Dalibor, eroe in terra di Boemia

[Davide Daolmi, Dalibor, eroe in terra di Boemia, in Dalibor, programma di sala della "Stagione lirica e di balletto 1999" del Teatro Lirico di Cagliari, Cagliari: Scuola Sarda, 1999, pp. 12-37]

Revisione 2002 © Daolmi



Traduzione italiana del libretto.


L'opera nazionale fra valore e pretesto

Il Castello di Praga, edificio ancor oggi nobile e sontuoso, è celebre almeno per le sue grandi finestre da cui nei secoli passati solevano precipitare funzionari governativi e delegati imperiali (si ricorda, a fianco del volo più noto del 1618 che provocò la Guerra dei Trent'Anni, anche la defenestrazione del 1419 occorsa in circostanze pressoché simili). Ma fra i motivi d'interesse turistico del Castello, oltre alla sua straordinaria collezione di armature, s'annovera una piccola torre detta Daliborka in ricordo di uno degli eroi leggendari della tradizione boema, il valoroso e nobile Dalibor, protettore degli oppressi e della dignità del popolo boemo in epoca di restaurazione monarchico-cattolica, ovvero intorno alla fine del Quattrocento.

Che la vincenduola semigotica potesse sollecitare la fantasia di Bedrich Smetana (1824-1884), compositore in quegli anni apprezzato in patria e con buone carte per essere conosciuto anche all'estero, non ci stupisce se, com'è vero, il sempre più diffuso desiderio di riconoscersi in un'identità nazionale – moda tutta ottocentesca – coinvolgeva in primis gli intellettuali più vivaci e promettenti, offrendo ai compositori la possibilità di concentrarsi sul progetto sempre più concreto di un'opera nazionale, in lingua ceca (e non più in tedesco come d'uso) e mossa da suggestioni musicali e letterarie possibilmente locali.

Identità e linguaggio universale

Che il nazionalismo potesse rischiare di trasformarsi in una trappola era eventualità sensibile per Smetana. L'appartenenza a un gruppo riconoscibile quale pretesto necessario a consolare le fragilità di ogni popolo – che prima guardava alla corte del principe quale rimedio alla sua disgregazione e ora, null'altro sopravvissuto, china il capo e cerca nella terra natìa una risposta ai suoi timori esistenziali (gesto ottuso ma il solo ormai possibile) – tale ricerca di appartenenza doveva essere giustificata anche (e soprattutto) dalla produzione artistica; di questo Smetana era consapevole. Ma il rischio che l'entusiasmo popolare e il favore per una cultura 'bassa' potesse distrarre dalla ricerca d'arte (che l'Ottocento perseguiva attraverso l'elevazione etica), aveva spinto il compositore verso una tensione musicale che trasformasse l'identità locale in messaggio universale. Dalibor, l'opera più amata da Smetana (ma che i suoi contemporanei non riuscirono ad apprezzare fino in fondo), è la risposta strordinariamente riuscita di tale ricerca e avrebbe meritato quella diffusione e stima che purtroppo ha goduto poco e saltuariamente a causa dell'ostracismo imposto dalla cultura operistica italo-franco-tedesca.

D'altra parte, è innegabile, il ceco sarà pure bellissima lingua ma lo parlano in pochi; e la lingua, se è un biglietto da visita incontestato a identificare un'appartenenza di popolo, oppone l'inconvenienza non trascurabile di limitare la sua comprensibilità ai soli domestici di tale espressione. E proprio qui sta il nòcciolo contraddittorio dell'affermazione nazionale (o se si preferisce la sua rappresentazione emblematica). Perché la rivalsa di un'identità non è sufficiente alla sua sopravvivenza: la sua dichiarazione perentoria può anche essere riconosciuta ma rischia di essere preservata quale esotismo (e di musei che nessuno va a visitare è pieno il mondo). L'Europa potrebbe non sapere che farsene del nazionalismo ceco (o di qualunque altro) se questo non si disponesse a valorizzare il cosmopolitismo occidentale nel suo insieme, ovvero se tale cosmopolitismo non sappesse riconoscervi elementi da far propri (concetto valido sempre, nel momento in cui si relaziona una parte con il tutto).

Un opera per la terra di Boemia

Nel 1865, quando Smetana cominciò a scrivere la musica per Dalibor, gli spettacoli d'opera erano generalmente in tedesco, non per emulazione esterofila ma perché fin dal 1526 la Boemia era regione dell'Impero Asburgico. D'altra parte una forte coscienza ceca si era già formata dalle rivalse del movimento hussita che, opponendosi alla chiesa cattolica, riuscì ad affermare una propria identità nazionale fin dal Quattrocento (per ricongiungersi poi alla futura chiesa Protestante). Quando l'imperatore Rodolfo II (1575-1611) elesse Praga a sua residenza, la città divenne centro internazionale. La Guerra dei Trent'anni piegò le velleità indipendentiste del paese ma non condizionò la sua continua crescita culturale, e l'apporto di capitali mercantili rese la città settecentesca, per la ricchezza dei palazzi e le sollecitazioni artistiche, una delle più belle e vivaci d'Europa.

