«Se non avessimo mai amato così teneramente, Se non avessimo mai amato così ciecamente, Mai ci fossimo uniti e mai detti addio, Non avremmo mai avuto il cuore infranto». BURNS All'onorevole Lord Holland dedico questo racconto, con tutti i sentimanti di stima e di rispetto del suo gratissimo e sincero Byron. CANTO PRIMO Sono emblemi di gesta compiute sotto un cielo, Ove s'infuria rapace l'avvoltoio O della tortora l'amoroso canto in gemito si spegne? Conosci la terra del cedro e della vigna, Ove perenni sbocciano i fiori, e sempre splende il sole Ove lievi le ali di Zefiro, dense di profumi, Languide si posano sui rosai in fiore; Ove il limone e l'ulivo più ricchi son di frutti, E l'usignolo mai non tace; Ove della terra e del cielo le svariate tinte gareggiano in bellezza E più caldi si fanno i riflessi del purpureo mare; Ove le fanciulle sono fragranti come le rose che intrecciano, E tutto è divino, tranne lo spirito dell'uomo? Sono i cieli d'oriente, è la terra del sole. Può sorridere il sole sui misfatti dei suoi figli? Ahimè! Come gli addii degli amanti Han disperati i sentimenti, e le parole. Che abbigliati son come ai prodi si conviene, Ciascuno in attesa del cenno del suo signore Per guidarne i passi o vegliarne il sonno, Siede il vecchio Giaffir nel suo Divano: Gravi pensieri offuscano il suo sguardo di saggio. Del musulmano il volto, Che tutto nasconder sa tranne il suo fiero orgoglio, Non tradisce agli astanti i suoi pensieri; Ma il sembiante pensoso e l'aggrottata fronte Rivelan molto più di quanto ammettere non voglia. «Qui s'affretti il capo-guardia del serraglio». Con Giaffir l'unico figlio suo rimase, E il Nubiano, in attesa d'un suo cenno. «Haroun, quando la folla che ora preme Il cancello esterno avrà varcato - (guai a chi osasse levar lo sguardo Sul volto senza velo della mia Zuleika!) - Dalla torre conduci qui mia figlia. Il suo destino è stato ora fissato: Il mio pensiero non ridirle, tuttavia, Ché da me solo deve apprender l'obbedienza!». «Pascià, così come t'ascolto, obbedisco!». Questo disse al tiranno, come a uno schiavo si conviene, E alla torre si avviò. Ma, ecco, il giovane Selim ruppe il silenzio: Prima un profondo inchino, poi ritto, A sguardo basso, umile parlò, Perché di un musulmano il figlio morrebbe Piuttosto che seduto stare dinanzi al suo signore! «Padre! affinché tu non rimproveri La sorella mia, o il suo nero guardiano, Quindi rimprovera me solo, non altri! Luminoso il mattino nasceva, ed io Mi sciolsi da quel sonno in cui erano immersi I vegliardi e gli stanchi. E poiché m'era grave Le scene più belle della terra e del mare contemplar da solo, Senza alcuno che potesse ascoltare e rispondere ai pensieri Che dal mio cuore profondo scaturivano - Quale che sia l'animo mio, La solitudine invero non m'alletta - Il sonno interruppi di Zuleika. Come tu sai, per me ben facilmente Si schiudono le porte del serraglio: Prima che alcuna guardia si destasse Insieme uscimmo verso il boschetto dei cipressi, E terra, mare e cielo furono per noi! Là sostammo, raccontando la storia Di Mejnoun o recitando di Sadi la canzone, Finché il tamburo che annunciava L'ora de! tuo Divano grave non risuonò, E il dovere da te mi ricondusse. Ma Zuleika laggiù ancora indugia. Sì, padre, non ti sdegnare; ricorda che a nessuno, tranne ai custodi del serraglio, E permesso violar quel luogo sacro». Nato da madre miscredente, Vane furon le speranze di un padre Di vedere in te prova virile. Tu, quando il braccio dovrebbe incurvar l'arco, Scagliare il dardo e domare un destriero, Tu, greco nel cuore se non nel credo, Indugi a meditare dove mormoran l'acque di un ruscello Oh, se quell'orbe lontano, il cui fulgore mattutino Gli occhi tuoi languidi tanto ammirano, Potesse darti un po' della