IL PERSONAGGIO FAUST
[Johannes Faust]


Protagonista di varie opere drammatiche, le quali, attraverso più secoli, hanno ripreso, con maggiore o minore fedeltà, la leggenda di un famoso ciurmadore tedesco che vendette l'anima al Diavolo. Faust, che Melantone chiamò «turpissimus nebulo inquinatissimae vitae» è tuttavia un personaggio realmente esistito: nato intorno al 1480, studiò forse a Cracovia scienze magiche e presto levò intorno a sé gran rumore per le sue millantate qualità taumaturgiche che facevano accorrere folle di genti crudele, al suo passaggio per città e paesi della Germania, dell'Olanda e, si crede, anche della Svizzera e dell'Italia. Della vita avventurosa e delle miracolose gesta di lui, in un'epoca in cui regnava sovrana la fede nella potenza della magia, presto si impadronì la leggenda, alimentata, nel sec. XVI, dalle lotte confessionali tra cattolici e luterani, i quali si attribuirono a vicenda la colpa di avere corrotto l'anima di Faust. Nel 1587 fu pubblicata a Francoforte sul Memo la Istoria del celebre mago e taumaturgo Dr. Giovanni Faust [Faustbuch, v. Faust], dovuta a un anonimo luterano, nella quale appare già il motivo del patto col Diavolo, seguito da un tentativo di conversione, poi da un solenne monito «ad studiosos» e, in ultimo, allo scadere del patto, dalla tragica fine dell'uomo, dannato alle pene dell'inferno. Verso la fine del 1500 la leggenda faustiana è già viva anche in Inghilterra, dove al principio del secolo seguente appare la Tragica storia del dottor Faust del Marlowe. Qui la figura del protagonista ci è presentata in modo del tutto nuovo; Faust non è più curvo sotto il peso del «divieto teologico» del Medioevo, ma animato dallo spirito ribelle, dominante nel pensiero rinascimentale, che, contro ogni dogma, esalta i diritti della ragione. Egli non è più il volgare ciurmadore del sec. XVI, ma piuttosto l'insonne titano che celebra la malia della vita senza curarsi di allontanare da sé il terrore del castigo. Presto però questa scintilla di titanismo si spegne e al termine della vita, anche lui invoca Cristo a salvare «l'anima sua angosciata». Più tardi, fino alla metà del sec. XVIII, la figura di Faust decade: il personaggio è ora in mano di oscuri rapsodi; non c'è più posto per un Faust tragico, ché l'eroe della leggenda è il protagonista di innumeri spettacoli di marionette [Faustpuppenspiele], finché nella seconda metà del sec. XVIII, Faust è liberato dalle baracche dei burattini e, nel frammento lessinghiano, si ha il primo tentativo della salvazione, la quale, però, non doveva essere il premio concesso da Dio a un peccatore pentito, ma piuttosto il frutto di una beffa giocata dal Cielo alle potenze infernali. Nel periodo Sturm und Drang, nei due frammenti drammatici di Friedrich Müller, (Situazione sulla vita di Faust), riappare il titanismo faustiano come impeto scomposto di attività demolitrice, finché il genio di Goethe, (1749-1832), riprendendo l'antica leggenda, prima nell'Urfaust, poi nella redazione definitiva della prima parte del poema drammatico (1808) e, in ultimo, nell'opera intera, compiuta poco prima della sua morte, crea la figura nuova del protagonista nella sua insonne attività che illumina senza distruggere. Faust ha studiato tutte le scienze per appagare l'ardente brama di sapere, ma invano; si dedica allora all'arte magica nella speranza di penetrare il mistero delle cose, ma con lo stesso risultato. Vinto dalla disperazione, vuole porre fine alla sua vita, quando nella chiara serenità di un mattino di aprile erompe, diffondendosi nell'aria, un dolce suono di campane. È il giorno di Pasqua: Cristo è risorto e Faust ripensa alla innocente felicità della sua fanciullezza lontana. Vuole poi darsi allo studio del Nuovo Testamento, ma lo spirito del male, Mefistofele (v.), sotto forma di un cane barbone, lo tenta, promettendogli la felicità, a patto di avere la sua anima. Il patto è concluso. Mefistofele cerca appagare Faust con il piacere naturale, conducendolo nella osteria di Auerbach e