Per Praga passava ormai la migliore produzione operistica (Mozart vi allestirà la prima del Don Giovanni) e i migliori compositori cechi recavano nomi di richiamo internazionale (Biber Stamitz Zelenka Reicha Benda Myslivecek). Fu conseguenza naturale delle cose che col nuovo secolo la Boemia pretendesse una sua espressione nazionale. L'opera, più di altre forme aristiche, sollecitava le più convinte speranze. Aveva una sua fruibilità popolore e questo, soprattutto nell'Ottocento, era componente chiave per far passare nuove idee. Soprattutto riusciva a coinvogliare quelle che erano due peculiarità proprie della tradizione boema: da un lato il racconto letterario, inteso nella sua più diretta espressione narrativa (che si radica in saghe e leggende antichissime e vive ancor oggi ad ogni livello sociale e culturale); dall'altro la musica, espressione artistica che i boemi hanno da sempre posto alla base della loro tradizione culturale (Beneš, il carceriere di Dalibor, dirà a un certo punto: "Qual è il ceco che non ama la musica?").

Tuttavia proprio la lingua dell'opera, più di altre manifestazioni letterarie, poneva grosse resistenze. All'inizio dell'Ottocento a Praga ogni persona di buona cultura conosceva meglio il tedesco che il ceco. Ancora a secolo inoltrato Smetana scrive ai suoi familiari in tedesco. D'altra parte il ceco non è un dialetto, ma una lingua a tutti gli effetti (anche se parlato solo in Boemia, ovvero nella regione di Praga). È poi da dire che già l'opera in tedesco era qualcosa di originale. Lo spettacolo di richiamo, quello che girava nei grandi circuiti internazionali, che coinvolgeva cantanti di grido, era l'opera italiana, cantata in italiano. Comporre su testo tedesco significava rivolgersi a un mercato locale, il ceco era bizzarria. Non era improbabile che si adattassero singspiel di Mozart Süssmayr Dittersdorf Weber o i lavori leggeri di Cherubini e Rossini, ma il melodramma serio opponeva resistenze alla traduzione e operazioni originali erano rarissime.

In attesa del Teatro Nazionale

Dal 1834, divenuto impresario del Teatro di Stato di Praga il cantante Johann August Stöger, la produzione operistica incrementò notevolmente, e conseguentmente anche l'attenzione alla produzione locale. Gli impulsi nazionalistici fecero il resto per proseguire sulla strada di spettacoli in lingua ceca. In attesa di un Teatro Nazionale (che fu costruito solo nel 1881) l'anno 1862 segnò l'apertura del Regio Teatro Provvisorio Provinciale di Praga, più noto come Teatro Provvisorio (Prozatímní divadlo). All'opera era dedicata inizialmente una sera alla settimana (ininterrotamente per tutto l'anno) ma già nel 1865 se ne contavano ben tre. Smetana nel 1866 vi diresse le prime dei Brandeburghesi in Boemia e della Sposa venduta ottenendo un successo incondizionato. Si trattava di due opere, su libretto ceco di Karel Sabina, di carattere molto diverso (eroica e corale la prima; comica, festosa e ricca di suggestioni popolari la seconda). Il favore per Smetana fu immediato. Ma non era semplice entusiasmo popolare: alla base era un lungo impegno sul campo e una lunga militanza di musicista segnata da un intenso attivismo politico del compositore. Erano finiti i tempi in cui Smetana chiedeva aiuti finanziari a Liszt per aprire una scuola di musica. Tre anni prima aveva fondato un nuovo Istituto Musicale; poco dopo istituisce la Società Corale Hlalol; ora è corresponsabile della fondazione della Società Nazionale degli Artisiti Cechi; dal 1864 è critico musicale sul Národní listy, il giornale locale. Dopo i suoi successi di compositore la carica di direttore stabile del Teatro Provvisorio (che terrà otto anni) è pressoché automatica.

Smetana però vuole fare di più per l'opera ceca. Si rende conto che un teatro musicale nazionale non può rivolgersi solo al recupero di tradizioni popolari (sia narrative che musicali). La musica soprattutto, se si limita a usare temi locali rischia di proporre un florilegio pseudo-documentaristico. Non è la prerogativa melodico-intervallare che esprime l'anima boema, ma la costituzione di uno stile che abbia in sé lo spirito, la cultura, la sensibilità della sua nazione. E d'altra parte Smetana è consapevole che scrivere per il suo popolo non può e non deve significare chiudere le porte al resto del mondo. Se la cultura boema è giusto che si esprima è perché ha evidentemente degli argomenti da comunicare. Ma perché questi argomenti si possano elevare dal particolarismo devono necessariamente avere qualcosa da dire al mondo. Il mondo deve insomma sentire di aver bisogno di quei contenuti.

È una filosofia tutt'altro che ovvia, una filosofia che obbliga alla mediazione e che per questo è scarsamente condivisa dai localismi più radicali. Ancor oggi, malgrado gli slanci comunitari, è difficile ragionare serenamente su queste cose. L'identità e la tradizione si arroccano in ottusità e rivendicazioni del privato; d'altro lato l'integrazione è spesso confusa con l'uniformità, l'appiattimento, la massificazione.

Lontano dai particolarismi

Lo sforzo che intendeva proporsi Smetana con Dalibor, sua terza fatica teatrale, era proprio quello di mostrare quali possibilità l'opera ceca poteva vantare come espressione internazionale. Cominciò a lavorarvi nell'aprile del 1865 quando ancora stava orchestrando i Brandeburghesi, e quando ancora nessuno dei suoi lavori teatrali era stato rappresentato. Josepf Wenzig (1807-1876), scrittore di origine tedesca, consigliere del ministro dell'Istruzione e sostenitore della cultura boema, aveva presentato pochi mesi prima al compositore un suo libretto tedesco intitolato Dalibor. Smetana fu entusiasta del soggetto (poi tradotto in ceco da Ervín Špindler): probabilmente Smetana vi coglieva non solo i riferimenti espliciti alla musica che suggeriva la leggenda boema ma la possibilità di leggere la vicenda del cavaliere ribelle (ingiustamente condannato per ciò in cui credeva) quale rappresentazione emblematica della condizione del paese, provincia dell'Impero suo malgrado.

