Maurizio Modugno

INTRODUZIONE A «THÉRÈSE» DI MASSENET

INVITO ALL'ASCOLTO DI MASSENET

MURSIA


THÉRÈSE - Drame musical en deux actes, libretto di Jules Clarétie (prima rappresentazione: 7 febbraio 1907, Montecarlo, Théâtre de l'Opéra).

«[...] Nella mia lunga carriera, quattro opere soprattutto mi hanno dato, nel lavorarvi, gioie che non esito a qualificare speciali: «Marie-Magdeleine», «Werther», «Sapho» e «Thérèse» [...] Il periodo della nascita di Thérèse è effettivamente positivo come pochi per Massenet: [...] Thérèse si presenta non solo come uno dei piú densi grumi di musica ed emozioni usciti dalla penna del Nostro [...]
Da Thérèse poi prende avvio il segmento piú soffertamente crepuscolare della sua attività, un primo tirar le fila dei motivi dominanti della «poetica del tramonto», già svolti, già seguiti, sia pur a tasselli, altrove. L'argomento dell'opera, combinato disposto di storia e fantasia (vi viene adombrato il personaggio vero di Lucie Desmoulins), tagliato e versificato ad arte, ne è l'humus ideale. Eccolo.

Thérèse, moglie del girondino André Thorel, convince il marito a tornare al castello, nei pressi di Versailles, appartenuto ad Armand de Clerval. Era costui un realista emigrato per la Rivoluzione, un tempo innamorato di Thérèse e da lei corrisposto. Anche Armand torna al castello, come per un misterioso richiamo. L'incontro fra i due, fatalmente, ridesta i non sopiti amori. Thorel, anch'egli amico di Clerval (per cui ha serbato castello e proprietà), non s'accorge di nulla e ospita il transfuga prima a Versailles, poi a Parigi. Con il salvacondotto da lui procurato, Thérèse e Armand, pur tormentati dal rimorso, s'apprestano a fuggire. La strage dei girondini è in atto: Thorel viene catturato e condotto al patibolo. Thérèse lo scorge dalla finestra, rinuncia alla fuga e, in un empito di recuperato amor coniugale, si affaccia gridando «Vive le Roi!». La folla furibonda invade la casa e trascina la donna alla ghigliottina.

