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ROBERTO ZANETTI

ANTONIO SALIERI


GLI ESORDI

[Con] Antonio Salieri, almeno agli inizi, si può dire [che si] trovi un prosieguo l'antica civiltà veneziana che si contrappone a quella di Napoli. Egli è forse in questo senso l'esponente maggiore, dopo [Baldassarre] Galuppi, della seconda metà del Settecento, senz'altro il più in vista di quel gruppo di veneziani per nascita o per formazione (di cui fanno parte Vittorio Trento e Sebastiano Nasolini) che contende, invano, a Napoli il primato della musica teatrale in Italia. Gli esordi di Salieri riguardano l'ambiente viennese dove egli si trasferì fin dal 1766, al seguito di Florian Leopold Gassmann, e dove fu attivo prevalentemente fino alla morte.[1 - BIOGRAFIA]

Nel 1770, per il Burgtheater, compose ben tre lavori: due opere comiche e una festa teatrale [2] che rivelarono non un principiante ma un musicista dalla mano sicura, dotato di mentalità riflessiva come pure di un certo intuito teatrale. Specialmente Le donne letterate, lavoro che per primo lanciò il ventenne musicista, può ritenersi esplicitante una natura feconda capace di dare alle proprie intuizioni organicità senza perdere di vista le esigenze sceniche. Le dame letterate rispecchiano comunque il corretto e intelligente impiego dello stile comico del tempo, specie riferito ai principali musicisti veneziani, Galuppi e [Giovanni Battista] Pescetti (ma anche il [Domenico] Fischietti), e alle loro indicazioni in materia di comicità musicale. Da segnalare il tenue supporto alla vocalità portato da un accompagnamento volutamente semplice, secondo lo stile a cui Salieri aderiva, ma non avulso da una sua opportunità drammatica, come riferiscono vari addentellati con le situazioni sceniche.
Il 1771 vede Salieri impegnato in due lavori, uno comico e uno serio. Il primo lo avvicina per la prima volta a una lingua che non è l'italiano: in traduzione tedesca viene infatti presentata, sempre al Burgtheater, Die Mode oder Die häuslichen Zwistigkeiten, cioè La moda ossia I scompigli domestici del Cipretti [Pietro], una sorta di pasticcio ma con la stragrande maggioranza di musiche di mano del Salieri. Il dramma serio era invece quell'Armida che il Coltellini [Marco] aveva derivato dal Tasso, cercando di dare seguito a una sorta di riforma condotta nel solco di Gluck e Calzabigi, come poi gli riuscirà con l'Antigone musicata dal Traetta. Comunque quest'opera, andata in scena sempre al Burgtheater, il 2 giugno 1771, fu un evento considerevole e nel richiamare l'attenzione su Salieri, indusse a identificare in lui un autore che si muoveva, per la scelta dei soggetti come per l'angolazione stilistica, per la mentalità drammatica e per le significazioni espressamente perseguite [3], nella scia di Gluck.

D'ora in poi l'alternanza del comico e del serio caratterizzerà l'attività di Salieri. E così anche la più pausata fioritura di opere che non nei tanti autori contemporanei; cosa che fa pensare a un più studiato divenire della sua produzione teatrale, a una più cauta e meglio regolata creatività. E come se Salieri avvertisse la necessità di procedere nella via compositiva con maggiore attenzione, che non gli autori italiani del suo tempo, e al fine di assicurare appunto una maturazione graduale al suo mestiere d'operista. Ciò si avverte non solo nel taglio dei singoli numeri musicali, ma più in generale nel disegno che cerca di attuarsi lungo l'intera opera e che sembra obbedire a una propria logica e ricercare reali conseguenze; un disegno che comunque si deve ricercare e considerare, anche nei casi in cui la musica si abbassa di qualità o si avverte lo sforzo imposto da un libretto di non poi felice fattura. Rappresentano momenti di verifica, in senso positivo, La fiera di Venezia e Il barone di Rocca Antica, due lavori comici su testi, rispettivamente del Boccherini [Giovanni Gastone] - abituale collaboratore del Salieri durante il primo biennio d'attività - e del Petrosellini [Giuseppe], andate in scena nel 1772 (della prima si conosce la data esatta, il 2 giugno). Nella Fiera di Venezia - opera cui il Salieri guardava con particolare simpatia se nel 1779 la designò ad inaugurare a Milano il Teatro della Cannobiana - la successione delle arie sembra esporre un disegno ragionato fatto sull'ambiente che descrive e che sente di dover realizzare con scorrevolezza d'immagini e piacevolezza di tratti. Da notare in quest'opera l'uso frequente del parlato, elemento stilistico pertanto qui alle sue prime manifestazioni, svolto sopra eleganti movenze dei violini. Per il rimanente non si hanno eventi di rilievo, ma come detto una misura che tende a coordinare tutto l'insieme. Tuttavia significativi risultano la sinfonia, per il riaggancio che si compie con altri punti dell'opera (il primo dei tre movimenti riecheggia nell'apertura dell'Introduzione del primo atto; il minuetto e la furlana riappaiono invece alla fine del secondo), e due finali elaborati e complessi. Questi pertanto vanno anch'essi ricordati nel contesto di contributi al miglioramento dei concertati finali che impegnano i migliori musicisti tra l'epoca di [Nicola] Logroscino e la superiore definizione di Mozart. Resta invece a uno stadio ancora arretrato il trattamento orchestrale che, secondo le tradizioni veneziane a cui Salieri soprattutto attinge, si configura soprattutto nell'apporto degli archi, mentre oboi e corni non hanno altra funzione che quella di ripieno. Anche gli interventi dei violini però non sopravvanza di molto quelli della tradizione per l'insistenza di certi disegni e per il procedimento dell'iterazione, in luogo di quello dello sviluppo. Le arie, bipartite e più frequentemente tripartite, non disdegnano l'ornamentazione, ma sono sempre scorrevoli, ravvivate da spunti incisivi e da un'accurata definizione fraseologica, non insensibile a sondare qualche aspetto psicologico.
Nell'intermezzo del Petrosellini l'economia del lavoro risulta particolarmente ragionata anche per la destinazione affatto singolare del ruolo protagonistico femminile (Beatrice) a una cantante da camera, dunque con esigenze di vocalismo orientate verso una certa virtuosità. Si profila in questa operetta una cura dell'armonia maggiore del consueto e un certo risalto dello strumentale. Lo stile fin qui seguito dal Salieri è dunque sottoposto a una spinta inedita, come se egli avvertisse la necessità di un aggiornamento che doveva compiere per distanziare la matrice veneziana, e italiana, fin qui accettata e avanzare anche nel comico, almeno negli elementi sottoponibili a un diverso trattamento, sulla via che musicalmente aveva intravvisto con l'
Armida. Un'ultima verifica della sua particolare attenzione al disegno dell'insieme finisce per essere pure La secchia rapita, lavoro eroicomico - nel genere che poi Casti tenterà di affermare con il Re Teodoro musicato dal Paisiello (1784)

