'un l'altro snodandosi come in un arpeggio, nel quale ognuno di essi è ad un tempo movimento ed immobilità estatica (v. es.)

ci fa già sentire in qual modo gli uomini invocheranno il nome del Santo; ed un oboe canta una melodia, dolorosa anch'essa, ma anch'essa pura e serena; esile e modesta come il timbro dello strumento cui è affidata, ma sviluppantesi in modo inconsueto a questo musicista che ci ha avvezzati al periodare brevissimo ed ai disegni melodici e ritmici «a ripetizione.»
Cosi, quando - apertosi il velano - i due gemelli Marco e Marcellino cantano «verso il cielo», la musica sembra tutta ispirarsi ai due versi

Nell'anima mia il tuo cuore è greve
come la pietra nella fromba.

Tutto il brano è soffuso di melanconia e di un senso di profonda stanchezza. E se il Poeta fa dire ai due martiri «Io lo peso (il tuo cuore): di là dall'Ombra verso il Grande Giorno io lo scaglio», il musicista non lo segue nel gesto; e se i condannati dicono «Ferro non mi sgomenta, fuoco non mi doma», nulla di eroico è nella musica: il senso della uguaglianza, della unità di espressione ha bene guidato il compositore. Egli non esprime più, come una volta, le vibrazioni, i fremiti superficiali e mutevoli dei mobilissimi nervi umani - egli esprime ora uno stato d'animo che ondeggia fra la terra e il cielo, ed intuitone il carattere arcano e raccolto a questo intona la sua musica.
La stessa intenzione di interpretare e rendere col linguaggio dei suoni non le impressioni epidermiche e le manifestazioni esteriori delle «persone», ma il loro stato d'animo profondo - che può essere di estasi e di stupore anche se le parole esprimono turbamento od agitazione - lo stesso studio di scendere oltre la superficie si avverte più di una volta nella musica del S. Sebastiano. Quando, ad esempio, il Santo confessa, dinanzi ad Andronico o alla folla, la sua fede cristiana e scaglia la freccia contro il cielo chiedendo un segno», e si libera quindi dalle armi e dalle insegne del comando, gli Arcieri di Emesa lo chiamano a gran voce, quasi per ricondurlo alla realtà ed alla vita:

«Sebastiano! Sebastiano! Sebastiano!

Gridano le gole, nell'intenzione del poeta - ma il musicista pensa che, per quanto ruvidi e duri, gli animi di quegli uomini debbono esser preda del turbamento più profondo e della più grande meraviglia nel sentire questo giovane che inneggia ad una Libertà da essi ignorata, che benedice un Dio che essi non conoscono. E il grido del poeta si trasforma - attraverso l'interpretazione del musicista - in un mormorio sommesso, nel quale non i nervi sovraeccitati, ma le anime parlano, e dicono il loro stupore, il loro smarrimento, la loro ammirazione. Ed è tanto vero che questo motivo - che abbiamo già udito preannunziare dai corni nel preludio - suona lode al Santo, e non richiamo brutale al dispregiatore degli Dei romani, che dalle voci degli uomini esso non tarda a passare alle voci lontane e vaganti degli angeli (v. es. a pag. 228) come un'eco che si ripeta all'infinito nei cieli, mentre ritorna il canto doloroso e sereno dell'oboe e mentre Sebastiano, trasportato dal suo furore mistico, si appresta alla danza del fuoco ed invoca la fiamma dalle scintille simili ad «api inebriate ».

Nel secondo atto un preludio che non desta alcun interesse ed il brutto Erigoneium melos - che ad onta degli svolazzi del canto e dell'orchestra non riesce mai a farci apparire Erigone come la «sorella della rondine», e sembra anzi muoversi con impaccio, povero nell'ispirazione, faticoso nello sviluppo - non bastano a farci dimenticare la pura bellezza del «Canto della Vergine» che si innalza dalla Camera Magica mentre le porte bronzee prodigiosamente si aprono.
È questa una pagina ispirata e commossa nella quale l'estrema semplicità della linea sì disposa ad un attento studio di rendere il sentimento della poesia, di aumentarne il fascino, di farci intendere - attraverso la nobiltà grande della melodia - quanto alta sia Colei che canta. Anche qui il disegno è ampio e bene sviluppato - non sempre originale nelle sue movenze, e

neppure molto ricco di ombre e di luci - tale, ad ogni modo, da risvegliare impressioni di grande serenità e di tranquilla mestizia.

