RODONI-ARCHIVE'S AUTOGRAPHS FOR SALE
ROMAIN ROLLAND AUTOGRAPHS / LETTERS FOR SALE 

 

 

Stefan Zweig

Romain Rolland

da «Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo»,
Mondadori, Milano 1979, pp. 162-165
Fu per mero caso che scopersi a tempo Romain Rolland. Una scultrice russa mi aveva invitato al tè a Firenze per mostrarmi i suoi lavori e tentare un mio ritratto. Giunsi puntuale alle quattro, dimenticando che lei era una russa, al di là quindi del tempo e della puntualità. Una vecchia "babuscka", come poi seppi nutrice già di sua madre, mi introdusse nello studio pittorescamente disordinato e mi pregò di aspettare. Non c'erano attorno che quattro sculture, che in due minuti avevo viste. Per non perder tempo pigliai un libro, o meglio alcuni fascicoletti bruni giacenti su di un tavolo. Si intitolavano «Cabiers de la Quinzaine», un titolo che ramrnentavo d'aver già udito a Parigi. Ma chi poteva seguire tutte le rivistucole che spuntavano qua e là, come fugaci fiori ìdealisti per subito sparire? Sfogliaì un fascicolo, «L'Aube» di Romain Rolland, e cominciai a leggere, sempre più stupito e interessato. Chi era questo francese che così bene conosceva la Germania? Ben presto fui grato alla brava russa per la sua mancanza di puntualità. Quando finalmente comparve la mia prima domanda fu: «Ma chi è questo Romain Rolland?». Essa non poté darmi precise informazioni e solo quando mi fui procurato gli altri fascicoli (gli ultimi non erano ancora comparsi), mi fu chiaro dì aver scoperto l'opera che finalmente non si rivolgeva a un'unica nazione europea, ma a tutte, e al loro affratellamento. Lì c'era ruomo, il poeta che metteva in gioco tutte le forze morali comprensione affettuosa e leale desiderio di comprendere, senso sublimato e filtrato di giustizia e fervida fede nella missione affratellatrice dell'arte. Mentre noi ci disperdevamo in piccole manifestazioni, egli era passato, tenace e paziente, all'azione, al compito di far conoscere reciprocamente i popoli per quelle doti in cui sono individualmente più pregevoli, era il primo romanzo coscientemente europeo, il primo deciso appello alla fraternità, più efficace perché accessibile a più larghe masse che non gli inni di Verhaeren, più persuasivo che tutti i manifesti e le proteste; qui insomma era.stata creata in silenzio l'opera che noi tutti avevamo incoscientemente invocato e desiderato.
Mio primo desiderio giungendo a Parigi fu chiedere di lui memore del motto goethiano: «Egli ha imparato, egli ci può insegnare». Ne chiesi agli amici. Verhaeren ricordava vagamente un dramma «I lupi» rappresentato nel Teatro del Popolo socialista. Bazalgette aveva inteso dire che Rolland era musicologo e aveva scritto un libriccino su Beethoven. Nel catalogo della Biblioteca Nazionale trovai una dozzina di opere sulla musica antica e moderna, sette od otto drammi, tutti comparsi presso piccoli editori o nei Cahiers. Alla fine per avere un punto d'incontro gli mandai un libro mio. Giunse presto una lettera che m'invitava a visitarlo e cominciò così un'amicizia, che accanto a quella con Freud e con Verhaeren, fu la più feconda e in molte ore persino la più decisiva per l'indirizzo della mia vita.