e con La grotta di Trofonio, musicata dallo stesso Salieri (1785). Autore del testo ancora il mediocre Boccherini. Ma l'opera, che fu posta in scena sempre al Burgtheater, il 21 ottobre 1772, riferisce sempre di un impegno del musicista a dar conseguenza e ordine all'informe materia drammatica. Ciò nonostante non può ritenersi di particolare interesse nello sviluppo musicale e teatrale del Salieri.
Tra il 1773 e il 1782 i lavori di maggior spicco del musicista sono
La locandiera, nel campo giocoso, e L'Europa riconosciuta, in quello opposto.[4] L'opera di derivazione goldoniana sembra convenire al musicista che può riversarvi una certa capacità d'osservazione delle situazioni drammatiche e del loro sviluppo, forse più che dei caratteri, inverando un gioco equilibrato tra comico e segno sentimentale. Inoltre vi si ritrova la propensione ad apportare opportuni ritocchi di natura formale ma sempre nel senso della funzionalità drammatica. Tali, ad esempio, i due finali in vaudeville.[5] E tale anche l'intuizione che induce il musicista ad impiegare in due finali uno stesso motivo dei violini, come ricercando una possibile, non effimera identità di situazioni. Non va però dimenticata anche un'altra opera comica, La scuola dei gelosi, coeva dell'Europa riconosciuta, che riscosse un considerevole successo trovando poi larga divulgazione in tutta Europa. [6] Della Scuola, sempre ferma restando la cura dell'insieme che distingue il Salieri, si segnalano particolarmente l'efficacia del declamato, e la precisa definizione dello svolgimento drammatico, che denota una perizia che va sicuramente crescendo. Anche Il talismano non va dimenticato per il proporsi di nuovi motivi d'interesse, se non assoluti, almeno personali: quale, ad esempio, l'impiego nella sua sinfonia dei clarinetti. Altrove si profilano elementi degni di qualche considerazione (la sinfonia della Cifra, ad esempio), ma degna di nota resta soprattutto, anche nelle opere che poco o nulla aggiungono a quanto già non abbiano fatto notare le sue migliori creazioni, il desiderio di dar organicità al tutto melodrammaturgico. Si ha insomma un perfezionamento in questo senso del musicista che sta appunto per affrontare i lavori di maggior impegno e di spicco della sua produzione intera.

L'EUROPA RICONOSCIUTA

Nella linea di Gluck si muove L'Europa riconosciuta, dramma per musica in 3 atti di Matteo Verazi, «segretario intimo e poeta aulico di Sua Altezza Reale Palatina di Baviera» e librettista che abbiamo già visto collaboratore di Jommelli fin dal 1751.[7] L'opera si fa notare per una sua certa impronta innovatrice. Ecco quanto scriveva Pietro Verri

al fratello Alessandro:

La musica e le voci risuonan bene; il dramma che si recita è di certo signor Verazi, romano, che non è poeta né uomo di lettere, ma teatrale; ha dell'immaginazione e della pratica fatta fuori d'Italia.

E ancora, in una lettera successiva:

Lo spettacolo che ambirebbe di essere innovatore, non riesce a tenere attente le migliaia di persone come se avesse seguito le tracce conosciute.

