HENRI MURGER

SCÈNE DE LA VIE DE BOHÈME - 4
LA BOHÈME O GLI EROI DELLA MISERIA





XIX.
I CAPRICCI DI MUSETTE

Il lettore si ricorda forse ancora, come Marcello vendette il suo famoso quadro il ‘Passaggio del mar Rosso’ all'ebreo Medici, perché servisse d'insegna ad un negozio di commestibili. Il giorno successivo a questa vendita (che era stata seguita da un magnifico pranzo dato dall'ebreo ai bohèmes come aggiunta al contratto) Marcello, Schaunard, Colline e Rodolfo si svegliarono assai tardi. Storditi ancora dai fumi dell'ebbrezza dei giorno innanzi, non si ricordavano più di quanto era successo, e mentre l'Angelus del mezzogiorno suonava, si guardarono l’un l’altro con un sorriso malinconico.
- Ecco la campana dal pio concento che chiama al refettorio l’umanità - disse Marcello.
- Difatti - rispose Rodolfo - questa è l'ora solenne in cui la gente onesta si pasce nella sala da pranzo.
- Bisognerebbe pensare a diventare gente onesta ancora noi - mormorò Colline pel quale tutti i giorni eran dedicati a Sant'Appetito.
- Oh! vasi di latte della mia balia; oh! quattro pasti al giorno della mia infanzia, che diventaste mai? - aggiunse Schaunard. - Che diveniste voi? - ripeto sopra un motivo pieno di dolce e grave mestizia.
- E dire che in Parigi, a quest' ora, vi sono più di centomila costolette sulla gratella - disse Marcello.
- Ed altrettante bistecche aggiunse Rodolfo.
Mentre i quattro amici mettevano sul tappeto la terribile questione quotidiana della colazione, i camerieri di una trattoria, che era nel medesimo stabile, gridavano come una orribile antitesi, gli ordini ricevuti dagli avventori.
- Non taceranno mai quei bricconi? - disse Marcello. - Ogni loro parola mi fa l'effetto di un colpo di zappa che mi fori lo stomaco.
- Il vento è a tramontana - osservò gravemente Colline, indicando una banderuola in evoluzione sopra un tetto vicino. - Noi non faremo colazione stamattina, gli elementi vi si oppongono.
- Perché? - domandò Marcello.
- È un’osservazione atmosferica che ho fatto - rispose il filosofo - il vento di tramontana indica generalmente astinenza, mentre il vento di mezzogiorno indica divertimenti e buon pranzo. Questo è ciò che la filosofia chiama gli avvisi dall'alto.
Gustavo Colline, a digiuno, aveva lo scherzo feroce.
In quel punto Schaunard, che aveva sprofondato un braccio nell'abisso che gli serviva di tasca, lo ritirò mandando grida disperate.
- Aiuto, aiuto! - urlava egli, tentando di liberare la mano, chiusa fra le branche di un gambero ancor vivo - c'è qualcuno nella mia tasca!
Al suo grido ne rispose un altro. Era Marcello che mettendo macchinalmente la mano in tasca, aveva scoperto una California, alla quale non pensava più: cioè i dugentocinquanta franchi che l'ebreo Medici gli aveva dato il giorno prima in pagamento del ‘Passaggio del mar Rosso’.
Allora tutti i bohèmes riacquistarono la memoria.
- Salutate, signori - disse Marcello, spandendo sulla tavola una quantità di scudi, fra i quali guizzavano due o tre luigi nuovi.
- Sembrano vivi - disse Colline.
- Che bella voce ! - esclamò Schaunard facendo suonare le monete d'oro.
- Come son belle queste medaglie! - aggiunse Rodolfo - paiono pezzetti di sole. Se fossi un re, non vorrei moneta d'altra qualità, e la farei coniare col ritratto della mia amante.
- E pensare che vi è un paese in cui questi sono sassi! - disse Schaunard. - Una volta gli Americani ne davano quattro per un soldo. Ho uno zio che visitò l'America: egli fu sepolto là, nel ventre dei Selvaggi con grande dolore della famiglia.
- Ah, di' un po'? - domandò Marcello guardando il gambero, che s'era messo a passeggiare per la camera i dove viene questa bestia?
- Mi ricordo - disse Schaunard - che ieri feci un giro nella cucina di Medici; bisogna credere che quel rettile sia caduto nella mia tasca senza farlo a bella posta; queste bestie hanno la vista sì corta! Ma dacchè è qui aggiunse egli - ho volontà di tenermelo: lo addomesticherò e lo dipingerò di rosso, diventerà così più allegro. Dal dì che Femia se ne andò, son malinconico: esso mi terrà compagnia.
- Signori - esclamò Colline - la banderuola si è volta a mezzogiorno: noi faremo colazione.
- Lo credo bene, per Bacco! - disse Marcello pigliando una moneta d’oro - eccone qui una che faremo cuocere e con molta salsa, anche!...
Si procedette lungamente, e con gravità, alla discussione di ciò che si doveva ordinare. Ciascun piatto sollevò un incidente, e si votò alla maggioranza.
La frittata proposta da Schaunard venne rigettata colla più grande sollecitudine; così pure i vini bianchi, contro i quali Marcello sorse con una improvvisazione che fece risaltare le sue cognizioni enofile.
- Il primo dovere del vino - diss’egli - è di esser rosso: non parlatemi dunque di vini bianchi.
- Però, lo sciampagna?! - disse Schaunard.
- Ah, bah; un sidro elegante! un ‘cocò’ epilettico! Darei tutta la cantina di Epernay o di Aï per una bottiglia borgognona. D'altra parte, noi non abbiamo né grisettes da sedurre, né vaudevilles da scrivere. Io voto contro lo sciampagna.
Una volta approvato il programma, Schaunard e Colline scesero dal trattore per ordinare la colazione.
- Se accendessimo un po’ di fuoco! - disse Marcello.
- In verità, non saremo in contravvenzione - rispose Rodolfo. - Il termometro ci invita da un pezzo; accendiamo il fuoco. Il camino ne sarà tutto attonito.
E corse alla scala per raccomandare a Colline di far portare la legna.
Alcuni minuti dopo, Schaunard e Colline risalivano, seguiti da un carbonaio carico di un grosso fascio di legna.
Mentre Marcello frugava in un cassetto per cercare qualche carta inutile per accendere il fuoco, trovò, per caso, una lettera, la cui scrittura lo fece trasalire, e ch'egli si pose a leggere di nascosto.
Era un biglietto scritto col lapis da Musette, nel tempo che stava con Marcello; quella lettera aveva appunto un anno di data: non conteneva che queste poche parole:

Mio caro amico,
non stare in pensiero per me; ritorno subito. Sono andata a passeggiare un momento per riscaldarmi, qui in camera si gela, ed il carbonaio non lo sa. Ho bruciate le due ultime gambe della sedia, ma non durarono il tempo a di far cuocere un uovo. Di più, il vento entra in camera come se fosse in casa sua, e dal vetro rotto mi soffia una quantità di cattivi consigli, che ti farebbero dispiacere se a forse li ascoltassi. Preferisco uscire un momento; andrò a a vedere le botteghe del quartiere. Dicesi che vi è del velluto a dieci franchi il metro; è incredibile, bisogna vada a vederlo. Per l'ora di pranzo sarò a casa.
La tua a MUSETTE.

- Povera ragazza! - mormorò Marcello mettendò in tasca la lettera; e restò pensieroso un momento, colla testa fra le mani.
A quell'epoca era già molto tempo che i bohèmes eran vedovi, eccettuato Colline, la cui amante era stata sempre invisibile ed anonima.
La stessa Femia, l’amabile compagna di Schaunard, s'era incontrata in un’anima candida che le aveva offerto il suo cuore, un mobilio di mogògono, ed un anello di capelli, capelli rossi! Però, quindici giorni dopo, l’amante di Femia volle riprenderle i mobili ed il cuore, perché s' era accorto, guardando le mani della sua amica, che ella aveva un anello, di capelli, ma neri; ed osò sospettarla di tradimento.
Quando però seppe che Fernia non aveva cessato d’essere virtuosa, ma che aveva fatto tingere in nero i capelli perché le sue amiche l'avevano spesso derisa a causa dei capelli rossi, il signore fu sì contento, che le comprò una veste di seta: era la prima. Il primo giorno che la rinnovò, la povera fanciulla disse:
-Ora posso morire!
Quanto a Musette era diventata nuovamente un personaggio semi-ufficiale: da tre o quattro mesi Marcello non l'aveva incontrata. Di Mimì, Rodolfo non aveva più udito parlare, se non da lui stesso, quand'era solo.
- Ebbene! - esclamò tutt'ad un tratto Rodolfo vedendo Marcello accasciato e pensieroso accanto al fuoco e questo fuoco? Non vuoi accendersi?
- Ecco! ecco! - disse il pittore accendendo la legna che fiammeggiò scintillando.
Ma, mentre i suoi amici aguzzavano l'appetito, facendo i preparativi del pasto, Marcello erasi isolato di nuovo in un canto, ed univa la lettera di Musette ad altre memorie, ch'ella gli aveva lasciato. Tutt'ad un tratto, gli venne in mente l’indirizzo d’una donna, ch'era l’amica intima della sua antica fiamma.
- Ah! - esclamò egli abbastanza forte da essere inteso - so dove trovarla.
- Trovar che cosa? - domandò Rodolfo. - Che cosa fai lì? - aggiunse vedendo l’artista che si metteva a scrivere.
- Nulla; una lettera urgentissima ch'io dimenticavo. Vengo subito - disse Marcello - e scrisse:

Mia cara fanciulla!
Ho delle somme nel mio scrigno.: è un’apoplessia di ricchezza fulminante. In casa si sta preparando una splendida colazione con vini generosi, e noi abbiamo acceso un fuoco, mia cara, come fossimo capitalisti. Bisogna vedere! Come tu dicevi una volta. Vieni a passare un momento con a noi: troverai qui Rodolfo, Colline e Schaunard; ci canterai delle canzoni al dessert, poiché c’è il dessert! Giacché ci siamo, staremo a tavola otto o dieci giorni. Non aver a paura dunque di arrivare troppo tardi. È tanto tempo che non ti sento ridere! Rodolfo ti farà qualche madrigale, noi a berremo ogni sorta di vino alla salute del nostro amore defunto... salvo a risuscitarlo. Fra gente come noi, l'ultimo bacio non è mai l'ultimo. Tu mi tradisti per una fascina, giacché avesti paura di avere le mani rosse; hai a fatto bene. Non sono in collera più per questa, che per le altre volte; ma vieni a scaldarti, fintanto che v' è del fuoco.
Ti bacio quanto vuoi.
MARCELLO.