quindi nella cucina delle streghe, ma non ottiene il suo intento. Gli mostra allora l'effigie di Margherita (v.) e poco dopo si svolge il mirabile idillio d'amore. Faust sembra veramente avvicinarsi a una pura felicità, ma il Demonio risveglia in lui la sensualità e il tenero idillio tramonta. Alla colpa segue il delitto. Faust, perseguitato dal rimorso, non riesce a dimenticare neppure nella tregenda della notte di Valpurga. Nella seconda parte del poema, Faust vive alla Corte Imperiale in mezzo a feste; durante una di esse evoca la figura di Elena (v.) argiva che gli appare di una bellezza soprannaturale; ebbro d'amore, vuole possederla, ma Elena non è che un fantasma. Più tardi la figura di lei diventa realtà e si stringe un legame d'amore; ma Euforione, frutto di questo amore, vuole volare verso il sole e con sé trascina anche la madre. L'arte classica, figurata in questo simbolo, non è dunque riuscita a soddisfare la brama di Faust e inutili riescono anche i nuovi allettamenti di Mefistofele. Nella insonne operosità intuisce alfine Faust la vera via che guida l'uomo verso la felicità e si accinge a una grandiosa opera di redenzione umana. Egli la intravede già compiuta e presente la suprema gioia, ma intanto scocca l'ora del patto e Faust cade morto. Mefistofele pare abbia vinto la scommessa fatta con Dio al principio del dramma, nel «Prologo in cielo«, e invece ora è possibile la salvazione, perché «colui che si affaticò sempre bramando, può essere redento«, e Margherita stessa accompagna Faust in cielo. - Faust, l'uomo che alberga due anime nel proprio petto, l'una legata alle cose del mondo, l'altra avidamente tesa alle regioni celesti, è la personificazione compiuta di quella concezione che ha il culto esasperato della vita piena, senza freni, senza limiti, senza soste e senza leggi. Questo vitalismo che conduce l'uomo ora alla disperazione, come Werther (v.), ora alla ribellione, come Prometeo (v.), tormenta anche Faust con una insaziabile brama di irraggiungibili mete, sia quando, fisso al segno del macrocosmo, anela tuffarsi nel seno della «operante natura« per penetrarla oltre le apparenze sensibili e coglierne le fonti stesse della vita, sia quando vuole abbandonarsi «nei gorghi profondi della sensualità per placare in essi l'ardore delle passioni«, sia quando tende a godere interamente, nel fondo del proprio spirito, tutto quanto è toccato in sorte all'umanità e «allargare così il proprio essere nel suo essere e infine con essa naufragare«. E poiché solo ai beni e ai godimenti terreni si sente legato e «nulla gli cale di una vittoria ultraterrena, disperato sarebbe soltanto se questo mondo, sul quale splende il sole, andasse in frantumi«. Qui il «faustischer Drang« è tutto e soltanto rivolto alla conquista di un godimento terreno e individuale. Ogni esperienza vissuta da Faust è contenuta entro questi limiti; tuttavia anche ciò che è terreno può diventare illimitato, in quanto senza limiti spaziali e temporali è la vita della natura «infinita e incessantemente operante«. Ed ecco allora Faust cercare appagamento fuori della realtà sensibile. Dopo la discesa fino alle Madri, cioè nel libero regno delle Immagini, là dove non esiste più né spazio né tempo ed è possibile l'evocazione dei trapassati, ecco apparirgli Elena argiva, «la fonte stessa straripante a fiumi della bellezza eterna«. Anche questa esperienza fallisce nel senso di un appagamento pieno per la sempre rinascente brama di Faust; non per questo, però, egli cessa di correr dietro «al volo delle sue chimere« finché ascolta la voce che gli comanda di «conquistare la eccelsa gioia di escludere dalla riva il prepotente mare, limitando i confini alla distesa delle acque«, onde accrescere il suo dominio e farne partecipi milioni di uomini. Questa deve essere l'ultima, la più alta vittoria, con la quale si compie il cammino da lui percorso dalle prime esperienze al nuovo possente anelito che lo spinge a uscire dall'angustia del proprio io; perché la sua felicità non può essere piena, se a essa