Dai suoi diari, seppur poveri di notizie relative alla redazione dell'opera, sono noti almeno i tempi di lavoro che furono prolungati fino alla fine del 1867. L'opera andò in scena con grande clamore il 16 maggio del 1868 in occasione della posa della prima pietra del Teatro Nazionale (che in verità attenderà quattordici anni prima di essere completato). Per l'occasione era stato radunato un cast d'eccezione, e le manifestazioni di contorno erano state preparate con cura e ampi mezzi. Uno solgan aveva caratterizzato la cerimonia della posa: " Nella musica è la vita dei boemi ".

La prima fu un trionfo, come in genere sono un trionfo, almeno ufficiale, tutte le manifestazione costruite dall'alto: ma fra gli applausi (anch'essi previsti dalla scaletta del cerimoniale) si cominciarono a percepire i primi dissensi. La sera successiva il pubblico fu estremamente freddo e la stampa aveva espresso serie perplessità: non tanto sulla qualità dell'opera, quanto sulla sua genuinità nazionale. Di sera in sera il pubblico era sempre più ostile e dopo sei repliche l'allestimento fu sospeso.

Malgrado Smetana continuasse a considerare Dalibor la sua opera più riuscita, dell'ottimo risultato conseguito non convinse né il pubblico, né la critica. Se La sposa venduta con cori e danze paesane esibiva una campagna boema da cartolina e in fondo rappresentava non lo spirito boemo ma l'immagine esteriore del paese, funzionava tuttavia proprio in quell'ottica propagandistica tanto cercata. Ovvero pareva ben rappresentare al mondo quello che era il popolo ceco (e in effetti fu proprio La sposa venduta ad avere maggior successo nel resto d'Europa). Dalibor era invece un dramma con finale tragico che a parte un raro momento goliardico-militaresco all'inizio del secondo atto, evitava espressamente di far ricorso non solo alla musica folklorica ma addirittura all'atmosfera che questa creava. Dalibor era una straordinaria opera avvicinabile alla migliore produzione coeva tedesca, francese o italiana. Smetana aveva cioè aperto la strada a un melodramma originato da sensibilità e cultura locali ma che pretendeva di rivolgersi a tutti. L'espressione nazionalistica – a parte l'uso della lingua – era però troppo raffinata per essere accolta in un momento storico in cui le rivendicazioni pretendevano messaggi espliciti (seppur a discapito della qualità).

L'inganno della lingua

Che Smetana non fosse stato così sensibile a esigenze interne lo si coglie anche dalla scarsa attenzione a questioni linguistiche. Manca in Dalibor, come in tutte le sue altre opere, una meditazione sulle peculiarità espressive della parola ceca. È appena il caso di osservare, per esempio, come non siano stati presi in considerazione elementi propri del metro ceco (come invece farà in seguito Janácek). L'accentuazione delle lingue slave ha conservato, accanto al peso tonico, una metrica quantitativa di più antica tradizione. L'accento tonico delle parole ceche cade solitamente sulla prima sillaba, ma l'accento acuto posto su molte vocali altro non rivela che il residuo di una quantità metrica lunga. Per intenderci, i nomi di Dvorák e Janácek si pronunceranno, approssimativamente, 'vòrgiaak' e 'iànaacek': la prima sillaba è accentata (accento tonico), la seconda dilatata (quantità lunga). Questa sovrapposizioni di due sistemi metrici, offre al ceco una ritmicità interna peculiare che Smetana ha trascurato.

Di più: è ormai certo che sia Dalibor che la successiva Libuše (entrambe su testo di Wenzig) furono probabilmente composte sul libretto tedesco e non sulla versione ceca di Špindler. A quest'ultimo Smetana e Wenzig chiesero infatti una traduzione che non solo osservasse le rime dell'originale ma addirittura il metro e l'accentuazione interna. La motivazione addotta fu che in tal modo l'opera poteva essere cantata sia in tedesco che in ceco, ma è più probabile che Smetana non si sentisse a suo agio proprio con le ambiguità ritmiche del ceco. Špindler infatti a volte si prende delle libertà rispetto all'originale e in quei casi la musica non funziona perfettamente (o comunque si adatta meglio al tedesco). È noto che il ceco, privo di articoli, offre il destro a piedi trocaici (—×) o dattilici (—××) e solo in conseguenza a una tradizione poetica acquisita si dispone, con fatica, a giustapporre piedi giambici (×—) o anapestici (××—) assai più comuni nella poesia occidentale. Quando la traduzione di Špindler non è ligia all'originale si hanno degli sfasamenti accentuativi; nel caso che segue (atto I, scena 5) l'originale tedesco è in ritmo giambico:
× × × × ×
Ge- setz und Ord- nung mü- ssen wal- ten
× × × × ×
Zum Heil sie auf- recht zu er- hal- ten
Che in italiano – mantenendo il metro e adottando una traduzione alquanto libera (che in questo caso interessa meno) – suonerebbe pressapoco:

Dirìtto e légge prévarrànno | perché giammài non vénga dànno…

Špindler però traduce trascurando qua e là l'accento, ovvero:
× × × × ×
Po- rá- dek zá- kon vlá- sti mu-
× × × × ×
zlo- zrá- dem zem nej- ví- ce zku-
Che se dovessimo riconvertire in italiano, rispettando il nuovo metro, diventerebbe:

Légge e dirìtto prévarrànno | nùlla giammài pròvochi dànno…

Smetana cosa fa? Pur adottando la versione in ceco, compone una musica che tiene conto solo dell'accento tedesco originario:

Dalibor, atto I, scena V, miss. 939-945.