Finita questa lettera, Marcello ne scrisse un'altra alla signora Sidonia, l'amica di Musette, in cui la pregava di far recapitare il biglietto che le mandava.
Poi scese dal portinaio per spedire la lettera. Mentre gli pagava la commissione anticipata, il portinaio vide nelle mani del pittore luccicare una moneta d'oro; sicchè prima di partire per far quella corsa, salì dal padrone di casa, col quale Marcello trovavasi in debito pel fitto scaduto.
- Signore - gli disse tutto ansante - l'artista del sesto piano, ha danaro! Voi sapete bene, quello grande che mi ride in faccia, allorché gli porto la quietanza.
- Sì - rispose il padrone - colui che ebbe la sfrontatezza di farsi prestare da me il danaro per darmi un acconto. L'ho licenziato.
- Sì, signore. Ma oggi è pieno d'oro: poco fa mi ha arso gli occhi. Dà delle feste, è il vero momento buono.
Va bene - riprese il padron di casa - tra poco vi andrò io stesso.
La signora Sidonia, che si trovava in casa quando fu recata la lettera di Marcello, mandò subito la sua cameriera a portare il biglietto per Musette.
Essa abitava allora un elegante appartamento della Chaussée-d’Antin. Quando le portarono la lettera, trovavasi in compagnia del suo amante, e precisamente in quella sera era invitata ad un gran pranzo di gala.
- Questo sì è un miracolo - esclamò Musette, ridendo come una pazza.
- Cosa c'è ? - le chiese il giovanotto rigido come una statua.
- È un invito a pranzo - rispose la fanciulla. - Eh! come arriva a proposito!
- Arriva anzi in mal punto - disse l'altro.
- Perché?...
- Come? Avreste intenzione di andare a questo pranzo?
- Sicuro, che ne ho intenzione!... Accomodatevi come volete.
- Però, cara mia, non sta bene:... Vi andrete un’altra volta.
- Oh quet'è bella! Un'altra volta! È una vecchia conoscenza... Marcello, che m'invita a pranzo! È cosa abbastanza straordinaria, perch'io vada a vederlo in faccia! Un'altra volta!... ma i suoi pranzi son rari come gli eclissi.
- Come, ci mancate di parola per andar a vedere questa persona? - disse il giovanotto - E lo dite a me?...
- A chi volete che lo dica? Al Gran Turco? Io credo che ciò non lo riguardi.
- Ma è una franchezza ben singolare la vostra!
- Sapete bene, che io non faccio nulla come gli altri! - aggiunse Musette.
- Ma che cosa pensereste voi di me, se vi lasciassi andare, sapendo dove andate? Riflettete, Musette, per me, per voi, ciò è sconvenientissimo. Bisogna che facciate le vostre scuse a quest'uomo, dicendogli che siete invitata altrove.
- Caro signor Maurizio - riprese madamigella Musette con voce fermissima - prima di prendermi, voi mi conoscevate; voi sapevate che sono piena di capricci, e che mai anima viva me ne ha fatto inghiottir uno.
- Chiedetemi ciò che vorrete - replicò Maurizio - ma questo poi!... C'è capriccio... e capriccio...
- Maurizio, io andrò da Marcello, anzi vi vado tosto - disse mettendosi il cappello. - Voi mi lascerete se volete, ma è un bisogno più forte di me è il miglior ragazzo del mondo, il solo ch'io abbia amato e il suo cuore fosse stato d'oro, l'avrebbe fatto struggere per darmi degli anelli. Povero giovane! - aggiunse mostrando la sua lettera - guardate, appena ha un po’ di fuoco, m'invita ad andarmi a scaldare. Ah! se non fosse stato sì povero, e se nei magazzini non ci fosse stato velluto e seta! Ero ben felice con lui; egli aveva il talento di farmi soffrire; fu lui che mi diede il nome di Musette, in grazia delle mie canzoni. Almeno andando a casa sua siete certo ch'io ritornerò con voi, se non mi chiuderete la porta in faccia.
- Non potreste più sinceramente confessarmi, che non m'amate - disse il giovane.
- Orsù, orsù via, mio caro Maurizio, siete uomo di troppo spirito per voler intavolare una seria discussione su questo soggetto. Voi mi tenete, come si tiene in scuderia un bel cavallo; io vi amo... perché amo il lusso, il frastuono delle feste, tutto ciò che risuona e che brilla; non facciamo del sentimentalismo; sarebbe ridicolo ed inutile.
- Lasciatemi almeno venire con voi.
- Ma non vi divertireste affatto - rispose Musette - e c'impedireste di divertirci. Pensate dunque che quel ragazzo mi abbraccerà necessariamente.
- Musette - disse Maurizio - avete trovato spesso persone compiacenti, come lo sono io?
- Signor visoonte - rispose Musette - un giorno che io passeggiavo in carrozza con lord incontrai Marcello ed il suo amico Rodolfo che erano a piedi, mal vestiti ambedue, infangati come cani da pastore e colla pipa in bocca. Erano tre mesi che non vedevo Marcello; mi parve che il cuore volesse saltar fuori dallo sportello. Feci fermare la carrozza, e parlai una mezz'ora con Marcello in faccia a tutta Parigi, che passava là in carrozza. Marcello mi offrì dei pasticcetti di Nanterre ed un mazzolino di mammole da un soldo, che fermai alla vita. Quand’egli mi lasciò, lord *** voleva chiamarlo indietro per invitarlo a pranzo con noi. Io gli diedi un bacio per riconoscenza. Ed ecco il mio carattere, caro signor Maurizio; se così non vi piace, ditemelo subito, vado a prendere le mie pantofole e la mia cuffia da notte.
- Dunque è una bella cosa l'esser povero qualche volta! - osservò il viscone Maurizio, con un’aria piena d'invidiosa tristezza.
- Eh !... no - rispose Musette - se Marcello fosse stato ricco, non l’avrei abbandonato mai.
- Andate dunque - disse il giovane stringendole la mano. - Vi siete messa la vostra veste nuova - aggiunse - vi sta divinamente.
- È vero difatti - rispose Musette - fu un presentimento che ebbi stamattina. Marcello ne avrà la primizia. Addio, vado a mangiare un po' di pane benedetto dall'allegria.
Quel giorno Musette aveva una toilette deliziosa, più seduttrice legatura non aveva mai coperto il poema della sua gioventù e bellezza. Del resto, Musette possedeva istintivamente il genio dell'eleganza. Venendo al mondo, la prima cosa ch'ella dovette cercare collo sguardo, fu certo uno specchio per accomodarsi intorno le fasce, e prima d'andare al battesimo, ella aveva già commesso il peccato della civetteria.
Quando la sua posizione era umile, quando era ancora condannata alle vesti di cotone stampato, alle cuffiette, alle scarpe di pelle di capra, portava la povera e semplice uniforme della ‘grisette’, in modo incantevole. Queste belle ragazze, metà api, metà cicale, che lavorano cantando tutta la settimana, non chiedono a Dio che un po' di sole la domenica, fanno volgarmente l'amore col cuore, e si gettano qualche volta dalla finestra. È una razza che va ora scomparendo, grazie alla presente generazione di giovanotti; generazione corrotta e corruttrice, ma più d’ogni altra cosa sciocca, vanagloriosa e brutale. Pel piacere di sciorinare dei cattivi paradossi, essi hanno deriso queste povere creature colle mani guaste dalle sante cicatrici del lavoro, sicchè non guadagnarono più abbastanza da comprarsi la pasta di mandorle. A poco a poco, riuscirono ad inocular in esse la loro stupidità, la loro vanagloria... Allora la ‘grisette’ incomincio a scomparire... e nacque la ‘lorette’, razza ibrida, creature impertinenti, bellezze mediocri, metà carne e metà unguenti, i cui gabinetti sono un banco dove vendono al minuto il loro cuore come porzioni di rosbiffe. La maggior parte di queste donne, che disonorano il piacere, e sono la vergogna della moderna galanteria, non hanno spesso neppure l'intelligenza delle bestie, delle quali posseggono sul cappello le piume. Se per caso succede ch'esse abbiano, non dirò un amore, né un capriccio, ma un volgare desiderio, ciò è a profitto di qualche ciarlatano ordinario, che la stupida folla circonda nei pubblici balli, e che il giornalismo servile mette in evidenza.
Quantunque Musette fosse costretta a vivere in simile società, non ne aveva prese né le abitudini, né i modi; ella non aveva la cupida servilità, ordinaria in queste creature, che non sanno legger altro so non Barême, e non sanno scrivere se non in cifra. Era una ragazza di spirito e intelligente; aveva nelle vene alcune gocce del sangue di Manon; ribelle a tutto ciò che è forzato, non aveva mai saputo resistere ad un capriccio, qualunque fossero le conseguenze.
Marcello era stato veramente il solo uomo ch'ella aveva amato: per lo meno l'uomo pel quale aveva sofferto davvero; e c'era proprio voluta l'ostinazione degli istinti che l'attiravano verso tutto ciò che brilla e che risuona, per obbligarla a lasciarlo. Aveva vent'anni, e per lei il lusso era quasi una questione di salute. Poteva farne a meno per qualche tempo, ma rinunziarvi del tutto, impossibile! Conoscendo la propria incostanza, ella non - aveva mai voluto acconsentire a mettere al suo cuore il chiavistello d’un giuramento di fedeltà. Era stata ardentemente amata da molti giovanotti, pei quali aveva avuto dei capricci talvolta vivi, ma aveva sempre trattato con tutti con una probità piena di previdenza. Gli impegni che assumeva erano semplici, franchi, rozzi come le dichiarazioni d'amore dei concittadini di Molière. “Voi mi volete bene ed ancor io ve ne voglio: tocchiamoci la mano, o facciamo le nozze.” Se ella avesse voluto, si sarebbe creata dieci volte una posizione stabile, ciò che si chiama un avvenire; ma la spensierata ragazza non credeva molto all'avvenire, ed a questo riguardo professava lo scetticismo di Figaro.
- Il domani - ella diceva - è una fatuità del calendario; è un pretesto quotidiano inventato dagli uomini per non fare oggi i loro affari; il domani è forse un terremoto. Oggi è la terraferma; alla buon' ora!
Un giorno, un galantuomo col quale aveva vissuto sei mesi, e che si era perdutamente innamorato di lei, le propose seriamente di sposarla. Musette gli gettò in faccia un immenso scoppio di risa, udendo simile proposta.
- Io mettere in prigione la mia libertà in un contratto di matrimonio, mai!...
- Ma io passo tutta la mia vita, temendo di perdervi!...
- Mi perdereste più facilmente se fossi vostra moglie - rispose Musette. - Non parliamo di simili cose; del resto, non sono libera - diceva, pensando senza dubbio a Marcello.
Così passava la sua giovinezza, lasciando sventolare lo spirito a tutti i venti dell'imprevidenza, facendo felici molti, e rendendo quasi felice se stessa. Il visconte Maurizio aveva molto da fare per abituarsi a questo indomabile carattere, ebbro di libertà. Aspettò il ritorno di Musette con una impazienza ossidata di gelosia.
- Si fermerà ella da quel giovane? - si domandava il giovanotto tutta la sera, immergendosi nel cuore questo punto interrogativo.
Dal canto suo, Musette diceva:
- Quel povero Maurizio! Trova un po' strana la cosa!... Ah, bah! bisogna educare la gioventù.
Ed il di lei spirito, passando d'un balzo ad altri esercizi, pensò aMarcel1o dal quale si recava.
Passando in rivista le memorie che il nome del suo antico adoratore svegliava in lei, domandavasi per qual miracolo si era messa la tovaglia in casa.
Camminando, rilesse la lettera che le aveva scritto l'artista, e non potè a meno d’esserne un po' afflitta. Ma non lo fu che un minuto. Musette pensò che non era quello il momento di attristarsi; e siccome in quel punto il vento cominciò a soffiare, disse fra sè:
- È strano! se anche non ci volessi andare, il vento mi spingerebbe.
E continuò il suo cammino affrettando il passo, allegra come un uccello, che rivola al suo nido primiero.
Tutt' ad un tratto incominciò a nevicare a larghe falde. Musette cercò cogli occhi una carrozza: non ne vide.
Trovandosi in quel momento proprio nella via dove abitava la sua amica signora Sidonia, quella che le aveva mandato la lettera di Marcello, pensò di salire un momento da lei per aspettare che il tempo le permettesse di continuare la strada.
Allorché Musette entrò da Sidonia, vi trovò molte persone. Si continuava a giuocare un ‘lansquenet’, incominciato da tre giorni.
- Non incomodatevi - disse Musette - non faccio che entrare ed uscire.
- Hai ricevuto la lettera di Marcello? - le domandò all'orecchio Sidonia.
- Sì - rispose Musette - grazie: vado da lui. Egli m'invita a pranzo. Vuoi venire anche tu? Ti divertirai molto.
- No, non posso - disse Sidonia, mostrando la tavola da giuoco.
- Ci sono sei luigi - gridò il banchiere che dava le carte.
- Ne faccio andar due? domandò Sidonia.
- Non sono orgoglioso - disse il banchiere, che aveva già passato più volte - vada per due. Re ed asso. Son servito i - diss’egli facendo cader le carte - tutti i re son morti.
- Qui non si parla di politica! - esclamò un giornalista.
- E l'asso - continuava il banchiere - è il nemico della mia famiglia - e voltò un altro re. Viva il re! egli esclamò. - Sidonia, mia cara, datemi due luigi.
- Mettili nella tua nota - disse Sidonia, furente di aver perduto.
- Così sono cinquecento franchi che mi dovete mia bella - rispose il banchiere. - Arriverete fino a mille. Passo la mano.
Sidonia e Musette parlavano sottovoce, e la partita continuava.
Circa la stoss'ora, i bohêmes si mettevano a tavola. Durante il pranzo Marcello parve inquieto: lo si vedeva trasalire ogni volta che si udiva un rumore per le scale.
- Che hai? - domandava Rodolfo - si direbbe che aspetti qualcuno. Non siamo noi in numero completo?
Ma il poeta, ad uno sguardo lanciatogli dall'artista, capì qual fosse la preoccupazione del suo amico.
È vero - egli pensò il nostro numero non è completo.
L'occhiata di Marcello significava Musette, quella di Rodolfo voleva dire Mimì.
- Mancano le donne - disse Schaunard tutto ad un tratto.
- Sacra... - urlò Colline - vuoi tacere colle tue riflessioni libertine? Fu deciso di non parlar d'amore; esso fa andare a male le salse.
E gli amici ricominciarono a bere più allegramente; al di fuori floocava sempre la neve, e nel focolare la legna ardeva, producendo fuochi artificiali di scintille.
Nello stesso momento in cui Rodolfo canterellava ad alta voce il ritornello d'una canzone, trovata in quel momento in fondo al suo bicchiere, furono battuti alcuni colpi alla porta.
A questo rumore Marcello, già assopito da un principio d’ebbrezza, s'alzò precipitosamente e corse ad aprire, con la velocità del palombaro che dà un colpo di piede al fondo dell' acqua, per risalire alla superficie.
Non era Musette.
Un signore apparve sulla soglia. Aveva in mano un foglio. Il suo aspetto non era disaggradevole, ma la sua veste da camera sembrava fatta assai male.
- Vi trovo in buone disposizioni - diss’egli vedendo
la tavola, in mezzo alla quale giaceva il cadavere d'un colossale castrato.
- Il padrone di casa! - disse Rodolfo - gli si facciano i dovuti onori - E si mise a battere il tamburo sul suo piatto con forchetta e coltello.
Colline gli diede la sua sedia, e Marcello esclamò:
- Andiamo, Schaunard, un bicchiere pulito pel signore. Voi arrivate proprio a tempo - disse Marcello al padrone di casa - noi stavamo facendo un brindisi alla proprietà!
Il mio amico, il signor Colline, diceva delle cose commoventissime. Giacché siete qui ricomincerà per farvi onore. Da capo, Colline.
- Scusate, signori miei - disse il padrone di casa non vorrei disturbarvi... - e presentava il foglio che aveva in mano.
- Cos'è questo stampato? - domandò Marcello.
Il padrone di casa (che aveva dato un'occhiata da inquisitore alla camera) vide l'oro e l'argento rimasto sul camino.
- È la ricevuta della pigione - diss’egli in fretta. -
Ho già avuto l'onore di farvela portare una volta.
- Difatti - rispose Marcello - la mia fedele memoria mi rammenta questo particolare: era un venerdi, 18 ottobre, a mezzogiorno ed un quarto; va benissimo.
- È firmata - continuò il padrone di casa - e se non v'incomoda ...
- Signore - disse Marcello - avevo intenzione di venire da voi; ho bisogno di parlarvi a lungo.
- Sono a vostra disposizione...
- Fatemi il favore di prendere qualche cosa - riprese Marcello, obbligandolo a bere un bicchiere di vino. Signore - continuava - voi m'avete mandato ultimamente un foglio con una immagine rappresentante una signora con una bilancia in mano. Questo messaggio aveva la firma Godard.
- È il mio usciere - disse il padrone.
- Ha una scrittura molto brutta - rispose Marcello. Il mio amico, che conosce tutte le lingue - continuava indicando Colline - ha avuto la bontà di tradurmi quel messaggio, il cui porto costa cinque franchi...
- Era una disdetta - disse il padrone - una misura di precauzione... è l’usanza.
- Una disdetta appunto - proseguì Marcello. - Volevo vedervi per avere una conferenza circa quest'atto, ch'io vorrei cambiare in una investitura. Questa casa mi piace: la scala è pulita, la via è allegra, e poi alcune ragioni di famiglia, mille cose mi attaccano a queste mura.
Ma - osservò il padrone, mostrando di nuovo la sua ricevuta - c'è l'ultima rata da liquidare.
- Noi la liquideremo, signore; questo è il mio intimo pensiero.
Intanto il padrone di casa non toglieva gli occhi dal camino dove stava il danaro; l'attenta applicazione del suo sguardo, pieno di desideri, era tale, che sembrava che le monete si muovessero e venissero verso di lui.
- Sono felice d'arrivare in un momento, in cui, senza incomodarvi, possiamo saldare questo conticino - diss’egli offrendo a Marcello la ricevuta, e l'artista non potendo parar l'attacco, indietreggiò ancora una volta, e rioominciò col suo creditore la scena di don Giovanni col signor Domenico.
- Voi avete, credo, dei beni in provincia? - domandò.
- Oh, poca cosa! - rispose il padrone - una casetta in Borgogna, una masseria, una piccolezza; cattiva rendita: gli affittuari non pagano. Perciò - aggiunse egli sporgendo sempre la sua ricevuta - questo piccolo incasso giunge a proposito. Sono sessanta franchi, come sapete.
- Sì, sessanta - riprese Marcello dirigendosi verso il camino sul quale prese tre monete d'oro. - Abbiamo detto sessanta - e pose sul tavolo i tre luigi, ma ad una certa distanza dal padron di casa.
- Finalmente - disse questi fra sè, ed il suo volto si rischiarò; egli pure depose sulla tavola la ricevuta.
Schaunard, Rodolfo e Colline osservavano inquieti quella scena.
- Perdinci! signor mio - esclamò Marcello - poichò siete Borgognone, non sdegnerete di dir due parole ad un concittadino.
E, facendo saltare il turacciolo d'una bottiglia di mâcon vecchio, ne versò un bicchiere pieno poi padrone.
- Ah! buonissimo - disse questi. - Non ne bevvi mai del migliore
- Uno zio che ho in quelle parti, me ne manda qualche canestro di tanto in tanto.
Il padrone di casa a' era alzato, e stendeva la mano verso il danaro posto dinanzi a lui, allorché Marcello lo fermò di nuovo.
- Non rifiutate di darmi sodisfazione ancora una volta - diss' egli versando ancora da bere ed obbligando il creditore a brindare con lui e coi tre bohèmes.
Il padrone non ardì ricusare. Bevve di nuovo, depose il suo bicchiere, e un'altra volta si disponeva a prendere il danaro, allorché Marcello esclamò:
- Mi viene un'idea, signore! Io sono un po' ricco in questi giorni. Mio zio di Borgogna mi ha mandato un supplemento alla mesata, ed ho paura di sciupare questo danaro: voi sapete, la gioventù è pazza. Se non vi dispiace, vi pagherò una rata anticipata.
E, prendendo altri sessanta franchi, li aggiunse ai luigi che stavano sulla tavola.
- In tal caso - disse il padrone di casa - vi farò una ricevuta anche per la rata di fitto che scadrà. Ne ho qui in tasca qualcuna in bianco - continuò tirando fuori il suo portafogli. - La riempio e le metto la data. Ma questo inquilino è un angelo! - pensava egli vigilando i centoventi franchi.
A questa proposta, i tre bohèmes, che non capivano più nulla della diplomazia di Marcello, rimasero stupefatti.
- Questo camino fuma, e ciò è incomodissimo.
- Perché non avvertirmene? Avrei fatto chiamare il fumista - disse il proprietario, che non voleva restar debitore di gentilezze. - Domani farò venire gli operai.
Ed avendo finito di scrivere la seconda quietanza, la
pose colla prima, spingendole tutte e due davanti a Marcello ed avvicinò di nuovo la mano alla pila del danaro.
- Non potete figurarvi come arriva a proposito questa somma - soggiunse. - Ho dei conti da pagare per alcune riparazioni fatte allo stabile, e non sapevo come togliermi d'imbarazzo.
- Mi dispiace assai d'avervi fatto aspettare alquanto - disse Marcello.
- Oh non avevo paura... signori !... ho l'onore...
E la sua mano s'avvicinava ancora.
- Oh! oh! permettetemi - riprese Marcello - non abbiamo finito ancora. Voi sapete il proverbio: Quando il vino è versato... - e colmò di nuovo i bicchieri.
- ...bisogna berlo - riprese il padrone - è giusto. o sedette di nuovo per cortesia.
Questa volta i bohèmes ad un'occhiata di Marcello capirono quale fosse il suo scopo.
Intanto al padron di casa incominciavano a lustrare gli occhi in un modo straordinario. Si dondolava sulla sedia, parlava di cose allegre, e prometteva a Marcello, che gli domandava alcune riparazioni, abbellimenti favolosi.
- Avanti l'artiglieria grossa! - disse sottovoce l'artista a Rodolfo, indicando una bottiglia di rum.
Dopo il primo bicchierino, il padrone di casa cantò una canzone indecente che fece arrosire Schaunard.
Dopo il secondo, raccontò le sue disgrazie coniugali; e siccome la sua sposa aveva nome Elena, egli si paragonò a Menelao.
Dopo il terzo ebbe un accesso di filosofia, ed emise degli aforismi di questo genere:
"La vita è un fiume."
"La ricchezza non costituisce la felicità."
"L'uomo è effimero."
"Oh! com'è dolce l'amore!"
E, prendendo per confidente Schaunard, gli raccontò la sua relazione clandestina con una ragazza, ch'egli aveva messa nel mogògono, e che si chiamava Eufemia. Fece un ritratto così preciso di quella ragazza dalle innocenti tenerezze, che Schaunard incominciò a sentirsi tormentato da un crudele sospetto, il quale diventò una certezza, allorché il padrone di casa gli mostrò una lettera presa nel suo portafogli.
- Oh Cielo! - esclamò Schaunard vedendo la firma. Crudele fanciulla! Tu mi immergi un pugnale nel cuore!
- Cos' ha? cos' ha? - gridarono i bohèmes attoniti da questo linguaggio.
- Guardate - disse Schaunard - questa lettera è di Femia: guardate questo sgorbio che serve di firma.
E fece circolare la lettera della sua antica amante: essa incominciava così:
"Mio grosso piccione."
- Sono io il suo grosso piccione - disse il padrone di casa tentando di alzarsi, senza riuscirvi.
- Benissimo! - esclamò Marcello, che lo stava osservando. - Ha gettata l’àncora.
- Femia! Femia crudele! - mormorava Schaunard tu mi fai soffrire ...
- Le ho ammobiliate un bel mezzanino in via Coquenard al numero dodici - diceva il padrone di casa. - E bellino, bellino!... Mi è costato caro, però... Ma l'amor sincero non ha prezzo, e poi ho ventimila franchi di rendita... Ella mi chiede danaro - continuava riprendendo la lettera. - Povera carina!... Le darò quello lì... le farà piacere... - E stese la mano verso il danaro preparato da Marcello. - Oh bella! - esclamò egli stupito tastando sul tavolino - Dov'è? ...
Il danaro era scomparso.
- È impossibile- che un galantuomo si presti a tali colpevoli maneggi - disse Marcello. - La mia coscienza e la morale mi proibiscono di versare nelle mani di questo vecchio libertino il prezzo della pigione. Non pagherò la rata scaduta, ma non avrò nemmeno rimorsi. Quali costumi! Un uomo sì calvo!
Intanto il padrone di casa finiva di mandarsi a picco; faceva inseiiati discorsi alle bottiglie.
Siccome era assente da due ore, sua moglie, inquieta, mandò la serva a cercarlo, e questa, vedendolo così brillo, diede in grandi schiamazzi.
- Che cosa avete fatto al mio padrone? – domandò ai bohèmes.
- Nulla - disse Marcello. - È venuto qui per chiedermi la pigione; e siccome non avevo danaro, gli ho domandato una dilazione.
- Ma egli si è ubriacato - riprese la serva.
- Il più era già fatto - rispose. Rodolfo. - Quando venne qui, ci disse che era stato a mettere in ordine la cantina.
- Era si poco in sè - continuò Colline - che voleva lasciarci la quietanze senza ricever danaro.
Datele a sua moglie - aggiunse il pittore restituendo le quietanze - noi siamo galantuomini, e non vogliamo approfittare del suo stato.
- Oh Dio mio! Che dirà la signora? - esclamò la serva, trascinando via il padrone che non si reggeva in piedi.
- Finalmente! - gridò Marcello.
Ma ritornerà domani - disse Rodolfo - ha veduto il danaro.
- Quando ritornerà - soggiunse l'artista - lo minaccerò di raccontare a sua moglie la relazione colla giovane Femia, e mi concederà una dilazione.
Quando il padron di casa fu uscito, i quattro amici si rimisero a fumare. Marcello solo aveva conservato un po' di lucidità nella sua ebbrezza. Ad ogni momento e ad ogni rumore ch'egli udiva su per le scale, correva ad aprire l’uscio. Ma coloro che salivano si fermavano sempre ai piani inferiori; allora l'artista ritornava lentamente a sedere accanto al fuoco. Mezzanotte suonò, e Musette non era arrivata.
- Ma... - pensava Marcello - forse ella non sarà stata in casa quando le portarono la mia lettera. La troverà stasera andando a casa, e verrà domani; ci sarà ancora del fuoco. È impossibile che ella non venga. Basta, a domani.
E s'addormentò accanto al fuoco.
Al momento stesso, in cui Marcello s'addormentava, sognando di lei, madamigella Musette usciva dalla casa della sua amica Sidonia, dove s'era fermata fino a quell'ora. Musette non era sola; l'accompagnava un giovanotto; una vettura stava alla porta; vi salirono entrambi, e la vettura partì di galoppo.
La partita al ‘lansquenet’ continuava in casa di Sidonia.
- Dov'è Musette? - domandò qualcuno.
- E Serafino dov'è andato? - disse un altro.
La signora Sidonia si mise a ridere.
- Sono fuggiti insieme - rispose ella. -Ah! è una storia curiosa. Che singolare creatura quella Musette! Figuratevi che... -
E raccontò alla compagnia, come Musette, dopo essere andata quasi in collera col visconte Maurizio, s'era messa in viaggio per andare da Marcello, come era salita un momento da lei, come vi avesse trovato il piccolo Serafino, ecc., ecc.
- Oh! sospettavo qualche cosa io - disse Sidonia, interrompendo il suo racconto - li osservai tutta la sera; non è sciocco quel fantoccino! Insomma se ne andarono senza dir nulla, e bravo chi li piglia! Ma però è cosa molto strana, quando si pensa che Musette è pazza pel suo Marcello.
- Se ella, ne è pazza, perché si perde con Serafino? Un bambino, quasi! Non ebbe mai un'amante - osservò un giovanotto.
- Musette gli vuole insegnare a leggere - disse il giornalista, che era molto asino quando perdeva.
- Pure, è vero - ripeto Sidonia - dal momento che ella ama Marcello, perché attaccarsi a Serafino? Non lo capisco.

