RUGGERO LEONCAVALLO

BIOGRAFIA
(Parmentola - DEUMM)

Ruggero Leoncavallo, (Napoli, 25-IV-1857 - Montecatini, 9-VIII-1919). Figlio di un magistrato, dopo aver iniziato lo studio del pianoforte privatamente, entrò nel 1866 al Conservatorio di S. Pietro a Majella di Napoli, dove fu allievo di L. Rossi (composizione), B. Cesi (pianoforte) e M. Ruta (armonia), diplomandosi nel 1874. Laureatosi in lettere a 20 anni all'Università di Bologna, dove aveva seguito i corsi del Carducci, avendo già al suo attivo l'opera Chatterton (1876), insegnò privatamente e suonò il pianoforte in caffè-concerto in Francia e Inghilterra e dal 1882 fu attivo in Egitto richiamatovi da uno zio, direttore della Stampa al Ministero degli Esteri, che lo introdusse a corte. Costretto a fuggire a causa della guerra anglo-egiziana, si rifugiò in Francia stabilendosi a Parigi; qui, conosciuto il baritono Maurel, con il suo appoggio, ottenne da Ricordi la commissione dell'op. I Medici (1888) (la prima di una progettata e mai compiuta trilogia Crepusculum, che avrebbe dovuto comprendere anche Savonarola e Cesare Borgia), che gli causò più tardi strascichi giudiziari con la casa editrice. Dopo aver lavorato per qualche tempo a Milano, tentando anche la collaborazione al libretto della Manon per Puccini, stimolato dal trionfo ottenuto da Mascagni con Cavalleria rusticana, si dedicò alla stesura dei Pagliacci, scrivendone anche il testo. Quest'opera, scritta in 5 mesi a Vacallo, in Svizzera, rappresentata per la prima volta al Dal Verme di Milano, sotto la direzione di Toscanini, diede al compositore fama internazionale. Le opere successive non ebbero altrettanta fortuna, neppure Zazà, portata sulle scene di tutto il mondo da Emma Carelli, sua grande interprete e sostenitrice. Dopo una vita piena di disavventure, polemiche e citazioni, morì a Montecatini, mentre stava lavorando a un libretto desunto dalla cronaca nera sarda, Tormenta.