Sotto il segno innovatore con cui la Scala apre i suoi battenti, viene da chiedersi, c'è una libera scelta in polemica con lo stereotipo mondo dell'opera seria o altro? Che i Cavalieri Associati, [8] che s'incaricavano di far nascere la Scala, avessero liberamente voluto imporre al teatro una nuova via ce lo riferiscono alcuni fatti. Di questi ci documenta il «programma» sintetizzato dalla «Gazzetta di Lugano», in data 10 luglio 1778:

Il sistema di questi spettacoli è di genere inusitato e del tutto nuovo. Tende questo a riformare gli enormi abusi che sul teatro musicale italiano ha introdotto una esecuzione licenziosa. Sperasi di ottenere l'intento accrescendo il modo e l'azione dei drammi, fissando l'attenzione degli attori e mettendo maggiore verosimilitudine e per conseguenza più grande interesse nella condotta dello spettacolo.

Si comprende pertanto come l'attenzione degli organizzatori si appuntasse sul Salieri, il quale, per il suo dichiarato schieramento sulle posizioni di Gluck e per l'alto incarico che teneva a Vienna, era il principale assertore delle posizioni riformistiche (e anche il primo ad avere intrapreso tale via essendo l'Antigone del Traetta di poco posteriore all'
Armida del Salieri). Senz'altro nella scelta ebbe però un peso non indifferente la necessità di porsi sotto la protezione dell'ambiente imperiale viennese, o almeno di indirizzare la programmazione in modo gradito all'imperatrice Maria Teresa

e al figlio di lei Giuseppe II.

L'imperatrice, venuta a conoscenza del teatro che si stava erigendo e dei suoi programmi, poteva pertanto «profetare»: «s'alza già il nuovo teatro destinato a oscurare la celebrità dei più famosi d'Italia». Non fu però più che uno sprazzo momentaneo e gli ambiziosi progetti dei Cavalieri Associati della Scala dovettero forzatamente rientrare nel clima abituale dell'opera italiana. [9]
Tuttavia di quell'impennata riformatrice, se non unica rara nell'Italia del tempo, resta l'Europa riconosciuta, opera che ha pertanto un significato storico preciso che supera senz'altro di parecchio i suoi reali pregi estetici. Tra i suoi reali valori vanno però riguardati con interesse la ricerca, tutta di Salieri, di una certa continuità drammatica, la sobria scrittura delle parti vocali, il funzionale apporto dell'orchestra tanto con pezzi autonomi che come sostegno della vocalità. Di ciò sono una prova fra le più significative la sinfonia, centrata sul motivo della tempesta, e talune arie, quale quella di Asterio, «Sposa... figlio...», con il suo intimo e dolente accento patetico, oppure qualche episodio di efficace concitazione. La condotta armonica della sinfonia - ma anche di talune arie, dove le transizioni armoniche delicatamente delineano mutazioni psicologiche - è senz'altro da ritenere di impronta gluckiana, come pure la sonorità che si ottiene dall'insieme di trombe, corni, oboi e archi, sonorità scura alternante piani dinamici netti secondo le esigenze dei disegni, con un senso dell'effetto calibrato, essenziale, mai eccessivo.

LES DANAÏDES

Les Danaïdes, su un libretto che Francois-Louis-Gaud Lebrand Du Roullet e Louis Theodore de Tschudy derivarono dal Calzabigi, [10] sono del 1784. La nascita di quest'opera, vera e propria «tragédie lyrique» nel solco della tradizione francese e gluckiana (nello stesso filone cioè che già aveva visto l'adesione anche del Piccinni,