Ma il momento in cui la musica del S. Sebastiano assurge alla sua altezza maggiore è nell'atto terzo.
Quanto la «danza estatica» è povera e scialba, tutta piena di incertezze, sempre ondeggiante fra le vecchie maniere care al musicista e la nuova non peranco raggiunta nella sua pienezza, deturpata da reminiscenze wagneriane che male si sopportano in un così vivace antiwagneriano, altrettanto è bella e forte la musica che guida la seconda danza del Santo, quella esprimente la Passione del Cristo.
L'audacia grande della situazione scenica, l'aspetto poco edificante di questo Santo che si trasforma in mimo anche nei momenti meno propizi, lo sforzo compiuto dal drammaturgo per introdurre nell'azione un elemento di varietà e di effetto teatrale, tutto ciò che vi è di ostico e di artificioso nel dramma viene eliso dalla musica, non solo: ma questa, con la profondità della sua espressione, con la grandezza del dolore onde è tutta innalzata e commossa, con l'eloquenza degli accenti, dei disegni melodici, degli impasti armonici ed orchestrali, esce qui dalla sua sfera secondaria e diviene la vera protagonista dell'azione. Ed è giusto che sia così, perché essa, la musica, esprime e canta e rivive la dolorosa Via Crucis prima, la Resurrezione, poi; mentre Sebastiano non è che un'ombra la quale segue e ripete - deformandole - le movenze del supremo poema del dolore e della vittoria.

La voce umana aggiunge a questa fortissima pagina di musica orchestrale vigorosi accenti, magnifici colori. Le Donne di Biblo, sebbene continuino a vedere in Sebastiano non il Santo seguace di Gesù, ma il bellissimo loro Adone, non si sottraggono all'immane onda di desolazione che tutti sommerge, ed un sospiro lamentevole esala dalle loro anime piangenti:

Anche nell'uso delle voci troviamo i segni del nuovo Debussy. Egli non avrebbe così espresso, in altri tempi, l'umana sofferenza, come non avrebbe dettato una così appropriata declamazione melodica - così parallela al senso delle parole - là dove la vox sola preannuncia, nell'attimo stesso della morte, la nuova e imperitura vita, e dove la musica aderisce perfettamente alla poesia ed al momento drammatico, aumentandone la suggestione con brevi silenzi che la dolce eco risvegliantesi nell'anima dell'ascoltatore deve riempire.

Altra pagina profondamente espressiva è quella che accompagna, nell'atto quarto, l'apparizione del Buon Pastore. Qui ritornano motivi già uditi nel preludio alla «Corte dei Gigli» e nella «Passione», ma l'istrumentale si fa, se è possibile, ancor più vago e delicato. Tutti i colori impallidiscono ed i contorni del disegno sembrano svanire in una rosea nebbia di irrealtà. È un puro giuoco di timbri e di impasti - poiché il contenuto musicale non è mutato - ma è un'altra prova del come si mantenesse ricca la tavolozza dell'artista anche quando egli voleva togliersi dalle vie che gli erano state consuete.
Il coro siriaco - greve di stanchezza - che fa pensare a certe notti d'estate senza aria, senza luce, senza respiro - originale e di molto effetto nella disposizione delle voci, che riproduco (pag. 232), suggestivo anche, per la sofferenza quasi fisica onde è tormentato, sofferenza senza possibile conforto né speranza, dolore di pagani incapaci di intendere quale vita sia nata dalla morte che essi piangono - chiude la «Mansione» del «Lauro ferito».

E chiude, si può dire, ciò che vi è di musicalmente notevole nel Martirio di S. Sebastiano, perché gli ultimi cori a voci sole («Il Paradiso»), dettati nello stile severo, non portano nell'ispirazione e nella tecnica nessun segno che li distingua e nessuna traccia della paternità illustre che hanno avuta.