Qui e là si produce uno sfalsamento del ritmo della parola rispetto alla musica, obbligando a pronunciare qualcosa tipo:

Leggé e dirìtto prévarrànno | nullà giammài provòchi dànno…

Oscillazione tonica abbastanza fastidiosa ma che fortunatamente si verifica solo di rado. Si potrebbe osservare che oggi, noi italiani che inorridiamo all'idea di tradurre l'opera (benché invece nei teatri inglesi sia pratica comune) potremmo cominciare a rivedere certe rigidità, giustificate solo da un purismo asfittico e certamente estraneo alla tradizione storica, e magari ripristinare la bella vecchia abitudine di cantare Wagner e compari in italiano (ottima scuola per tanti giovani poeti a spasso). Ma questo è un altro problema.

Attese deluse

L'interesse di Smetana quindi era rivolto altrove, ovvero al soggetto e alla musica (gli unici aspetti, a ben guardare, che potevano veramente coinvolgere anche il pubblico dell'epoca). Le critiche più accese non attaccarono in nessun caso l'uso della lingua, ma sempre e comunque l'uso (politico) della vicenda leggendaria e il trattamento musicale. Da questo punto di vista l'operazione infatti si rivela radicale: il trattamento degli stili belcantistici italiani, l'appropriarsi delle soluzioni compositive più varie, da Gluck a Wagner, da Weber a Musorgsky, in un insieme originale, eterogeneo ma null'affatto discontinuo o peggio alterno e ricucito, aveva prodotto uno straordinario modello possibile da perseguire; si era cioè venuto a costituire dalla sovrapposizione di stilemi noti uno stile personale originale. Credo inopportuno, come è stato fatto altrove, ricercare in questo o quel passaggio di Dalibor l'influenza dell'uno o dell'altro operista a cui Smetana si sarebbe rifatto. Smetana non compie un collage, rielabora la sua esperienza musicale che è quella di un compositore aggionato e consapevole della produzione europea. Un'esperienza a tutto tondo e disponibile ad ogni soluzione e stile purché funzionali alla necessità drammaturgica. Purtroppo tale approccio internazionalmente 'ecumenico' non apparteneva al suo tempo ed era estraneo alle esigenze di un pubblico fortemente condizionato da valutazioni extramusicali.

A ben guardare l'errore di Smetana fu alimentare un'aspettativa impropria. Col senno di poi non è difficile intuire che la sua esigenza era squisitamente compositiva. Il suo sentimento patriotico non poteva condizionare la sua intelligenza musicale. Smetana con Dalibor ha scritto un'opera tout court, con l'abilità di un compositore certamente boemo ma contemporaneamente integrato nella produzione d'Occidente. Forse il suo errore è stato quello di inserire a forza la sua sensibilità compositiva nella macchina propagandistica. Non è facile dire se di ciò fosse consapevole; se sia stato cioè un rischio calcolato, sollecitato da esigenze storiche che obbligavano a muoversi in un solo senso, ovvero vittima di un'illusione collettiva. Certo è che gli scopi politici hanno avuto la meglio sull'arte.

Due anni dopo, in occasione di una ripresa, Smetana rimise la mani sulla partitura, tagliò in più punti il secondo atto e modificò il finale dell'opera. Ancora nel 1875 e nel 1879 apportò altre modifiche ma non servirono a ottenere un favore che superasse la stima. Solo qualche tempo dopo la sua morte l'opera cominciò a essere riscoperta. Mahler, che opprezzava sinceramente il compositore boemo, fece rappresentare Dalibor in tedesco all'Opera di Vienna, un'anno dopo essere diventato direttore stabile del teatro (era il 1898). L'opera fu accolta entusiasticamente dalla cultura viennese più aggiornata e fu salutata, paradossalmente, come l'inizio della rinascita austrica del melodramma. Ma sortì anche feroci polemiche, soprattutto di stampo razzista che non potevano tollerare il lavoro, così riuscito, di un compositore boemo (ovvero di ceppo slavo) e non propriamente austriaco, né digerivano punto il soggetto trattato, manifesto tanto apertamente anti-asburgico.


Un ribelle che amava la musica

Dalibor è una figura particolarissima per la storia boema. È un eroe idealista (o più correttamente un cavaliere incapace di soggiacere all'ingiustizia) che non lotta con armi e corazze, ma che usa la sua voce e quella del suo violino. È insomma un musicista che sa come raggiungere chi ascolta il suono della sua musica. In questo senso Dalibor si avvicina molto al mito di Orfeo che commuove le fiere con la lira. L'intrinseca natura musicale dell'eroe è tale che "Dalibor" fu il titolo di un importante periodico musicale stamapato a Praga in modo non continuativo fra il 1858 e il 1927. Nel primo numero della rivista si mise in evidenza quanto la musicalità dell'eroe caratterizzasse la sua natura e in fondo lo spirito boemo. Ma la leggenda originaria da cui tre spunto il libretto di Wenzig si discosta abbastanza dal risultato operistico: il personaggio di Smetana tiene pur sempre in mano un violino, ma un violino che non è il suo. Val la pena accostare le due storie, quella leggendaria e quella del libretto, per accorgersi quanto l'antico mito sia stato riadattato ai tempi.