specie con Didon, nel 1783), fu occasionata dall'amicizia e dalla stima di Gluck per Salieri. Invitato a comporre un'Hypermnestre per il Théâtre de l'Académie di Parigi, Gluck rispose dicendosi disposto a far rappresentare Les Danaïdes, i cui primi atti erano di sua mano e il resto di un musicista di sua fiducia. [11] Venne accettata la sostituzione e soltanto dopo il successo che l'opera conobbe il 26 aprile 1784 - come già riferito in nota fu rivelato pubblicamente che l'intera opera si doveva al meno noto Salieri, il quale assurse perciò a grandissima considerazione europea, sostenuto e ammirato dai gluckisti parigini. L'entusiasmo crebbe con il crescere delle repliche, premiando così un lavoro di dimensioni e d'impegno pari a quelle di Gluck. Di questi Salieri si rivela un seguace attento e dotatissimo, capace pertanto di spingersi anche oltre le indicazioni del maestro, e cioè rivolto, pur nel generale tono neoclassico, a far balenare qualche, anche notevole anticipazione romantica, che - potremmo dire - rimanda direttamente a Spontini. [12] Fraseggio, vocalità, incisività e sobrietà dell'orchestra, impulso drammatico, seguono dappresso la maniera gluckiana e conducono attraverso un divenire drammatico che conosce un'avvincente progressione (ecco pertanto l'elemento fondamentale del Salieri ripresentarsi puntualmente e opportunamente amplificato) fino alle soglie, e talora anche all'interno, del più maturo operismo spontiniano. Dall'opera intera, dove non sono poi molte le pagine che presentano un qualche segno di attenuazione dei valori musicali e drammatici, spiccano per plasticità le arie e i cori, per intensità i recitativi (sempre retti dall'orchestra), per movimento e funzionale intensificazione espressiva lo strumentale. Su tutto si distende un sentire altamente tragico, da grande tragico, e solo talora, anche per colpa del libretto, sembra profilarsi uno scadimento nella truculenza: cosa però che trova pronto riscatto, grazie all'immediata virata che impone alla musica l'intelligenza del suo autore e il suo autentico sentire tragico. Di pagine che soprattutto meritano attenzione nelle Danaïdes ve ne sono parecchie, ma soprattutto è da sottolineare la continuità con cui i cinque atti si costruiscono, trapassando dai momenti lieti e festosi alle zone d'intima e dolce liricità, dalle espressioni doloranti a quelle più violente e sinistre. I recitativi si saldano con le arie in un tutto unico, gli ariosi traducono in gesti vocali e strumentali eloquenti le più intime tensioni psicologiche, i cori assumono atteggiamenti di una rudezza gluckiana, mentre gli episodi strumentali dall'andamento agitato si sostituiscono alla parola e al canto quando questi raggiunto l'acme della tensione sembrano non poter più procedere oltre. Insomma tutto un insieme di componenti maneggiate con autenticità e lungimiranza tali da consegnare l'opera, nella sua interezza, ai momenti di superiore arte melodrammatica del Settecento. E componenti, infine, che vengono impiegate con scansioni assai audaci, in successioni così stringenti e efficaci da costituire già un elemento di grande rilievo e l'esplicitazione di una volontà drammatica fortemente originale. Di ciò riferisce già l'«Overture», nella quale sinteticamente sono prefigurati gli elementi fondamentali del soggetto e del suo svolgimento. Il montare degli eventi e la crescente tensione sono tutt'affatto evidenti nella bella e densa pagina sinfonica. Già li significano le successioni delle sezioni e l'accelerazione agogica del brano: 11 misure formano l'introduzione (Andante assai), alla quale poi seguono 83 battute di Allegro assai, 55 del Più allegro e 46 del Presto. Di grande rilievo drammatico il trapasso dal Più allegro al Presto, consistente nell'improvviso estinguersi della gaia musica di danza, che evoca la festa di nozze, per lasciar posto a violenti accordi di settima diminuita a tutta orchestra e coronati, e a ruvide scale discendenti degli archi, con i quali si lascia presagire l'assassinio dei mariti da parte delle figlie di Danao. Il momento dell'assassinio, nel corso dell'opera - esattamente nel corso dell'ultima scena dell'atto quarto - è realizzato mediante un singolare effetto strumentale: un si b espresso su quattro ottave da corni, tromboni, fagotti, timpani (rullo) e archi (tremolo) per la durata di tre battute (Allegro, in tempo di 4/4), dal pianissimo al fortissimo, un effetto che immediatamente rimanda a quello più tardi usato da Berg nel Wozzeck per l'assassinio di Maria.
Les Danaïdes costituiscono un capitolo importantissimo nel panorama musicale del Settecento a cui collaborarono gli italiani. Segnano la crescita di un musicista italiano al soffio vivificatore di Gluck e nell'impegno di scrivere un'opera per Parigi, capitale del tragico in musica a quel tempo, dopo che la Vienna di Giuseppe II, già illuminata dalla riforma di Gluck e Calzabigi,

aveva preferito mutare indirizzo, rilanciare il teatro italiano per un verso e, per l'altro, porre in cantiere la costruzione di un'opera nazionale, qualcosa di analogo, ma anche di assai più rilevante, alla crescita di un Piccinni, sempre sotto il segno gluckiano e nell'impegno di lavorare per i francesi. Proprio l'iter che caratterizza la formazione e la maturazione del Salieri dà alle sue Danaïdes un significato maggiore che non quello che poté avere la Didon di Piccinni, significato cioè di superiore prodottò della musicalità italiana una volta aggiornata drammaturgicamente (indubbia è comunque la matrice italiana nell'inflessione melodica del Salieri). Si può invece ritenere Les Danaïdes come sintesi di esperienze diversissime: l'opera seria italiana, nella sua accezione migliore, secondo le indicazioni dello stesso Gluck, si alimenta di ulteriori elementi, tedeschi e francesi, fino a siglare, in un edificio di bellezza e compattezza straordinarie per l'epoca, un ideale sovrannazionale che, nel medesimo tempo, conclude tutto un periodo evolutivo del teatro musicale - prendendo le debite distanze dal genere maggiormente coltivato allora, e cioè proprio l'opera seria italiana - e media le maggiori conquiste di tutto un settore (da Alessandro Scarlatti

a Gluck, per intenderci) presso i musicisti che verranno, Cherubini, in primis, ma soprattutto Spontini.

Va ascritto pertanto tra i meriti molteplici di quest'opera e di Salieri anche quello del superamento di un ristretto orizzonte nazionale, per la fusione della pluralità di tendenze in un unico e avanzato momento d'arte che suonasse davvero le campane a morto per il melodramma coturnato e belcantistico, per l'opera-concerto italiana. C'è nell'europeismo musicale delle Danaïdes un presagio di europeismo politico e culturale, lo stesso che poco più tardi fu quasi sul punto di concretarsi nel disegno napoleonico. Troppo presto comunque per entrambi, non essendo ancora maturata quella situazione sociale e culturale a livello di nazioni che avrebbe potuto raccogliere le proprie energie comuni, mettere a punto intendimenti comuni nel pluralismo delle situazioni, trasformando così istanze latenti e palesi in fattori fortemente cementanti la collettività europea almeno in entità culturale precisa.
Dopo Danaïdes Salieri, rientrato a Vienna, prosegue la via del comico con Il ricco d'un giorno, testo del Da Ponte (1784), [13] e con Prima la musica poi le parole del Casti (1786), affrontando, inoltre, tra l'uno e l'altro, l'esperienza eroicomica con La grotta di Trofonio e Cublai gran can dei tartari, entrambe su testi dell'abate viterbese. Il ricco d'un giorno cadde alla prima serata al Burgtheater [14] mentre invece La grotta di Trofonio e Prima la musica poi le parole riuscirono perfettamente. Cublai, invece, composta sempre nel 1786, non venne rappresentato.

