Forse anche questa dura e coraggiosa denuncia (si ricordi a questo proposito ciò che Busoni scrisse ad H. Huber: «Die Zeit steht im Zeichen des Maulkorbes» [cfr. il cappello introduttivo]), oltre al fatto che Busoni scelse l’esilio piuttosto che abitare in Italia durante la prima guerra mondiale, suscitò il risentimento di alcuni suoi compatrioti che lo accolsero freddamente quando giunse a Milano nel febbraio del 1920 per una serie di concerti. Busoni ebbe recensioni negative e durante i suoi concerti alcuni del pubblico lo insultarono, accusandolo di non essere stato un patriota. Non è da escludere che alcuni esponenti per così dire estremisti del gruppo futurista, che certo non potevano tollerare il sarcasmo busoniano contenuto nell’espressione «estasi patriottica», abbiano avuto un ruolo in questa faccenda. All’accusa di non essere stato un patriota così rispose Busoni in una lettera al Serato del 27 giugno 1920 (n. 327): «In Italia, come dapertutto, abbiamo avuto dei milioni di patriotti, ed un numero vergognosamente meschino di gente che seppe mantenere le sue opinioni attraverso le spaventevoli oscillazioni; i grandi artisti, poi, si contano sulle dita. Dunque: è facile, (come prova questa statistica) essere un patriotta, è utile il dimostrarlo, è rarissimo riscontrare una quercia che non si piega alla bufera; è eccezionale l'artista che, lottando contro essa, segue diritto il suo cammino. Chi volesse, potrebbe vedere in me lo stampo d'un eroe; volendo altrimenti, si può, con poca fatica, far di me una figura disprezzabile. È dunque questione di buona volontà. Rumori simili sorsero dapertutto sul mio conto; ma, tanto in Inghilterra quanto in Francia, la mia arte e la mia faccia li fece subitaneamente tacere. La mia faccia non mi pare inferiore d'espressione a quella di centinaia di patriotti, che rendono la ‘Galleria’ impraticabile (parlo di Milano).»