Una leggenda accaduta cinquecento anni fa

Non è dato sapere se la storia sia vera, certo l'ambientazione è corretta. Siamo, secondo la leggenda più antica nell'anno 1498, esattamente cinque secoli fa. La Boemia era un regno, non ancora provincia asburgica. A Praga regnava Ladislao II Jagellone, re cattolico, politicamente poco influente e capace solo di offrire il destro alla formazione di una forte oligarchia nobiliare. I soprusi di singoli fedautari erano all'ordine del giorno e le ripetute rivolte contadine segnarono la stabilità del regno. In quell'anno fu incarcerato in una nuova torre del castello, appena costruita, un nobile che si era creduto avesse avuto l'ardire di sostenere le ragioni dei contadini in rivolta contro i propri signori. Il suo nome era Dalibor. Il re, indeciso circa la sua sorte, lo aveva come dimenticato in quella cella ma, dice la leggenda, Dalibor, per passare il tempo imparò a suonare un violino e presto le sue melodie riuscirono a commuovere chiunque s'avvicinasse alla torre. Il violino di Dalibor sembrava parlare e il popolo tutto si era stretto intorno a lui. I nobili temendo nuove rivolte convinsero il re ad affrettare i tempi della condanna e di lì a poco il violino tacque per sempre. A Dalibor fu tagliata la testa.

Non v'è alcun dubbio che, nella finzione della favola, il violino, e più in generale la musica, diventino in qualche modo l'emblema della giustizia che non può esprimersi e che pure, quasi con un messaggio in codice, riesce a comunicare fra chi è in grado di ascoltare. S'intuisce che la musica è cosa del popolo boemo, è la parola di chi è obbligato a tacere. Per questo è musica strumentale e non un canto o un Lied: rappresenta cioè un linguaggio cifrato che solo gli animi onesti, semplici e incorrotti possono comprendere. È una metafora musicale molto bella che, più o meno inconsapevolmente, è sempre appartenuta all'identità nazionale boema, ovvero all'identità di un paese solitamente condannato a essere governato da poteri lontani: prima i sovrani cattolici (che si sovrapponevano all'indipendentismo hussita e quindi proto-protestante), poi il dominio asburgico.

L'altro elemento significativo riguarda l'azione di Dalibor, o meglio la sua non-azione. È sintomatico quanto quello che dovrebbe essere l'eroe in effetti non faccia nulla se non sopportare l'ingiustizia. L'unico suo agire è nel suonare il violino che, nel significato simbolico, è certamente dirompente ma agli effetti dell'eroismo di Dalibor pare ben poca cosa. S'insinua qui latente quella che è un po' la psicologia di una cultura oppressa (e che noi italiani comprendiamo bene), ovvero il convincimento di quanto sia vano ogni tentativo di rivalsa. Dalibor infatti sarà condannato comunque e il popolo rimarrà sottomesso. Nella sostanza una forma di vittimismo esistenziale che i popoli slavi (ma non solo) sembrano incapaci di superare. Si diceva prima d'Orfeo: ebbene anche Orfeo è in fondo succube delle cose che gli accadono e se pure la sua musica smuove gli inferi, tuttavia è incapace a riportare Euridice alla vita. Che è come dire che la musica, qui e nella leggenda di Dalibor, è assai più potenete e vitale di colui che la produce. Ma, ciò malgrado, proprio perché musica, ovvero qualcos'altro, non è la salvezza delle cose del mondo.

Il libretto

L'Ottocento invece vuole degli eroi a tutto tondo, magari eroi tragici, ma certo non figure trascinate dagli eventi. Dalibor raccontato da Wenzig è infatti un guerriero valoroso che decide il suo destino e non lo subisce. Dalibor ora è veramente colpevole di un reato (cosa che nella leggenda non è): ha ammazzato un suo pari. Dalibor potrebbe salvarsi ma per non vedere schiacciati i suoi ideali preferisce essere incarcerato. Anche in punto di morte Dalibor, piuttosto che subire semplicemente una condanna ingiusta, preferisce farsi uccidere in battaglia. È chiaro che tutto ciò è un ossequio all'ideologia imperante: Dalibor non è importante perché fa delle scelte, ma perché crede in valori sacri ai boemi, l'identità e la libertà.

La lettura che Wenzig fa del mito è tuttavia più complessa. L'opera comincia quando già molti fatti si sono compiuti: Dalibor è stato imprigionato ed è il giorno del processo. Il primo atto, grande e riuscito affresco corale, perfettamente costruito su una continua tensione drammatica, è la narrazione di questo momento. Se ce lo immaginamo come un polittico d'altare possiamo riconoscere al centro l'apparizione solenne di Dalibor incatenato che espone le sue ragioni a chi lo vuole condannare. Nelle scene centrali che precedono e succedono l'apparizione di Dalibor ha luogo l'invettiva e il pentimento di Milada, sorella del feudatorio assassinato da Dalibor; solo agli estremi del grande affresco si situa la figura secondaria di Jitka, fanciulla del popolo (e in questo senso emblema dell'onestà popolare), che verso Dalibor ha solo motivi di riconoscenza.