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I bohèmes, senza uscire mai di casa, menarono la vita più allegra del mondo per cinque giorni. Stavano a tavola dalla mattina alla sera. Un disordine aminirevole regnava in quella camera, piena di un’atmosfera pantagruelica. Un esercito di bottiglie di diversi formati era sdraiato sopra un banco quasi pieno di gusci d'ostriche. La tavola era carica di avanzi di ogni natura, ed una foresta ardeva nel camino.
Il sesto giorno, Colline, che era l'ordinatore delle cerimonie, scrisse, come faceva tutti gli altri giorni, la minuta della colazione, del pranzo, della merenda e della cena, e la sottopose all'esame dei suoi amici, i quali la firmarono tutti in segno di approvazione.
Ma quando Colline aprì il cassetto ove riponevano il danaro e volle prendere la somma necessaria per le spese della giornata, indietreggiò due passi e diventò giallo come lo spettro di Banco.
- Che cosa è successo? - domandarono con indifferenza gli altri.
- È successo che non vi sono che trenta soldi - rispose il filosofo.

- Diavolo !... diavolo! - dissero gli altri - saremo obbligati a fare dei cambiamenti alla nostra minuta. Pure... trenta soldi bene impiegati... ma ad ogni modo non potremo avere dei tartufi... peccato!
Pochi minuti dopo la tavola era pronta. Vi si vedevano disposti tre piatti eon molta simmetria
Un piatto di aringhe;
Un piatto di patate;
Un piatto di formaggio.
Nel camino fumavano due coppi grossi... come un pugno.
Fuori nevicava sempre.
I quattro bohème si misero a tavola e spiegarono gravemente i loro tovagliuoli. -
- È strano, - diceva Marcello - questa aringa ha il sapore del fagiano.
- Dipende dal modo col quale l'ho accomodata io - rispose Colline. - L'aringa fu sempre calunniata. -
In quel momento un'allegra canzone saliva le scale, e venne a battere alla porta.
Marcello corse ad aprire.
Musette gli saltò al collo e lo tenne abbracciato per cinque minuti. Marcello la sentiva tremare nelle sue braccia.
- Che cos'hai? - le domandò.
- Ho freddo - rispose macchinalmente Musette avvicinandosi al fuoco.
- Ah! - esclamò Marcello - avevamo un sì bel fuoco!
- Sì - disse Musette, guardando i resti del banchetto che durava da cinque giorni - arrivo troppo tardi.
- Perché? - domandò Marcello.
- Perché? - ripetè ella, arrossendo un po', e si assise sulle ginocchia di Marcello; tremava e le sue mani erano violacee.
- Tu non eri libera dunque? - le disse Marcello sottovoce.
- Non libera! io! - gridò la bella fanciulla. - Oh, Marcello! Se fossi seduta in mezzo alle stelle, nel paradiso del buon Dio, e se tu mi facessi un segno, io scenderei fra le tue braccia. Non libera, io! - e si rimise a tremare.
- Qui ci sono cinque sedie - disse Rodolfo - è un numero dispari, senza contare che la quinta è d'una forma ridicola.
E, rompendo la sedia contro il muro, ne gettò i pezzi nel camino. Il fuoco risuscitò subito in una fiamma chiara ed allegra: poi facendo un segno a Colline ed a Schaunard, il poeta li condusse via con lui.
- Dove andate voi altri? - domandò Marcello.
- Andiamo a comprar del tabacco - risposero.
- All' avana - aggiunse Schaunard facendo un segno d'intelligenza a Marcello, che lo ringraziò con un'occhiata.
- Perché non sei venuta prima? - domandò di nuovo l'artista a Musette, quando furono soli.
- È vero: ho tardato un po'...
- Cinque giorni per traversare il ponte Nuovo: sei dunque passata pei Pirenei?
Musette chinò il capo e restò muta.
- Oh! cattiva ragazza! - riprese Marcello, battendo colla mano leggermente il corsetto della sua amica -. cos'hai qui sotto?
- Tu lo sai bene - rispose ella in fretta.
- Ma cos'hai fatto, dacohò ti ho scritto?
- Non m'interrogare - disse Musette abbracciandolo - non mi domandar nulla; lasciami riscaldare vicino a te. Fa tanto freddo! Vedi? Avevo messa la veste più bella per venire da te... Quel povero Maurizio non capiva nulla allorché partii per venire qui; ma non potevo resistere... Mi sono messa in viaggio. Il fuoco fa bene - aggiunse accostando le sue manine alle fiamme. - Starò con te fino a domani, lo vuoi?
- Farà molto freddo qua dentro - rispose Marcello e noi non abbiamo da pranzo. Sei venuta troppo tardi.
- Ah, bah! - disse Musette - così rassomiglierà più al tempo passato.
Rodolfo, Colline e Schaunard impiegarono ventiquattro ore per comprare il tabacco. Quando fecero ritorno, Marcello era solo.
Il visconte Maurizio vide ritornare Musette dopo sei giorni di assenza.
Egli non le mosse rimprovero alcuno, solo le domandò perché mostravasi sì malinconica.
- Ho avuto una disputa con Marcello - diss’ella - ci siamo lasciati male.
- Eppure chi sa osservò Maurizio - voi tornerete là ancora.
- Che volete? - rispose Musette - di quando in quando ho bisogno di respirare l'aria di quella vita. La mia esistenza è una canzone; ciascuno dei miei amori è una strofa; ma Marcello è il ritornello.

XX. MIMI HA DELLE PIUME

I.

- Eh! no, no, no, voi non siete più Lisetta. Eh! no, no, no, voi non siete più Mimì.
Oggi voi siete la signora viscontessa; dopo domani sarete forse la signora duchessa. Avete posto il piede sulla scala della grandezza; la porta dei vostri sogni finalmente vi s'è aperta a due battenti e voi vi entrate vittoriosa e trionfante. Lo sapevo bene, che, una volta o l'altra, avreste finito così! Del resto, ciò doveva succedere; le vostre bianche mani erano fatte per l’ozio, e da molto tempo chiamavano ad alta voce l'anello d'una alleanza aristocratica. Finalmente avete un blasone ! Ma noi preferiamo ancora - quello cui la gioventù dava alla vostra beltà, la quale coi vostri occhi azzurri e col vostro pallido viso, sembrava inquartato d'azzurro in campo di giglio. Nobile o plebea, voi eravate sempre leggiadra...
Vi ho riconosciuta l'altra sera, quando passavate per la via: piede leggiero e calzato con eleganza; colla mapo aiutavate il vento a sollevare i volanti della vostra veste nuova, un po' per non imbrattarla, molto per lasciar vedere le sottane ricamate e le calze trasparenti. Voi portavate un cappello di stile meraviglioso, anzi sembravate immersa in una profondissima inquietudine circa il ricco velo di merletto, ondeggiante su quel cappello. Grsve imbarazzo davvero! Si trattava di sapere, se era meglio portarlo alzato od abbassato. Portandolo abbassato, correvate il rischio di non essere conosciuta da quegli amici, che avreste potuto incontrare. Certamente vi sarebbero passati accanto dieci volte, senza sospettare che quella ricca sopraccoperta nascondeva madamigella Mimì. Invece, portandolo alzato, era il velo che arrischiava di non esser veduto, ed allora che valeva il possederlo? Voi avete sciolta la difficoltà con molto spirito, abbassando ed alzando ad ogni dieci passi quel bellissimo tessuto, derivante certamente da quel paese meraviglioso, che chiamano Fiandra; esso solo costò più caro di tutta l’antica vostra guardaroba. Ah! Mimì... scusate!... Signora viscontessa! Vedete che avevo ragione, quando vi dicevo:
"Abbiate pazienza: non disperate; l’avvenile è fecondo di cachemirs, di astucci di brillanti, di cene, ecc., ecc. "
Voi non volevate credermi, scettica! Ebbene! le mie predizioni si sono avverate, ed io valgo almeno quanto il vostro Oracolo delle Dame, un piccolo mago in diciottesimo, che compraste per cinque soldi da un venditore di libri vecchi sul ponte Nuovo e per stancarlo colle vostre continue interrogazioni. Non avevo ragione, lo ripeto, colle, mie profezie? Mi crederete adesso, se vi annunzio che non vi fermerete lì? Se vi dicessi, che dando attentamente ascolto, sento già sorgere dal profondo del vostro avvenire lo scalpitio ed i nitriti dei cavalli attaccati ad un coupé blu, condotto da un cocchiere in parrucca, che, abbassando il predellino davanti a voi, vi domanda: "Dove va la signora?" Mi credereste voi, se vi dicessi che più tardi, oh, il più tardi possibile, gran Dio! raggiungendo la mèta ambiziosa che avete accarezzata per tanto tempo, voi avrete una pensione a Belleville od a Batignolles; che sarete corteggiata da vecchi militari e da pensionati Cupidi, i quali verranno a casa vostra a giuocare clandestinamente al ‘lansquenet’, ed al macao!... Ma prima di arrivare a quell' epoca, in cui il sole della giovinezza sarà tramontato, credetemi, ragazza mia, voi consumerete ancora molte braccia di velluto e di seta; molti patrimoni si liquefaranno nel crogiuolo dei vostri capricci; avvizzirete molti fiori sulla vostra fronte, molti sotto i vostri piedi; cambierete molte volte di stemma. Si vedrà brillare sul vostro capo ora la benda delle baronesse, ora la corona delle contesse, ora il diadema perlato delle marchese; voi prenderete per divisa: Incostanza. Voi saprete sodisfare, secondo il capriccio od il bisogno, ciascuno a sua volta, ed anche tutti in una volta, quei numerosi adoratori, che verranno a fare la coda nella anticamera del vostro cuore, come si fa la coda alla porta di un teatro, dove si rappresenta una commedia in voga. Andate, dunque, camminate diritta davanti a voi, lo spirito, sciolto dalle memorie, surrogate dall'ambizione. Andate! La strada è bella, e noi ve la desideriamo molle sotto i piedi; noi vi auguriamo specialmente che tutte queste grandezze e questo belle toilettes non diventino troppo presto il lenzuolo funebre nel quale si seppellirà la vostra allegria.
Così diceva il pittore Marcello alla giovane madamigella Mimì, incontrandola tre o quattro giorni dopo il di lei secondo divorzio col poeta Rodolfo. Benchè avesse fatto ogni sforzo per mettere una sordina agli scherzi che infioravano il suo oroscopo, madamigella Mimì non si lasciò ingannare dalle parole di Marcello ; ella comprese benissimo, che costui, poco rispettoso pel nuovo di lei titolo, l'aveva messa abbastanza in ridicolo.
- Voi siete cattivo con me, Marcello - disse madamigella Mimì - fate male: sono stata sempre buona con voi, quando ero l'amica di Rodolfo; ma se l'ho abbandonato, in fin dei conti, è colpa sui. È lui che mi ha congedata e senza dilazione quasi; e poi come mi ha trattata negli ultimi giorni che passai con lui? Oh, ero ben infelice! Voi non sapete, che uomo era Rodolfo! Un carattere impastato di collera e di gelosia, che mi uccideva ad oncia ad oncia. Egli mi amava, lo so anch'io, ma il suo amore era pericoloso. come un'arma da fuoco; che vita per quindici mesi! Oh, Marcello, io non voglio parer migliore di quella che sono, ma con Rodolfo ho sofferto assai! Lo sapete bene anche voi, del resto! Non fu la miseria che me lo fece abbandonare, ve lo giuro: prima di tutto mi ero assuefatta, e poi vi ripeto, fu lui che mi scacciò. Egli ha calpestato sotto i piedi il mio amor proprio; mi ha detto che non avevo cuore, se continuavo ad abitare con lui; mi disse che non mi amava più, che bisognava mi cercassi un altro amante; arrivò perfino ad indicarmi un giovanotto il quale mi faceva la corte, e colle sue provocazioni divenne il punto d'unione fra me e quel giovane. Vissi con colui tanto per dispetto, che per necessità, poiché non l'amavo;, voi lo sapete bene, voi; io non amo gli uomini così giovani; sono noiosi e sentimentali come fisarmoniche. Basta, quel ch'è fatto è fatto, non me ne pento, e se ci fossi, lo farei ancora. Adesso che non vivo più con lui e che mi sa felice con un altro, Rodolfo è infelice e rabbioso; qualcuno l’incontrò in questi giorni; aveva gli occhi rossi. Ciò non mi dispiace; ero certa che succederebbe così, e che mi correrebbe dietro; potete dirgli che perderà il suo tempo, e che questa volta la è proprio finita sul serio e davvero. È un pezzo che non lo vedete, Marcello? È vero che si è ciambiato? - domandò Mimì con un altro accento.
- Molto cambiato, difatti - rispose Marcello. - Assai cambiato!
- Egli si dispera, è cosa certa: ma che volete che io vi faccia? Peggio per lui! L'ha voluto; bisognava finirla! Consolatelo voi.
- Oh, oh! disse Marcello tranquillamente - il più è fatto ; state tranquilla, Mimì.
- Caro mio, voi non dite la verità - riprese Mimì, facendo una smorfia ironica. - Rodolfo non si consolerà così presto; se voi sapeste in che stato lo vidi al momento della mia partenza! Era un venerdi; non avevo voluto passare la notte in casa del mio nuovo amante perché sono superstiziosa, ed il venerdi è un giorno cattivo.
- Voi avete torto, Mimì! In amore il venerdi è un giorno eccellente; gli antichi lo chiamavano: Dies Venerie.
- Io non so il latino - continuò. - Tornavo dunque dalla casa di Paolo, e trovai Rodolfo che mi aspettava, facendo sentinella nella strada. Era tardi, più di mezzanotte, e mi sentivo fame, perché avevo desinato male. Pregai Rodolfo d’andar a prendere qualche cosa da cena. Egli ritornò una mezz'ora dopo, aveva corso molto per portarmi poco: pane, vino, alcune sardine, formaggio, ed un pasticcetto di mele. Mentre egli era fuori, m'ero coricata; mise la tavola presso il letto; io facevo mostra di non guardarlo, ma lo vedevo benissimo; era pallido come la morte; aveva i brividi, e girava per la camera come uomo che non sa cosa vuol fare. Vide in un canto alcuni involti contenenti i miei stracci; e, quella vista, parve gli facesse male: vi pose davanti il paravento per non vederli più. Quando tutto fu in ordine, incominciammo a mangiare; egli tentò di farmi bere, ma non avevo più né fame, né sete; avevo il cuore serrato.
Faceva freddo, perché non avevamo di che accendere il fuoco; si udiva il vento soffiare nella gola del camino. Era una cosa ben triste! ci ponemmo a tavola: Rodolfo mi guardava, aveva lo sguardo fisso: pose la sua nella mia mano, e la sentii tremare; era gelata e scottava al tempo stesso.
E la cena dei funerali del nostro amore - diss’egli sottovoce.
Io non risposi, ma non ebbi il coraggio di ritirare la mia mano dalla sua.
- Ho sonno - aggiunsi finalmente - è tardi, dormiamo.
Rodolfo mi guardò: per difendermi dal freddo mi ero messa in testa una delle sue cravatte; egli me la tolse senza parlare.
- Perché me la togli? - gli domandai - ho freddo.
- Oh, Mimì - diss’egli allora - te ne prego, per questa notte, mettiti ancora la cuffietta a righe; ciò non ti costerà molto.
Era una cuffia da notte di cotone rigato, bianco e nero. Rodolfo amava molto quella cuffia; gli rammentava alcune belle notti; era da queste che noi contavamo i nostri bei giorni! Pensando esser l'ultima volta ch'io avrei dormito accanto a lui, non ebbi il coraggio di negargli quel capriccio: mi alzai, ed andai a prendere la mia cuffia rigata che era in fondo d'un involto: dimenticai per sbaglio di rimettere a posto il paravento. Rodolfo se ne accòrse, e nascose gli involti, come aveva già fatto.
- Buona sera - mi disse.
- Buona sera - gli risposi.
Credevo che volesse darmi un bacio, ma egli mi prese soltanto la mano e la portò alle labbra. Voi sapete, Marcello, come Rodolfo era appassionato per baciarmi le mani. Lo sentivo battere i denti: era freddo come il marmo. Mi teneva sempre la mano: m'aveva posto la testa sulla spalla, che non tardò ad esser tutta bagnata. Rodolfo trovavasi in uno stato spaventevole. Mordeva le lenzuola per non gridare; ma io udivo i suoi sordi singhiozzi, e sentivo le sue lacrime, dapprima scottanti, poscia gelide, scorrere sulle mie spalle. In quel momento, ebbi bisogno di tutto il mio coraggio; e ce ne volle, ve lo dico io. Non avevo a dire che una parola; non avevo che a volgere la testa; la mia bocca avrebbe incontrata la sua, e noi ci saremmo riconciliati ancora. Davvero, un momento credetti che mi morisse fra le braccia, o che per lo meno diventasse pazzo, come poco mancò lo diventasse una volta, ve ne ricordate? Stavo per cedere, lo sentivo; stavo per essere la prima a riavvicinarmi, per prenderlo fra le mie braccia. (Bisognerebbe proprio non aver cuore per restare insensibile a simili dolori!) Ma mi ricordai delle parole ch'egli mi aveva dette il giorno prima: "Tu non hai cuore se continui a vivere con me, perché io non t'amo più". Ah!... Ricordandomi quelle crudeltà, se avessi veduto Rodolfo spirante, e fosse stato necessario un solo mio bacio per salvarlo, avrei voltata la testa e l’avrei lasciato morire. Finalmente, vinta dalla stanchezza, m'addormentai a metà. Lo sentivo sempre singhiozzare, e ve lo giuro, Marcello, quel singhiozzo durò tutta la notte; quando fu giorno e che riguardai quel letto dove avevo dormito per l'ultima volta, questo amante ch'io abbandonavo per passare fra le braccia d'un altro, mi sentii spaventosamente colpita vedendo lo strazio, che quest'angoscia scolpiva sul volto di Rodolfo.
S'alzò anch' egli, senza dir nulla; traballava e sembrava cadere ai primi passi che mosse per la camera, tanto era debole ed abbattuto. Pure si vestì presto, e mi chiese dove fossero le mie robe, e quando sarei partita. Gli risposi che non lo sapevo. Rodolfo se ne andò, senza dirmi addio, senza stringermi la mano. Ecco come ci siamo lasciati. Che colpo dov'essere stato per lui quando tornato a casa, non mi trovò più, non è vero?
- Ero là quando Rodolfo ritornò - disse Marcello a Mimì ansante dopo un sì lungo discorso. - Mentre prendeva la chiave dalla portinaia, questa gli disse:
- La piccina è partita.
- Ah! - rispose Rodolfo - non me ne meraviglio; me l’aspettavo. - E salì in camera sua dove lo seguii, poiché temevo qualche crisi; ma non successe nulla.
- Siccome è troppo tardi per prendere in affitto un'altra camera stasera, sarà per domattina - diss’egli - andremo insieme. Adesso andiamo a pranzo.
Credetti volesse ubriacarsi; m'ingannavo. Pranzammo sobriamente da un trattore, dove voi andavate qualche volta. Feci portare del vino di Beaume per stordirlo un poco.
Era il vino favorito di Mimì - continuò - ne abbiamo bevuto spesso insieme, a questa tavola stessa. Mi ricordo anzi che un giorno, porgendomi il bicchiere, che aveva molte volte vuotato, mi diceva: "Versamene ancora: egli mi mette il balsamo in cuore". Non ti pare fosse un frizzo discreto? Degno tutt'al più dell'amica di un ‘vaudevilliste’. Oh beveva bene, Mimì!
Vedendolo disposto ad ingolfarsi nei sentieri delle rimembranze, cambiai discorso; di voi non si parlò più. Passò con me tutta la serata, e pareva calmo come il Mediterraneo. Ciò che più mi stupiva si era, che quella calma non aveva nessuna affettazione. Era una indifferenza sincera. A mezzanotte andammo a casa.
- Tu sembri meravigliato della mia tranquillità nello stato in cui mi trovo? - mi disse. - Lascia che ti faccia un paragone, caro mio, se esso è volgare, ha però il merito di essere giusto. Il mio cuore è come una fontana, il cui rubinetto sia stato aperto tutta la notte: alla mattina non vi resta dentro neppure una goccia d'acqua. In verità, il mio cuore è così; stanotte ho pianto tutte le lacrime che mi rimanevano. È strano: mi credevo più ricco di dolori, e per una notte d’affanno, sono rovinato; sono affatto esaurito; in parola d'onore! È così. In questo stesso letto, in cui la notte passata poco mancò non spirassi l’anima, presso una donna che si mosse quanto un sasso, ora, mentre quella donna posa la sua testa sul guanciale d’un altro uomo, io vado a dormire come un facchino, che ha fatto una buona giornata.
- Commedie - io pensai - appena sarò uscito, darà ii capo nei muro.
Però lasciai Rodolfo solo, e salii in camera mia, ma non mi coricai. Alle tre del mattino, mi parve udire rumore nella camera di Rodolfo: discesi in fretta, credendo trovano in preda ad una febbre disperata...
- Ebbene? - chiese Mimì.
- Ebbene, cara mia, Rodolfo dormiva. Ii letto non era disfatto, e tutto dimostrava che il suo sonno era stato tranquillo. Rodolfo non l'aveva troppo aspettato.
- È possibile - disse Mimì - era sì affranto dalla notte precedente; ma il dî dopo?
- L'indomani venne a svegliarmi di buon mattino, e ci recammo a fissare dell’altre camere in un'altra casa dove andammo ad abitare la sera.
- E che cos'ha fatto lasciando quella camera? - domandò Mimì. - Che cosa diss’egli abbandonando quelle stanze, in cui mi amò tanto?
- Egli ha fatto tranquillamente il suo bagaglio - rispose Marcello - ed avendo trovato in un cassetto un paio di guanti a rete dimenticati da voi, e due o tre lettere pure vostre ...
- Lo so - disse Mimì con un accento che sembrava dicesse: Le ho lasciate apposta, perchè gli restassi ancora in memoria. - Che cosa ne ha fatto? - domandò ella.
- Mi pare che abbia gettate le lettere sul fuoco ed i guanti fuori della finestra, ma senza gesti da teatro, senza posare; così, tranquillamente come si usa, quand’uno si sbarazza di qualche oggetto inutile.
- Mio caro signore, vi giuro dal fondo del cuore che desidero abbia a durar per sempre questa indifferenza. Ma, vi ripeto ancora una volta, con tutta la certezza, io non credo ad una sì rapida guarigione; ad onta di quanto mi dite, sono convinta che il mio povero poeta ha il cuore infranto.
- Può darsi - rispose Marcello, prendendo congedo da Mimì - ma io reputo che anche i frantumi sono ancora eccellenti.
Durante questo colloquio sulla pubblica via, il visconte Paolo aspettava la sua nuova amante, la quale arrivò troppo tardi, e fu assai sgarbata. Paolo si prostrò ai suoi piedi, e le tubò la romanza favorita, cioè: che ell'era vezzosa, pallida come la luna, dolce come un montone, ma ch'egli l'amava specialmente per la bellezza delle sue manine.
- Ah! - pensava Mimì, sciogliendo le onde dei suoi capelli neri sulle sue spalle nivee - il mio Rodolfo non era tanto esclusivista!