Come già per Sapho, la dimensione dominante di Thérèse è quella del temps perdu, del ricordo. [...] Thérèse non rifiuta integralmente la dimensione del presente, come Sapho: ma la percussione degli affetti qui è ottenuta dal continuo raffronto fra l'attuale e il non attuale; dall'urto dell'onda dei rimpianti con la realtà stupida e feroce del Terrore o grigia, come quella d'un ménage senza amore; e ha il suo motore nella ricerca del passato, dei «se stesso» d'allora. Ecco dunque che l'evento-chiave di volta dell'opera è il «pellegrinaggio» di Thérèse al castello de Clerval: un «retour du côté de chez [...]» espressamente voluto per ritrovare un tempo perduto ed insieme per fuggire dalla città-incubo (è la terza volta che Massenet dà spazio al tema del complesso di fuga dalla metropoli verso la campagna). Un identico impulso spinge Armand a tornare nei luoghi aviti [...]. L'incontro e il duetto fra i due è causa di un'altra epifania del passato: quella celebre del minuetto al clavicembalo. Che traspare, come distante, come una traccia remota della psiche misteriosamente riportata in luce dalle parole di Armand. E che ha la plurima valenza di evocazione di un'antica douceur de vivre (e vien in mente l'aria di Grétry in bocca alla Contessa nella Dama di Picche); di «tentazione», di invito alla trasgressione dell'ordine familiare attraverso il richiamo di quel Settecento sinonimo di «licenziosità»; di indicibile suggestione nostalgica, quasi una «Sonate de Vinteuil ancien régime». Il segno del tempo è ancora in evidenza nella proposta paesaggistica di Thérèse: la natura «assombrie», i colori spenti, il lento cadere delle foglie, sono lo specchio d'una scorsa stagione del cuore, un esibire malinconiche cicatrici e rughe d'espressione. L'autunno percorre come un brivido i due atti dell'opera: come dominante della «patina» complessiva, che riprende certe tavolozze cromatiche di Werther e di Sapho, certe gamme timbriche di sapore brahmsiano e ciaikovskijano, certo trascorrere morbido, intimo, stanco della linea vocale; e come precisa e ricorrente idea tematica, per quel motivo caratteristico che s'usa chiamare «delle foglie morte» e che - scrive Gérard Condé - appare subìto nel primo duetto fra André e Thérèse sotto le parole: A celui que le vent, comme ces feuilles mortes [...]. La triste vie inquiète et terrible [...] Ce n'est pas un chagrin que tu me cacherais». Il motivo tornerà nell'interludio intitolato «La chute des feuilles» che precede il ritorno di Armand alla ricerca del proprio passato, quindi naturalmente durante il suo duetto con Thérèse. Nel secondo atto lo si riascolterà, infine, quando Thérèse dirà «Adieu le cher passé».
Alla dimensione struggente e lirica della memoria, s'oppone in «Thérèse» quella tumultuosa e drammatica della storia. Come sempre, Massenet si è attentamente documentato sulla musica del tempo della Rivoluzione Francese. Si noterà un brandello della Marseillaise che affiora quando André parla della patria in pericolo e quando Thérèse dice «Je suis la Girondine»; si noterà (perché espressamente nominata nella partitura) la romanza «Il pleut bergère» di Fabre d'Eglantirie, cantata fuori scena da una voce maschile e da una voce femminile; si noteranno tanto la canzone dei soldati, l'inizio dell'opera, quanto lo slancio rivoluzionario di certe tirate di Thorel, quanto i tamburi militari onnipresenti e i crieurs che leggono per le strade gli elenchi dei condannati e dei proscritti. Ciò che non è autentico, è in stile o abilmente ricostruito su materiali d'epoca. S'aggiunga che il turbine degli accadimenti e la ferocia della folla, insomma lo «spirito del Terrore» hanno qui ricevuto da Massenet un marchio dì realistica violenza, sbalzata da un'orchestra vulcanica e da un canto repentino, spinto su e giú per la gamma in modi spesso bruschi di cui trovasi un precedente solo in La Navarraise, opera affine a «Thérèse» per impianto formale e cifra drammaturgica.
Il triangolo umano che agisce in Thérèse è invece simile a quello del Werther: un amore sacrificato a quel «dovere» che incombe su tutta l'opera. Il bovarismo di Thérèse, come quello di Charlotte, è innegabile. Solo che i tempi e le idee sono cambiati. Massenet ha abbandonato le rampogne del romanticismo sociale e del positivismo: ai personaggi-vittima ne succedono ora altri assai piú responsabili del proprio agire, ai non-eroi subentrano dei quasi-eroi. Thérèse la Girondina, certo non è Léonore-Fidelio, ma il suo sacrificio è comunque da epigrafare come beau geste. Sospettiamo però che in costei s'ascondano piú che la repressione erotica, un'inquietudine, una nevrosi da deuteragonismo: Thérèse cerca in realtà affermazioni personali da contrapporre ad un marito-rivoluzionario-perfetto, altrove in nome della triade Liberté-Egalité-Fraternité. Il ritorno al castello è appunto una ricerca di se stessa; il progetto di fuga con Armand è una rivolta contro la sublimità morale di André; ma la decisione di seguirlo sul patibolo è la scelta definitiva perché esibitoria d'una propria statura eroica pari, se non superiore, a quella del consorte. E «Vive le Roi» non è piú il grido della provinciale, della schiava d'amore, dell'artista contro i borghesi, ma della donna che chiede spazio nella storia accanto all'uomo, se non oltre.