LA GROTTA DI TROFONIO

La Grotta di Trofonio, [15] andata in scena sempre al Burgtheater, il 12 ottobre 1785, è un esempio della buona disponibilità del Salieri a un genere che si definisce misto, eroicomico in questo caso, tragicomico invece nel successivo Tarare. Per comprendere a cosa tendesse il Casti con l'eroicomica Grotta di Trofonio, facendo seguito a quel Re Teodoro in Venezia che Paisiello aveva musicato nel 1784 sempre per la Hofoper viennese, è opportuno rileggere il frammento di una lettera che il librettista inviò a un editore francese nel luglio del 1796 proponendogli l'edizione di una serie di lavori eroicomici, di cui, dice, «soli due drammi sono noti al pubblico». Al Re Teodoro e alla Grotta di Trofonio, Casti aveva aggiunto qualche altro lavoro [16] e altri aveva in anima di aggiungere fino a toccare la vetta di «dieci o dodici drammi», appunto «di un genere affatto nuovo, ove, trattandosi temi e soggetti seni, eroici e tragici, vi si frappongono dei tratti comici ove la circostanza della cosa o delle persone lo richiede, seguendo in ciò la natura stessa». Dunque una sorta di compromesso tra il comico e il serio, dove la comicità prendeva a prestito dal melodramma eroico l'ambiente mitologico o qualche personaggio tipico per farne una trattazione, nelle intenzioni almeno, ora ironica, ora satirica, ora addirittura grottesca. Dal libretto alla musica qualcosa si precisa in tal senso e qualcosa invece sfuma. L'intera opera, comunque, ribadisce le qualità teatrali del musicista che, come s'è già detto più volte, sono senza dubbio notevoli e che riescono a esplicarsi in modo pressoché costante, anche quando l'invenzione sonora non riesce a mantenere il tono elevato delle molte pagine felici. Tra queste possiamo intanto porre subito la sinfonia scritta per un'orchestra di tipo mozartiano - gli strumenti in partitura sono flauti, oboi, clarinetti, fagotti, trombe, timpani e gli archi - e d'impianto complesso, come appunto le sinfonie d'opera coeve di Mozart. La pagina, assai interessante e ben sviluppata, fa notare anche la presentazione, nell'adagio introduttivo, di uno spunto che poi caratterizzerà Trofonio durante la sua invocazione agli spiriti invisibili. L'allegro della sinfonia è costruito con tre motivi principali e vari elementi secondari, cosa che appunto riferisce già come. Salieri volesse fare un pezzo importante, addirittura imponente per materiali e per sviluppo. Che vi sia riuscito è indubbio e certo, dal punto di vista storico e estetico, questa pagina si colloca ai vertici della forma come trattata a quell'epoca, assieme alle sinfonie del salisburghese.

Continuando nell'indicazione delle cose migliori dell'opera, è utile indirizzarne l'elenco secondo le due direttrici principali nelle quali si muove Salieri, e cioè la linea mozartiana e quella gluckiana. Di mozartiano c'è soprattutto il quartetto vocale del primo atto che unisce le due coppie di fidanzati ricercando un efficace sbalzo degli umori contrastanti, e cioè meditativi e seriosi (Ofelia e Artemidoro), allegri e sprizzanti vitalità (Dori e Plistene). Naturalmente non si va oltre il contrasto tra le diverse psicologie, ma ciò è ottenuto con grande equilibrio e precisione. Sempre nella linea mozartiana si colloca il rondò di Ofelia «D'un dolce amor», di cui è notevole lo slancio espressivo e la suggestiva rappresentazione del sentimento con raffinate movenze cromatiche. Qualche studioso non ha esitato a definirlo uno dei più begli esempi nella forma del rondò. [17] Si può poi aggiungere anche il terzetto «Venite o donna meco» del secondo atto, uno dei brani che più concorsero alla grande fortuna dell'opera (documenti del tempo dicono che fosse immancabile la sua replica ad ogni rappresentazione). È questo un pezzo di felicissima compiutezza espressiva e musicale, di delicata intimità melodica che si stende sulla piacevolissima arcata armonica determinata dal circolo di tre tonalità vicine.
Di gluckiano La grotta di Trofonio riserva talune pagine che vanno anch'esse poste al vertice dei risultati conseguiti dal Salieri. La priorità di citazione spetta senz'altro all'invocazione agli spiriti invisibili di Trofonio, nella quale ricorre - come detto - il motivo dell'adagio introduttivo della sinfonia. I modi della recitazione sono gluckiani e così l'impulso ritmico e la scrittura strumentale che circonda il tutto di una sonorità misteriosa d'attesa. Ma se questo è forse il momento che più in profondità risente dello stile di Gluck, anche per il clima in cui si svolge la scena, clima cioè di magia, d'evocazione di oscure forze sovrumane, la sfera d'influenza entro cui si muove
prevalentemente Salieri fa sì che un po' ovunque i riferimenti al suo maestro spirituale siano sensibili. La collocazione e la fattura dei cori lo attestano e così il modo di costruire le zone da cui deve emanarsi una certa concitazione oppure quelle di stupefazione lirica. In quest'ultimo senso ricordiamo l'aria di Artemidoro che loda la bellezza e la quiete campestre e che rimanda subito a un'aria di Rinaldo dell'Armida. Più vistosa, comunque, anche per le implicazioni sceniche, l'ombra giuckiana nel finale dell'opera laddove si incarica la coralità di echeggiare misteriosamente il canto dei demoni («Trofonio, filosofo greco»).
Da quanto detto è evidente l'impianto «eroico» dell'opera: il mitico personaggio di Trofonio è l'eroe di turno e, occorre osservare, soprattutto per il suo contattare le forze sovrannaturali, cioè come mago: in ciò un segno evidente del clima dell'Europa fine Settecento che aveva costituito un terreno tanto fertile per Cagliostro. [18] Di comico, invece, non c'è molto. Forse soltanto il tono generale della musica e l'assenza di motivi tragici, così che lo svolgimento risulta spesso lieve e scherzoso.[19] Comunque qualcosa, per noi posteri, di quella che poteva risultare una satira del magico e della grande incidenza ch'esso andava rivelando per opera dell'istrionismo cagliostresco, è andato certo perduto. Invece, indubbiamente, fu quella una delle ragioni che diedero all'opera la grandissima fortuna che le cronache ci tramandano.