sua fiamma! Tu, che potresti veder distrutti Dai cannoni cristiani questi merli E vilmente vedere le mura dell'antica Istambul Cader davanti a quei bastardi moscoviti, Senza lottar fino all'ultimo sangue Con la canaglia Nazzarena! Va! che la mano tua men che femminea Afferri la conocchia e non il brando. Harounr Veloce, da mia figlia! E bada: se la vita ti è cara, Se tanto spesso Zuleika s'invola, Quest'arco che tu vedi, ha già pronta la corda!». Che giungesse all'orecchio di Giaffir; Ma il cipiglio e le parole sue Colpirono più a fondo di una spada cristiana: «Figlio di schiava! - ripeté sgomento Quella frecciata colpiva un'altra donna cara. Figlio di schiava! E chi dunque mi è padre?». Così correvan cupi i suoi pensieri, Mentre lo sguardo lampi più forti dell'ira Lanciava, e tosto ritraeva. Fissò il vecchio Giaffir il figlio E trasalì; perché dentro a quegli occhi Lesse quanto l'ira sua aveva oprato; E vide i segni della ribellione - «Vieni ora, Selim. Che! non rispondi? Ti osservo, e ti conosco bene. Ci sono cose che far non oseresti; Ma se la barba più viril tu avessi, Più forte il braccio e abile la mano, Avrei caro tu spezzassi una lancia, Mentre tali parole di scherno pronunciava, Fiero guardava gli occhi di Selim, Che rendevan a lui lampo su lampo. Diritto e orgoglioso lo sguardo del figlio Si fissava su quello del signore, Finché Giaffir confuso e sgomento non ritrasse il suo; Il perché, lo sentì, ma dir non volle. «Forte ho il sospetto che quel giovane ribelle Mi darà ansie, un giorno: Non provai per lui alcun affetto, da quando nacque, E dello sguardo, dell'accento suo fidarmi non vorrei - Ma il suo braccio non vai tanto E a mala pena affrontare potrebbe, nella caccia, Un timido cerbiatto o una gazzella, Nonché avventurarsi nella lotta Dove uomini contendono per l'onore e la vita. No..., io non mi fido di un sangue pur congiunto al mio. Quel sangue...; basta, egli non mi ha udito .... L'osserverò dappresso più che dianzi. Agli occhi miei è un Arabo, O un Cristiano che s'umilia in battaglia per la vita. Ma attento! ecco Zuleika: la voce sua E alle mie orecchie più dolce del canto delle Urì. Essa è il frutto diletto della Favorita, Oh, a me più cara della madre stessa, Che speranza mi dona, senza alcun timore. Mia Peri! sempre tu sia la benvenuta. Come la fonte nel deserto è dolce al viandante, Che le labbra assetate vi ristora, e vive, Così tu sei per me ai mio sguardo bramoso: Né tante grazie innalzaron ai tempio della Mecca Per la sua vita, quanto io per la tua, Io che te benedissi alla tua nascita, e tuttora benedico». Bella, come colei che prima cadde fra le donne, Quando sorrise alle lusinghe del fatal serpente, La cui immagine nella mente si impresse - Una volta ingannato, ingannatore sempre; Splendida al par della visione ammaliatrice Che popola del dolore il sonno da fantasmi abitato, Quando un cuore incontra un altro cuore negli Elisii sogni, E quanto è perduto in terra risorto a vita si figura in cielo. Dolce, come il ricordo di un amor sepolto, Pura, come preghiera che da innocenza esali, Tale del vecchio Pascià era la figlia. A lei lacrimando corse incontro, Ma quelle lacrime non eran di dolore! Chi non ha provato quanto flebili siano le parole Nel fissare una sola scintilla del divino raggio di Bellezza? Chi non sente, mentre lo sguardo debole vien meno E nella gioia sua tutto s'annulla, Che lo scolorarsi della guancia, il languor del cuore Son segni della possente sovranità della Bellezza, Della bellezza di Zuleika? Intorno a lei Un'ineffabile malia, ignota solo a lei, brillava: Dell'amore la luce, della grazia la purezza, Lo spirito, la musica che spirava dal suo volto, Il cuore, la cui dolcezza col tutto si fondeva in armonia, E quello sguardo su cui l'anima