II.

Come Marcello aveva detto, Rodolfo sembrava guarito pienamente del suo amore per Mimì, e tre o quattro giorni dopo la sua separazione, si vide comparire il poeta totalmente trasformato. Egli era vestito con un'eleganza, che doveva renderlo irriconoscibile perfino al suo specchio. Del resto, niente in lui faceva temere che avesse l'intenzione di precipitarsi negli abissi del nulla, come madamigella Mimì ne spargeva la voce con ogni sorta di dolenti ipocrisie. Rodolfo era difatti perfettamente tranquillo: ascoltava senza commuoversi il racconto che gli facevano della nuova e sontuosa esistenza della sua amica; la quale si divertiva a fargli pervenire dei ragguagli sul di lei conto da una donna che le era stata sempre da, e che aveva occasione di veder Rodolfo quasi ogni sera.
- Mimì è assai felice col visconte Paolo - dicevano al poeta - pare ne sia pazzamente innamorata; la tormenta una cosa sola, ed è che voi non andiate a disturbar la sua tranquillità con persecuzioni, le quali, del resto, sarebbero pericolose per voi, giacché il visconte adora la sua amica, ed ha frequentato due anni la sala di scherma.
- Oh! oh! - rispondeva Rodolfo - Mimì dorma tranquilla! Non ho alcuna voglia di versare dell'aceto nel dolciume della luna di miele. Quanto poi al suo giovane amico, può lasciar dormire la daga appesa al suo chiodo, come ‘Gastilbelza’, l’uomo dalla carabina. Io non desidero nessun male ad alcun gentiluomo, che ha ancora la fortuna di poppare al seno delle illusioni.
E, siccome non mancavano di riferire a Mimì l'attitudine colla quale il suo antico amante riceveva tutti questi minuti particolari, ella non dimenticava di rispondere, scuotendo le spalle:
- Bene, bene... fra qualche giorno vedremo da che deriva tuttociò.
Intanto e, più d’ogni altro, Rodolfo stesso, meravigliavasi di tale indifferenza, la quale, senza passare dai sentieri ordinarî della tristezza e della malinconia, succedeva alle tempestose burrasche, che l'agitavano alcuni giorni prima.
L’oblio sl lento ad arrivare, specialmente pei desolati di amore; l'oblio ch'essi chiamano con tutta la forza, e che lo discacciano ad alta voce quando lo vedono: questo spietato consolatore aveva tutt'a un tratto, all'improvviso, assalito il cuore di Rodolfo, il quale non aveva potuto difendersi. Il nome della donna tanto amata poteva cadervi dentro, senza risvegliarvi nessun’eco. Cosa strana!... Rodolfo, la cui memoria aveva bastante potenza da rammentargli che cosa era successo nei più lontani giorni del suo passato, e le persone che vi avevano figurato ed avevano esercitata un'influenza nella sua esistenza; Rodolfo, per qualunque sforzo facesse, dopo quattro giorni di separazione, non poteva più ricordarsi i lineamenti di quella donna, che aveva arrischiato di rompere colle delicate sue mani la di lui esistenza. Egli non ritrovava più la dolcezza di quegli occhi, allo splendore dei quali s'era sì spesso addormentato. Non rammentavasi più il suono di quella voce, le cui tenere carezze ed i collerici accenti lo facevano delirare. Un poeta, suo amico, il quale dopo il divorzio non l'aveva più veduto, una sera rincontrò; Rodolfo pareva affaccendato ed irritato: camminava per la strada a gran passi, facendo roteare il suo bastone.
- Oh! siete qui? - disse il poeta stendendo la mano ed esaminando Rodolfo con curiosità.
E vedendo ch'egli aveva la faccia triste, credette suo dovere di assumere anch'egli l'aria di condoglianza.
- Coraggio, mio caro, coraggio! So anch' io che è dura, ma in fin dei conti un giorno o l'altro bisognava arrivarci. Meglio ora che in seguito; e fra tre mesi voi sarete completamente guarito.
- Che cosa mi venite a parlare di guarigione? - rispose Rodolfo. - Io non sono ammalato, caro mio.
- Oh, Dio mio! - disse l'altro. - Non fate tanto il bravo; per Bacco ! so tutta la storia, e, sé anche non la sapessi, ve la leggerei sulla faccia.
- Badate, prendete un equivoco - riprese Rodolfo. Io sono di malumore stasera, è vero, ma quanto alla causa della mia noia, non l’avete proprio indovinata; no, davvero!
- Ah, ah! ma perché volete difendervi? È una cosa molto naturale: non si può rompere così tranquillamente, una relazione che durava da due anni.
- E tutti mi cantano la stessa canzone! - disse Rodolfo perdendo la pazienza. - Ebbene, sul mio onore, v'ingannate, e con voi tutti gli altri. Se sono profondamente triste, e ne ho l'aria, si è che oggi aspettavo il mio sarto, il quale doveva portarmi un vestito nuovo, e non venne; ecco, ecco perché sono di malumore.
- Cattiva scusa - rispose l’altro ridendo.
- Niente cattiva, buona invece, buonissima, anzi eccellente. Seguite il mio ragionamento, e vedrete.
- Vediamo - disse il poeta - v'ascolto ; oh! provatemi un po' come si possa ragionevolmente aver l'aria sì contristata, perché un sarto vi manca di parola. È qui che v' aspetto.
- Eh! - proseguì Rodolfo - voi sapete bene che le piccole cause producono i più grandi effetti. Questa sera dovevo fare una visita importantissima, e non posso farla perché non ho il vestito. La capite?
- Nient' affatto. Fin qui non c'è un motivo sufficiente per desolarsi. Voi siete afflitto... perché... insomma... Voi siete ingenuo, facendo lo gnorri con me. Ecco il mio parere.
- Amico caro - disse Rodolfo - siete troppo ostinato; c'è sempre motivo a desolarsi quando si perde una felicità, o almeno un piacere, perché è sempre un tanto di perduto; e si ha sempre torto di dire a proposito dell'uno o dell'altro: Io ti raggiungerò un’altra volta. Concludo: stasera avevo appuntamento con una donnina, bella e giovane: dovevo andare a vederla in una casa, da dove l'avrei condotta forse... a casa mia, se la mia casa fosse più vicina della sua, ed anche se più lontana. In questa casa c'è una festa, ad una festa non si può, andare, se non con un abito nero; io non ho l'abito: il mio sarto doveva portarmene uno, non me lo porta, io non vado a quella festa, non trovo la signora, la quale forse incontra un altro; io non la conduco né a casa mia, né a casa sua, dove un terzo forse l’accompagna. Ecco dunque, come vi dicevo, ch'io perdo una felicità o un divertimento; ecco perohè sono desolato, ecco perohè ne ho l'aspetto; è una cosa naturalissima.
- Sia - disse l'amico. - Ah, ah, avete appena levato fuori il piede da un inferno, e già mettete l’altro in un secondo? Però, caro amico; allorché vi trovai là in strada, avevate tutt' affatto l’aria di un uomo che aspetta.
- Difatti aspettavo.
- Ma qui non siamo nel rione dove abita l'antica vostra amante? E chi mi prova che voi non l’aspettavate?
- Benohè separato da lei, ci sono delle ragioni particolari che mi obbligano a rimanere in questo rione: ma, benché vicini, noi siamo lontani l'uno dall' altra. Del resto, la mia antica amante a quest'ora è seduta accanto al fuoco, e prende lezioni di francese dal signor visconte Paolo, il quale vuol ricondurla alla virtù per la strada dell' ortografia. Dio! come la guasterà! Basta; quest'è affare suo, giacché divenne il redattore in capo della sua felicità. Vedete dunque, che le vostre osservazioni sono assurde e che invece di essere sulle tracce cancellate della mia antica passione, mi trovo sulle tracce di una nuova, la quale è già un poco mia vicina, e lo diventerà ancor più. Io acconsento a fare tutta la strada necessaria, e se ella vuol compire il rimanente, non tarderemo a metterci d'accordo.
Davvero? siete già innamorato?
- Sono così; il mio cuore è simile a quegli appartamenti, che si appigionano appena un inquilino li abbandona. Quando un amore esce dal mio cuore, metto subito fuori un cartello per trovarne un altro. Del resto, il luogo è perfettamente abitabile e ben riparato.
E chi è quest' idolo novello? Dove e quando lo avete conosciuto?
- Ecco qui - disse Rodolfo - andiamo in regola. Quando Mimì se ne andò, pensai che in vita mia non m'innamorerei più: mi figurai che il mio cuore era morto di fatica, di languore, di tutto ciò che voi volete. Aveva palpitato tanto, per sì gran tempo, sì presto e troppo presto, che la cosa era credibile. Insomma, lo credetti morto, stramorto, putrefatto, e già pensavo a seppellirlo come il signor Marlbourough. Allora diedi un pranzo funebre, al quale invitai alcuni miei amici. I convitati dovevano avere una faccia piagnucolosa: le bottiglie avevano un velo nero al collo.
- E non m'avete invitato?
- Vi domando scusa, io non sapevo l'indirizzo della nuvola nella quale abitavate. Uno dei convitati condusse seco una donna, abbandonata anch'essa da poco tempo da un suo amante. Le raccontarono la mia storia; fu un mio amico, che suona benissimo il violoncello del sentimento. Parlò a quella giovane vedova delle qualità dei mio cuore, quel povero defunto che noi volevamo seppellire, e l'invito a bere pel suo eterno riposo. Poi disse: "Ah, bah! io bevo invece alla sua salute! E mi lanciò un'occhiata... un'occhiata da svegliare un morto, come si dice, e quest'era il caso di dirlo, o mai più. Appena finito il suo brindisi, io sentivo già il mio cuore cantare l’"O filii" della Risurrezione. Che avreste voi fatto al mio posto?
- Bella domanda! Come si chiama lei?
- L'ignoro ancora; non le chiederò il suo nome, se non nel momento in cui firmeremo il nostro contratto. So benissimo che non mi trovo in condizioni legali, secondo il punto di vista di certa gente, ma io dirigo a me stesso delle suppliche, e mi accordo certe dispense. Quello che so, si è, che la mia futura sposa mi porterà in dote l’allegria, la quale è la salute dell'animo e del corpo.
- È bella?
- Bellissima, di colorito specialmente; si direbbe che la mattina si lavi la faccia nella tavolozza di Watteau.

Ha biondo il crine e latte e sangue il viso.

- Una bionda? voi mi fate stupire!
- Sì; ne ho abbastanza dell'avorio e dell' ebano; adesso passo al biondo - e Rodolfo si pose a cantare saltellando.
- Povera Mimì ! - disse l'amico - dimenticata sì presto!
Questo nome, gettato così in mezzo all'allegria di Rodolfo, diede subito un altro tono alla conversazione. Rodolfo prese pel braccio il suo compagno e gli raccontò distesamente i motivi della separazione da Mimì: i terrori che l'avevano assalito quand'ora partita, come si era disperato, nella persuasione ch'ella portava con sè tutto ciò che a lui restava di passione e gioventù: come due giorni dopo, nel sentire riscaldarsi, accendersi e scoppiare la polvere del suo cuore, bagnata da tante lacrime e da tanti singhiozzi, al primo sguardo di gioventù e di passione, lanciatogli dalla prima donna da lui incontrata, s'era accorto di essersi ingannato. Gli raccontò l'invasione fatta in lui dall'oblio, invasione repentina ed imperiosa, senza ch'egli l'avesse chiamato in suo aiuto, e come quel dolore fosse morto e sepolto in quell'oblio.
- Tutto ciò non è un miracolo? - domandò Rodolfo al poeta, il quale, sapendo a memoria e per esperienza tutti i dolorosi capitoli degli amori rotti, gli rispose:
- Eh! no, amico mio, non è un miracolo né per voi, né per gli altri. Successe anche a me, ciò che a voi ora succede. Le donne che noi amiamo quando diventano nostre amanti, cessano, per noi, di essere ciò che sono realmente. Noi le vediamo non soltanto cogli occhi dell'amante, ma anche cogli occhi del poeta. Nello stesso modo con cui un pittore getta sul modello la porpora imperiale od il velo stellato di una vergine sacra, noi abbiamo sempre magazzini di splendidi manti e vesti di puro lino, che gettiamo sulle spalle di creature senza intelligenza, sgarbate o cattive. Allorché sono abbigliate di quel vestito, sotto il quale le nostre amanti ideali passano nell'azzurro dei nostri sogni, ci lasciamo ingannare da questo travestimento, incarniamo il nostro ideale nella prima donna, alla quale parliamo il nostro linguaggio, ch'ella non capisce. Ma se questa creatura, ai piedi della quale viviamo inginocchiati, si strappa il divino involucro, sotto il quale l’abbiamo nascosta per mostrarci la sua cattiva natura ed i suoi perfidi istinti, se ella posa la nostra mano al posto del suo cuore, dove nulla più palpita, dove nulla forse palpitò mai; se ella apre il suo velo, e ci mostra i suoi occhi spenti, le pallide labbra, i vezzi appassiti, noi le rimettiamo il velo, e gridiamo: "Tu menti! tu menti! Io t' amo e tu pure mi ami! Questo candido seno è il tempio di un cuore che ha tutta la sua giovinezza, io t'amo, e tu pure mi ami! Tu sei bella, tu sei giovane! In fondo a tutti i vizi l'amore esiste! Io t'amo, e tu pure mi ami!" Poi, alla fine, oh, ma proprio sempre alla fine, allorchè ci accorgiamo d’essere vittima dei nostri stessi errori, allora respingiamo la scellerata, che il giorno prima era ancora il nostro idolo, e le togliamo il velo dorato della nostra poesia, che domani getteremo sulle spalle d'una soonosciuta, che in un momento diventa un altro idolo cinto d'aureola. Ecco come siamo tutti: egoisti mostruosi, che amiamo l'amore per l'amore, voi mi capite, n'è vero? E noi beviamo questo divino liquore nella prima coppa che ci capita.
Che importa il nappo, se l'ebbrezza io trovo?
- È vero come due e due fanno quattro, quello che voi dite - sussurrò Rodolfo al poeta.
- Sì - rispose questi - è vero e triste come la metà e mezzo della verità. Buona sera.
Due iorni dopo la signora Mimì seppe che Rodolfo aveva un altra amante.
Domandò di conoscer soltanto se Rodolfo baciava alla nuova amica le mani, così spesso, come a lei.
- Oh! eualmente - rispose Marcello. - E di più, le bacia i capelli ad uno ad uno, e i due amanti debbono star insieme, finché ha finito.
- Ah! - rispose Mimì, passando le mani nella sua capigliatura. - Quale fortuna, ch'egli non abbia immaginato di fare altrettanto con me, saremmo stati assieme tutta la vita. Credete voi che sia proprio vero che non mi ami più?
- Peuh!... E voi l'amate ancora, voi?
- Io? Ma io non l'ho mai amato in vita mia!
- Sì, Mimì, sì, voi l'avete amato, in quei momenti, in cui il cuore delle donne cambia di posto. Voi l'amaste, e non negatelo, poiché è la vostra giustificazione.
- Ah, bah! - disse Mimì - ora egli no ama un’altra.
- È vero, ma non importa. Più tardi la vostra memoria sarà per lui, come quei fiori che si mettono freschi ed odorosi tra le pagine d'un libro... si ritrovano molto tempo dopo, morti, scolorati, avvizziti, ma conservano ancora un po' della primiera freschezza.
Una sera, in cui Mimì presso il visconte cantava a bassa voce una canzone, egli le domandò:
- Che cosa cantate, mia cara?
- Canto l'orazione funebre dei nostri amori, composta ultimamente dal mio amante.