TARARE

Se La grotta di Trofonio precede la grande stagione mozartiana delle Nozze di Figaro e Don Giovanni, 1786-87, la tragicomica opera intitolata Tarare, su libretto, nientemeno, che di Beaumarchais,

scritta su commissione del Théâtre de l'Académie di Parigi, dove fu poi rappresentata l'8 giugno 1787, è in pratica una risposta al montante disegno teatrale mozartiano. Con l'una e con l'altra Salieri comunque mostrò di reggere benissimo, presso i contemporanei, alla concorrenza del salisburghese. Anzi lo sopravvanzò nettamente se è vero, come comproverebbe la statistica compilata dall'Hermann, [20] che negli otto anni che vanno dal 1783 al 1791 le opere di Salieri conobbero ben 163 repliche mentre quelle di Mozart si fermarono soltanto a 63 riprese.
Tarare esce da un ambizioso progetto del Beaumarchais imbevuto di spirito rivoluzionario e entusiasta ammiratore di Gluck. La vicenda che immagina è esemplare di ideali nuovissimi non soltanto espressi nel conflitto tra il soldato Tarare e il malvagio re Axur ma anche nelle violente invettive contro l'aristocrazia in genere e contro il clero, [21] così che il libretto, caso forse unico, ha un insolito rilievo critico contro l'ordine costituito e ipotizza l'eversione dell'istituto monarchico poi realmente avvenuta pochi anni dopo con la Rivoluzione francese. I postulati drammatici di Calzabigi e Gluck, Beaumarchais li fa propri, rilanciando con il taglio specifico dato al lavoro anche i termini profondi di collaborazione che debbono legare poeta e musicista, poesia e musica. Così egli guidò Salieri nel suo lavoro, imponendogli con la generale semplicità della musica un modo nuovo di far emergere le parole e di agevolare il procedere spedito dell'azione. Salieri duttilmente si prodigò lungo le linee maestre indicategli dal letterato e finì per compiere un lavoro che si colloca a ragione tra i suoi migliori. Lavoro, anche, che sembra approfondire quella sua personale indicazione per il superamento delle barriere di espressioni d'arte nazionali, già ottenuto con Les Danaïdes. O perlomeno ribadisce quella stessa posizione, così riconfermando con questo nuovo lavoro per le scene francesi la straordinaria spinta che, a contatto con quel mondo fervido e in progressione socioculturale, riporteranno sempre i musicisti di estrazione diversa che vi si trovano ad operare: e citiamo (ricordando soltanto gli antecedenti di Gluck, Piccinni e [Antonio Maria] Sacchini ), subito dopo Salieri, un Cherubini,

uno Spontini, un Rossini. Certo è che il Tarare di Salieri risulta essere una riuscita fusione dell'opera italiana, nella sua migliore accezione e con le indubbie doti di flessibilità e di snellezza procedurale, con il mondo francese e con una certa assimilazione del liederismo austro-tedesco dell'epoca. Vi si trova il patetico sostanziato spesso dai modi di Gluck , oppure la delicata pittura psicologica di certo Paisiello, e ancora l'eleganza espressiva dei francesi e il morbido lirismo di certa musica vocale tedesca. Insomma, legati da una sensibilità che non rinunzia ai caratteri italiani, ritroviamo Gluck, Grétry,

Mozart, riespressi in una sintesi che all'efficacia, e anche a una certa compiutezza e compattezza di risultati, affianca naturalmente l'alto valore indicativo di nuove vie che, una volta raccolto, avrebbe potuto portare il teatro musicale su posizioni diverse da quelle conosciute. Se il Mozart della Entführung aus dem Serail è un punto di riferimento indubbio per Salieri, l'autore della Zauberflöte [*] trova qui più d'una anticipazione. Anche lo stile beethoveniano, e specialmente certi suoi procedimenti modulanti, nonché l'espressività severa tipica del musicista di Bonn, non mancano di palesarsi sotto forma di preannunzi assai interessanti (si veda, ad esempio, il declamato di Tarare «Dieu tout puissant» della scena finale dell'atto terzo). [22]