non partecipano anche le creature che gli vivono intorno. Tale «Streben« che varia solo in quanto è volto a mete diverse s'ispira sempre a un principio fondamentale di vita che già all'inizio del poema ha la sua solenne affermazione: «in principio era l'azione«, l'azione che è alla base di ogni dignità di vita, che è il culto stesso della vita: - «l'azione è tutto - nulla la gloria«. - C'è in questa esaltazione dell'agire in sé e per sé come principio vitale di ogni cosa, precedente al momento stesso in cui l'uomo acquista coscienza del proprio essere, c'è come un imperioso atavico richiamo alle native fonti di vita dell'anima nordica. È una esigenza che se, talvolta, può prescindere persino da uno scopo determinato, tanto più sarà libera da una norma morale. Così che nel suo «oscuro anelito« che lo spinge a esperienze sempre nuove, si chiarisce e precisa di volta in volta lo spirito di Faust, finché, al termine della vita, luminosamente ci si rivela anche il principio essenziale che ha guidato tutte le sue azioni. Ricordiamo, Faust esce egli pure distrutto - almeno così pare - dalla tragedia di Margherita. Non per nulla il Diavolo, certo ormai della vittoria, gli grida imperioso e insolente: - «qua, con me!« - Non sembra infatti possibile per Faust una ripresa di vita e tanto meno di una vita felice, dopo una così tragica esperienza, piena di colpe e di rimorsi; e invece, già all'inizio della seconda parte, ecco aprirsi la scena su un paesaggio ridente: Faust appare adagiato su un prato fiorito; intorno gli aleggiano leggiadre schiere di spiritelli dell'aria e la sua stanchezza è confortata dal canto soave di Ariele (v.). È il canto dell'oblio. Faust possiede la virtù di staccarsi da tutto quanto non giova più al suo ascendere e da questo distacco attingere, nuove forze per vivere una nuova vita. D'altra parte il rimorso non può pesare a lungo sull'animo suo, perché la «pura umanità« ha per lui la virtù non solo di lavare ogni colpa, bensì anche di rendere l'uomo degno di una vita superiore. Codesta pura umanità di Faust si manifesta in due forme: l'anelito incessante verso il più alto, in quanto «la natura chiama l'uomo non già all'inoperoso godimento, bensì alla continua creazione«, e l'eterno femminino: i due elementi, sempre dominanti, i quali determineranno infine la sua salvazione. Il motivo dell'eterno femminino culmina e trova la sua espressione compiuta nell'episodio di Elena, la più profonda espressione di vita, in quanto significa esaltazione dell'amore, anche un solo istante goduto e poi eternamente desiderato e rimpianto. L'amore diventa così mediatore tra l'attimo felice e l'eternità, la quale non è che l'ampliamento, senza più tempo, di un momento di gioia. Analogamente lo «Streben« trova la sua espressione più chiara e compiuta nell'ultima grandiosa impresa di Faust, e nell'episodio di Filemone e Bauci (v.) la sua intima significazione. Faust ha conquistato un vasto dominio, ma non è lieto: un assillo è nella sua mente, inesorabile. Un lungo scampanio gli ferisce l'orecchio; guarda in alto: un boschetto di tigli, una scura capanna lì presso, felice dimora di due pacifici vecchietti, una chiesuola in cima alla collina, donde si spande intorno il suono dolce di una campana, non sono suoi. Sono soltanto spine al suo sguardo, tormento al suo cuore e, più che mai, dopo il tentativo, riuscito vano, di offrire ai due vecchi, in cambio del loro angolo di terra un vasto e ricco podere. Un attimo esita Faust di fronte all'innocente candore dei due vecchi, fedeli alla loro capanna, forse anche uno scrupolo gli attraversa la mente, ma subito la parola di Mefistofele scaccia ogni dubbio, tronca ogni esitazione: «chi ha la forza, ha anche il diritto«. - È questa una nuova norma di vita, una norma, che, superando ogni fugace riserva morale, può dare appagamento allo spirito insonne di Faust, il quale, senza disperato rimorso, deplora sì il rapido comando troppo presto eseguito, ma trema soltanto, sul cader della notte, al volteggiar che gli fanno intorno