splendeva! Le belle braccia al petto verginale in umiltà raccolte, Quelle braccia che stende all'affettuoso grido Per stringerle al collo di colui che, Fra carezze date e ricevute, la figlia benedice - Così veniva Zuleika - e Giaffir già si sentiva intenerire. Non che contro la diletta fanciulla Nutrito avesse mai severi intenti: Ma l'ambizione quel legame sciolse. Quanto io t'abbia cara debbo dire; In questo giorno in cui, mettendo a parte il mio dolore Nel perdere quello che più amo, Ad un'altra dimora ti destino, A un altro uomo, qual mai più valoroso Si vide agli avamposti di battaglie. Noi musulmani poco ci curiam del sangue; Tuttavia di Carasmano l'incorrotta - incorruttibil stirpe Primeggiò tra i feroci Timariotti, Che con audacia conquistaron le loro terre, Difese ora a caro prezzo. Saper ti basti che il tuo promesso sposo E congiunto del Bey Oglou. Quale ne sia l'età, parlar non serve: Non ti darei in sposa a un giovinetto. Nobile e ricca dote avrai da me, E il suo e il mio poter congiunti Al firmano di morte irrideranno, La cui vista chiunque fa tremare, E insegneranno al messagger di tal favore Quale sorte l'attende. Ora, il voler del padre tuo t'è noto, Che è tutto ciò che una fanciulla ha da sapere: Se mio compito fu insegnarti l'obbedienza, Il tuo sposo ti insegnerà l'amore». E se i suoi occhi, che i moti repressi del cuor Non osavan mostrare, si colmar di pianto, Mentre, al par di alati strali, quelle parole ferivano il suo orecchio, Che altro esser poteva se non un verginale turbamento? Così radiosa è la lacrima nell'occhio di Bellezza Che Amor non osa baciandola asciugare; Così dolce il rossor di Ritrosia Che a mala pena Pietà vuole scemare! Dimenticò il Pascià tutto di quella scena O, se pur gli sovvenne, ne ricacciò il pensiero. Tre volte batté le mani chiamando il suo corsiero; Depose quindi la gemmata pipa E, montato a cavallo destramente, Con Magrabei e Mamelucchi Fra i suoi Delissi si avviò nella pianura, Per assistere alle giostre dei prodi Con sciabole affilate e mozzi giavellotti. Solo rimase, coi suoi mori, il capo degli Eunuchi Per custodir dell'harem le pesanti porte. L'occhio perduto nell'azzurro mare, Che veloce scorre e dolcemente freme Tra le sponde dei frastagliati Dardanelli, Nulla vede Selim, né mare né riva E neppure le truppe del pascià, che hanno in testa il turbante, Nella mischia che mima una strage di guerra, Di corsa intente a fendere il ritorto feltro Con un colpo di spada ben sferrato; Non osserva la folla degli arcieri, E non ascolta le barbariche grida, O i loro ripetuti Allah! - Perché sempre va il suo pensiero alla dolce Zuleika. Ma al pensiero di lei rompe in sospiri: Paffido, muto e tristemente quieto Lo sguardo volge fuor dalle inferriate. A lui sono rivolti gli occhi di Zuleika, Ma poco dal suo aspetto apprende; Pari è il dolore suo, ma diversa la fonte: II cuor di lei fiamma più pura esprime Eppur quel cuore, eccitato o infiacchito, Di parlare le vieta ed il perché non sa. E tuttavia deve parlar, ma come e quando ignora. «Strano ch'egli altrove posi gli occhi! Non furono così i nostri primi incontri; Non così ci dobbiamo separare». Tre volte a lenti passi attraversò la stanza Cercando, invano, d'incontrare il suo sguardo: Afferrò allora l'urna che l'essenza contiene Delle rose di Persia, diffondendola per tutto, Sulle volte dipinte e sul marmoreo pavimento. Le stille che, a scherzoso richiamo, La fanciulla gli spargeva sulla veste, Non viste gli scorrevano sul petto Che sembrava di marmo. «Perché mai così mesto? Non questo, o mio Selim, io mi aspetto da te!». Lo sguardo posò, infine, sui più bei fiori d'Oriente, In ordine bizzarro ivi disposti. «Egli li amava, un tempo; potrebbe amarli ancora Se a porgerli è la mano di Zuleika!». L'innocente