PRIMA DI «FALSTAFF»

Abbiamo lasciato da parte la satira di Prima la musica poi le parole, divertimento teatrale che apparve al Kärntnertortheater viennese l'11 febbraio 1786, riscuotendo enorme successo e divenendo in breve una tra le opere più eseguite del Salieri. Satira del costume teatrale dell'epoca e i cui valori consistono nella piana e sicura musicalità, nel preciso passo scenico della musica, nella generale piacevolezza. Tutto ciò fa sì che non si debba stupire se l'operina percorse molta strada e se superò di slancio, alla «première», l'esito incontrato 5 giorni avanti da Der Schauspieldirektor di Mozart. Alla garbata satira, a cui Salieri deve in parte la sopravvivenza del proprio nome anche nei repertori più recenti, mentre altri e ben più importanti lavori si può dire siano del tutto dimenticati, seguì una nuova parentesi parigina, aperta da Les Horaces - un libretto che Guilard derivò da Corneille - rappresentati a Fontainebleau il 7 dicembre 1786, e chiusa dal già illustrato Tarare. Negli anni immediatamente successivi non si ha nulla di particolarmente significativo da segnalare, né nel versante serio né in quello comico. [23]

FALSTAFF

Si deve giungere al Falstaff ossia Le tre burle del 1799 per ritrovare fatti di un certo significato con i quali è bene chiudere il discorso sui Salieri. [24]
Il Falstaff, dramma giocoso in 2 atti che Carlo Pietro De Franceschi trasse dalle Allegri comari di Windsor scespiriane, fu dato in «prima» al Kärntnertortheater viennese il 3 gennaio 1799. Non è il primo trattamento in opera dei celebre personaggio poi immortalato, un secolo dopo, da Verdi: la priorità sembrerebbe spettare al francese Papavoine che nel 1761 (o secondo altri nel 1770) fece rappresentare a Parigi Le vieux coquet ou Les deux amis, ispirato appunto alle Merry wives of Windsor.[25]

Il libretto di cui si avvalse Salieri non brilla certo per qualità ma non si può neppure dire scadente: comunque segue abbastanza da presso l'originale, [26] adattandone la materia alla forma storica dell'opera buffa che conosciamo e riuscendo a svolgere le complicazioni dell'intreccio in modo fluido e scorrevole. Insomma un testo utile allo svolgimento in musica e, più precisamente, alla musica di Salieri, sempre chiara e agile, ben pensata e ben scritta, attiva e coerente nel seguire e rafforzare il disegno drammatico. Interessante è rileggere quanto lo stesso Salieri ne scrisse commentando l'opera passo su passo.

La sinfonia è forse una delle più analoghe che siano state composte al soggetto, anzi si può dire che questo cominci dalla sinfonia. Ecco le ragioni: la prima scena rappresenta una festa in onore e in casa di ricchi negozianti, marito e moglie. Dopo i primi complimenti di buon augurio, etc., si dice: «Su, rinfreschi, liquori, confetti, poi si torni di nuovo a ballar». Su questo secondo verso, facendo vedere che la compagnia ha già ballato, ho pensato di fare una sinfonia presso a poco in forma di tante contraddanze, e l'effetto è stato sentito subito dal pubblico e applaudito. [27] L'introduzione, «Viva il comune amico», è variata, allegra, e quantunque un poco lunga per la quantità delle cose che chiude in essa fa principiar l'opera con interesse, particolarmente se Falstaff è caratteristicamente vestito e gioca bene la sua parte. Da esso anzi dipende l'incontro buono o cattivo di tutto lo spettacolo come si vedrà. La piccola ariosa «Or ci siamo, mio padrone» fa un buonissimo effetto in scena e con ragione. [28] La specie di duetto «Con molta degnazione» ha il carattere di musica che deve avere. La cavatina «Vicino a rivedere» è d'un brillante impaziente, amoroso: tal è l'amante geloso vicino a rivedere l'oggetto amato. L'aria «Vendetta, si, vendetta», quantunque di parte secondaria, ha fatto effetto, cantata, come la fu, da una voce di mezzo soprano chiara, energica e forte. Il duettino «La stessa, la stessissima» [29] fa un effetto che forse alcuni non vedranno nella partitura, ma che ognuno sente in teatro. Il quartetto «Oh, quanto vogliam ridere» è tutto di scena, e per questo domanda molta azione e azione comica ma giudiziosa. L'aria «Venga pure il cavaliere» m'è riuscita meglio che, per il chiaro scuro dell'opera, non avrei voluto. È vero che fu benissimo cantata e recitata, e attribuisce a ciò quasi tutto l'incontro. L'aria «Oh, die Männer kenn' ich schon» non poteva che piacer moltissimo, recitata e cantata come fu. La musica è anche buona per uno scherzo simile.