Dalibor come Cristo

Questa straordinaria simmetria costruttiva, simmetria che non si esiterebbe a definire liturgica, pone Dalibor in una luce diversa, dà cioè alcune suggestioni per operare un parallelo fra il calvario di Cristo e la condanna di Dalibor. Dalibor, dopo il processo, sarà imprigionato e alla fine troverà la morte, ma ovviamente tutto ciò non è sufficiente per proporre delle relazioni. Una scena del terzo atto tuttavia mette in sospetto. Quando si scopre che gruppi di ribelli sono dalla parte di Dalibor e minacciano rivolte il re Vladislav non sa come comportarsi e s'appella al parere del gruppo dei suoi funzionari, i così detti 'Giudici' (che in qualche modo rappresentano l'oligarchia feudale). Questi vogliono la testa di Dalibor e la vogliono quella notte stessa. Vladislav si spaventa e ribatte: "Signori, avete valutato le virtù di quest'uomo? C'è come un ardore divino in lui…". I giudici insistono, il re prova a difenderlo e alla fine non può che accogliere la decisione; deluso commenta: "Io darò l'ordine, ma voi l'avete condannato!". Non è difficile associare la figura del re a quella di Pilato e contemporaneamente avvicinare i Giudici all'intransigenza dei sacerdoti del Sinedrio. Ancora: durante il processo sono le stesse frasi di Dalibor a pocurargli la condanna; il popolo commenta "Con queste parole ha deciso la sua morte!", " Ti sei condannato a morte da solo!" gli rinfacciano i Giudici. Ugualmente i sacerdoti del Sinedrio usano le risposte di Cristo per trovare conferme alla loro sentenza: "Ha bestemmiato! Che bisogno abbiamo di testimoni… È reo di morte!" (Mt 26,65-66).

Milada è l'altra figura che sembra voler contribuire a questa lettura cristologica. È la sorella del feudatario ucciso da Dalibor, e la sua apparizione nel primo atto si realizza quale metamorfosi addirittura miracolosa. Prima è la sua più feroce accusatrice, poi, conosciute le sue ragioni e ammirata la forza d'animo, la saggezza e la nobiltà di quest'uomo, si pente e implora il re affinché Dalibor sia risparmiato. Quella di Milada è una figura intensa e veemente e tanto pare ricalcare il percorso di Maria Maddalena, prima perduta nel peccato, poi conosciuto il Cristo, redenta e votata alla sua causa. L'innamorarsi di Milada dell'assassino di suo fratello è di per sé soluzione insolita ma si giustifica nel momento in cui Dalibor acquisisce elementi soprannaturali. Per ricordare ancora una volta Orfeo, sarà pure un caso (che però gli antropologi potrebbero investigare) ma, come noto, le raffigurazioni più antiche del Figlio di Dio ricalcano il modello iconografico proprio dall'immagine classica di Orfeo. C'è come un filo conduttore che riallaccia tutte queste tradizioni.

D'altra parte Dalibor, al suo apparire, sembra irradiare un carisma che nessuno può fare a meno di riconoscere, nemmeno i suoi detrattori: ha insomma quasi un'aura divina. Il significato è chiaro: Dalibor – come Cristo o come Orfeo – esprime significati che vanno al di là del quotidiano; propone un'affermazione dell'individuo dirompente per il sistema sociale consolidato; fa leva su un sentimento della natura che cozza con ogni gerarchia autoritaria, con ogni legge precostituita. Sono tutti e tre contemporaneamente ribelli e vittime di ciò che pretendono di contrastare. Il misticismo è ovviamente presagito anche nella musica. Il tema chiave che già compare nell'introduzione dell'opera (e che Smetana riprende in più occasioni quasi a indicare la presenza reale o percepita di Dalibor) è una monumentale scala ascendente che dal sol basso raggiunge il do diesis posto due ottave e mezzo più in alto:


Dalibor, atto I, scena I, miss. 16-26.

È un'ascesa faticosa, quasi processionale, di grande suggestione sacrale, tutta in minore che procede per toni lontani (sol minore, mi bemolle minore, si minore, progressione cromatica e chiusa), un'ascesa che potrebbe essere infinita (alla sesta misura il modulo armonico potrebbe riprendere da capo) e che si sfoga per esigenze meramente musicali in un enfatico salto di quarta sull'accordo di fa diesis minore. Smetana insomma non si tira indietro alle suggestioni della religiosità – fors'anche sentimentale ma pur sempre imprescindibile – che distingue la figura di Dalibor.

Trasformazioni della leggenda

Il libretto di Wenzig aggiunge, oltre a Milada, un altro elemento di complessità alla storia: la presenza evocata del violinista Zdenek che, pur essendo già morto prima che l'opera inizi, segna radicalmente gli accadimenti e, soprattutto, altera la leggenda originaria. Zdenek compare per bocca di Dalibor fin dal primo atto quando, conosciute le accuse tremende, egli commuove tutti con la sua storia. Scopriamo infatti che il delitto di Dalibor fu conseguenza di un altro fatto di sangue. Il più caro amico dell'eroe, Zdenek appunto, che tanto dilettava il nostro con il suo violino, fu brutalmente decapitato dal burgravio di Pološkovice per futili motivi. La vendetta di Dalibor fu, di conseguenza, tremenda.