pensiero s'era formato appena Che una rosa fu afferrata e colta; L'attimo dopo, tenera e bella, Ai piedi di Selim ella si pose: «Questa rosa l'usignol ti manda, Fratello caro, a lenirti le cure; E dice che, stanotte, indugerà Nella musica sua più dolce, E se mesta è la nota del suo canto, Ora potrà provar note più liete Con la speranza che la mutata melodia Mitigar possa i tuoi cupi pensieri». Me infelice! E così che tu mi guardi? Non conosci colei che ti ama tanto? Caro Selim! Più che caro al mio cuore. Dimmi, sono fors'io per te da odiare o da temere? Vieni, posa il tuo capo sul mio petto, Sì ch'io possa calmarti coi miei baci, Se le parole sinora hanno fallito, E inutile fu il canto del fatato usignolo. Che s'accigliasse talvolta nostro padre, lo sapevo di già, Ma non sapevo che severo guardar tu mi potessi. So bene ch'ei non t'ama, Ma hai tu dimenticato l'amore di Zuleika? Ah! Se è giusto il mio pensiero, il piano del Pascià Su quel congiunto del Bey di Carasmano Forse della tua pena è la cagione. Se così fosse (lo giuro sul recesso più sacro della Mecca, Se pur quel luogo - interdetto a piede femminile - Accoglier può il mio voto), Senza il consenso tuo, o il tuo volere, Il sultano in persona non avrebbe la mja mano! Ma pensi forse che potrei dividermi da te Sapendo che il mio cuor in due è scisso? Lontana dal tuo fianco, Dove potrei trovar la guida mia Dove più troveresti tu l'amica? Non è ancor tempo, né mai tempo verrà, Ch'io strappi la mia anima da te. No, quando il dardo mortal che tutto scinde Nel momento fatal destinerà I nostri cuori a un unico sepolcro!». Egli par ridestarsi e, sospirando, si riscuote; Commosso, solleva la fanciulla inginocchiata. Dissipata è la nebbia dal suo volto: arde il suo occhio Intenso di pensieri che, nascosti nel profondo, Ora sprizzano lampi e gli accendon lo sguardo. Come irrompe il torrente, Dai salici che gli fanno da bordura, Rivelando la luce dei suoi flutti, Come il fulmine esplode alto nel cielo Fuor della nube cupa che lo lega, Così improvviso balena quello sguardo Tra le lunghe ciglia che gli fanno velo. Un prode corsiero al suono della tromba, Un leone stanato per error dai segugi, Un tiranno eccitato a inopinata lotta Dallo scalfir di mal diretto ferro, Più di lui non si esalta né s'accende, Di lui che, udito il voto, Or tutto l'animo rivela. «Ora sei mia, per sempre mia, Perch'io ti serbi a costo della vita; Ora sei mia, e il giuramento, Che tu sola esprimesti, lega entrambi. Saggia tu fosti, oltre che amorosa: Quel voto salvò due vite, e non soltanto una. Ma, non ritrarti; care, anzi sacre Mi sono perfino le tue trecce, E un sol capello che sulla tua fronte s'inanella Torcere non vorrei, neppure Per tutti i tesori che giaccion nelle grotte di Istakar. Stamane oscuri nembi si addensaron sul mio capo, Duri accenti su me si riversarono, Ora, egli mi offre un motivo per esser coraggioso, A me, il figlio della sua negletta schiava: No, non stupire, questo è il nome che mi diede; Un cuore - per quanto poco incline al vanto - Può dimostrare che sbigottito non è Né dalle sue parole, né dagli atti. Suo figlio, invero! tuttavia, grazie a te, Forse lo sono, o almeno lo sarò; Quel voto, intanto, fra noi resti segreto. Conosco il miserabile che osò pretender Da Giaffir la mano tua, contro tua voglia. Anima più vile, fortuna peggio guadagnata Mai fu sotto il poter di musulmano; Non è forse cresciuto egli in Egripo? Neppure gli ebrei di Salonicco son peggiori! Basta così: nessuno sappia il nostro giuramento, Il resto il tempo svelerà. Lascia Osman Bey a me e ai miei fidi, Ché ho compagni a ogni rischio pronti; Non pensare ch'io sia quel che ti sembro: Ho amici, ho armi e in pugno la vendetta». Mio Selim, oh quanto sei mutato; Questa mattina amabile