Ci sarebbe molto da meditare sullo scritto del Salieri. Basti però qui richiamare l'attenzione sulla consapevolezza drammatica che traspare da molte frasi, a riprova di un talento specifico, di precise intuizioni, la cui verifica viene ancora una volta dalla condotta dell'opera. Gli schemi dell'opera buffa sono trattati con grande libertà, con precisa adesione alle indicazioni e esigenze drammatiche. La grandissima cura che Salieri riserva al recitativo, anche nella sua forma secca, risulta un dato non troppo consueto in questo scorcio settecentesco; del valore che Salieri vi conferiva, meglio della funzione che sentiva potesse svolgere, si hanno non poche prove nel corso del Falstaff. Esemplare l'impiego del recitativo «accompagnato», come nella scena seconda, laddove succede con motivazioni ben precise al «secco». La funzione che ha di introdurre, spesso di porgere l'aria successiva, è innegabile e pertanto si può dire che, al cadere del secolo, il meccanismo stereotipo dell'opera italiana trova una sorta di riscatto nelle mani del Salieri, che rilancia il suo stato ottimale come pochi altri autori avevano fatto in precedenza (e tra questi poniamo senz'altro il Cimarosa

del Matrimonio segreto, altrettanto curato nel trattare il recitativo e altrettanto uomo di teatro per sapervi innestare quella tensione che l'azione suggeriva e che portava utilmente ai numero musicale). Non pochi poi i brani, arie e pezzi d'assieme, di riuscita certa. Già Salieri stesso ne ha indicati alcuni e basta soltanto aggiungervi che sono tali perché l'invenzione è sempre pertinente all'azione, al carattere, e perché il loro svolgimento è efficace ma anche abbastanza sintetico. Che Salieri si proponesse, come già altri (ad esempio Paisiello), di rimpicciolire gli schemi e magari di sopravvanzarli tentando qualche situazione nuova (ricordiamo le definizioni di «picciola ariosa» e di «specie di duetto») è un fatto certo in questo Falstaff. E il caso di intravvedervi, con il crescere della consapevolezza delle esigenze della scena, l'immancabile punto d'arrivo di un'esperienza, quale quella del Salieri, che aveva saputo utilmente assecondare le più diverse situazioni drammatiche con appropriata musicalità. È una qualità generalmente avvertibile nelle sue opere e qui, trattandosi di un'opera buffa di forma storica ma con propensione per la commedia, appunto ulteriormente affinata.
Tra i brani che esigerebbero di essere illustrati, anche per trasmettere il coerente disegno drammaturgico e la buona qualità delle caratterizzazioni (specie di quella di Falstaff), ricordiamo il concertato, con coro, che conclude il primo atto, e due arie, ciascuna per un motivo diverso. La prima, più propriamente un'arietta cantata dalla fantesca, «Ah! signore se sapeste» ha tutto il sapore di un Lied già ottocentesco. Da qui sembrano discendere, «per li rami», certo Schubert e certo Weber. L'altra è l'aria di Slender «Reca in amor la gelosia», a cui si potrebbe assegnare un'analoga funzione, ma che ha anche uno specifico interesse timbrico essendo appunto destinata, oltre che alla voce di basso, a una linea contrappuntistica di violoncelli e contrabbassi, senza armonizzazione (armonizzate sono difatti soltanto le cadenze). E, inoltre, possiede una forma pure singolarissima: cioè una sola strofa musicale che viene ripetuta altre due volte dopo una zona recitativa (A-recitativo-A-A):

Basta quest'unico esempio, all'attento esaminatore, per cogliere un altro aspetto fondamentale di tutta la produzione di Salieri, un suo segno preciso, strettamente derivato dall'ideale maestro Gluck, ma rafforzato senz'altro dal vivo contatto con Beaumarchais: la scrupolosa realizzazione del ritmo e della prosodia, il rinforzo esatto dell'espressione, in questo caso tra l'ironico e il riflessivo; insomma quell'«esprimere assai bene le parole» che egli sentiva come il massimo raggiungimento del fare musica, nel tragico come nel comico e nel mezzo-carattere.
Musicista che fa presagire taluni aspetti del romanticismo, Salieri

fu particolarmente attento ai valori da conferire all'orchestra come componente del teatro musicale. Dall'impianto elementare delle prime opere, secondo la tradizione veneziana, e italiana in genere, passò gradatamente a un più rilevato impiego degli strumenti, avendo ben presenti i modelli di Gluck e di Mozart; continuò poi nella sua progressione anche nell'ultimo decennio d'attività teatrale. Anche nelle sue tre sinfonie non operistiche la sensibilità timbrica manifesta di giungere a un grado di maturazione che si riscontra nell'orchestra impiegata in teatro. La quale, oltre ad una sonorità generalmente smagliante e a funzionalmente servire il dramma con un preciso dosaggio degli effetti coloristici, mostra di aprirsi a una ricerca timbrica che sopravvanza in genere la tipica orchestra settecentesca (ad esempio con l'impiego di timbri puri che vengono sbalzati all'improvviso). Nella fondamentale serenità della sua arte, che però conosciamo capace di rivestirsi anche di colori più cupi che stanno come a mezza via tra il neoclassicismo gluckiano e un preromanticismo già accentuato, s'insinua quella progressione di ricerca che è sintomatica di un musicista che captava con precisione il corso della storia musicale, cercando in proprio di recarvi qualche non insignificante contributo. Bisogna quindi concludere con l'assegnare a Salieri un posto più pertinente e importante che non quello che i posteri gli hanno dato e vedere anche in lui un tramite necessario per il cammino della cultura e dell'arte musicale non solo italiana ma europea. [30]

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