GIAN FRANCESCO MALIPIERO

I MIEI INCONTRI
CON FERRUCCIO BUSONI

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Al principio di questo secolo il violinista belga César Thomson aveva ormai raggiunto il massimo della celebrità internazionale ed era autentica ché allora per la réclame valevano solo le parole. Infatti del Thomson si esaltavano la tecnica trascendentale, l'arcata poderosa e la meravigliosa voce che sapeva trarre dall'istrumento.
Del trentacinquenne pianista Ferruccio Busoni si riconoscevano i meriti, ma egli era un satellite accanto alla stella fissa.
Questi ragionamenti me li suggerì il ricordo di un concerto Thomson-Busoni che ebbe luogo al teatro Goldoni e al quale io assistetti la sera del 9 marzo 1902.
La Gazzetta di Venezia di quel giorno annunziava un «concerto del celebre violinista Thomson e del bravo pianista Busoni». Del celebre violilinista Thomson è rimasta la voce sulle enciclopedie musicali, invece la personalità di Ferruccio Busoni s'impone sempre più per quello che di giorno in giorno si scopre nelle sue opere musicali e nei suoi scritti.
Come mai nel 1906, cioè quattro anni dopo il concerto di Venezia mi trovavo in casa di Busoni a Berlino (Viktoria-Louisenplatz) come amico, in mezzo a uno stuolo di ammiratrici (allieve) che lo ascoltavano trasognate e in pose non dissimili da quelle degli ascoltatori di quel Beethoven per dilettanti, del famigerato quadro del Balestrieri? Questo apparato scenico non era certamente apprezzabile, respingeva quasi, ma le sue esecuzioni, come quella della «Campanella» di Liszt, metteva tutte le cose a posto. Mezzo secolo fa la meccanica non aveva ancora raggiunto la magia, ché magici appaiono certi congegni d'oggi, perciò non riuscivo a rendermi conto come un cervello umano potesse comandare le dita e farle colpire i tasti senza mai sbagliare e con diabolica rapidità.
A quattr'occhi Ferruccio Busoni mi parlò a lungo della sua Società di concerti: Orchester-Abende-neue und selten aufgeführte Werke-veranstaltet von Ferruccio Busoni grazie alla quale, quasi al principio del nostro secolo, feci la conoscenza di un Béla Bartòk attraverso uno Scherzo per orchestra tratto da una Suite! Certo non vi si poteva prevedere l'autore dei quartetti e della «musica per archi, percussione e celesta». Busoni forse indovinò.
I suoi concetti ospitarono compositori allora contemporanei come Sibelius, d'Indy, Ysaye, Saint-Saëns, Elgar, Debussy, Ropartz, Mihalovich [Edmund von (1842-1928)], Delius, César Frank, Pfitzner e molti altri rapidamente spariti dalla circolazione. Vi figuravano poi alcune opere per orchestra dello stesso Busoni, fra le quali brani della Turandot (1906) che passarono inosservati. Inosservati in quanto che molto più tardi le opere teatrali di Busoni iniziarono la loro vita sulle scene. La Turandot si rappresentò per la prima volta nel 1917 cioè undici anni dopo l'esecuzione dei frammenti sinfonici nei soprannomìnati concerti.
Pure gli scritti di Busoni al loro apparire non ebbero la fortuna di ìnteressare (nemmeno in Germania) come oggi interessano pure in Italia, grazie alla loro pubblicazione e traduzione di Dallapiccola e G. M. Gatti. Nel 1923 Ferruccio Busoni scriveva a G. M. Gatti:

I nostri italiani, soggiogati da quel benedetto Wagner, impararono ad ammirare là, dove si annoiavano. Fu un'infezione. Cominciarono (e continuano) a scritturare delle mediocrità tedesche (delle notorietà di provincia), per addormentarsi ai suoni della Passione di Bach (grand'opera, ma contraria alla nostra razza ed ai nostri gusti cattolici) e s'inoltrarono su questa via fino ad entusiasmarsi dei poveri ritmi a crome sincopate del Brahms. Qui si perdettero. Ignorano il nostro genio Monteverdi, e sorridono negligentemente di quell'altro genio semi-latino: Mozart. Se non imitano Schoenberg, imitano certamente lo Strauss e delle scimiottaggini del Debussy, ne conviene ella stessa. Questi son fatti storici e non mie interpretazioni.
Io mi sento più italiano di loro e non mi stanco di combattere per la nostra causa.
(Berlino, 18 giugno 1923)

Questa lettera si potrebbe quasi considerare il testamento spirituale di Ferruccio Busoni del quale non riesco a dire quello che vorrei dire forse perché mi congedai da lui in malo modo.
Nel 1913 Casella mi invitò, non ricordo più in quale caffè parigino, per festeggiare l'amico Busoni insignito della Legion d'onore. Con non lieve sacrificio contribuii alle spese del simposio che mi lasciò piuttosto indifferente. Qualche anno più tardi, con grande gioia, a Milano, mi precipitai all'albergo per tener compagnia a Busoni e assistere al suo concerto che doveva aver luogo la sera stessa. Un famoso seccatore interrompeva il nostro colloquio e pur avendo approfittato della generosa presentazione di Alfredo Casella, inveii contro l'incauto protettore. Non potei dominare la mia irritazione quando Ferruccio Busoni gli tenne bordone. Forse fu il ricordo della serata parigina e della gioia di Alfredo Casella per la Legion d'onore, che mi fece scattare e uscire dall'albergo quasi senza salutare; rinunziai al concerto. È questo un altro caso di un'amicizia finita meschinamente, però se César Thomson non esiste più, Turandot, Arlecchino e il Doktor Faust sono vivi davanti a noi e mi confermano che bene avevo fatto a coltivare l'amicizia di Ferruccio Busoni.