e cortese mi apparisti, Ora ti sei da tè stesso estraniato. L'amore mio da tempo conoscevi, Fedele e costante come sempre. Vederti, ascoltarti, starti accanto, Detestar la notte per l'unica ragione Che incontrarci possiamo il dì soltanto, Viver con te, con te morire, Questo solo, né altro oso sperare: Baciare le tue guance, gli occhi, le labbra, così., così... e così ancora; Per Allah!, le tue labbra sono di fuoco Anche le mie ne sono parimenti affette E le guance sono ardenti come fiamma. Vegliar la tua salute e alleviarti le pene, Spartir con te le tue ricchezze, Pur senza dissiparle O starti accanto, lieta silenziosa A divider con te la povertà; Tutto, fuorché chiudere gli occhi tuoi morenti, Perché reggere questo non potrei; Il mio cuore agogna solo questo. Di più, che posso far? Di più, tu che vorresti? Ma tu, Selim, mi devi dire Perché tanti misteri intorno a noi. Non posso immaginare, né dirne la cagione, Ma poiché tu dici che va bene, bene sia. Tuttavia quel che tu intendi per "armi" e per «compagni" Va oltre il mio corto sentire. Forse Giaffir ha inteso Il voto che testé io ti giurai; Ma la sua ira non mi farebbe revocar la parola Né libera mi lascerebbe di sicuro. Può forse parere strano il mio ardente desiderio, D'esser ciò che sempre sono stata? Chi altri ha Zuleika imparato a vedere dalle prime ore dell'infanzia sua innocente? Chi altri può desiderare di vedere, Se non te, che mi fosti sempre amico E di infantili trastulli il segreto compagno? E quei cari pensieri, nati in me, posso dire, con la vita Dimmi, perché dovrei ora negarli? Qual mutamento è sorto mai perch'io la verità rinneghi, Che fin qui è stato l'orgoglio mio e tuo? La nostra legge, la fede, il nostro Dio Mi vietano di sostener uno sguardo straniero; Di lagnarmi del volere del Profeta: No, più felice io son per quel decreto Che, lasciandomi te, tutto mi lascia. Così, profonda è la mia pena, se mi trovo costretta Al matrimonio con chi non vidi mai. Sì..., perché non dirlo? Perché vuoi che nasconda il mio dolore? So che l'animo duro del Pascià Non ti ha mai promesso granché bene; E che per un nonnulla sovente egli s'infuria. Allah! fa' che ciò non avvenga! La ragione non so, ma come colpa nell'anima mi pesa Quel che tu vuoi che io nasconda. Se tale voto fosse dunque colpa, E lo sembra davver, così nascosto, Selim! dimmelo a tempo, E non lasciarmi in preda alla paura. Ecco, vedo avanzare l'attendente, E mio padre già lascia la tenzone; Tremo, ora, al pensiero d'incontrare il suo sguardo. Selim, puoi dirne la ragione?» Io solo rimarrò per accoglier Giaffir Col pretesto di parlar con lui Di firmani, d'imposte e d'affari di stato: Terribili notizie sono giunte dalle rive del Danubio Dove il nostro Visir con coraggio assottiglia le sue schiere, Rallegrando con questo l'infedele! Il nostro Sultano ha un modo più spedito Di ripagar tali costosi allori- Ma ora ascolta, quando al tramonto Il tamburo richiamerà le truppe al cibo e al sonno, Selim verrà nelle tue stanze. Per passeggiare là, vicino al mare: Alto è il muro che circonda il giardino, Sì che intruso imprudente non vi salga A turbare la nostra quiete e ad ascoltar le nostre voci. Ma se ciò fosse, non mi manca il ferro Che qualcuno ha saggiato e può saggiare ancora. Là saprai cose di Selim Che mai prima udisti, ovver pensasti; Abbi fede, Zuleika, e non temere di me! Sai che la chiave possiedo del Serraglio». «Di te, temere, o mio Selim! dalle tue labbra Mai finora uscir parole come queste...». «Non indugiare; Ho la chiave, e le guardie di Haroun Debbono a me non piccoli servigi. Questa notte, Zuleika, da me potrai udire Tutta la storia, i miei disegni e i miei timori. Non sono, amore mio, quello che sembro!». |
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