Artista bohèmien, la sua preparazione musicale era tuttavia di prim'ordine: ne deriva un carattere pressoché costante delle sue opere, una certa indifferenza nei confronti della scelta del soggetto e uno scarso spirito autocritico compensati da una scrittura sempre dignitosa e non priva di raffinatezze. Aveva premura di comporre e di emergere, e, mentre era ancora allievo all'Università di Bologna, compì la partitura dell'opera storica Chatterton, che tuttavia non riuscì a rappresentare prima di aver acquisito la fama, nel 1896. L'infatuazione per Wagner, passaggio obbligato per tutti i giovani musicisti di quell'epoca, si tradusse in lui in qualcosa di più: sulla scorta della tetralogia nibelungica egli progettò la trilogia di cui si è detto prima. La saggezza dei compositori italiani li tenne sempre lontani dal tentare un qualsiasi avvicinamento a Wagner che andasse oltre l'acquisizione di alcuni procedimenti tecnici, per di più perfettamente assimilati nella tradizionale scrittura del melodramma italiano, che per le sue stesse caratteristiche era in grado di accogliere nel suo seno novità armoniche anche notevoli senza mutare sostanzialmente carattere. Ma Leoncavallo non era un saggio, e per di più possedeva una cultura di livello universitario, ed è ben nota la simpatia degli ambienti intellettuali per Wagner e l'antipatia per il melodramma nazionale: più tardi lo stesso D'Annunzio tentò, sul piano librettistico, un'operazione del genere col Trittico Malatestiano. Fatto sta che l'editore Ricordi aderì con entusiasmo alla proposta del giovane musicista, e la trilogia fu commissionata. Ma la vita randagia e dispersiva di Leoncavallo fece sì che il progetto rimase tale, mentre il musicista si dedicava alle attività più svariate per sbarcare il lunario.
Il clamoroso successo della Cavalleria rusticana di Mascagni gli aprì l'animo alla speranza di poter bruciare le tappe sul piano della carriera, e, conseguita la tranquillità economica, dedicarsi alla composizione seguendo finalmente le proprie inclinazioni. La Cavalleria era considerata, a ragione o a torto, un'opera verista? Ebbene, Leoncavallo avrebbe saputo comporre un'opera ancor più coerentemente verista, facendosi forte della propria cultura extramusicale. Memore di un processo giudicato dal padre durante l'infanzia del musicista, egli ne trasse il libretto d'un'opera: Pagliacci. Non si trattava, dunque, di una vicenda verosimile ma di una vicenda vera. Essa si prestava, inoltre, a far rivivere il vecchio trucco del teatro nel teatro. Come se ciò non bastasse, Leoncavallo fece precedere l'opera da un prologo, nel quale si enuncia un vero e proprio manifesto del verismo musicale. Egli studiò molto bene la Cavalleria, osservando che la sua più notevole novità linguistica consisteva nel sottolineare l'esuberanza fisica nell'emissione vocale con una temporanea sfasatura tonale, cosicché Pagliacci risultarono un lavoro linguisticamente aggiornato, debitori nell'idea madre alla Cavalleria ma di lei più coerenti e più consapevoli. Rappresentati nel 1892, Pagliacci riscossero un successo che Leoncavallo non seppe più uguagliare, e tuttora essi vengono rappresentati, felicemente abbinati (si tratta di opere che non sono in grado di riempire singolarmente una serata) al loro modello ideale.
Conquistata la fama e la sicurezza economica, Leoncavallo si mise alacremente all'opera e nel giro d'un anno I Medici furono pronti per la rappresentazione. Musicalmente quest'opera risente molto dello stile di Chatterton, ma non rinuncia alle conquiste linguistiche dei Pagliacci, che tuttavia poco si attagliano al soggetto. Benché più anziano dei vari Mascagni, Giordano, Cilea, ecc., la contemporaneità del successo dei Pagliacci con quello di Mala vita [Giordano] e di Tilda [Cilea] e il loro carattere verista lo fece aggregare dal pubblico, dalla critica e dagli stessi colleghi alla «Giovane Scuola», dalla quale fu però tosto emarginato: quando Puccini decise di mettere in musica Bohème egli l'accusò d'avergli sottratto l'idea, manifestatagli durante una conversazione. La verità non fu mai appurata, e la litigiosità di Leoncavallo (nonostante che la Trilogia gli fosse stata commissionata egli non andò mai oltre I Medici, aprendo così un contenzioso con Ricordi), così come l'egocentrismo di Puccini rendono credibili entrambe le ipotesi. Fatto sta che tutti parteggiarono per Puccini, e malignamente commentarono la musica dei Medici come musica tirata giù a «sei soldi al braccio». Come c'era stato spazio, nella situazione d'allora, per due Manon Lescaut, così poteva esserci spazio per due Bohème, e quindi Leoncavallo non si arrese e compose la propria nonostante lo strepitoso successo dell'opera pucciniana. Naturalmente la trattazione è diversa: i personaggi in maggior evidenza sono Marcello e Musetta, e la conduzione è, al contrario di quella dell'opera pucciniana, rigorosamente verista. Il taglio funzionale impresso al libretto da Illica e Giacosa per volontà di Puccini giova alla coerenza e all'efficacia drammatica. Tuttavia, il momento della spensieratezza è ritratto da Leoncavallo in modo vivo ed efficace, e le due Bohème potrebbero davvero condividere il favore dei cartelloni. E invece la loro quasi contemporaneità ha nuociuto all'opera più debole, e così è che una delle migliori opere di Leoncavallo non ha quasi mai calcato le scene.
Di qualche meritato favore ha goduto Zazà (1900), opera nella quale è presentato l'ambiente teatrale nel suo squallido e deludente sancta sanctorum al quale il pubblico non è ammesso, e col quale il musicista aveva invece dimestichezza per averlo praticato durante la sua irrequieta giovinezza da eroe romantico in ritardo (o, se si preferisce, da dannunziano in anticipo). A parte una certa caduta di tensione nel finale, Zazà rientra ancora nella produzione migliore del musicista. Essa è anche l'ultima opera in cui il musicista provvide in prima persona alla stesura del libretto, e, se la cosa è comprensibile per le opere in lingua straniera, lo è assai di meno per quelle in lingua italiana.
L'ostilità dei colleghi, e soprattutto quella delle case editrici, che allora avevano gran peso sugli impresari dei massimi teatri, fece scemare rapidamente la fortuna di Leoncavallo in Italia. Egli sfruttò il favore goduto nell'ultimo decennio del sec. XIX dall'opera verista italiana in Germania per tentare la piazza tedesca, adattandosi al mutamento di gusto del pubblico, e nel 1904 diede alle scene Der Roland von Berlin, che gli valse il favore di Guglielmo II. Badò anche alle piazze di Parigi (Majà, 1900) e Londra (Zingari, 1912), ma la sede dei suoi massimi successi fu la Germania, dove fu anche insignito di altissime onorificienze. Dal 1908 si dedicò anche all'operetta, e arricchì questo genere di ben 9 titoli, nessuno dei quali è mai entrato in repertorio. L'interesse di Leoncavallo per l'operetta nacque prima di quello di Puccini, Mascagni, Giordano, Franchetti, e non diede luogo a un'unica opera. Dunque il musicista non vi vedeva, come i suoi colleghi, un modo di riconquistare un contatto col pubblico perduto con l'opera, ma la sentiva come un genere proprio, e d'altra parte il felice esito musicale di Zazà, che ha molti tratti in comune con l'operetta, gli dà ragione. All'opera tornò nel 1916 con Goffredo Mameli, lavoro d'intento patriottico fatto per tradurre musicalmente la sua conversione all'interventismo, che fu dannunzianamente accompagnata dalla restituzione all'imperatore tedesco delle onorificenze ricevute. Anche questa improvvisa esplosione di nazionalismo fa parte dell'immagine di questo musicista, più ricco di atteggiamenti esteriori che di potenza inventiva: le sue opere successive, Edipo re e Prometeo sono ormai soltanto più oggetto di citazione erudita, e la seconda non fu, anzi, mai rappresentata.
La grande disponibilità di Leoncavallo ad abbracciare stili e concezioni diverse, a praticare generi diversi, figurando bene ovunque ma raramente andando oltre un effimero successo propiziato dalla moda, costituiscono un suo tratto caratterizzante. Egli non fece compiutamente della sua vita un'opera d'arte, né si può dire di lui che si vendesse, data la sua multiforme abilità, al miglior offerente: rispetto al D'Annunzio, cui viene spontaneamente da paragonarlo, sta il fatto che egli credette sempre in ciò che faceva, e questo è forse anche l'indice d'un limite. La sua persona era solo superficialmente implicata nel suo lavoro, ma lo era quel tanto che bastava a viziare la sua opera di retorica, non tanto da fare di questa retorica pura, di questo disinvolto maneggio di qualsiasi materiale, una forma di poesia. E infatti le uniche sue opere che sono sopravvissute alla moda sono quelle nelle quali ha maggiormente creduto, quelle d'intonazione verista.