È assai probabile che Wenzig non si sia inventato questo personaggio ma lo abbia tratto da una versione più tarda della vicenda. George Sand, infatti, inserisce l'episodio in un suo interminabile romanzo per signore di più di cento capitoli scritto almeno vent'anni prima. Consuelo, questo il titolo, è ambientato fra Praga e Venezia in un Settecento tutto percorso da primedonne, musicisti e castrati con abbondanza e miscuglio di elementi storici (imperversano personaggi come Porpora, Metastasio, Galuppi, Marcello, ma anche il ricordo della rivolta hussita in Boemia etc.). Qui Consuelo veste i panni che nell'opera sono di Milada, e Zdenek è un po' lo scemo del villaggio, scansato da tutti ma non dall'oscuro Alberto, il nobile boemo che altri non è che Dalibor rivisitato. È chiaro che la leggenda circolava, almeno nel secolo scorso, in questa più tarda versione ovvero con l'interpolazione dell'amico da vendicare, ed era sufficientemente diffusa da poter essere conosciuta anche da un personaggio estraneo ai nazionalismi cechi come Georg Sand. František Kott aveva composto all'inizio degli anni Quaranta un'opera tedesca sulla vicenda di Dalibor ed è possibile che tal Perger, il librettista, abbia fornito i primi spunti per una revisione del mito; d'altra parte l'opera è perduta e non sembra possibile stabilire se Wenzig conoscesse questo testo (l'altra Dalibor di Adolf Albert Posdena è di qualche anno posteriore a Smetana).

Sia come sia l'alterazione però non è da poco. Se prima Dalibor gridava col suo violino la sua voglia di libertà dalla finestrella della torre in cui era ingiustamente imprigionato, ora la sua condanna è ben più motivata. Dalibor è diventato un omicida, non impara più a suonare il violino (ovvero a parlare il linguaggio del popolo soggiogato), perché il violino lo suona l'amico Zdenek.

Per comprendere il significato simbolico di Zdenek bisogna giungere alla fine del secondo atto quando Milada, innamorata di Dalibor ormai imprigionato, per poterlo avvicinare è riuscita a farsi benvolere da Beneš, il carceriere, occultando la sua vera identità sotto i panni di un trovatello. Così parla Beneš di Milada:
Il ragazzo è un povero mendicante,
è arrivato con in mano solo la sua lira
e la sua voce, piena di dolci canti.
Milada quindi canta en travesti e, come tutti i cantori girovaghi, si accompagna con uno strumento a pizzico. La lira, che Smetana rievoca con gli arpeggi dell'arpa da concerto, precede o accompagna gli ingressi di Milada. Anche Zdenek è un musicista e questo è un primo elemento che avvicina i due personaggi. Ma c'è dell'altro.

Dalibor quando conosce i mutati sentimenti di Milada se ne innamora, sinceramente, appassionatamente. Un tenero duetto, pur costretto nelle angustie del carcere, chiude il secondo atto. Ma la coda strumentale al duetto abbandona il tema principale per recuperare un'altra melodia:


Dalibor, atto II, quadro III, scena VI, miss. 995-999.

Non si fa fatica a riconoscerla: è la melodia che cantava Dalibor (I atto, scena IV) quando, in estasi e di fronte al tribunale e al popolo tutto, narrava dello straordinario violino di Zdenek. Anche la tonalità è la stessa:

Dalibor, atto I, scena IV, miss. 605-608.

Il caro oggetto

In effetti il rapporto fra Dalibor e Zdenek va ben al di là di un fraterno sentimento di amicizia. Non solo le parole con cui Dalibor ricorda, durante il processo, il compagno ucciso sono quelle che si potrebbe rivolgere a un amante ma addirittura i versi dell'aria sono senza difficoltà metafora di un vero e proprio congiungimento carnale.
Ho sempre resistito alle seduzioni femminili.
Desideravo solo la compagnia di un amico fedele.
Le mie preghiere furono ascoltate
e una dolce amicizia nacque per Zdenek.

E quando il mio Zdenek, col suo strumento,
si produceva in magistrali colpi d'arco,
godevo d'una dolcezza infinita
che s'ergeva alta nel firmamento celeste.
Imbarazzante. In effetti la versione ceca – rispetto all'originale tedesco – è più sfumata ed evita l'ambiguità di parole come Bogenstricht (colpo d'arco) preferendo immaginare una musica, quella di Zdenek, assai più astratta seppur ugualmente capace di far toccare il cielo. Il senso di ascesi (che tuttavia non esclude altre possibili erezioni) è insistito dalla ripetizione della parola povznesen (si eleva) non meno che dall'enfasi melodica e musicale (in movimento ascendente e in crescendo fino allo sforzato del la acuto).

Dalibor, atto I, scena IV, miss. 605-608 .

A prescindere da quelli che potevano essere i possibili coinvolgimenti personali di Wenzig nello scrivere e insistere su questi aspetti, è chiaro che non ha senso che Dalibor ami Zdenek come uomo. Non ha senso perché siamo nell'Ottocento, perché la liberazione sessuale è ancora da venire, perché non è nelle intenzioni dei suoi autori presentare Dalibor come eccentrico, né tantomeno come depravato (e tale sarebbe stato il riconoscimento tributato dall'opinione pubblica dell'epoca). Il significato di tal scena è diverso da quello che appare perché Zdenek non è un uomo. Ed evidentemente non è neanche una donna. Zdenek non è. Semplicemente. Innanzi tutto perché è morto, e già questo non è elemento secondario, ma soprattutto perché rappresenta qualcosa di più complesso che si giustifica solo reintegrando in questa analisi la figura di Milada.