XXI.
GIULIETTA E ROMEO


Vestito come un figurino del suo giornale (la ‘Sciarpa d'Iride’), in guanti, con le scarpe verniciate, la barba rasa, i baffi arricciati, lo stile in mano, una lente all'occhio, fiorente, ringiovanito, in una sera del mese di dicembre, il nostro amico, il poeta Rodolfo, fermo sul boulevard, aspettava una carrozza per farsi condurre a casa.
Rodolfo aspettare una carrozza? Quale metamorfosi era dunque succeduta nella sua vita privata?
Con un fare aristocratico, il nostro poeta si arricciava i baffi, masticava fra i denti un enorme sigaro ‘régalia’ ed incantava lo sguardo delle signore, quando un amico passò sul boulevard. Era il filosofo Gustavo Colline. Rodolfo lo vide venire e lo riconobbe subito; chi mai, avendolo veduto anche una sola volta, avrebbe potuto non riconoscerlo? Colline era carico, come sempre, d'una dozzina di vecchi libri. Vestito del suo immortale soprabito color nocciuola, la cui solidità le faceva credere fabbricato dai Romani, col capo coperto da quel famoso cappello a larga tesa colla cupola di castoro, sotto la quale si agitava lo sciame de' suoi sogni iperfisici, e che fu soprannominato l'elmo di Mambrino della moderna filosofia, Gustavo Colline camminava a passi lenti, e ruminava a bassa voce la prefazione di un'opera che da tre mesi stava sotto i torchi... della sua immaginazione. Avanzandosi verso il luogo dove Rodolfo stava fermo, Colline credette un momento di riconoscerlo, ma la suprema eleganza sloggiata dal poeta, lo gettò nel dubbio e nell'incertezza.
- Rodolfo inguantato, con un giunco, chimere ! utopie! che aberraziOne! Rodolfo pettinato a ricci! Ma se ha meno capelli dell'Occasione! Dove avevo io mai la testa! D'altra parte, in questo momento, l'infelice mio amico sta lamentandosi, e compone versi malinconici sulla partena della giovane Mimì, che lo ha abbandonato. Davvero la rimpiango quella giovanetta: ella sfoggiava una grandissima abilità nel modo di preparare il caffè, che è la bevanda degli spiriti seri! Ma giovami il credere, che Rodolfo si consolerà, e che tra poco prenderà una caffettiera nuova.
Colline era così sodisfatto del suo deplorabile giuoco di parole, che avrebbe gridato a sè stesso bis! se la voce grave della filosofia non si fosse risvegliata in lui, e non avesse messo un energico: alto là! a questo stravizio di spirito.
Però, siccome s'era fermato vicino a Rodolfo, Colline fu obbligato di arrendersi all'evidenza: era proprio Rodolfo, pettinato, coi guanti e col bastone; era impossibile, ma vero.
- Eh! eh! perdinci! - disse Colline. -No, non m'inganno; sei proprio tu, ne son certo!
- Anch'io - rispose Rodolfo.
E Colline si mise a guardare ii suo amico, dando alla faccia l'espressione usata da Lebrun, pittore del re, quando vuol esprimere la meraviglia. Ma tutto ad un tratto, egli sorprese due oggetti bizzarri di cui era carico Rodolfo:
Una scala di corda.
Una gabbia, nella quale volteggiava un uccello qualunque.
A tal vista, la fisonomia di Gustavo Colline espresse un sentimento che Lebrun, pittore del re, ha dimenticato nel suo quadro delle passioni.
- Andiamo - disse Rodolfo al suo amico - vedo distintamente la curiosità del tuo spirito, che si mette alla finestra dei tuoi occhi; voglio sodisfarti; però lasciamo la strada pubblica; fa un freddo tale, che gelerebbero le tue domande e le mie risposte.
Entrarono ambedue in un caffè.
Gli occhi di Colline non abbandonavano la scala di corda, né la gabbia nella quale l’uccelletto, riscaldato dalla tiepida atmosfera del caffè, si mise a cantare in un linguaggio sconosciuto a Colline, benchè poliglotta.
- Infine - disse il filosofo, indicando la scala - che roba è questa?
- È un tratto di unione fra la mia diva e me - rispose Rodolfo con voce da mandolino.
- E quest'altro? - interrogò il filosofo indicando l’uccello.
- Questo - rispose il poeta, la cui voce diventava dolce come il canto della brezza - questo è un orologio.
- Parlami, di grazia, senza parabole in bassa prosa, ma correttamente.
- Sia. Hai letto Shakespeare tu?
- Se l'ho letto! To be or not to be. Era un grande filosofo! Sì, l'ho letto.
- Ti ricordi di Giulietta e Romeo ?
- Se me ne ricordo! - disse Colline. - E poi?
- Come! - riprese Rodolfo mostrando la scala e l'uccello - non capisci? Ecco qui il poema bell'e fatto! Io sono innamorato, caro mio, innamorato d'una donna, che ha nome Giulietta.
- Va bene: e poi?
- Ecco qui. Avendo la mia amante il nome di Giulietta, ho concepito un piano; quello di rifare con lei il dramma di Shakespeare. Prima di tutto, io non mi chiamo Rodolfo: il mio nome è Romeo Montecchi, e tu mi farai il piacere di non darmi altro titolo. Del resto, affinchè tutti lo sappiano, ho fatto incidere biglietti da visita nuovi. Ma non è tutto: voglio approfittare del carnevale per mettermi una giubba di velluto e portare una spada.
- Per uccidere Tebaldo? - domandò Colline.
- Assolutamente - continuò Rodoldo. - Infine la scala che tu vedi, deve servirmi per entrare in casa della mia amante, la quale possiede precisamente un balcone.
- Ma l'uccello, l'uccello? - disse il testardo Colline.
- Eh per Bacco! Quest'uccello, che è una cinciallegra, deve rappresentare l’usignuolo, ed indicare ogni mattina il momento preciso, in cui, pronto ad abbandonare le adorate sue braccia, la mia amica mi bacerà, e mi dirà colla sua dolce voce, esattamente come nella scena del terrazzo: "No, non è il giorno, non è la lodoletta... cioè non sono ancora le undici; c'è del fango per le strade, non andar via, stiamo così bene qui!" Affine di completare l'illusione, proeurerò di trovare una nutrice, che metterò a disposizione della mia diletta. Infine spero che l’almanacco sarà abbastanza buono da concedermi di quando in quando un po’ di chiaro di luna, allorchè darò la scalata al verone della mia Giulietta. Che ti are del mio progetto?
- È bello, come tutto ciò che vuoi - disse Colline ma potresti tu spiegarmi anche l'altro mistero di questa sopraccoperta, che ti rende irriconoscibile. Sei forse diventato ricco ?
Rodolfo non rispose, ma fece un segno al garzone del caffè, e gli gettò con indifferenza un luigi, dicendogli:
- Pagatevi.
Poi battè sul suo taschino che emise un suono.
- Hai tu dunque un campanello in tasca che produce questo suono?.
- Soltanto alcuni luigi.
- Dei luigi in oro? - disse Colline con voce strozzata dallo stupore -lasciami un po' vedere come son fatti. Oh! oh!
E si lasciarono. Colline per andare a raccontare le abitudini opulenti ed i novelli amori di Rodolfo; questi per ritornare a casa sua.
Ciò succedeva la settimana seguente alla seconda separazione di Rodolfo e Mimì.
Il poeta, accompagnato dall'amico Marcello, allorchè fu diviso dalla sua amante, sentì il bisogno di cambiar aria e luogo.
Lasciò dunque la triste abitazione, il cui padrone lo vide partire senza dispiacere.
I due amici andarono a cercare altrove un asilo, e presero in affitto due camere nella stessa casa e nello stesso pianerottolo.
La camera scelta da Rodolfo era, senza confronto, più decente di tutte quelle fino allora da lui abitate. Vi si vedevano mobili quasi seri, specialmente un canapè di una stoffa rossa, che doveva imitare il velluto, ma che non osservava menomamente il proverbio: "Fa il tuo dovere".
Sul caminetto c'erano due vasi di porcellana con fiori, e nel mezzo una pendola di alabastro con orribili ornati. Rodolfo mise i vasi in un armadio, e siccome il padrone era salito per caricare la pendola il poeta lo pregò di non toccarla.
- Io acconsento a conservare la pendola sul camino, ma solo come un oggetto d'arte; essa segna mezzanotte, è una bell'ora; stia lì: il giorno in cui segnerà mezzanotte e cinque minuti cambierò di casa. Una pendola! - diceva Rodolfo, che mai non aveva saputo sottomettersi alla tirannia del quadrante - ma è una nemica intima, che vi conta spietatamente la vostra esistenza minuto per minuto, e vi dice ad ogni istante: "Ecco una particella della tua vita che se ne va!" Oh, io non potrei dormir tranquillo in una camera, dove vi sia uno di questi strumenti di tortura, presso ai quali la negligenza e la meditazione sono impossibili. Una pendola le cui sfere si stendono fino al vostro letto e vi pungono, la mattina, allorché siete ancora assorto nelle molli dolcezze del primo risvegliarsi! Una pendola, la cui voce vi grida: den, den, den! È l'ora degli affari, lascia il roseo tuo sogno, togliti alle carezze delle tue visioni (e qualche volta a quelle della realtà); mettiti guanti e cappello: fa freddo, piove, vattene ai tuoi affari, è ora... den, den den! È già anche troppo che si abbia l'almanacco. Stia dunque muta e paralizzata la mia pendola, se no...
Monologando così, visitava il suo nuovo appartamento, e sentivasi agitato da quella segreta inquietudine, la quale sempre ci assale entrando in un nuovo alloggio.
- Ho già notato - egli pensava - che i luoghi da noi abitati esercitano sui nostri pensieri una misteriosa influenza, che si stende perfino sulle nostre azioni. Questa camera è muta, fredda come un sepolcro. Se l'allegria canterà qui un giorno, sarà segno che l'avremo condotta noi; eppoi ella non ci starà un pezzo, perché le risa morrebbero senza eco sotto questo soffitto basso, freddo, bianco come un cielo di neve. Ahimè! Qual vita sarà la mia fra queste quattro mura!...
Nondimeno, pochi giorni dopo, quella camera sì malinconica, era piena di luce e risuonava di un allegro frastuono; la catena era appesa ai focolare, e numerose bottiglie elettrizzavano il gaio umore dei convitati. Lo stesso Rodolfo s'era lasciato vincere dalla contagiosa allegria de' suoi ospiti. Ritirato in un canto con una signora che eravi andata per caso, se ne era impadronito e madrigalizzava con lei colla voce e con gli atti. Verso la fine della festa, aveva ottenuto un appuntamento per l’indomani.
- Via - diss'egli quando fu sole - la serata non fu cattiva, e non ho inaugurato male il mio soggiorno.
Il giorno dopo, all'ora stabilita, arrivò la signora Giulietta. La sera passò in sole spiegazioni. Giulietta sapeva la recente separazione di Rodolfo da quella ragazza dagli occhi azzurri, ch'egli aveva tanto amata; sapeva che dopo averla già lasciata una volta l'aveva ripresa, e temeva di rimanere vittima di questa minestra riscaldata dell'amore.
- L'affare si è - diceva Giulietta - ch'io non ho alcuna volontà di rappresentare una parte ridicola. Vi avverto che sono assai cattiva; una volta che io sia padrona qui - e con un'occhiata ella sottolineò la parola - vi starò e non cederò mai il mio posto.
Rodolfo fece appello a tutta la sua eloquenza, per convincerla che i suoi timori non erano fondati; e siccome la ragazza, dai canto proprio, aveva molta volontà d'essere convinta, finirono coll'intendersi. Però, quando mezzanotte suonò, essi non s’intesero più.: Rodolfo voleva che Giulietta rimanesse; Giulietta voleva andarsene.
- No - ella gli disse mentre insisteva - a che fine tanta premura? Arriveremo lo stesso dove dobbiamo arrivare, a meno che non vi fermiate per strada: ritornerò domani.
E per una settimana, ritornò tutte le sere andandosene sempre quando suonava mezzanotte.
Rodolfo non s'annoiava molto di tali lungaggini. Nell'amore, ed anche nei capricci, apparteneva a quella scuola di viaggiatori, i quali non hanno mai premura di arrivare, ed alla strada postale preferiscono i sentieri perduti, allungano il viaggio, ma lo rendono pittoresco. Questa piccola prefazione sentimentale ebbe per risultato di trascinare Rodolfo più lontano ch'egli non volesse. Certo madamigella Giulietta aveva usato dello strattagemma per condurlo al punto, in cui il capriccio, fatto maturo dalla resistenza, incomincia a rassomigliare all'amore.
Ad ogni nuova visita ch'ella faceva a Rodolfo, notava una sincerità più pronunciata in ciò che Rodolfo le diceva. Quand’ella tardava un po', il poeta provava certe sintomatiche impazienze, che rallegravano la giovanetta; anzi le scriveva perfino delle lettere, il cui linguaggio conteneva tanto da farle sperare, che tra poco sarebbe diventata la sua legittima amante.
Avendo un giorno Marcello, ch'era il suo confidente, letta una di quelle epistole, gli disse ridendo:
- È per far dello stile, o pensi realmente ciò che scrivi?
- Davvero, lo penso - rispose Rodolfo - ne sono meravigliato un po’, ma è così. Otto giorni sono mi trovavo in una assai triste situazione di spirito : la solitudine, il silenzio, ch'erano succeduti così brutalmente alle tempeste della mia antica famiglia, mi spaventavano in modo orribile; ma Giulietta arrivò quasi subito. Ho udito suonare al mio orecchio la sinfonia dell'allegria di vent'anni; mi vidi davanti un visino fresco, due occhi pieni di sorrisi, una bocca piena di baci, e mi lasciai trascinare mollemente a seguire questo pendio del capriccio, che forse mi ha condotto all'amore: io amo amare.
Rodolfo non tardò molto ad accorgersi che non dipendeva più se non da lui di giungere allo scioglimento di quel romanzetto: e fu allora che immaginò di copiare da Shakespeare la messa in scena degli amori di Giulietta e Romeo. La sua futura amante aveva trovata divertente quest'idea, ed acconsentì a collaborano nello scherzo.
Fu proprio la sera in cui si doveva dare quel convegno, che Colline incontrò Rodolfo. Aveva comprato quella scala di seta a corda, che doveva servirgli per dar la scalata al verone di Giulietta. Siccome poi il mercante d’uccelli, al quale si era diretto Rodolfo, non aveva usignuoli, egli vi sostituì un piccione, il quale, gli avevano assicurato, cantava tutte le mattine al sorgere dell' alba.
Tornato a casa, il poeta fece questa riflessione; che un’escursione sopra scala di corda non era cosa facile, che sarebbe prudenza ii tentare una piccola prova generale della scena del balcone, seppure non voleva arrischiare di rendersi ridicolo a colei che doveva aspettarlo. Attaccò dunque la sua scala a due chiodi solidamente fissati nel soffitto, e passò le due ore che gli restavano facendo esercizi ginnastici. Dopo un numero infinito di tentativi, giunse finalmente a poter salire, bene o male, una dozzina di gradini.
Via, va bene!- diss’egli tra sè. - Ora son sicuro del fatto mio, e del resto, se restassi per strada, l'amore mi darà le ali.
Carico della scala e della gabbia col piccione, egli andò da Giulietta che abitava lì vicino. La sua camera era posta in fondo ad un giardinetto, ed aveva difatti una specie di verone. Ma quella camera era al pian terreno, e quel verone potevasi scavalcare colla più grande facilità del mondo.
Rodolfo fu atterrito allorché s'accòrse di quella disposizione locale, che riduceva al nulla il suo poetico progetto di scalata eil suo esercizio ginnastico.
- Fa lo stesso - diss'egli a Giulietta - noi eseguiremo l'episodio del balcone. Ecco qui un uccello che domattina ci sveglierà colla sua voce melodiosa, e che ci avvertirà del momento preciso, in cui dovremo, con disperazione, lasciarci.
E Rodolfo appese la gabbia in un angolo della camera.
L' indomani mattina, alle cinque, il piccione fu perfettamente esatto, e riempì la camera di un prolungato tubamento, che avrebbe svegliato i due amanti se avessero dormito.
- Ebbene - disse Giulietta - ecco il momento di andare sul verone e di darci un disperato addio; che cosa tu ne dici?
- Il piccione è avanti - rispose Rodolfo - siamo in novembre, il sole non si leva che a mezzogiorno.
- Non importa, io m'alzo - disse Giulietta.
- Oh! e perché?
- Ho lo stomaco vuoto, e non ti nascondo che prenderei qualche cosetta.
- È straordinario l'accordo che regna nelle nostre simpatie; anch'io ho una fame atroce - disse Rodolfo alzandosi e vestendosi in fretta.
Giulietta aveva già acceso il fuoco, o guardava nella credenza, se vi era qualche cosa: Rodolfo l'aiutava in quelle ricerche. - Oh! - diss’egli - delle cipolle! - E del lardo - disse Giulietta. - È burro! - È pane!
- Ahimè, non c'è altro!
Mentre si facevano quelle ricerche, il piccione ottimista ed imprevidente, tubava.
Romeo guardò Giulietta, Giulietta guardò Romeo, tutti e due guardarono il piccione.
Non dissero di più. La sorte del piccione-pendola era decisa; avrebbe potuto ricorrere in cassazione, ma sarebbe stato fiato perduto: la fame è una sì cattiva consigliera!
Rodolfo aveva acceso il carbone e faceva friggere il lardo nel burro; aveva una faccia grave e solenne.
Giulietta nettava le cipolle in un malinconico atteggiamento.
Il piccione cantava sempre : era la sua romanza del salice.
A questi lamenti si aggiungeva la canzone del burro nella cazzartiola.
Cinque minuti dopo il burro cantava ancora, ma il piccione simile ai ‘templiers’ non cantava più.
Giulietta e Romeo avevano cucinato il piccione ‘à la crapaudine’.
Aveva una bella voce - diceva Giulietta mettendosi
a tavola.
- Era assai tenero - disse Romeo tagliuzzando il suo svegliarino, arrostite a perfezione.
I due amanti si guardarono e si sorpresero entrambi colle lacrime agli occhi.
Ipocriti! era la cipolla che li faceva piangere!