***

Bisogna concludere; ma non è difficile, sebbene l'ottimo e il men che buono siano frammisti in questa, che è opera, come ho detto, di transizione: e non si possa, dunque, chiudere il ragionamento inneggiando al «capolavoro» come, per esempio, hanno fatto molti critici francesi. La musica del Martirio di S. Sebastiano non può far pensare, a chi la studi con serenità, ad un capolavoro; ed è inutile dirne il perché dopo il lungo esame che ne abbiamo fatto e durante il quale ci siamo imbattuti, appunto, in pagine dal valore disparatissimo.
Ma, per grazia del cielo, io non mi sono accinto a questo esame con la speranza, o per la necessità di trovare in Sebastiano un fratello in tutto degno di Melisanda; ma solo per cercare di cogliere, in questo lavoro, i nuovi atteggiamenti, il nuovo orientamento dell'arte debussiana. Non mi sono soffermato lungamente su osservazioni tecniche, e di proposito. La tecnica, il «mestiere» sono il mezzo indispensabile al concretarsi dell'opera d'arte, e specialmente in un artista tendente alla trasposizione, alla astrazione e al simbolo come Debussy. E l'idea madre, è il punto di accensione che interessa; è il contenuto ideale che, solo, ha valore permanente e che racchiude in sé qualche cosa di eterno e di immutabile. Tutto il resto - forma, modi di espressione, procedimenti, formule, cifre, ricette, stramberie, novità, virtuosismi ecc. - può decadere, può essere sorpassato, è, ad ogni modo, soggetto ai capricci della moda, al rapido mutar dei tempi, alla crudele - ahi quanto crudele! - infedeltà dei gusti degli uomini.
Chi si ricorderebbe del Tancredi di Rossini, se questa non fosse, per dirla col Novati, «la prima opera italiana che celebri l'onore moderno, dove il desio della gloria tiene il posto che teneva prima l'amore»? Quale interesse presenterebbero - per i nostri spiriti straordinariamente evoluti e coscienti, per i nostri gusti di gente vissuta, furba, raffinata - certe tavole e certi affreschi di tanti preraffaelliti, se non fossero l'idealità pura e la commozione sincera e profonda - ancor oggi vibrante - di quegli artisti a farcele tanto amare ed a farle vivere di una sempre giovane vita?
Quel che importa dunque notare è che l'idea prima generatrice - il contenuto morale e filosofico sono mutati nel S. Sebastiano, rispetto alle opere anteriori. Non è più l'arte che si appaga di essere «la più bella fra le menzogne»; è l'arte che incomincia a cercare ed a preoccuparsi della verità, della vita reale, dell'umanità, e che, abbandonato il «teatro del sogno», si accinge a creare un altro teatro «vivo, pieno di concitazione e di passione - così avverte lo stesso Debussy - con cui Pelléas et Mélisande non avrebbe nulla a che vedere».

E un bel virar di bordo, senza dubbio; ma non è la dichiarazione di fallimento che vorrebbero alcuni, e non è la sconfessione di tutto un glorioso passato. È il gesto sincero e coraggioso di un uomo il quale, avendo prima fermamente creduto in un ideale, ed avendolo ritenuto sufficiente ad alimentare tutta una vita artistica, si accorge un giorno che questa fonte alla quale ha voluto attingere - e che credeva, almeno per sé, inesauribile - è molto più magra e povera di possibilità dell'altra, che da molte migliaia di anni disseta gli uomini innamorati del bello, ispirando loro una serie infinita di capolavori eterni. È un ritorno, non definitivo ancora, non completo, alle antiche inestinguibili sorgenti morali filosofiche ed estetiche dell'Arte.
Ed appunto perché l'opera che ci è stata lasciata come maggior sintomo - e non come espressione compiuta - di questo ritorno e di questa nuova tendenza, non è opera definitiva, così un giudizio definitivo non può esser dato, né si può dire se la nuova maniera avrebbe raggiunto la stessa perfezione di risultati dell'altra, né se le forze dell'artista sarebbero state sufficienti a risolvere il nuovo problema ed a trionfare dell'anima dell'uomo come avevano trionfato dell'anima delle cose.
Quello che si può stabilire con certezza è l'avvenuto mutamento d'indirizzo. Quello che dev'essere messo in rilievo è l'ammonimento severo rivolto dal compositore di Saint-Germain ai musicisti d'ogni paese e quanti italiani, purtroppo, fra questi! - che credettero di vedere in lui un nuovo Messia e gli si misero alle calcagna. Ma l'ammonimento è rimasto per costoro - fino ad oggi, almeno - senza eco e senza effetto. L'errore si perpetua, e si perpetua perché fin dal suo primo apparire l'arte del Francese fu male compresa nella sua più intima essenza e nel suo più profondo contenuto.