le ombre delle quattro donne grigie. Che vuol dire tutto questo? Evidentemente ci troviamo di fronte a una concezione etica nuova. Faust, anche dopo questo delitto non perde la fede nelle conquiste della inesausta attività umana, tutta tesa verso le cose terrene, perché «non è muta la terra a chi gagliardamente opera e vive« e «a nessuno giova andar vagando per le sfere dell'eternità«. Sicché nella sua brama di sempre nuove conquiste, spinta fino all'estremo limite dell'esistenza, egli trova ancora ogni gioia e ogni tormento - il tormento della perenne insoddisfazione -, e anche quando l'alito della «Sorge« gli spegne la vista, una chiara luce gli splende nell'anima, non offuscata da alcun rimorso, anzi nell'assoluto oblio di ogni colpa, al punto che da tutte le esperienze di una vita turbinosa, egli può trarre il senso dell'umana saggezza: - «merita libertà, merita vita - solo colui che ogni giorno deve conquistarle -«. Qui la saggezza non s'attarda a considerare e tanto meno a vagliare il valore morale dei mezzi con i quali l'uomo conquista la sua libertà e anche il diritto alla vita: a essa basta la realtà della conquista. Per modo che dal sacrificio di Margherita a quello di Filemone e Bauci, una sola norma guida l'azione di Faust con quest'unica differenza, che il sacrificio di Margherita è voluto in nome di un egoismo individuale, l'altro è chiesto in nome di un beneficio collettivo; ma nel primo come nel secondo caso, lo scopo da raggiungere è sempre oltre la morale comune, oltre il rispetto dei diritti altrui, oltre la stessa pietà umana, anzi, talvolta, contro di essi. Tale sostanziale unità di quella che possiamo chiamare l'etica faustiana risulta chiara anche nelle parole del Signore e nel coro finale degli angeli, che è anch'esso la parola divina. Non è dunque questa etica avallata dallo stesso Dio? L'uomo deve cadere per potersi risollevare; questo è ancora conforme alla concezione cristiana, ma qui di altro si tratta: di seguire cioè unicamente un principio vitalistico, di tendere sempre più in alto, nel senso non già di rinunciare ai godimenti terreni per la beatitudine eterna, bensì solo di tendere a mete sempre più ardue, senza curarsi di distinguere quanto è lecito da quanto non lo è, per raggiungerle. Senonché qui è appunto la peculiarità dello «Streben« faustiano: in sé e per sé esso ha la virtù della redenzione; - «colui che lotta, insonne, per ascendere, noi lo possiam redimere« - canta il coro degli angeli. Ma la redenzione di Faust non avviene soltanto come premio del suo incessante operare, bensì anche per virtù d'amore. E sarà proprio Margherita, la vittima dolente della passione peccaminosa di Faust, quella che intercederà presso la regina del Cielo per la salvezza del «suo primo amore«. Ecco, così, uniti a un sol fine il perenne anelito e l'eterno femminino, in quanto entrambi hanno la virtù di eternare, purificandoli, i vari momenti di una esperienza vissuta. Ma questo perenne anelito e questo eterno femminino, liberi da ogni esigenza e norma morale, possono veramente avere la virtù di redimere l'uomo e avviarlo alla perfezione? Non è qui il caso di contraddire né il poeta né uno dei suoi più recenti interpreti, a proposito dell'intervento della Grazia nella salvazione di Faust; basti notare che la figura del Faust goethiano chiarissimamente rivela una concezione della vita che non è soltanto del più grande poeta tedesco. - Dopo il capolavoro del Goethe la leggenda faustiana fu ripresa da N. Lenau in un poema epico drammatico (v. Faust), con diverso intendimento. L'ipocondria del poeta si riflette nell'animo di Faust, il quale, dopo aver provato ogni vizio, per il disgusto che sente della vita e di se stesso si uccide ed è dal Diavolo trascinato all'inferno. Anche parecchi librettisti e musicisti trassero ispirazione dalla leggenda faustiana; tra i primi, il tedesco Spohr e i francesi Carré e Crémieux, tra i secondi Berlioz, Gounod, Hervé. Infine a Arrigo Boito si devono libretto e musica del suo Mefistofele (v. Faust). R.Bo.