XXII.
EPILOGO DEGLI AMORI DI RODOLFO,
E DI MADAMIGELLA MIMI.

I.

Nei primi giorni della sua rottura definitiva con Mimì, la quale lo aveva abbandonato per montare nella carrozza del visconte Paolo, il poeta Rodolfo aveva tentato di stordirsi procurandosi un'altra amante la quale fu quella bionda stessa per cui l'abbiamo veduto vestirsi da Romeo in un giorno di pazzia e di paradosso. Ma quella relazione, che in lui era un affare di dispetto, e nell'altra un affare di capriccio, non poteva avere lunga durata. Quella giovanetta infine, non era se non una pazzerella che vocalizzava a perfezione il solfeggio della furberia; intelligente abbastanza per valutare il talento altrui e servirsene al bisogno, e non avente cuore se non per sentirsi male, quando mangiava troppo. Contuttociò un amor proprio feroce ed una sfrenata civetteria. Avrebbe preferito, che il suo amante si fosse rotta una gamba, piuttosto che avere un volante di meno al vestito od un nastro avvizzito al cappello. Bellezza discutibile, creatura ordinaria, dotata dalla natura di tutti i cattivi istinti, e nondimeno seduttrice da certi lati e ad ore fisse. Ella non tardò molto ad accorgersi che Rodolfo l'aveva presa soltanto per aiutarlo a dimenticare Mimì, ma che al contrario gliela faceva rimpiangere, giacchè mai la sua antica amante aveva destato maggior turbine nel di lui cuore.
Un giorno, Giulietta, la nuova amante di Rodolfo, discorreva del suo amico poeta con uno studente di medicina che le faceva la corte; lo studente le rispose:
- Ragazza mia cara, quel giovane si serve di voi, come noi ci serviamo del nitro, per cauterizzarsi il cuore; per cui avete un torto di mangiarvi il fiele e d'essergli fedele.
- Ah! ah! - esclamò la giovanetta scoppiando dalle risa. - Siete così innocente da credere che me ne dia pensiero?
E la stessa sera, diede allo studente la prova dei contrario.
Grazie all'indiscrezione d'uno di quegli amici officiosi, i quali non saprebbero a qualunque costo tener medita una notizia che vi può recar dispiacere, Rodolfo seppe l'avventura e se ne servì come pretesto per troncare ogni relazione colla sua amante interinale.
Da quel giorno si chiuse in un'assoluta solitudine, nella quale tutti i pipistrelli della noia vennero a fare il loro nido: chiamò in aiuto il lavoro, ma invano. Ogni sera, dopo aver sudato tante gocce d'acqua, quante ne aveva consumate d'inchiostro, scriveva una ventina di linee nelle quali una vecchia idea ballava pesantemente sulla corda tesa del paradosso, stanca più dell'Ebreo Errante e mal vestita di cenci prestati dai rigattieri letterari. Rodolfo, rileggendo quelle linee, rimaneva costernato come uomo che vede spuntare delle ortiche nell'aiuola, dove aveva creduto seminar rose. Allora lacerava la pagina nella quale aveva snocciolato il suo rosario di sciocchezze e la calpestava rabbiosamente.
- Andiamo - diceva battendosi il petto al posto del cuore - la corda è rotta: rassegnamoci.
E siccome a tutti i tentativi di lavoro, da molto tempo succedeva un tale disinganno, egli fu assalito da uno di quegli scoraggianti languori, che fanno inciampare li ingegni più robusti, ed abbrutiscono le più lucide intelligenze. Nulla è difatti più terribile di quelle lotte solitarie, che qualche volta s'impegnano fra l'artista ostinato e l'arte ribelle: nulla è più commovente di quella rabbia alternata di preghiere ora imperiose, ora supplichevoli, inalzate alla Musa sdegnosa o fuggitiva. Le più violenti angosce umane, le più profonde ferite nel vivo del cuore, non cagionano un dolore il quale s'avvicini a quello 'che si soffre nelle ore d'impazienza e di dubbio, sì frequenti per tutti coloro che si dedicano al peniglioso mestiere dell'immaginazione.

A queste gravissime crisi, succedevano penosi abbattimenti. Rodolfo rimaneva ore intere pietrificato in una immobilità da ebete, coi gomiti appoggiati sui tavolino, l'occhio fisso sullo spazio luminoso, che il raggio della lampada descriveva in mezzo al foglio di carta’campo di battaglia’, dove il suo spirito era quotidianamente sconfitto, e sul quale la penna era diventata zoppa, correndo dietro all'idea impercettibile. Egli vedeva sfilare dinanzi a sè quadri fantastici che spiegavano a' suoi occhi il panorama del passato, come succede delle figure della lanterna magica colla quale si divertono i bambini. Primi erano i giorni del lavoro nei quali ogni ora segnava il compimento di un dovere; le notti studiose passate in colloquio colla Musa, che veniva ad abbellire coi suoi incanti la povertà solitaria e paziente. E ripensava l’orgogliosa beatitudine che lo inebriava, allorché aveva finito il còmpito impostogli dalla volontà.
- Oh nulla vi uguaglia! - esclamava egli - voluttuose fatiche del lavoro, che fate trovar così dolci i materassi del far niente. Nulla vale, nulla uguaglia quella gioia calma ed onesta, quella legittima sodisfazione di sè stesso, che il lavoro accorda come un primo salario; né le sodisfazioni dell'amor proprio, né quelle cui le ricchezze procura, né i febbrili svenimenti soffocati sotto le pesanti tendine delle misteriose alcove; oh no, nulla vi uguaglia!
E cogli occhi sempre intenti a quelle visioni, che continuavano a dipingergli le scene dei tempi trascorsi, egli risaliva i cinque piani di tutte le soffitte, nelle quali erasi accampata la vagabonda sua vita, dove la Musa, unico amor suo in quel tempo, amica perseverante e fedele, l'aveva sempre seguito vivendo in pace colla miseria, e non interrompendo mai la canzone della speranza.
Ma ecco: in mezzo a questa esistenza regolata e tranquilla apparire ad un tratto la figura d'una donna: e la Musa vedendola entrare in quell'abituro in cui era stata fino a quel punto sola padrona e regina, s'alzava malinconica e lasciava il posto alla nuova arrivata, nella quale aveva indovinata una rivale.
Rodolfo esitava un momento fra la musa, a cui il suo sguardo sembrava dire: Rimani! Mentre col gesto pareva dire alla straniera: Vieni!
E come scacciarla quell'incantevole creatura che veniva a visitarlo, armata di tutte le seduzioni d'una bellezza nasconto? Roseo labbro e bocca seducente, che parlava un linguaggio ingenuo ed ardito, pieno di vezzeggianti promesse: come negare la destra a quella bianca mano dalle vene azzurre, che si stendeva verso di lui, piena di carezze? Come dire: Vai via! a quei fiorenti diciott'anni, la cui presenza imbalsamava già di gioventù e di gioia il mesto abituro? E poi, colla voce teneramente commossa, essa cantava sì bene la oavatina della tentazione! Co' suoi occhi vivi e brillanti, ella diceva sì bene: "Io sono l'amore"; colle sue labbra sulle quali il bacio fioriva: "Io sono il piacere!" con tutta la persona infine: "Io sono la felicità!... " che Rodolfo cadeva vinto.
E del resto, quella giovanetta non era essa la poesia vivente e reale? Non le doveva le più ardenti ispirazioni? Non l'aveva ella iniziato sì spesso ad entusiasmi che lo trasportavano sì alto nell'etere dell'immaginazione, da perdere di vista le cose della terra? Se aveva molto sofferto per sua cagione, quei patimenti non erano forse l'espiazione delle gioie immense ch'ella gli aveva procurate? Non è questa la comune vendetta del destino umano, che vieta l'assoluta felicità qome un delitto? Se la legge del Cristo perdona a coloro che molto hanno amato, è perché hanno molto sofferto; l'amore terrestre non si fa passione divina, se non a patto di purificarsi nei pianto.
Rodolfo s'inebriava rivivendo colla memoria di quella vita d'un tempo, in cui ogni giorno segnava una nuova elegia, un terribile dramma, una grottesca commedia.
Egli rammentava tutte le fasi dello strano suo affetto per la cara assente, dalla luna di miele fino alle domestiche tempeste, che avevano cagionata l'ultima loro separazione: ricordava il repertorio di tutte le furberie dell'antica sua amante, ripeteva tutti i suoi frizzi. Ei la vedeva, intorno a lui, nella piccola cameretta, canterellare "La mia cara Annetta" ed accogliere colla stessa giocondità spensierata i giorni buoni ed i cattivi.
Alla fine dei conti poi, conchiudeva che la ragione ha sempre torto in amore.
E difatti, cosa aveva guadagnato con questa separazione?
Quando viveva con Mimì, era ingannato, va benissimo; ma se egli lo sapeva, la colpa era sua, perché si dava tutte le pene del mondo per conoscerlo, e passava tutto il tempo aspettando in agguato le prove, ed affilando egli stesso i pugnali che s'immergeva nel cuore. Del resto Mimì non era destra abbastanza da provargli al bisogno ch'era lui che si ingannava? E poi con chi gli era stata infedele? Il più delle volte con una veste, con un cappello, con oggetti insomma, non con uomini.
La calma, la tranquillità che egli aveva sperato dividendosi da lei, le aveva trovate? Ahimè, no! Non mancava che Mimì sola, in casa. Una volta il suo dolore poteva spandersi: poteva spandersi in ingiurie, in scene; poteva mostrare quanto soffriva, e svegliar la pietà di colei che lo faceva soffrire. Ora, il suo affanno era solitario: la sua gelosia era diventata rabbia.
Altre volte almeno, quando aveva dei sospetti, poteva proibire a Mimì d'uscir di casa: tenerla lì vicino a lui, nelle sue mani; ora invece la incontrava per strada a braccetto del suo nuovo amante, e bisognava che si voltasse per lasciarla passare, certamente felice e recantesi ai divertimenti.
Questa misera vita durò tre o quattro mesi. A poco a poco la calma ritornava. Marcello, che aveva fatto un lungo viaggio per distrarsi di Musette, ritornò a Parigi ed andò ancora ad abitare con Rodolfo. Essi si consolavano l'un l'altro.
Una domenica, traversando il Lussemburgo, Rodolfo incontrò Mimì, in gran toilette. Andava al ballo. Ella gli fece un cenno del capo, al quale egli rispose con un saluto. Quell'incontro gli diede un colpo nel cuore, ma l'emozione fu meno dolorosa del solito. Passeggiò ancora un po' nel giardino, poi se ne tornò a casa. Allorché Marcello lo trovò la sera, lo vide lavorare.
- Ah, bah! - disse Marcello inchinandosi sulla sua spalla - tu lavori, dei versi!
- Sì - rispose Rodolfo con piacere. - Da quattro ore che sono qui, ho ritrovato la vena dei giorni antichi. Ho incontrato Mimì.
- Ah! - disse Marcello inquieto - a che punto siete?
- Non aver paura - disse Rodolfo - non abbiamo fatto altro che salutarci. Non si andò più oltre.
- Davvero?
- Davvero! fra noi è finita, lo sento; ma se mi rimetto al lavoro, le perdono.
- Poiché le cose son finite così bene - aggiunse Marcello, che aveva letti i versi di Rodolfo - perché le scrivi dei versi?
- Ahimè! - rispose il poeta - prendo la poesia dove la trovo. - Egli lavorò otto giorni a quel piccolo poema. Quand'ebbe finito, andò a leggerlo a Marcello, il quale dichiarò esserne contento, e incoraggiò Rodolfo ad impiegare in altro modo la vena che gli era ritornata; poiché, dicevagli, non valeva la pena d'abbandonare Mimì per dover vivere sempre colla sua ombra.
- In fine poi - aggiungeva Marcello - invece di moralizzare gli altri, farei meglio di predicare a me stesso, poiché ho ancora Musette nel cuore. Che fare? non forse saremo sempre giovanotti invaghiti di queste diaboliche creature.
- Ahimè! - replicò Rodolfo - non fa bisogno dire alla gioventù: Va via!
- È vero - disse Marcello - ma vi sono giorni in cui vorrei essere un onesto vecchietto, membro deli' Accademia, decorato di molti ordini e disingannato dalle Musette di questo mondo. Il diavolo mi porti se mi lasciassi pigliare ncora!
E tu - aggiunse ridendo l'artista - ti piacerebbe aver ses-sant'anni?
- Oggi mi piacerebbe di più possedere sessanta franchi.
Alcuni giorni dopo Mimì entrò col visconte Paolo in un caffè, dove, sfogliando una rivista, trovò stampati i versi che Rodolfo aveva scritti per lei.
- Questa è buona! - esclamò ridendo - ecco che il mio amante Rodolfo parla male di me nei giornali.
Ma quand'ebbe letto tutti i versi, rimase muta ed assorta. Il visconte Paolo, indovinando ch'ella pensava a Rodolfo, tentò distrarla.
- Ti comprerò degli orecchini - le disse:
- Ah! - riprese Mimì - avete del danaro voi!
- Ed un cappello di paglia d'Italia - continuò il visconte Paolo.
- No - disse Mimì. - Se volete farmi un piacere, compratemi questo qui.
Ed indicava il fascicolo sui quale aveva letta la poesia di Rodolfo.
- Oh! questo poi no! - rispose il visconte seccamente.
- Va benissimo! - rispose freddamente Mimì. - Lo comprerò io, col danaro che guadagnerò da me stessa. Difatti è meglio che non sia col vostro.
E per due giorni Mimì ritornò al suo antico magazzino di fiorista, dov'ella guadagnò tanto da comprarsi il fascicolo. Imparò a memoria la poesia di Rodolfo ; e per far arrabbiare il visconte Paolo, ella la ripeteva tutto il giorno ai suoi amici.

II

Era il 24 dicembre, ed in quel giorno il quartiere Latino aveva un aspetto tutto suo particolare. Fin dalle quattro di sera, i vasti uffizi del Monte di Pietà, le botteghe dei rigattieri e quelle dei rivenditori di libri vecchi, erano piene di una folla chiassosa, che nella sera venne poi a prender d'assalto le botteghe dei salsamentari e ad invadere quelle dei rosticcieri e dei droghieri. I giovani di negozio non sarebbero bastati a servire gli avventori, che si strappavano le provvigioni, se anche avessero avuto cento braccia. Dai fornai si faceva la coda come nei giorni di carestia. I vinai vendevano il prodotto di tre vendemmie; un abile computista avrebbe sudato nel trovare la cifra dei prosciutti e dei salsiociotti che furono venduti dal celebre Borel della via Delfino. Il padre Crétaine, detto Panetto, smerciò diciotto edizioni dei suoi pasticci al burro. Un tremendo frastuono uscì tutta la notte dalle case ammobiliate, le cui finestre brillavano di luce: pareva di assistere a una fiera in Olanda.
Si celebrava l'antica solennità della vigilia di Natale.
Marcello e Rodolfo, quella sera, se ne tornavano a casa abbastanza tristi. Percorrendo la via Delfino, videro una grandissima folla nella bottega di un negoziante di commestibili, e si fermarono un momento alla vetrina, ‘tantalizzati’ dallo spettacolo degli odorosi prodotti gastronomici; i due bohèmes nella loro contemplazione rassomigliavano a quel personaggio d'un romanzo spagnuolo, che faceva diventar magri i prosciutti col solo guardarli.
- Questo si chiama un tacchino coi tartufi! - diceva Marcello indicando un magnifico pollo che lasciava vedere a traverso la sua rosea e trasparente epidermide i tubercoli perigordini ond’era ripieno. - Ho conosciuto degli empi che ne mangiavano senza inginocchiarsi dinanzi! - continuava il pittore, gettando sul volatile sguardi tali da farlo arrostire.
- Che pensi di questa modesta coscia di montone salato? - aggiunse Rodolfo. - Che bel colore! Quella coscia là è il piatto favorito degli dèi e della signora Chandelier, mia madrina.
- Guarda un po' quei pesci - diceva Marcello indicando delle trote - sono i più svelti nuotatori della razza acquatica. Queste bestioline, che hanno l'aria di non aver pretese, potrebbero procurar una buona rendita facendo dei giuochi; figurati ch'esso rimontano la corrente di un flume così facilmente come noi accetteremmo uno e due inviti a cena. Una volta andai a rischio di mangiarne.
- E laggiù, quei grossi frutti fatti a cono, il cui fogliame pare una panoplia di sciabole selvaggie, si chiama ananasso; è la mela renetta dei tropici.
- Per me è io stesso - rispose Marcello - in genere di frutti preferisco questo pezzo di manzo, questo prosciutto, o quell'altro più piccolo che ha una corazza di gelatina trasparente come l'ambra.
- Hai ragione; il prosciutto è l'amico dell'uomo quando ne ha. Però non rifiuterei questo fagiano.
- Sacrilegio! È il piatto delle teste coronate.
E siccome, continuando la loro strada, incontravano gioconde comitive che se ne andavano a casa per festeggiare Momus, Baccus, Cornus e tutti i golosi dèi in ‘us’, essi si domandavano l'un l'altro chi era il signor Gamache, del quale si celebravano le nozze con tanta profüsione di vettovaglie.
Marcello fu il primo che si rammentò la data e la festa del giorno.
- Oggi è la vigilia di Natale - diss' egli.
- Ti ricordi di quella dell'anno scorso? - chiese Rodolfo.
- Sì - rispose Marcello - da Momus. Fu Barbemuche che ci trattò. Non avrei supposto che una donna così gracile come Femia, potesse inghiottire tanto salame.
- Peccato che Momus ci abbia vietato l'ingresso! disse Rodolfo.
- Ahimè! - esclamò Marcello. - Gli almanacchi si succedono, ma non si rassomigliano.
- Non solennizzerai tu dunque la vigilia? - domandò Rodolfo.
- Con che, e con chi?
- Oh bella! con me.
- E l'oro?
- Aspetta un momento - disse Rodolfo - vado in quel caffè: vi conosco persone che giuocano d'azzardo. Mi farò prestare alcuni sesterzi da un favorito della sorte, e ti porterò di che annaffiare una sardina ed un piede di maiale.
- Va' dunque - rispose Marcello - ho una fame cannibalesca: t'aspetto qui.
Rodolfo entrò nel caffè ove conosceva alcune persone. Un signore che guadagnava in quel momento trecento franchi in dieci giri di ‘bouillotte’, prestò molto volentieri al poeta un pezzo da due franchi, che gli diede avvolto in quel cattivo umore che è cagionato dalla febbre del giuoco. In un altro momento ed in un altro luogo avrebbe forse dato quaranta franchi.
- Ebbene? - interrogò Marcello vedendo Rodolfo che discendeva.
- Ecco l'introito - disse il poeta, facendo vedere il danaro.
- Una crosta ed una goccia - soggiunse Marolo.
Con quella piccola somma trovarono però il modo di comprare pane, vino, salati, tabacco, lume e fuoco.
Ritornarono alla loro abitazione, dove alloggiavano in camere separate. Quella di Marcello, che serviva anche di studio, come la più grande, fu scelta per la sala del convito, e gli amici vi fecero i preparativi del loro ‘balthazar’.
Ma a quella piccola tavola dove eransi seduti, presso quel camino, sul quale i pezzi di cattivo legno di fiotto si consumavano senza produrre fiamma e calore, venne a sedersi, malinconico convitato, il fantasma del passato.
Essi rimasero un'ora almeno, muti e pensierosi, preoccupati entrambi della stessa idea, e sforzandosi di dissimularla. Fu Marcello che pel primo ruppe il silenzio.
- Andiamo avanti - diss’egli a Rodolfo - non eravamo rimasti a questo punto?
- Che cosa vuoi dire? - rispose Rodolfo.
- Eh, Dio mio! Vuol fingere con me? Tu pensi a cose che bisogna dimenticare: ed io pure, per Bacco!... non lo nego.
- Ebbene, allora?...
- Ebbene, bisogna che sia l'ultima volta. Vadano al diavolo le reminiscenze che ci fan trovar cattivo il vino, e che ci rendono malinconici, mentre tutti si divertono! esclamò Marcello facendo allusione alle grida allegre che venivano dalle stanze vicine alla loro. - Andiamo, pensiamo ad altro, e sia l'ultima volta.
- Diciamo sempre così, e poi!... - disse Rodolfo ridiventando pensieroso.
- E poi vi torniamo sempre - rispose Marcello. - Questo vuol dire che invece di cercar francamente l'oblio, noi ci serviamo delle più futili occasioni per richiamare le rimembranze, e ciò deriva specialmente dalla nostra ostinazione a vivere nella stessa cerchia, nella quale vissero le creature, che furono per sì gran tempo il nostro tormento. Noi siamo schiavi d'una abitudine, piuttosto che d'una passione. E questa schiavitù che bisogna rompere, se no finiremo in un servaggio ridicolo e vergognoso. Ebtene! il passato è passato; bisogna rompere i legami che vi ci attaccano ancora: è venuto il momento di andare innanzi, senza volgere il capo! Noi abbiamo consumato la nostra quota di gioventù, di imprevidenza, di paradossi. Queste sono tutte belle cose; si potrebbe farne un romanzo; ma la commedia delle pazzie amorose, lo spreco di giorni perduti colla prodigalità di gente che crede d’avere l’eternità da spendere, tutto ciò deve avere un termine. Non ci è più permesso di vivere ancora sui margine della società, quasi sul margine della vita, sotto pena di giustificare lo sprezzo che si eleverebbe contro noi, e di disprezzarci noi stessi.
E dessa una vita la nostra? Questa indipendenza, questa libertà di costumi che tanto ci vantiamo, non sono esse un ben piccolo compenso? La vera libertà consiste nel poter operare senza l’aiuto altrui, nel bastare a sè stessi: lo possiamo noi? No. Il primo briccone che passa, e del quale non vorremmo portar il nome per cinque minuti, diventa il nostro signore e padrone quel giorno in cui gli chiediamo cinque franchi in prestito, che egli ci dà, dopo averci fatti spendere cinque franchi in astuzie ed in umiliazioni. Per conto mio, ne ho abbastanza. La poesia non sta soltanto nel disordine della esistenza, nella felicità improvvisata, negli amori che durano l’esistenza d'una candela, nelle rivolte più o meno originali contro i pregiudizi, che saranno sempre i sovrani del mondo. Si rovescia più facilmente una dinastia, che un'usanza, per quanto ridicola. Non basta mettere un soprabito d'estate nel mese di dicembre per avere dei talento; si può benissimo essere un vero poeta od un vero artista, anche tenendosi caldi i piedi e facendo tre pasti al giorno. S'ha bel dire e bel fare, ma se si vuol arrivare a qualche cosa, bisogna sempre prendere la strada dei luogo comune. Questo discorso ti meraviglierà forse, caro Rodolfo mio, tu dirai ch'io spezzo i miei idoli; tu mi chiamerai corrotto, eppure ciò che ti dico è l'espressione sincera dei mio pensiero. Una lenta e salutare metamorfosi si operò in me, senza che me ne accorgessi: la ragione entrò nella mia mente, mediante rottura, mediante scalata, contro mia voglia, se vuoi; ma entrò, e mi ha dimostrato, ch'io camminavo su di una cattiva strada, e che, perseverandovi, avrei incontrato pericolo e dispregio.