Milada infatti, come detto, riesce ad avvicinare Dalibor travestendosi da cantore, secondo uno stratagemma già brillantemente attuato nel Fidelio beethoveniano. Dalibor ha chiesto a Beneš di procurargli un violino per alimentare il ricordo di Zdenek, ormai sua unica ragione di vita. Beneš, che ha accolto in casa Milada credendola un ragazzo, incarica il/la giovane di portare lo strumento al prigioniero. Milada in panni maschili e con il violino in mano appare a Dalibor che nel delirio forse crede di riconoscervi Zdenek. Il libretto su questo punto è abbastanza esplicito nel distinguere fra il fantasma di Zdenek evocato (ruolo muto previsto nella lista dei personaggi) e l'apparizione di Milada; ma non si fa fatica a sovrappore i due ruoli come letture diverse di una stessa presenza. Dalibor stesso dopo che Milada gli ha rivelato la sua vera identità chiarisce il significato della scena e, rivolgendosi al fantasma, dichiara:
Oh Zdenek, ora capisco perché sei venuto.
Hai voluto con il tuo suono incantatore
annunciare l'arrivo della mia liberatrice
che ora prenderà il tuo posto nel mio cuore.
In questi termini pare fin troppo intercambiabile il sentimento di Dalibor per i due, sentimento in origine pur tanto appassionato. Ma è chiaro che Milada e Zdenek sono la stessa persona che proprio in questa scena rendono esplicita la loro identità. Dalibor li ama entrambi come un'unica cosa non per quello che sono separatamente, ma per ciò che rappresentano uniti; e d'altra parte ora nella prigione né Zdenek né Milada sono se stessi – lei privata della sua identità da un travestimento, lui dissolto nell'evanescenza di un'apparizione – e per questo più immediatamente sovrapponibili (non è un caso che alcuna notizia della loro vicenda biografica sia nota).

La morte di Milada in fine opera (di poco precedente a quella dello stesso Dalibor) serve proprio a ricongiungere la parte femminile dell'oggetto amato da Dalibor a Zdenek, l'elemento maschile, creando un ideale androgino che riesce a essere in sé solo nel momento in cui l'individualità delle sue parti non è più. Dell'esplicitazione di questa congiunzione si fa carico proprio la musica che sulle commesse parole di Dalibor ("Non mi lasciare…") sovrappone e interseca gli arpeggi dell'arpa (lo strumento emblematico di Milada) con il tema di Zdenek:


Dalibor, atto III, scena IV, miss. 605-608.

L'androgino mito pagano

Ma qual è il ruolo di questa figura androgina che cattura l'amore di Dalibor? Si potrebbe a questo punto ripercorrere proprio quelle che sono alcune eresie care alle sette proto-protestanti (fra cui anche gli hussiti di Boemia), teorie che poi si sono conservate fino ai nostri giorni sia in credenze popolari che in rituali alchemici e massonici. Si potrebbe, ma non avremmo alcuna certezza che Wenzig, Smetana o la cultura che doveva aver prodotto questa versione tarda della leggenda sia stata eventualmente partecipe di tali idee. Certo è che quasi tutti i mistici anti cattolici hanno da sempre fondato gran parte delle loro tradizioni sul mito dell'androgino, fosse solo per il motivo che il cattolicesimo lo volle sempre rifiutare. I testi di Elémire Zolla seguono con raffinata perspicacia questo tema e ci dicono che i seguaci di un pensatore come Jakob Böhme (1575-1624), che tanto condizionò la filosofia mistica in quelle terre, reintroducono l'androgino quale nucleo generatore della loro cosmogonia, rappresentazione di completezza e verità. Dove tale figura è in quelche modo rappresentazione di Dio stesso, del Dio che crea Adamo maschio e femmina a sua immagine e somiglianza (privato solo successivamente della sua parte femminile affinché gli fosse restituita separato).

Qualunque fossero i convincimenti della cultura boema ottocentesca è sicuro che la mitologia locale e classica non poteva che apparire in contrasto al cattolicesimo ufficiale asburgico, ovvero rivelarsi più vera a motivo della sua originarietà. Ma l'oggetto amato da Dalibor – così bisessuato, e quindi asessuato – se da un lato esprime la rivendicazione di una religiosità popolare, dall'altro è esso stesso, per la finitezza della sua essenza, affermazione del vero e della giustizia. Contemporaneamente però assume su di sé un altro ruolo, separato e aggiunto: quello del musicista, o meglio del dispensatore di musica: ruolo che si esprime attraverso entrambi i suoi volti, quello maschile e quello femminile, quello strumentale e quello vocale (Zdenek suona e Milada canta) e che attraverso tale medium sonoro esprime il verbo del popolo ceco, come in origine proponeva la leggenda, perché il popolo ceco, come ripetutamente dichiarato, è popolo fondamentalmente musicale. Zdenek e Milada – così uniti – sono insomma la rappresentazione stessa di quelle genti sottomesse, assumono su di sé l'anima dei boemi tutti, o almeno quei boemi che, partecipi della tradizione più antica, esprimono le radici più autentiche e proprie della nazione ceca.

L'amore di Dalibor, del Dalibor-Cristo di cui si diceva, è quindi l'amore di Dio che si esprime non nella Trinità cattolica, ma nel Figlio crocifisso, ovvero condannato da quella gerarchia ecclesiastica che sembra ignorare le verità più semplici e vere proprie del popolo-nazione. È quell'amore spesso rappresentato dalla metafora carnale (così come lo racconda ad esempio il Cantico dei Cantici, o l'immagine matrimoniale di Gerusalemme supina a Dio), qui traslato nell'immaginario tradizionale che auspica la propria nazione ricongiunta al Cristo marito e protettore.

Anche Dalibor risorge perché si diffonda il verbo: la sua leggenda vive, ancor oggi. E se è solo l'opera, magari poco conosciuta, di un compositore del secolo scorso a rendere giustizia a questa tradizione, rimane solida la verità in essa espressa. Nessuno potrà uccidere la musica, né quella del popolo boemo, né quella del mondo tutto.