I giorni solenni dell'esistenza hanno in sé una luminosità più intensa di quelli consueti. Così rammento con estrema chìarezza quella mia prima visita. Cinque piani di una scala a spirale piuttosto stretta, in una casa modesta accanto al Boulevard Montparnasse, e già davanti alla porta intuii una pace particolare, il rumore del viale non giungeva che come un lieve brusio, insieme al mite venticello che passava sotto le finestre fra gli alberi di un vecchio giardino. Rolland mi aprì la porta e mi introdusse nel suo piccolo studio tappezzato di libri sino al soffitto. Per la prima volta vidi i suoi occhi di uno strano azzurro luminoso, i più limpidi e insieme i più benevoli occhi che abbìa maì veduto, capaci di attingere discorrendo colore e fiamma dall'intimità del sentimento, di farsi foschi nel dolore, di approfondirsi nella meditazione, di lampeggiare nell'eccitazione; pupille incomparabili fra cìglia un po' stanche, lievemente arrossate dalla lettura e dalle veglie, ricche di una meravigliosa irradiazione in una luce affettuosa e confortatrice. Osservavo un poco intimidito la sua figura. Era altissimo ed esile e camminava un po' curvo, come se le innumerevoli ore passate allo scrittoio l'avessero piegato; l'estremo pallore del volto dalle linee decise lo faceva apparire quasi malaticcio. Parlava molto piano e in genere risparmiava in ogni modo le sue forze fisiche; non passeggiava mai, non beveva e non fumava, evitava ogni sforzo fisico; tuttavia dovetti più tardi riconoscere con ammirazione l'immensa resistenza insita in quel corpo d'asceta, l'enorme energia spirituale celata dietro quell'apparente debolezza. Scriveva ore e ore al suo piccolo scrittoio sempre ingombro, leggeva a lungo a letto, senza concedere al corpo stanco più di quattro o cinque ore di sonno e quale unico sollievo si permetteva la musica. Suonava splendidamente il pianoforte, con un tocco di indimenticabile delicatezza, accarezzando per così dire i tasti quasi volesse farne uscire per incantesimo le note. Nessun virtuoso - e io ho gustato in intima cerchia Max Reger, Busoni, Bruno Walter - mi ha, come lui, dato il senso di una comunicazione immediata coi diletti maestri.
Il suo sapere era di un eclettismo mortificante; vivendo quasi soltanto della lettura, egli aveva una conoscenza sovrana della letteratura, della filosofia, della storia e dei problemi di ogni tempo e paese. In musica conosceva ogni battuta, gli erano familiari anche le opere men note di Galuppi, Telemann e anche di musicisti di sesto o settimo ordine, e con tutto questo partecipava con passione al presente. Nella sua cella di semplicità claustrale si rispecchiava un mondo come in una camera oscura. Aveva avuta l'intimità dei suoi grandi contemporanei, era stato scolaro di Renan, ospite di Wagner, amico di Jaurès; Tolstoi aveva indirizzato a lui la celebre lettera che, quale documento umano, sta degnamente a fianco della sua opera poetica. In lui io sentii - e questo è per me sempre ragione di intima gioia - una superiorità umana ed etica, un'intima libertà senza orgoglio, libertà spontanea e naturale dì un'anima forte. Sin dal primo sguardo riconobbi in luì, e il tempo mi dette poi ragione, l'uomo che nel momento decisivo sarebbe divenuto la coscienza dell'Europa. Parlammo di Jean-Cristophe e Rolland mi spiegò di aver tentato con esso di adempiere a un triplice dovere: esprimere la sua gratitudine per la musica, la sua professìone di fede nell'unità europea e il suo monito ai popoli perché ritornassero in sé. Ognuno di noi doveva agire, cìascuno dal proprio paese, dal proprio posto, nella propria lingua. Era tempo di farsi vigili, sempre più vigili. Le forze che spìngevano all'odio per la loro stessa natura inferiore erano ben più veementi e aggressive che non quelle conciliatrici, dietro di esse stavano per dì più interessi materiali ben più spregiudicati che i nostri. Il male era all'opera, lottare contro di esso era compito ancor più importante che servire l'arte nostra. La sofferenza per la vulnerabilità della natura terrena mi parve particolarmente commovente in quell'uomo che in tutta la sua opera aveva esaltato l'arte come imperitura. «L'arte può confortare noi singoli», mi disse, «ma non può nulla contro la realtà.»