Difatti, che succederà se noi continuiamo questo inutile e monotono vagabondaggio? Arriveremo sulla sponda dei nostri trent'anni, sconosciuti, isolati, disgustati di tutto e di noi stessi, pieni d'invidia contro tutti coloro che vedremo conseguire uno scopo qualunque, costretti a ricorrere al vergognoso espediente del parasitismo per vivere. Non credere, che ti faccia un quadro di fantasia espressamente per spaventarti. Io non vedo, per sistema, l'avvenire in nero: ma non lo vedo neppur rosa: vedo giusto. L'esistenza che noi abbiamo menata finora ci era imposta: avevamo la scusa della necessità. Oggi noi non avremmo più scuse; e se non entriamo nella vita comune, sarà perché non vogliamo; gli ostacoli contro i quali abbiamo dovuto lottare, non esistono più.
- Ma finalmente, si può sapere che cosa tu vuoi dire? A che scopo ed a qual fine mi fai questa tiritera?
- Tu mi capisci perfettamente - rispose Marcello colla stessa serietà - poco fa, ti vidi assalito, come io lo ero, da ricordi che ti facevano desiderare il tempo passato; tu pensavi a Mimì, com'io pensavo a Musette: come me avresti voluto vederti a fianco la tua amica. Ebbene! io ti dico che non dobbiamo più pensare a queste donne; che non siamo stati messi al mondo al solo scopo di sacrificare la nostra vita a queste volgari Manon: e che il cavaliere Desgrieux, che è così bello, sì vero e poetico, non sfugge al ridicolo, se non grazie alla sua giovinezza ed alle illusioni che aveva saputo conservare. A vent'anni, egli può seguire la sua amica alle isole senza cessare d'essere simpatico; ma a venticinque avrebbe messo alla porta Manon, ed avrebbe avuto ragione. Noi abbiamo un bel dire, mio caro! Siamo vecchi, lo sai? Abbiamo vissuto troppo e troppo presto: il nostro cuore è screpolato, e non dà più che suoni falsi; non si può conservare impunemente, innamorati tre anni di una Musette e di una Mimì. Per conto mio è proprio finita: e siccome voglio fare completo divorzio colla sua memoria, così getterò sul fuoco alcuni oggetti, ch'ella mi lasciò in casa nelle sue diverse soste, e che mi forzano a pensare a lei quando li trovo.
E Marcello, levatosi in piedi, andò a prendere nel cassetto una scatola di cartone, dove stavano i souvenirs di Musette; un mazzolino di fiori secco, una cintura, un pezzo di nastro ed alcune lettere.
- Orsù - diss’egli al poeta - imitami, amico Rodolfo!
- Sia! - esclamò questi facendo uno sforzo hai ragione Anch'io voglio finirla con questa fanciulla dalle mani pallide.
Ed alzandosi rabbioso, andò a prendere un pacco contenente le memorie di Mimì, press'a poco usuali a quelle di cui Marcello, in silenzio, faceva l'inventario.
- Arrivano a proposito - mormorò il pittore. - Queste cianfrusaglie ci serviranno a riaccendere il fuoco che va spengendosi.
- Difatti - aggiunse Rodolfo - qui regna una temperatura capace di far sbucare gli orsi bianchi.
- Presto! - disse Marcello - facciamo questa operazione insieme. Vedi, vedi la prosa di Musette che fiammeggia come un ponce... le piaceva molto il ponce! Su via! amico Rodolfo, attento!
Ed alimentarono, ora l'uno ora l’altro, per cinque minuti, il fuoco che scintillava chiaro e brillante col reliquiario della loro tenerezza.
- Povera Musette! - diceva Marcello sottovoce guardando l'ultimo oggetto che gli restava in mano, cioè un mazzolino, tutto avvizzito, di fiori di prato. - Povera Musette, com'era bella! E mi amava molto, non è vero, o mazzolino? Te l'ha detto il suo cuore il giorno in cui stavi sul di lei seno? Povero mazzolino, sembri implorar grazia! Ebbene, sì, ad un patto che non mi parli di lei mai più,
mai più.
Ed approfittando d'un momento, in cui credette di non essere veduto da Rodolfo, fece sdrucciolare il mazzolino in tasca.
- Tanto peggio! ma è più forte di me. Io rubo al giuoco - pensò il pittore, e mentr'egli gettava a Rodolfo uno sguardo furtivo, vide il poeta che, arrivato alla fine del suo auto-da-fé, metteva in tasca, senza far mostra di nulla, una cuffietta da notte, dopo averla baciata teneramente.
- Va bene - mormorò Marcello - egli è vile come lo sono io.
Nel momento in cui Rodolfo stava per rientrare in camera sua e coricarsi, si udirono due colpi all'uscio.
- Chi diavolo può venir qui a quest'ora ? - disse il pittore andando ad aprire.
Un grido di stupore gli sfuggì, allorché l’uscio fu aperto.
Era Mimì.
Siccome la camera era oscurissima, Rodolfo non riconobbe subito la sua amica; vedeva ch'era una donna; pensò dunque che fosse una delle passeggiere conquiste del suo amico, e si disponeva a ritirarsi.
- V'incomodo ? - domandò Mimì, che era rimasta sulla soglia.
A quella voce, Rodolfo cadde sulla sedia come colpito dal fulmine.
- Buona sera - gli disse Mimì andandogli vicino, e afferrandogli la mano, che si lasciò prendere macchinalmente.
- Che diavolo vi guida qui? - domandò Marcello ed a quest'ora?
- Ho molto freddo - rispose Mimì intirizzita. - Passando per strada ho veduto un lume in camera vostra, e, benché sia assai tardi, sono salita.
Ella tremava: la sua voce aveva una sonorità cristallina che penetrava nel cuore di Rodolfo come il suono di un'agonia, e lo riempiva d'un lugubre spavento. Egli la guardò più attentamente alla sfuggita: non era più Mimì, era il suo spettro.
Marcello la fece sedere accanto al fuoco.
Mimì sorrise vedendo la bella fiamma che alzavasi allegramente nel camino:
- Come fa bene! - diss’ella accostando al fuoco le sue povere manine violacee. - A proposito, signor Marcello, voi non sapete perchò venni qui da voi.
- No davvero.
- Ebbene - aggiunse Mimì. - Venivo semplicemente per domandarvi, se potreste procurarmi una camera, qui in casa vostra. Mi hanno licenziata dalla mia, perché devo due quindicine, e non so dove andarmene.
- Diavolo! - disse Marcello scuotendo la testa. - Non siamo in buoni rapporti col nostro padron di casa, e la nostra raccomandazione sarebbe deplorevole,- povera figlia mia.
- Come fare allora,? - domandò Mimì. - Non so dove alloggiare!
- Ma - disse Marcello - non siete più viscontessa?
- Oh, Dio mio! No, più affatto.
- Da quanto tempo?
- Da più di due mesi.
Avete dunque dato dei dispiaceri al viscontino?
- No - rispose ella gettando un furtivo sguardo su Rodolfo, che si era rifugiato nell'angolo più oscuro della camera - il visconte mi ha fatto una scena in causa di alcuni versi che furono composti sul conto mio. Abbiamo avuto una spiegazione, ed io l'ho mandato a spasso: era un famoso canchero.
- Però - riprese Marcello - vi aveva circondata di molto lusso, a- quanto vidi, quel giorno che v'incontrai.
- Ebbene! figuratevi! Mi ha ritolto tutto, quando me ne andai. Seppi che fece una lotteria delle mie robe a una table d'hôte, dov'egli mi conduceva a pranzo. È ricco quel giovane, eppure, con tutte le sue ricchezze, è avaro come una mignatta, stupido come un'oca. Non voleva che bevessi vino puro, e mi faceva mangiare di magro al venerdi. Credereste! Voleva farmi portare calze di lana nera, col bel pretesto che si sporcano meno delle bianche!... Guardate e si possono aver simili idee! Insomma, mi ha maledettamente annoiata! Posso ben dire che con lui ho subito il purgatorio.
- E... sa egli qual è la vostra condizione presente? domandò Marcello.
- Non l'ho più veduto, né voglio vederlo... Mi fa venire il mal di mare, soltanto a pensarci: piuttosto che chiedergli un soldo, morrei di fame.
- Ma... continuò Marcello - dacché lo lasciaste, siete sempre stata sola.
- Oh! - esclamò Mimì - vi assicuro di sì, signor Marcello; ho lavorato per vivere; soltanto, siccome il mestiere di fiorista non andava troppo bene, ne ho imparato un altro: fo la modella. Ne avete lavoro da darmi? - diss’ella scherzando; ed avendo osservato un gesto di Rodolfo, ch'ella invigilava sempre collo sguardo, benché parlasse con Marcello, soggiunse: - Ma però, non faccio la modella che per la testa e per le mani. Ho molto da fare, e mi si deve del danaro in due o tre luoghi: fra due giorni ne avrò. E da oggi fino a quel giorno soltanto che vorrei trovar alloggio. Quando avrò danaro, ritornerò alla mia camera. Oh! - continuava Mimì, guardando la tavola, dov'erano i preparativi della modesta cena, che i due amici avevano toccato appena - voi cenavate?
- No - rispose Marcello - non abbiamo fame.
- Siete ben fortunati - disse ingenuamente Mirii.
A queste parole, Rodolfo sentì il cuore serrarglisi orribilmente e fece un segno a Marcello, che lo comprese.
- Ma... giacché siete qui, Mimì - riprese l'artista dividete con noi quello che passa il convento. Avevamo stabilito, io e Rodolfo, di fare la vigilia di Natale, e poi... abbiamo pensato ad altro. -
- Allora - prese a dire Mimì - giungo in tempo e gettava sul tavolo, dove erano cibi, uno sguardo quasi affamato. - Non ho pranzato, caro mio - aggiunse all'orecchio dell'artista, in modo da non essere udita da Rodolfo, il quale mordeva il fazzoletto per soffocare i singhiozzi.
- Avvicinati, Rodolfo - disse Marcello al suo amico ceneremo tutti e tre.
- No - rispose Rodolfo restando nel suo cantuccio.
- Vi secca forse che sia venuta qui, Rodolfo? - domandò Mimì con dolcezza - dove volete mai che andassi?
- No, Mimì - rispose Rodolfo - ma mi fa pena rivedervi in questo stato.
- È colpa mia, Rodolfo, non me ne lamento, quel ch'è passato è passato, non ci pensato di più di quanto ci penso io. Non potreste voi essere amico mio, giacché siamo stati... un’altra cosa? Sì, egualmente non è vero? Ebbene, allora non mi tenete il broncio, e venite qui a tavola con noi.
Ella s'alzò per andarlo a prendere per mano, ma era sì debole, che non potè muovere un passo e ricadde sulla sedia.
- Il caldo m'ha intormentita - diss' ella - non posso star ritta.
- Orsù - fece Marcello a Rodolfo - vieni a tenerci compagnia.
Il poeta si avvicinò alla tavola e si mise a mangiare con loro. Mimì era lietissima.
Allorché il pasto frugale fu terminato, Marcello disse a Mimì:
- Figlia mia cara, ci è proprio impossibile procurarvi una camera in questa casa.
- Bisogna dunque che me ne vada? - domandò ella tentando d'alzarsi.
- Ma no! ma no! - esclamò Marcello - ho trovato un altro modo d’accomodare la cosa: voi starete qui in camera mia, ed io andrò a dormire con Rodolfo.
- Oh, come starete male! - disse Mimì - ma non sarà per molto tempo; due giorni soli.
- Così non staremo male nient' affatto - osservò Marcello - dunque siamo intesi: qui siete in casa vostra e noi anderemo a coricarci in camera di Rodolfo. Buona notte Mimì, dormite bene.
- Grazie - rispose Mimì dando la mano a Marcello ed a Rodolfo che se ne andavano.
- Volete chiudervi in camera? - le domandò Marcello allorché fu presso alla porta.
Perché? - rispose Mimì guardando Rodolfo - non ho paura, io!
Quando i due amici furono soli nella camera vicina, che era sullo stesso pianerottolo, Marcello disse a Rodolfo:
- Ebbene, che cosa farai adesso?
- Ma!... - balbettò Rodolfo - non lo so.
- Orsù, non fare smorfie; va' a raggiungere Mimì: se tu ci vai, ti predico che domattina sarete ancora insieme.
- Se fosse venuta Musette, che cosa faresti tu? - domandò Rodolfo.
- Se fosse Musette quella che sta nella camera vicina, ebbene, francamente, io credo che già da un quarto d'ora non sarei più in questa.
- Ebbene, io - rispose Rodolfo - io sarò più coraggioso di te: io resto qui.
- Lo vedremo, per Bacco! - disse Marcello, che era già coricato. - Come? vieni in letto anche tu?
- Sì, certo - rispose Rodolfo.
Ma Marcello svegliatosi durante la notte s'accòrse che Rodolfo se n' era andato.
Alla mattina seguente, andò a battere pianino all'uscio della camera dov'era Mimì.
- Entrate - diss' ella, ed appena lo vide gli fece segno di parlar piano, per non svegliare Rodolfo che dormiva.
Egli stava seduto in una poltrona accanto al letto; la sua testa posava sul guanciale accanto a quella di Mimì.
- È così che avete passata la notte? - chiese Marcello stupito.
- Sì - rispose la ragazza.
Rodolfo si svegliò tutt' ad un tratto, e dopo avere abbracciata Mimì, stese la mano a Marcello, che pareva imbarazzato.
- Vado a cercar del danaro per far colazione - diss’egli al pittore - tieni un po' di compagnia a Mimì.
- E così? - domandò Marcello alla fanciulla, allorché Rodolfo fu uscito. - Che cos'è successo stanotte?
- Cose assai malinconiche - rispose Mimì. - Rodolfo m'ama ancora.
- Lo so bene io.
- Sì, voi avete voluto staccarlo da me, e non ve ne faccio colpa, Marcello; avevate ragione; ho fatto del male a quel povero ragazzo.
- E voi - domandò Marcello - l'amate voi ancora?
- Se l'amo?... - diss’ella giuigendo le mani - quest' è il mio solo tormento. Sono ben cambiata, vedete, mio povero amico, e non ci volle un gran tempo ...
- Bene, giacché vi ama, che voi l'amato e non potete stare l'una senza l'altro, ritornate insieme e procurate di rimanervi una buona volta.
- È impossibile! - disse Mimì.
- Perché? Sarebbe certamente cosa più ragionevole che voi vi divideste: ma per non rivedervi mai più, bisognerebbe che foste a mille leghe l'uno dall'altra.
- Fra poco sarò ancor più lontana.
- Eh? Cosa volete dire?
- Non ne dite nulla a Rodolfo, ciò gli recherebbe troppo dipiacere; sto per andarmene, e per sempre.
-Ma,dove ?
- Guardate, mio povero Marcello - disse Mimì fra i singhiozzi - guardate! - Ed alzando un po' la coperta del letto, fece vedere all'artista le sue spalle, il collo e le braccia.
- Oh, mio Dio! - esclamò dolorosamente Marcello. Povera fanciulla!
- Non è vero, amico mio, ch’io non m'inganno, e che tra poco morrò?
- Ma come mai vi riduceste in questo stato, in sì poco tempo?,
- Ah! - rispose Mimì - colla vita che conduco già da due mesi, non c'è da meravigliarsene; tutte le notti passate in lacrime, i giorni a fare la modella in studi senza fuoco; il cibo cattivo; il dispiacere che provavo; poi voi non sapete tutto. Ho tentato di avvelenarmi con acqua di ‘Javel’; mi hanno salvata, ma non per un pezzo... Lo vedete. E poi, non fui mai troppo robusta... Infine è colpa mia: s'io fossi rimasta quieta con Rodolfo, non mi troverei a questo punto. Povero amico, ecco, io gli casco ancora sulle spalle: ma sarà per poco; l'ultimo vestito ch'egli mi regalerà, sarà tutto bianco, mio povero Marcello, e mi seppelliranno con quello. Oh, se sapeste com’io soffro, sapendo che sto per morire! Rodolfo lo sa che sono ammalata. Rimase un'ora senza parlare, ieri, quando vide le mie braccia e le mie spalle sì dimagrate; non riconosceva più la sua Mimì. Ohimè! Neppure il mio specchio non mi riconosce più. Ma che importa! Sono stata bella, ed egli mi ha amato molto. Oh, mio Dio! - esclamò nascondendo la faccia nelle mani di Marcello mio povero amico, debbo lasciar voi, ed anche Rodolfo. Oh! Dio mio! Dio mio! - ed i singhiozzi le strozzarono la voce.
- Orsù, Mimì, orsù, via... non vi desolate in questo modo; guarirete; non ci vuole che molta cura e quiete.
- Oh no - aggiunse Mimì - è proprio finita, lo sento io. Non ho più forze, e ieri sera, quando venni qui, impiegai più di un'ora a salire le scale. Se avessi trovata in questa camera una donna, mi sarei buttata dalla finestra. Pure ne ha il diritto, egli è libero, giacché non viviamo più insieme: ma io, vedete, Marcello, ero sicura che mi amava ancora. E per questo - diss’ella prorompendo in uno scoppio di pianto - è per questo che non vorrei morir così subito: ma è finita del tutto. Vedete, Marcello, bisogna che sia assai generoso quel povero amico per ricevermi dopo tutto il male che gli feci! Oh! Dio non è giusto, s'egli non mi lascia almeno il tempo di far dimenticare a Rodolfo i dispiaceri che gli ho arrecati. Egli non sospetta il mio stato. Non ho voluto che si coricasse vicino a me, perché mi pare, vedete, che i vermi della terra già si siano impadroniti del mio corpo. Abbiamo passata la notte piangendo e parlando del tempo passato. Oh! com'è triste, amico mio, il mirare dietro di sè la felicità accanto alla quale si passò una volta senza rivederla più mai! Mi sento del fuoco nel petto, ed ho freddo. Fatemi il piacere, Marcello, datemi la mia veste. Voglio far le carte, per vedere se Rodolfo porterà a casa del danaro. Vorrei fare ancora una buona colazione con voialtri, come una volta; ciò non mi farebbe male. Dio non può rendermi più ammalata di quanto lo sono già. Vedete - diss’ella a Marcello facendogli vedere la carta - questo è più che... il color della morte: questo è fiori - proseguì ridendo sì, avremo del danaro.
Marcello non sapeva che cosa dire di fronte al delirio lucido di quella creatura, che si sentiva con sè, come aveva detto, i vermi della tomba.
Rodolfo ritornò dopo un’ora; Schaunard e Colline lo accompagnavano. Il musicista portava il suo soprabito d'estate. Aveva venduti i suoi abiti di panno per prestare del danaro a Rodolfo, allorché seppe che Mimì era malata. Colline dal canto suo aveva venduti alcuni libri. Egli avrebbe più volentieri acconsentito a vendere un braccio od una gamba, che non le sue opere. Ma Schaunard gli aveva fatto osservare, che non si poteva ricavar nulla dal suo braccio e dalla sua gamba.
Mimì si sforzò di riprendere la sua allegria per accogliere i vecchi amici.
- Non sono più cattiva - diss'ella. - Rodolfo mi ha perdonato. S'egli vuol tenermi con lui, mi metterò indifferentemente gli zoccoli ed una cuffia. Davvero la seta non fa bene alla mia salute - soggiunse con un triste sorriso.
Rodolfo, dietro le osservazioni, di Marcello, aveva mandato a chiamare un suo amico, da poco nominato medico. Quand’egli arrivò, lo lasciarono solo con Mimì.
Rodolfo, avvertito da Marcello, sapeva il pericolo che sovrastava la sua amica. Allorché il medico ebbe visitato Mimì, disse a Rodolfo:
- Voi non potete tenerla qui. A meno di un miracolo, ella è perduta. Bisogna mandarla all’ospedale. Vi darò una lettera per l’ospedale della Pietà: ne conosco i superiori, si avranno per lei tutte le cure. Se può arrivare alla primavera, la salveremo forse, ma se sta qui, fra otto giorni sarà morta.
- Non avrò mai il coraggio di farle simile proposta - osservò Rodolfo.
- Gliel'ho già detto io - riprese il medico - ella acconsente. Domani, vi manderò un biglietto di ammissione all’ospedale della Pietà.
- Amico mio - disse Mimì a Rodolfo - il medico ha ragione; voi non potreste curarmi. Allo spedale forse mi guariranno; bisogna condurmi là. Oh, adesso ho tanta volontà di vivere, vedi, che sarei contenta di passare i misi giorni con una mano nel fuoco, ma l'altra fra le tue. Del resto, verrai a trovarmi. Non devi darti pena; sarò ben curata, quel giovane nie l'ha detto. All’ospedale dànno del pollo e c'è del fuoco. Mentre mi curerò, tu lavorerai per guadagnarti del danaro... e quando sarò guarita verrò a vivere con te. Adesso ho molta speranza. Ritornerò bella come una volta. Tempo fa, fui ammalata come ora, quando non ti conoscevo, e mi salvarono. Eppure, non ero felice: avrei dovuto morire allora. Adesso che ti ho trovato, possiamo essere felici: mi salveranno di nuovo, perché mi difenderò accanitamente contro la malattia. Beverò tutte le medicine che mi si daranno, e se la morte mi piglierà, sarà per forza. Dammi lo specchio: parmi di avere già buon colorito. Sì - proseguì guardandosi nello specchio - ecco qua il mio bel colore che ritorna; e le mani, guarda, esse sono ancora belle; bacialo ancora una volta, non sarà l'ultima, mio povero amico - e così dicendo serrava Rodolfo intorno al collo, inondandogli il capo coi suoi capelli sciolti.
Prima d'andare all’ospedale, volle che i suoi amici, i bohê,nes, passassero una sera con lei.
- Fatemi ridere - ella disse - l'allegria è la mia salute. E quel berretto da notte di visconte che mi fece ammalare. Egli voleva insegnarmi l'ortografia, figuratevi! che cosa volete che ne faccia? E i suoi amici dunque! Che compagnia! Un vero cortile del quale il visconte era il pavone. Era lui che marcava da sè la sua biancheria. Se mai prende moglie, son sicura che farà lui i figiluoli.
Niente era più straziante dell'allegria quasi febbrile di quell'infelice giovanetta. Tutti i bohèmes facevano sforzi penosi per nascondere le loro lacrime e tenere la conversazione sul tono scherzevole, sul quale quella povera fanciulla l'aveva posta. Poveretta! Il destino le filava velocemente il lino dell'ultima veste.
Il domani, Rodolfo ricevette il biglietto d'ammissione all’ospedale. Mimì non poteva star ritta: bisognò portarla fin abbasso alla carrozza. Durante il tragitto, ella soffrì orribilmente per le scosse della vettura. Anche in mezzo alle sofferenze, l'ultima cosa che muore nelle donne, è la civetteria. E questa sopravviveva ancora, poiché Mimì fece fermare due o tre volte la vettura per ammirare le mostre dei magazzini di novità.
Nell'entrare nella sala indicata dal biglietto, Mimì sentì un gran colpo al cuore; qualche cosa le disse internamente, che la sua vita sarebbe finita fra quelle mura lebbrose e desolate. Adoprò tutta la forza di volontà che le rimaneva, per dissimulare l'impressione lugubre, che l'aveva agghiacciata.
Allorché fu coricata nel suo letto, abbracciò Rodolfo un’ultima volta, e gli disse addio, raccomandandogli di venirla a trovare la domenica seguente, ch'era il giorno di visita.
- C'è un gran puzzo qui dentro - disse al suo amante - portami dei fiori, delle mammole, ce ne sono ancora.
- Sì - riprese Rodolfo - addio a domenica.
E tirò su lei la cortina del letto. Udendo i passi di Rodolfo che se ne andava, Mimì fu presa da un accesso di febbre delirante. Aprì furiosamente la cortina, e gridò con una voce piena di pianto:
- Rodolfo, riconducimi via! Voglio uscire di qui!...
Alle sue grida accorse la monaca e tentò di calmarla.
- Oh! - disse Mimì - è qui ch'io morrò.
La domenica mattina, giorno in cui Rodolfo doveva visitarla, egli si ricordò di averle promesso delle viole mammole. Per una superstizione poetica e da innamorato, andò a piedi, con un tempo orribile, a cercare i fiori, che la sua amica gli aveva chiesti, nei boschi di Aulnay e di Fontenay dove crasi recato tante volte con lei. Trovò triste e muta quella natura, così gaía ed allegra sotto il solo dei bei giorni i giugno e d'agosto. Per due ore continue, egli esaminò i boschetti coperti di neve, sollevò le eriche e le erbe con un bastone, e finì col raccogliere un mazzolino di viole proprio in un angolo del bosco presso lo stagno di Plessis, oh' era il luogo prediletto del loro ritiro, quando andavano in campagna.
Attraversando il villaggio di Châtillon per ritornare a Parigi, Rodolfo incontrò, sulla piazza della chiesa, il corteo d'un battesimo, nel quale riconobbe un suo amico ch'era padrino con un'artista dell'Opera.
- Che diavolo fate da queste parti? - domandò l'amico stupito di trovar Rodolfo in quel luogo.
Il poeta gli raccontò che cosa gli succedeva.
Il giovane, che aveva conosciuta Mimì, fu contristato da quel racconto, e frugandosi in tasca, ne levò un cartoccio di dolci del battesimo e lo diede a Rodolfo.
- Povera Mimì! Datele questo da parte mia, e ditele che- andrò a trovarla.
- Venite presto, se volete arrivare in tempo - aggiunse Rodolfo.
Allorché questi giunse all’ospedale, Mimì, che non poteva muoversi, gli saltò al collo.
- Ah! ecco qui i miei fiori - esclamò col sorriso del desiderio sodisfatto.
Rodolfo le raccontò il suo pellegrinaggio in quelle campagne, che erano state il paradiso del loro cuore.
- Cari fiori - disse la povera fanciulla, baciando le viole. Anche i dolci la resero contenta. - Non sono dunque dimenticata affatto! Voialtri - giovani siete buoni. Oh! io li amo molto tutti i tuoi amici - ripeté a Rodolfo.
Questo colloquio fu quasi allegro. Schaunard e Colline avevano raggiunto Rodolfo, e bisognò che gl'infermieri li facessero uscire, perché l'ora era passata.
- Addio - disse Mimì - addio a giovedi, senza fallo, e venite presto.
Il giorno dopo, Rodolfo, andando a casa, ricevette una lettera dello studente di medicina suo amico, ai quale aveva raccomandata l'ammalata. La lettera non conteneva che queste parole:
"Amico mio ho una triste notizia a darvi: il numero otto è morto. Questa mattina passando nella sala ho trovato il letto vuoto."
Rodolfo cadde sopra una sedia e non versò una lacrima.
Quando Marcello, alla sera andò a casa, trovò il suo amico nella stessa posizione; il poeta gl'indicò la lettera col gesto.
- Povera ragazza! - disse Marcello.
- È strano - disse Rodolfo - io non sento nulla qui!
Forse il mio amore si spense sapendo che Mimì doveva morire?
- Chi sa! - mormorò il pittore.
La morte di Mimì fu causa di un gran lutto nel cenacolo.
Otto giorni dopo, Rodolfo incontrò per la strada lo studente, che gli aveva annunziata la morte di Mimì.
- Ah, mio caro Rodolfo - disse questi correndo incontro al poeta - perdonatemi il male che vi feci colla mia storditaggine.
- Cosa volete dire? - chiese Rodolfo stupito.
- Come? - replicò l'altro - Voi non lo sapete? Non l'avete riveduta?
- Chi? esclamò Rodolfo.
- Ella... Mimì.
- Che? - disse il poeta impallidendo.
- M'ero ingannato. Quando vi scrissi quella triste notizia, ero vittima d'un errore, ed ecco come: Fui assente dall’ospedale due giorni. Quando vi ritornai, facendo la visita, ho trovato vuoto il letto della vostra amica. Domandai alla suora di carità, dov'era la malata, e mi rispose che era morta nella notte. Ecco invece che cosa era successo: Durante la mia assenza, Mimì fu cambiata di sala e di letto. Al numero otto, lasciato da lei, si pose un'altra donna, che morì il giorno stesso. Ciò vi spiega l'errore in cui sono caduto. Il giorno dopo quello in cui vi scrissi, trovai Mimì in una sala vicina. La vostra assenza l'aveva messa in un orribile stato: mi diede una lettera per voi. L'ho portata io stesso al vostro domicilio.
- Oh Dio mio! - esclamò Rodolfo - dal giorno ch'io credetti morta Mimì, non ritornai più a casa mia. Ho dormito a destra ed a sinistra, in casa de' miei amici. Mimì è viva i Dio mio! che deve ella pensare della mia lontananza? Povera ragazza! povera ragazza i come sta? Quand’è che l'avete veduta?
- Ieri l'altro mattina. Ella non stava né meglio, né peggio; ella è inquietissima e vi crede ammalato.
- Conducetemi subito allo spedale della Pieta - disse Rodolfo - ch'io la vegga.
- Aspettatemi un momento disse il medico quando furono giunti alla porta dello spedale - vado dal direttore a chiedere un permesso per farvi entrare.
Rodolfo aspettò un quarto d'ora sotto il vestibolo.
Allorché l'amico gli mosse incontro, gli prese la mano e gli disse queste parole:
- Amico mio, supponete che la lettera che io vi, scrissi da otto giorni fosse vera.
- Come! - esclamò Rodolfo appoggiandosi ad un pilastrino - Mimì...
- Stamattina alle quattro.
- Conducetemi all'anfiteatro - disse Rodolfo - ch'io la vegga.
- Ella non c'è più.
Ed indicando al poeta un gran carro che si vedeva là nel cortile, fermo davanti ad un padiglione, sul quale si leggeva Anfiteatro anatomico, aggiunse:
- Ella è là.
Difatti era il carro, nel quale si trasportano alla fossa comune i cadaveri che non furono reclamati dalle famiglie.
- Addio! - disse Rodolfo tra sè.
- Volete che vi accompagni? - domandò questi.
- No - rispose Rodolfo andandosene. - Ho bisogno di restar solo.