Il Preludio inizia tempestosamente, un allegro con fuoco assai ritmato e sonoro, evocativo di turbamenti storici in atto (domina il tema della folla, biechissimo), mentre quelli dell'animo son rimessi ad una breve sezione «lento, triste, cupo» ove s'anticipa l'Interludio della caduta delle foglie. Ripreso fervore, la pagina si lega - attraverso il rullare dei tamburi militari - alla canzone dei soldati, caratterizzata dall'energico battere a terra del calcio dei fucili. La prima scena è animata dal disegno costantemente accentato dell'orchestra, su cui si dipanano la conversazione degli ufficiali e parte di quella dei coniugi. Thorel, dopo alcune parole affettuose a Thérèse, rivolge una breve orazione ai soldati «Protegez nos foyers», «il cui stile» osserva Condé «è esplicitamente quello di Méhul». L'atteso duetto fra Thérèse e André è iniziato con eloquenza da lei: «Le devoir!»: e chi avanza dei dubbi sulla lettura femminista e nevrotica del personaggio da noi offerta, segua con quale rifinitura strumentale Massenet dia supporto al canto a partire dalle parole «Pour vous l'amour?» e poi quale turbine oscuro drammatizzi l'evocazione dell'«Immensa Parigi». L'apertura al flusso dei ricordi è invece opera di André: il tema delle feuilles mortes, dolcemente grigio e ventoso, coinvolge entrambi e s'avvince a Thérèse anche quando resta sola, espandendosi con commosso lirismo in «Mon coeur a gardé son image».
La «Caduta delle foglie» - ossia le due pagine orchestrali che accompagnano l'entrata di Armand - possiede l'obbligatorio color «mauve fanée» di viole e violoncelli, segue un ritmo in 3/4 stancamente volteggiante, mostra qualcosa d'ossessivo che l'iterazione delle terzine comincia a render sinistro. Il soliloquio di Armand non ha reale soluzione di continuità con quello di Thérèse e col duetto di costei con Thorel: la musica - non le parole - svela quasi una telepatia di pulsioni e dice dell'ansia suicida di Clerval, con quel fondale struggente di corni e violoncelli e con quell'ascesa repentina, wertheriana, al si naturale. L'arrivo di Thérèse è causa del piú importante duetto dell'opera: e di uno dei piú intensi di tutto Massenet, per quello scavarsi dei personaggi sino al dolore, per quel dire e negare dì cui l'orchestra dice il fondo piú intimo. Ed ecco sorgere il Minuetto, «lento e malinconico» al clavicembalo, accompagnato dal pizzicato degli archi con sordina, dal triangolo e dai timpani, ma poi espanso al canto, nell'insinuante, suadente pungolo «Le menuet de cour, le menuet d'amour». L'arrivo d'André reca una sfebbrata - la temperatura era pericolosamente alta - e l'atto si chiude nel forzato rispetto delle regole borghesi, mentre la canzone dei soldati si dilegua lentamente.


Il Preludio al secondo atto riprende all'inizio il Minuetto ma con diversa distribuzione strumentale (archi, arpa e triangolo), prosegue con una sezione cantabile di impronta ciaikovskijana e gira bruscamente pagina con il «lento» in 9/8, scandito dagli ottoni, anticipando i due terni dell'imminente soliloquio di Thérèse. Al levarsi del sipario, sparsi «bruits de la Terreur» salgono dalla strada. Thérèse è sola: la sua aria «Jour de juin! Jour d'été!» è tutto fuorché solare, anzi v'è impresso un segno cupo drammatico, e poi nostalgico quando l'oboe evoca agresti serenità, sognando «Comme on serait heureux au champs! La scena con Thorel affida alle voci una conversazione-canto da pièce borghese, mentre è ancora l'orchestra a darsi carico di comunicare l'inespresso (si badi alla dialettica diatonismo, cromatismo per Thérèse). Entrato Armand, v'è - incantevole - l'abbozzo di un trio «Armand, le danger s'accroît!» e l'addio, nobile e commosso, è ancora un classico massenetiano: due personaggi il chiuso soffocante d'una stanza, passione e repressione, imperativi dei dovere e del piacere, con il tema delle foglie ormai vero incubo sonoro, i violini patetici, gli ottoni martellanti. Poi il violino solo e le arpe - stavolta tutt'altro che redentrici - s'invitano all'abbandono d'ogni freno: «Ah, viens, partons [...] Fuyons» è momento di pura voluttà, ammiccante al «salon», certo, ma ove questo sia inteso come anticamera di un boudoir che il fremente «à deux» sembra qui schiudere. Gli annunci concitatissimi di Morel fermano l'adulterio. Il resto è scena madre da grande attrice-cantante, solo per Thérèse. La ripresa ormai isterica di «Jour de juin! Jour d'été», i tremoli convulsi degli archi, ottoni e tamburi, il sorgere del tema color pece della folla, portano il canto della protagonista ad una percussione drammatica talmente violenta che in fondo lo sbocco nel delirio parlato del finale appare naturalissimo.

Quando ritorna in sé, riprende il canto, per l'ultima frase: «O mort! Ouvre tes bras! [...] Marchons!». Massenet, nei «Souvenirs», rende merito alla Arbell dell'idea del parlato:

Non potrò mai cantare la scena sino alla fine: quando riconosco il mio uomo, quello che mi ha dato il suo nome, che ha salvato Armand de Gerval devo perdere la voce. Le domando dunque di declamare tutto il finale dell'opera.

Ed in effetti Gérard Condé ha rilevato nell'abbozzo autografo per canto e piano che la linea vocale già annotata per diverse battute, è stata cancellata e sostituita da ritmi senza altezza». In appendice alle edizioni a stampa di Thérèse figura la versione cantata, musicalmente identica, salvo il dettaglio per cui Thérèse lancia due volte il grido «Vive le Roi!». Ma l'effetto ne è come smorzato.