***

Debussy volle essere un solitario, e non lo fu. L'internazionale pleiade degli imitatori e dei seguaci gli si affollò subito intorno, e la maggior parte di essi non vide il molto che vi era di sano, forte, degno davvero di esser meditato ed assimilato nella sua arte; e la fraintese - o ne intese solo il peggio - la falsò, ne fece ludibrio in cento caricature.
Se è argomento di gioia, per chi abbia il lume degli occhi, il vedersi seguito da una folla di ciechi, molto deve aver gioito l'artista ora scomparso nel vedersi alle spalle una cosi lunga teoria di accoliti che lo rincorrevano senza neanche sapere dove andassero e dove fossero condotti. Ma io penso che, più che di gioia, debba essere stata, questa, una ragione di profondo sconforto per il Debussy, il quale - come tutti gli artisti coscienti - sapeva perfettamente, e ne diede la prova, quali fossero i limiti e le possibilità della sua arte, ed avrà dovuto pensare che molto male era stata compresa ed apprezzata, se intorno ad essa si era subito riunita una cosi grande folla di vuoti imitatori.
Si volle vedere il «caposcuola» dove era un artista d'eccezione, troppo personale, troppo individuale, troppo bisognoso di solitudine per poter essere impunemente seguito.
Oggi il «caposcuola» è morto.
Quale voce ci giunge dall'Aldilà?
Non, forse, un inno di trionfo, perché la sua non fu arte trionfale, perché l'umanità non ha trovato nell'Artista scomparso l'interprete di nessuna delle sue più belle speranze e delle sue più alte fedi. Bensì un pacato accento di serena letizia, perché ben può esser lieto lo Spirito di un uomo che tanto ha dato - e con tanta purezza di gesto e di intenzioni - all'arte della sua Patria e del Mondo.
Ma se guardiamo alla folla raccolta e ferma, dopo il lungo ed affannoso cammino, intorno al suo sepolcro, vediamo rinnovarsi la tragica scena maeterlinckiana dei ciechi, rimasti senza guida nel più folto di una foresta, ed incapaci di uscirne.

Milano, marzo 1918.

(*) ...«Et pendant que Saint Sébastieri parlait ainsi, il se trouva entouré d'une grande lumière descendue du ciel, et on le vit soudain revtu d'un manteau étincelant de biancheur, avec Sept anges debout devant lui...».
...
«Alors il avoua qu'il possédait, dans sa maison, une chambre où était représenté tout le système des étoiles, et qui lui permettait de prévoir l'avenir...»
...«Alors, ayant fait le signe de la croix, il se mit à marcher sur les charbons ardents, en disant: "Il me sembie que je marche sur un lit de roses"».
(J. de Voragine, La légende dorée. Trad. T. de Wizewa).
Che io fossi nel vero quando, nel 1918, avanzavo questa ipotesi, me lo disse lo stesso D'Annunzio quando, accogliendomi nel 1926 al Vittoriale con la squisita amabilità che gli era propria, sùbito mi parlò del mio scritto sul Martirio di S. Sebastiano, che era stato pubblicato, lo stesso anno della morte di Debussy, ne La rivista musicale italiana di Bocca; e mi espresse la sua compiaciuta sorpresa che, fra tanti critici letterari specializzati, solo un musicista avesse colto nel segno, accennando alla Legenda aurea come ad una possibile fonte del suo Mistero (N. d. A., 1955).