XXIII.

LA GIOVINEZZA NON HA CHE UNA STAGIONE

Un anno dopo la morte di Mimì, Rodolfo e Marcello che non si erano separati, inaugurarono con una festa il loro ingresso nel mondo ufficiale. Marcello, il quale finalmente aveva potuto essere ammesso all'Esposizione, vi aveva inviati due quadri, che furono comprati da un inglese, il quale, in altri tempi, era stato l'amante di Musette. Col prodotto di questa vendita e con quello d’una commissione del governo, Marcello, aveva pagati, in parte, i debiti del passato. Si era ammobiliato un quartierino decente, ed aveva uno studio serio. Quasi nello stesso tempo, Sehaunard e Rodolfo arrivavano davanti al pubblico, che dà la ricchezza e la fama, l'uno con un album di melodie che furono cantate in tutti i concerti, e che furono la base della sua riputazione; l'altro con un libro che tenne occupati i critici per un mese. Barbemuche da molto tempo aveva rinunziato alla bohème. Gustavo Colline aveva avuta un’eredità e fatto un matrimonio vantaggioso; egli dava delle soirées con musica e dolci.
Una sera Rodolfo seduto sulla sua poltrona, coi piedi sul suo tappeto, vide entrar Marcello tutt'affannato.
- Non sai che cosa mi succede? - diss’egli.
- No - rispose il poeta. - So che mi recai a casa tua, che tu vi eri, e che non hai voluto aprirmi.
- Difatti t'ho udito. Indovina con chi mi trovavo?
- Che so io?
- Con Musette, che arrivò in casa mia ieri sera vestita in maschera.
- Musette! tu hai trovato Musette? - disse Rodolfo con accento di rimpianto.
- Non inquietarti, non ci fu ripresa di ostilità! Musette è venuta in casa mia a passarvi l'ultima notte di bohème.
- Come?
- Ella si marita.
- Ah, bah! - esclamò Rodolfo. Ma a danno di chi, dimmi?
- A danno di un padrone di posta, che era il tutore del suo ultimo amante; un demonio, a quanto pare. Musette gli ha detto: "Mio caro signore, prima di darvi definitivamente la mano e di entrare insieme al Municipio voglio otto giorni di libertà. Debbo assestare i miei affari; voglio bere il mio ultimo bicchiere di sciampagna, ballare la mia ultima quadriglia, ed abbracciare il mio amante Marcello, il quale è un signore come gli altri, a quello che mi dicono."
E questa cara creatura mi cercò per otto giorni. E così ch'ella mi cascò in casa ieri sera, proprio nel momento in cui pensavo a lei. Oh, amico mio, abbiam passato una triste notte; non era più lo stesso... proprio niente affatto. Sembravamo la cattiva copia d'un capolavoro. Il mio amore per Musette è morto davvero.
- Povero amico - disse Rodolfo - il tuo spirito si batte in duello col tuo cuore: bada che non l’uccida!
- È già morto - rispose il pittore - siamo finiti, vecchio mio; siamo morti e sepolti. La gioventù ha una stagione sola. Dove pranzi tu stasera?
- Se vuoi - disse Rodolfo - andremo a pranzo a dodici soldi dal nostro antico trattore della via del Four, là dove ci sono dei rustici piatti di maiolica; dove avevamo tanta fame, anche dopo aver finito di mangiare.
- Oh! per me poi, no - soggiunse Marcello. - Voglio, è vero, contemplare ancora il passato, ma a traverso una bottiglia di vino buono e seduti in una soffice poltrona. Che vuoi? Sono un po' corrotto. Non mi piace più, se non ciò che è buono!